Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 798 - pubb. 01/01/2007

Abusiva concessione di credito e legittimazione del curatore

Tribunale Milano, 21 Maggio 2001. .


Abusiva concessione di credito - Fallimento - Legittimazione del curatore - Esclusione.



Il curatore fallimentare non è legittimato ad esercitare nei confronti di una banca azione risarcitoria per "abusiva" concessione di credito all'imprenditore fallito.


 


Tribunale di Milano 21 maggio 2001

(Omissis).

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione, notificato in data 24 settembre 1999, il Fallimento La Vitimec s.r.l. esponeva che in data 2 settembre 1990 si era costituita la società La Vitimec s.r.l. con un capitale di L. 20.000.000; che, aperto un conto corrente presso la Banca Nazionale del Lavoro, Agenzia 9 di Milano, immediatamente la società ottenne su di esso, prima ancora di una delibera di concessione di fido (essendo risalente la prima delibera di concessione di fido al 21 febbraio 1990), l'erogazione di credito per importi cospicui (la banca mise a disposizione della società, già in data 8 febbraio 1990, la somma di L. 250.000.000 in assegni circolari senza alcuna operazione in contropartita, ed in data 12 febbraio 1990 erogò l'ulteriore somma di L. 200.000.000 in assegni circolari a fronte del versamento di effetti per circa 163 milioni di lire); che l'erogazione di credito continuò nel periodo successivo, con andamento irregolare, evidenziando, comunque, un passivo crescente nel medio periodo, che, nel tempo, l'esposizione della società nei confronti della BNL crebbe anche tramite l'accensione di altri conti correnti e con il continuo ampliamento dei fidi fino alla data dell'8gennaio 1992, allorché la correntista fu messa in mora con intimazione di pagamento; che in data 9-10 dicembre 1993 venne dichiarato il fallimento della La Vitimec s.r.l.: che a quel punto il livello dell'indebitamento verso la BNL era divenuto tale che detta banca ebbe a presentare un 'istanza di ammissione al passivo per un credito di oltre 18 miliardi di lire: che in sede fallimentare era emerso che, a fronte di un attivo di poco superiore al miliardo, vi era un passivo di oltre 23 miliardi (peraltro costituito per oltre 10 miliardi dal credito per cui la stessa BNL era stata ammessa al passivo).

Il Fallimento La Vitimec s.r.l. deduceva, quindi, che la BNL, avendo sistematicamente erogato credito alla società fallita con modalità irregolari ed in misura assolutamente eccessiva rispetto alle regole ed ai principi di correttezza professionale, si era resa responsabile di concessione abusiva del credito e, conferendo alla società La Vitimec una falsa immagine di floridezza, aveva concorso, con propria colpa (e ciò sia pure insieme ai soggetti che avevano creato e gestito la società, in prima linea responsabili anche se a titolo diverso), a determinare un danno ingiusto in capo ai creditori della società La Vitimec, danno risarcibile ex art. 2043 c.c.; che in sede fallimentare i creditori dovevano ritenersi tutti rappresentati dal curatore; che l'ammontare del danno, che in via di massima si sarebbe potuto anche determinare nella differenza aritmetica fra l'importo totale del passivo ed il valore dell'attivo realizzabile della procedura (quindi, nel caso, pari a circa 22 miliardi, corrispondente alla perdita che i credi tori avrebbero incontrato nella sede fallimentare), a seguito di opportune valutazioni contabili, in via prudenziale, si sarebbe dovuto determinare nella differenza tra le passività finali e quelle che già risultavano alla data del 31 luglio 1990, quale momento questo in cui, con l'addebito dei primi insoluti, la banca avrebbe dovuto avviare approfondite indagini e cassare nuove concessioni di credito; che, sulla scorta di tale criterio, si era giunti a quantificare il danno addebitabile alla banca nell'importo di L. 10.990.000.000.

Tutto ciò premesso e dedotto, Il Fallimento La Vitimec s.r.l. conveniva in giudizio la Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. affinché, accertata la responsabilità per fatto illecito della banca convenuta in relazione al titolo dedotto in giudizio, fosse condannata a risarcire il danno da essa causato ai credi tori della fallita s.r.l. La Vitimec e, conseguentemente, a pagare al Fallimento la somma di L. 10.990.000.000 o la diversa somma che fosse risultata dovuta all'esito degli accertamenti di causa e secondo giustizia.

