Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 25794 - pubb. 07/08/2021

Ripetizione di pagamenti eseguiti in esecuzione del concordato preventivo in violazione della par condicio creditorum

Appello Firenze, 17 Novembre 2020. Pres. Mariani. Est. Loprete.


Concordato preventivo – Risoluzione – Fallimento – Pagamenti eseguiti in violazione della par condicio creditorum – Ripetizione – Ammissibilità



L’applicazione analogica al concordato preventivo del principio di stabilità dei riparti, di cui all’art. 140, comma, 3 L.F., sconta la mancanza di una verifica del passivo, per cui il rischio rappresentato dalla emersione di crediti pretermessi in sede concordataria non può restare a carico dei creditori pregiudicati da pagamenti comunque effettuati in violazione della par condicio o a vantaggio di creditori di grado inferiore, ma va equamente ripartito tra tutto il ceto creditorio, secondo il meccanismo della ripetizione che partecipa della natura e delle finalità delle azioni revocatorie. (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)


 


La Corte (*). Con atto di citazione in riassunzione ex 392 c.p.c., a seguito della ordinanza della Suprema Corte di Cassazione n. 1549518 di annullamento con rinvio della sentenza n. 1065 del 25.7.2012 pronunciata da questa Corte di Appello, il Ministero dell’Economia e delle Finanza ha convenuto in giudizio il fallimento della P. Costruzioni soc. cooperativa a responsabilità limitata, al fine di ottenere, in aderenza al pronunciato della Suprema Corte, la riforma della sentenza impugnata che, in accoglimento dell’appello della Curatela del Fallimento P. Costruzioni e quindi della domanda di inefficacia ex art. 44 L.F. da questa proposta in primo grado, ha condannato il Ministero a restituire alla massa dei creditori la somma di euro 1.336.695,82 versata dalla società P. Costruzioni in fase di concordato preventivo poi risolto, in adempimento di un credito Iva, domanda che in primo grado era stata invece disattesa dal Tribunale di Livorno. Ripercorrendo sinteticamente l’iter processuale, premesso che la curatela aveva agito in primo grado per ottenere la declaratoria di inefficacia ex art. 44 L.F. di un pagamento effettuato in favore del MEF per euro 1.336.695,82 quando la società era in concordato preventivo perché asseritamente violativo dell’ordine dei privilegi legali e della par condicio creditorum - stante la retrodatazione degli effetti del fallimento alla data di apertura della prima procedura - il Tribunale di Livorno, dopo aver esperito CTU diretta a stabilire se nella fase fallimentare, apertasi dopo la risoluzione del concordato, fossero emersi diritti di credito ammessi al passivo di grado poziore rispetto al credito del Ministero pagato in fase concordataria, con sentenza n. 830/2006, aveva respinto la domanda della Curatela, ritenendo che la stessa attrice non avesse fornito piena prova della lesione dell’ordine delle cause legittime di prelazione, in quanto una siffatta lesione sarebbe stata accertabile concretamente solo all’esito della liquidazione fallimentare. Avverso detta pronuncia, la Curatela ha proposto appello, reiterando sia la domanda originaria ex art. 44 L.F, e contestualmente proponendo una domanda subordinata nel senso che la condanna alla restituzione doveva ritenersi condizionata al verificarsi della concreta lesione della par condicio creditorum, al termine delle operazioni di liquidazione dell’attivo”. L’appello - resistito dal MEF - veniva accolto da questa Corte territoriale con sentenza n. 1066/2012, sulla scorta delle seguenti argomentazioni: 1) è pacifica l’applicabilità al concordato preventivo cui ha fatto seguito il fallimento, della norma prevista dall’art. 140 L.F. concepita con riguardo al concordato fallimentare che introduce il principio della stabilità dei pagamenti effettuati nel corso della procedura minore purché non recanti pregiudizio alla par condicio come specificato dalla costante giurisprudenza di legittimità; 2) poiché la regola è la stabilità dei pagamenti effettuati in regime di concordato e l’eccezione la sua inefficacia, costituiva allora onere della Curatela dimostrare la lesione della par condicio; 3) che la sentenza di primo grado era errata nella parte in cui, nell’affermare che la lesione della par condicio debba essere dimostrata in