Costituendosi in giudizio la Banca Nazionale del Lavoro S.p.A., contestando la pretesa attrice, chiedeva, in via preliminare, che fossero dichiarate inammissibili le domande proposte dal Curatore del Fallimento attore per difetto di legittimazione attiva; in via preliminare di merito subordinata, che fosse dichiarata improponibile la domanda in relazione ai titoli dedotti a suo fondamento; in subordine, nel merito, che fossero rigettate perché infondate le domande tutte proposte dal Curatore del Fallimento attore contro essa convenuta.

La convenuta BNL, in particolare, eccepiva, in primo luogo, il difetto di legittimazione attiva del Curatore, atteso che, ove mai si fosse potuta in astratto configurare una responsabilità ex art. 2043 c.c. per « concessione abusiva del credito », la legittimazione ad agire per il risarcimento non sarebbe spettata al Curatore del Fallimento ma ai singoli creditori, i quali avrebbero dovuto provare di aver fatto incolpevole affidamento sulla concessione di credito della banca per entrare in rapporti con la società poi fallita e farle a loro volta credito. La convenuta contestava, inoltre, che, nel caso di specie, potesse essere configurata una responsabilità della banca per il titolo « ex adverso » invocato, cosi come contestava il « quantum » della pretesa avversaria, opponendosi, infine, all'istanza di C.T.U. contabile richiesta dalla controparte per il suo carattere generico ed inconcludente.

Nel corso dell'udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c. veniva esperito, senza esito, un tentativo di conciliazione; venivano, quindi, concessi il termine per la precisazione o modificazione delle domande ed eccezioni già proposte nonché quello per replica.

Nel corso dell'udienza ex art. 184 c.p.c. il G.U., ritenuto opportuno mandare in decisione la causa sull'eccezione preliminare di carenza di legittimazione attiva, fissava udienza di precisazione delle conclusioni.

Indi, all'esito del deposito di comparse conclusionali e dell'udienza di discussione ex art. 281 quinquies, co. 2 c.p.c., sulle conclusioni delle parti in epigrafe riportate, la causa veniva trattenuta in decisione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va premesso che la presente causa, introdotta dal Fallimento attore per far valere il danno causato ai creditori della società fallita in conseguenza dell'affermata abusiva concessione di credito ad opera della banca convenuta, è giunta in decisione sulla questione preliminare di carenza di legittimazione attiva, essendo stata fissata udienza di precisazione delle conclusioni a seguito del solo deposito delle memorie di precisazione delle domande ex art. 183, ultimo co. c.p.c., senza che siano stati concessi i termini, pure dall'attrice richiesti, per la compiuta indicazione dei mezzi di prova.

Va, quindi, detto che, a fronte dell'eccezione di carenza di legittimazione attiva sollevata in via preliminare dalla convenuta BNL, il Fallimento attore ha  replicato, da un lato, sostenendo che, nel caso di specie, a subire le conseguenze di danno ingiusto, connesse alla censurata condotta della banca, sarebbero stati « in contemporanea anche se da diversi punti di vista, sia l'imprenditore fallito (se non altro considerando l'enorme aggravio di oneri finanziari di cui si è inevitabilmente caricato), sia i di lui creditori (da considerare nella loro globalità, in regime di «par condicio ») », da un altro lato, deducendo che la possibilità per il Curatore di far valere le ragioni di danno dei credi tori deriverebbe dai principi generali del sistema, per cui, nella sede fallImentare, tutti i creditori sarebbero rappresentati dal Curatore cui tocca la funzione di farsi portatore delle ragioni creditorie in regime di « par condicio ».

Al riguardo, va subito chiarito che non risulta che nella presente causa la parte attrice abbia fatto valere proprie ragioni di danno nei confronti della convenuta, che è pacifico che i finanziamenti erogati dalla banca, di cui si censura l'eccessiva ed anomala concessione di credito, vennero chiesti dalla società poi fallita, che non si pongono questioni relativamente al rapporto banca-cliente ed all'entità del saldo alla chiusura di tale rapporto, che, del resto, le ragioni creditorie vantate dalla banca nei confronti della società fallita risultano essere state riconosciute con l'ammissione al passivo del fallimento per un importo di oltre 10 miliardi.