concreto, ravvisa la sussistenza di questa concretezza, nel fatto che tale lesione possa essere verificata solo all’esito della procedura fallimentare, e cioè all’esito della liquidazione di tutti i beni ancorandola al riparto finale; 4) che, al contrario, la lesione della par condicio deve essere provata con riferimento alla mera verifica della sussistenza al passivo fallimentare di crediti di grado poziore rispetto al credito soddisfatto e quindi in relazione allo stato passivo accertato dal sopravvenuto fallimento. Avverso tale decisione ha proposto ricorso in Cassazione il MEF, con un unico articolato motivo, lamentando la “violazione e falsa applicazione della L.F., articolo 140, comma 3”, impugnazione resistita dalla Curatela con controricorso del 28.03.2013, diretto a contestare l’avversa impugnativa. Con ordinanza n. 15495/2018, la Suprema Corte ha accolto il ricorso del MEF, ha cassato la sentenza impugnata e rinviato alla Corte di Appello di Firenze, in diversa composizione, demandandole di provvedere anche sulle spese del giudizio rescindente. La Corte invero, pur condividendo il principio affermato dalla Corte di Appello secondo cui la violazione in concreto della par condicio non va meramente ancorata alla prospettiva della liquidazione fallimentare né tantomeno deve attenderne l’esito, come sostenuto dal primo giudice, ma va valutata invece (in questo il principio di diritto) sia considerando i canoni di soddisfacimento concordatario e quindi le regole fissate dal decreto di omologazione e, per gli aspetti non disciplinati, le regole legali relative all’ordine delle cause legittime di prelazione, sia considerando l’emersione di ulteriori crediti poziori in sede fallimentare (fermo restando i limiti della partecipazione al riparto dei creditori tardivi) ha rilevato tuttavia però che la Corte di Appello “non ha poi effettuato in concreto un’analisi esaustiva della violazione della par condicio creditorum secondo i parametri sopra indicati, limitandosi sostanzialmente a rilevare che ‘il Ministero dell’economia e delle finanze aveva una massa di crediti potiori per un valore complessivo di oltre euro 3.000.000,00’; è rimasta infatti appena abbozzata ed alquanto equivoca l’osservazione sugli ulteriori accertamenti del c.t.u. (‘Comunque è appena il caso di significare come egli al momento della verifica accerti che a tale momento non vi è attivo liquido per pagare anche i creditori potiori accertati’). La sentenza merita quindi di essere cassata affinché il giudice di rinvio, in diversa composizione, verifichi se i pagamenti in questione siano ripetibili alla luce dei criteri sopra indicati”. La causa è stata riassunta dal Ministero che ha notificato l’atto di citazione in riassunzione sia a mezzo posta che a mezzo pec, determinando l’iscrizione di due distinti giudizi, di cui il più recente iscritto a ruolo con il numero 227/2019, in cui la Curatela si è costituita, procedimento poi riunito al presente all’udienza dell’11.2.2020. La curatela nel costituirsi con controricorso ha chiesto di poter produrre due documenti -nella specie, copia della relazione redatta da liquidatori del concordato preventivo (e relativi allegati), unitamente a un prospetto della liquidità disponibile - a suo avviso utilizzabili nel giudizio di rinvio, giacché il loro deposito sarebbe giustificato da esigenze istruttorie derivanti dalla sentenza di annullamento della Cassazione. In ogni caso ha chiesto l’accoglimento della propria domanda ribadendo le ragioni che la sorreggono confortate proprio dal principio di diritto dettato. Nel merito infatti ha osservato che, se è comunque pacifico che, nella fattispecie, il pagamento effettuato dai commissari liquidatori venne autorizzato dal Giudice Delegato e che quindi non vi fu alcuna violazione delle regole stabilite in sede concordataria, senz’altro è avvenuta la violazione dei criteri legali dal momento che già in quella sede era emerso che non vi era liquidità sufficiente per pagare i creditori di grado potiore rispetto a credito del MEF. Inoltre poiché con l’ordinanza n. 5495/2018 la Cassazione chiede di accertare l’eventuale violazione della par condicio in base a parametri (certezza di soddisfare i crediti poziori, e quelli di pari grado, con la liquidità esistente, o comunque con risorse prontamente liquidabili) mai individuati