Quantunque possa apparire suggestiva l'immagine (diffusamente descritta i nella comparsa conclusionale attrice) di un soggetto alimentato a dismisura sino al punto di rottura, va escluso che in causa si controverta del danno risentito dal soggetto eccessivamente alimentato, posto che, nel caso, l'incapacità della società di far fronte alle proprie obbligazioni e, quindi, la sua insolvenza, costituisce il presupposto del danno che si assume abbiano sofferto i terzi, creditori il della società fallita, in conseguenza dell'affermata abusiva concessione di credito da parte della banca convenuta.  Insomma, nel caso di specie, non si tratta tanto del rischio di una duplicazione delle ragioni di danno (contemporaneamente in capo alla società fallita ed ai suoi creditori} né di una altrimenti invocabile ipotesi di solidarietà dal lato attivo, quanto, piuttosto, della titolarità del danno che si assume cagionato dalla banca convenuta.

Ebbene, trattandosi di una questione di legittimazione, avuto riguardo alla prospettazione della domanda, non vi è dubbio che il danno, di cui viene chiesto ristoro, sia stato riferito direttamente alle ragioni dei diversi credi tori insinuatisi nel fallimento di cui il Curatore si assume portatore: in proposito basta osservare che la stessa parte attrice ha dedotto che « a subire il danno furono, come si è detto, i creditori della s.r.l. La Vitimec », che, in sede di conclusioni, è stata chiesta la condanna della banca « a risarcire il danno da essa causato ai creditori della fallita s.r.l. La Vitimec », che, in punto di quantificazione del danno, è stata indicata la perdita sofferta dai creditori, rapportabile, in prima battuta, « alla differenza aritmetica fra l'importo totale del passivo e il valore dell'attivo » (salvo poi ridurre tale risultato alla differenza tra il passivo finale ed il passivo che si sarebbe già formato nel momento in cui la banca responsabilmente, avrebbe dovuto cessare ogni erogazione di credito).

Quanto alla possibilità per il Curatore di far valere in giudizio le ragioni risarcitorie in ipotesi vantate dai credi tori della società fallita nei confronti di un terzo (peraltro a sua volta creditore) che si sarebbe reso responsabile di una condotta di abusiva concessione di credito idonea a frustrare le aspettative di soddisfacimento del credito dei creditori insinuatisi al passivo, ad avviso di questo giudice, va escluso che, in base ai principi del sistema vigente, rispetto ad una tale pretesa, possa essere riconosciuta la legittimazione attiva in capo al Curatore.

Anzitutto, va detto che il sistema non riconosce al Curatore, in generale, un potere di rappresentanza nei diritti dei credi tori del fallimento, avendo piuttosto il Curatore una funzione di rappresentanza esterna dell'Ufficio fallimentare finalizzata alla gestione del patrimonio dell'impresa fallita per realizzare il soddisfacimento dei credi tori in regime di « par condicio ».

Va, poi, osservato che allorché la legge riconosce, in modo espresso, in capo al Curatore il diritto di agire in luogo dei creditori per far valere un danno da questi risentito, pone, con ciò, una previsione eccezionale attributiva di una funzione aggiuntiva rispetto agli ordinari poteri del Curatore. Trattasi, in particolare, nella norma di cui all'art. 2394 c.c. che, in tema di responsabilità degli amministratori verso i credi tori sociali, dopo aver disposto, al co. 2, che « l'azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti », al co. 3 prevede che « in caso di fallimento o di liquidazione coatta amministrativa della società, l'azione spetta al curatore del fallimento o al commissario liquidatore ».

Al di fuori di tale norma eccezionale, e come tale non suscettibile di applicazione analogica ex art. 14 « Disposizioni sulla legge in generale », non è riconosciuta nel sistema una legittimazione attiva del Curatore per far valere un danno proprio dei creditori.