dalle precedenti pronunce rese in subiecta materia, per le quali invece era a tal fine sufficiente verificare il mancato rispetto dell’ordine della cause di prelazione, il nuovo principio di diritto introdotto legittima la produzione dei nuovi documenti allegati alla comparsa di costituzione. Così precisati i termini del contraddittorio, la causa è stata trattenuta in decisione all’udienza dell’11.02.2020, con l’assegnazione dei termini per il deposito delle memorie conclusionali e di replica. Prima di affrontare la valutazione di merito che richiede la Suprema Corte, in applicazione del principio di diritto dalla stessa affermato, occorre premettere che il ricorso per Cassazione proposto dal MEF è ancorato, come si legge nell’unico motivo, all’art 360 n. 3 che prevede la violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, nella specie l’art. 140 terzo comma L.F. applicata al concordato preventivo. Tale violazione la Corte ha ritenuto non sussistente dal momento che ha perfettamente condiviso l’argomentazione seguita dalla Corte di Appello secondo cui, nell’accertare se il pagamento effettuato in favore del Ministero in fase concordataria leda il principio della par condicio, occorre considerare non la prospettiva liquidatoria fallimentare, così come sostenuto dal primo giudice, ma occorre verificare sin da subito se: già in sede di concordato sia stata violato l’ordine dei privilegi connessi ai relativi diritti dei credito, considerando il decreto di omologa e i principi legali di cui agli artt. 2777 e ss., e inoltre occorre tenere conto imprescindibilmente anche della emersione di ulteriori crediti in sede fallimentare, e tanto la Corte afferma proprio in considerazione del fatto che “l’applicazione analogica dell’art. 140 comma 3 L.F. al concordato preventivo sconta la mancanza di una verifica dello stato passivo; in altri termini, il rischio rappresentato dalla emersione di crediti pretermessi in sede concordataria non può restare a carico dei creditori pregiudicati da pagamenti comunque effettuati in violazione della par condicio o a vantaggio di creditori di grado inferiore, ma va equamente ripartito tra tutto il ceto creditorio, secondo il meccanismo ripetitorio in disamina che partecipa della natura e delle finalità delle azioni revocatorie”. Quanto affermato dalla Corte si pone perciò in conseguenza logica con l’assunto affermato che la verifica della lesione in concreto della par condicio non può cristallizzarsi alla fase concordataria ed essere ravvisata solo se avvenuta all’interno della fase stessa, come in effetti sostiene il Ministero ricorrente, e al rispetto formale a quel momento dell’ordine delle garanzie e dei privilegi, ma deve tener conto delle sopravvenienze della fase fallimentare senza tuttavia doversi attendere l’esito e l’epilogo della suddetta procedura che si chiude con l’approvazione del progetto finale di riparto. La Suprema Corte ha annullato la sentenza impugnata, perché pur avendo fatto la Corte di Appello corretta applicazione del principio di diritto, in concreto però non ha specificato se poi effettivamente con l’insorgere della procedura fallimentare la violazione della par condicio - che va valutata a questo punto ex ante al momento in cui è stato reso esecutivo lo stato passivo, momento in cui sono emersi tutti i crediti nella loro globalità – si fosse veramente verificata in concreto perché non risultano neppure menzionati i crediti poziori e prevalenti rispetto a quello privilegiato del Ministero. La Corte cioè ha cassato la sentenza non per violazione dell’art. 140 L.F., ma sul difetto di motivazione circa l’applicazione di un principio di diritto correttamente affermato, e non potendo essa entrare nel merito ha necessariamente delegato questa Corte a procedere alla suddetta valutazione. Non possono perciò più prendersi in considerazioni in questo contesto né l’affermazione del Ministero che fa leva solo sulla legalità del pagamento avvenuto in sede concordataria, né le affermazioni della Curatela che per dimostrare che il pagamento è revocabile ha prodotto nuovi documenti dai quali si evincerebbe che - per quanto essa allega - già all’esito della quarta relazione del commissario giudiziale il concordato P. Costruzioni non disponeva di liquidità sufficiente per pagare tutti i creditori, e soprattutto quelli