Del resto, l'art. 1461. fall., nel disciplinare la proponibilità da parte del Curatore dell'azione di responsabilità contro gli amministratori, i sindaci, i direttori generali e i liquidatori, richiama le ipotesi di cui agli artt. 2393 c.c. (azione sociale di responsabilità) e 2394 c.c. (responsabilità verso i credi tori sociali) ma non anche quella prevista dall'art. 2395 c.c. in punto di « azione individuale del socio e del terzo »: pacificamente si ritiene che tale ultima azione non possa essere esperita dal Curatore, giustificandosi in dottrina tale esclusione con la considerazione che l'azione di cui all'art. 2395 c.c. presuppone l'esistenza di un danno che, determinato da atti dolosi o colposi dell'amministratore, incida sul patrimonio del socio o del terzo in modo immediato e diretto e non come riflesso ) o conseguenza di un diverso danno subito dalla società, laddove l'azione di responsabilità consentita al Curatore ai sensi degli artt. 2393 e 2394 c.c. è diretta ad acquisire all'attivo fallimentare tutto ciò che al patrimonio della società sia stato sottratto a seguito di atti dolosi o colposi dagli amministratori, riguardino questi una responsabilità verso la società o i credi tori. Non a caso, si ritiene che, ove il Curatore eserciti l'azione di responsabilità di cui all'art. 146 l. fall., il contenuto delle norme di cui agli artt. 2393 c.c. e 2394 c.c. diventi inscindibile, trattandosi di un'azione comunque diretta alla reintegrazione del patrimonio della società fallita, visto contemporaneamente come garanzia e dei soci e dei credi tori sociali; per altro verso, poi, mentre si ritiene che l'azione di responsabilità di cui all'art. 2394 c.c. nel caso di fallimento della società spetti in via esclusiva al Curatore, con conseguente perdita della legittimazione attiva da parte dei creditori, diversamente, per l'ipotesi di responsabilità degli amministratori ai sensi dell'art. 2395 c.c., al pari di quella diretta a far valere la responsabilità degli amministratori ai sensi dell'art. 2449 c.c., si ritiene che l'avvenuto fallimento della società non precluda ai terzi interessati di far valere le loro ragioni verso gli amministratori, e ciò anche nel caso in cui il Curatore parallelamente abbia esercitato contro gli amministratori un'azione di responsabilità nell'interesse della massa dei credi tori, essendo le due azioni differenti per l'oggetto e per il fondamento della domanda (Cass. 29 aprile 1954, n. 1327; Cass. 19 settembre 1995, n. 9887).

S'è visto che la domanda per cui è causa si contraddistingue per il fatto che il  Curatore ha inteso azionare le ragioni di danno che in ipotesi potrebbero vantare i creditori della società fallita nei confronti di un terzo estraneo alla società, a sua volta creditore di questa: peraltro, al di fuori dell'azione revocatoria (che, nella ricostruzione dell'attivo, realizza il sacrifico di un terzo nell'interesse indifferenziato degli altri creditori, prescindendo dalla situazione soggettiva di questi), il sistema non riconosce al Curatore la possibilità di far valere in nome dei creditori del fallimento la responsabilità di terzi, e ciò sia pur quando detti terzi siano chiamati a rispondere in solido con la società fallita: per giurisprudenza costante, in vero, si afferma che « il Curatore fallimentare non è legittimato ad agire per far valere la responsabilità solidale dell'unico azionista o quotista di una società di. capitali, in quanto tale. azione è attribuita. dalla legge esclusivamente ed individualmente a ciascun singolo creditore soclale » (Trib. Milano 28 marzo 1983; Trib. Milano 12 gennaio 1984; Trib. Roma 3 maggio 1996; Cass. i 27 maggio 1997 n. 4701).

La correttezza del principio testè richiamato viene evidenziata con la considerazione secondo cui, ove l'azione predetta fosse esercitata dal Curatore fallimentare, portatore dell'interesse della massa dei creditori, finirebbero per esserne beneficiati anche coloro che, ai sensi degli artt. 2362 e 2497 c.c., non avrebbero alcun titolo al riguardo: per inciso, è solo il caso di osservare che anche la domanda per cui è causa, omettendo completamente di affrontare la questione relativa all'affidamento ingenerato nei terzi creditori dalla censurata abusiva concessione di credito, nell'eludere uno dei presupposti su cui viene configurata in dottrina la responsabilità risarcitoria della banca per abusiva concessione di credito, finisce per porre sullo stesso piano la posizione dei vari creditori.