muniti di privilegio. La documentazione suddetta non può essere acquisita in questa sede, non solo perché non è sopravvenuta allo spirare dei termini istruttori del giudizio di primo grado e come tale ne è preclusa l’acquisizione ai sensi dell’art. 345 ultimo comma c.p.c., ma è vieppiù del tutto ininfluente a seguito del principio di diritto enunciato dalla Cassazione che non costituisce affatto un principio innovativo rispetto a quello che era già l’orientamento vigente e al quale si era del resto attenuto la Corte di Appello. Ed infatti, alla stregua di quanto sancito dalla Corte, del tutto irrilevante è che il concordato fosse già incapiente per mancato recupero dei propri crediti o perché i beni sono stati venduti a prezzo ribassato tale da incidere enormemente sull’attivo concordatario riducendo il valore stimato di realizzo con la proposta, perché, se i crediti già accertati in sede concordataria o emersi successivamente in sede fallimentare non avevano in concreto diritto di soddisfarsi con priorità rispetto al credito del Ministero, il pagamento a questi era ben fatto e non sarebbe stato passibile di azione di inefficacia perché comunque prevalente sugli altri. Quindi alla prima sentenza del giudice di appello è mancata proprio la specificazione dei crediti che avrebbero avuto diritto a soddisfarsi con priorità rispetto al Ministero non bastando la generica indicazione contenuta nella sentenza. Per meglio specificare la problematica: se i crediti indicati genericamente di grado poziore fossero crediti oggetto di insinuazione tardiva avrebbero soggiaciuto alle regole di cui all’art. 112 L.F. e allo stesso modo i crediti ipotecari o pignoratizi, sebbene astrattamente crediti assistiti da una garanzia più intensa perché presupponenti un vincolo sui beni per quanto concerne i mobili o gli immobili asserviti alla garanzia, per gli altri beni sono meri crediti chirografari: quindi avendo il Ministero un privilegio generale sui mobili gerarchicamente iscritto alla posizione n. 19 dell’art. 2778 c.c., la Corte ha l’onere di verificare in questo senso “in concreto” quali fossero i crediti poziori secondo tale ordine gerarchico che sono stati effettivamente lesi e pretermessi. L’analisi deve allora fondarsi sullo stato passivo depositato dalla Curatela attrice (doc. 41): e da esso si evince chiaramente che esistevano crediti assistiti da eguale privilegio generale sui mobili che avevano senz’altro diritto a soddisfarsi con anteriorità rispetto al Ministero e tali sono tutti i crediti di cui all’art. 2751 bis c.c. che, nell’ordine dei privilegi generali sui mobili, sono prioritari in forza dell’art. 2777 c.c. rispetto agli altri crediti muniti di privilegio generale sui mobili previsto dall’art. 2778 c.c. tra cui rientra, alla posizione numero 19, il credito Iva del Ministero prevista nell’art. 2752 c.c. Esattamente sono stati ammessi al passivo in via privilegiata, oltre ai crediti in prededuzione e ai crediti ipotecari (questi ultimi potrebbero non rilevare per le ragioni sopra spiegate) crediti assistiti da privilegio generale sui mobili di grado poziore e per l’esattezza: crediti per spese di giustizia per oltre 15 ml delle vecchie lire, crediti per retribuzioni e TFR per oltre 320 ml delle vecchie lire, crediti professionali per l’importo di 822 ml di lire, crediti di artigiani e cooperative per l’importo di 571 ml di lire e crediti di enti previdenziali per oltre 126 ml di lire. In conclusione, la scelta del giudice delegato di assentire il pagamento al Ministero del proprio credito Iva per oltre 3 mld di lire ovvero per euro 1.336.695,82, perché sostanzialmente conveniente in quel momento per la procedura che così riduceva enormemente il debito fiscale verso lo Stato a causa del condono di cui usufruiva, non può costituire un pagamento stabilizzato ex art. 140 terzo comma c.p.c., perché sia al momento della autorizzazione (è inevitabile che sia i crediti da lavoro subordinato che i crediti dei professionisti fossero già esistenti al momento del concordato) sia, di seguito, con l’istaurarsi della procedura fallimentare sono emersi crediti muniti di analogo privilegio di grado anteriore che avrebbero dovuto soddisfarsi con priorità. La domanda della curatela andava quindi accolta con la conseguente dichiarazione di inefficacia del pagamento operato.

Omissis