Le considerazioni sin qui esposte consentono di escludere che nel sistema vigente possa rinvenirsi un principio tale da fondare la legittimazione attiva del curatore nei termini sottesi alla domanda attrice, nonché di escludere che detta legittimazione possa essere costruita sulla disposizione di cui all'art. 2394 c.c., e ciò in ragione del carattere eccezionale di tale norma nonché, comunque, del differente atteggiarsi della ragione di tutela di cui all'art. 2394 c.c. rispetto alla fattispecie per cui è causa.

Premesso che non risultano precedenti giurisprudenziali a sostegno della pretesa attrice, a conforto della soluzione che neghi la legittimazione attiva del Curatore, in una fattispecie quale quella dedotta in causa, si può richiamare una recente sentenza della Corte d'appello di Milano, secondo cui al Curatore del fallimento non compete la legittimazione attiva nell'azione a tutela di diritti di terzi che si assumono lesi dal comportamento illecito di un socio della società fallita (Appello di Milano Il settembre 1998, n. 2394). In tale sentenza, confermativa della pronuncia del Tribunale di Milano impugnata (nella quale era stata ritenuta inammissibile la domanda avanzata dal Fallimento anche perché « trattandosi di domanda diretta ad affermare la responsabilità aquiliana, non spetta certo al curatore l'azione individuale a tutela dei creditori o dei terzi danneggiati ») la Corte di appello, a fronte di un' asserita condotta abusiva di un socio che avrebbe ingenerato nel pubblico e nei credi tori il falso convincimento di una capitalizzazione abnorme della società, nel confermare la carenza di legittimazione attiva del Fallimento, osservava che « non il curatore, ma i terzi avrebbero potuto agire nei limiti dei danni subiti a seguito del comportamento » del socio, in ipotesi lesivo del principio del « neminem laedere », si che i terzi, a tal fine, avrebbero dovuto dimostrare che dal comportamento del socio « era derivato un danno per avere essi fatto affidamento » sulla circostanza secondo cui il capitale sociale sarebbe apparso essere, contrariamente al vero, estremamente più elevato di quello che in realtà era.

La carenza di legittimazione attiva del Curatore a far valere i danni in ipotesi sofferti dai creditori in conseguenza di un'abusiva concessione di credito da parte di uno di essi appare ulteriormente confortata dalla considerazione dei presupposti e dagli oneri di prova posti dall'esperimento di una domanda di danni quale quella per cui è causa.

Invero, tutta la dottrina che ha approfondito il tema della responsabilità della banca per concessione abusiva del credito ha evidenziato che, alla stregua dei principi del nostro ordinamento, l'esperimento di una tale azione di danni comporta un grave onere di prova sui requisiti dell'illecito in questione, e ciò sotto il profilo dell'elemento soggettivo di dolo o colpa del danneggiante, del nesso causale e, soprattutto, dello stato soggettivo del creditore danneggiato, chiamato a dimostrare di aver fatto incolpevole affidamento sull'apparente situazione di floridità della società; tale ultimo requisito, in una con l'esigenza di individuare in concreto il danno risarcibile, ha poi indotto una parte della dottrina a distinguere la posizione dei terzi che sono divenuti creditori prima della censurata concessione abusiva di credito da quelli che lo sono divenuti in un momento successivo.

Tali riflessioni hanno, quindi, indotto la dottrina prevalente ad escludere che per effetto di una concessione abusiva di credito possa esistere un danno per la massa in quanto tale, dovendosi considerare la ragione di danno singolarmente lamentata da ciascun creditore, e, conseguentemente, ad escludere la possibilità per il Curatore di esercitare un'azione di responsabilità verso la banca o altro terzo per abusiva concessione di credito.

Per le ragioni esposte, la questione di carenza di legittimazione attiva, sollevata da parte convenuta, è fondata, con conseguente necessità di dichiarare l'inammissibilità della domanda attrice. (Omissis).