Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 17828 - pubb. 01/07/2010

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Cassazione civile, sez. I, 23 Febbraio 1993, n. 2223. Est. De Musis.


Liquidazione coatta amministrativa - Liquidazione - Organi - Commissario liquidatore - Operazioni, poteri e responsabilità - Poteri - In genere - Esercizio - Autorizzazione dell'autorità amministrativa che vigila sulla liquidazione - Necessità - Oggetto



Al commissario liquidatore nella liquidazione coatta amministrativa non si applica, neppure in via analogica, l'art. 31, secondo comma, legge fall., che impone l'autorizzazione (del giudice delegato) perché il curatore fallimentare possa stare in giudizio, atteso che il legislatore, mentre ha attribuito al detto commissario gli stessi poteri che competono al curatore fallimentare (art. 201 legge fall.), ha regolato l'esercizio dei poteri del primo non con un rinvio generalizzato alla disciplina dell'esercizio dei poteri da parte del secondo, ma con un rinvio, di carattere specifico, da ritenersi perciò esaustivo (art. 206 legge fall.). Pertanto, il commissario liquidatore, per l'esercizio dei poteri che gli spettano, ha bisogno dell'autorizzazione (dell'autorità amministrativa che vigila sulla liquidazione), oltre che nell'ipotesi particolare di azione giudiziaria di responsabilità prevista dal primo comma dell'art. 206 legge fall., solo per il compimento degli atti di cui al secondo comma del medesimo articolo. (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE I

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Italo BOLOGNA Presidente

" Renato BORRUSO Consigliere

" Giuseppe BORRÈ "

" Rosario DE MUSIS Rel. "

" Giancarlo BIBOLINI "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

TOTERO ALBERTO, elett.te dom.to in Roma, c-o la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dagli avv.ti De Mais Leandro e Grassi Lodovico, giusta delega in atti.

Ricorrente

contro

LA LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA DELLA S.P.A. GIOVE ASSICURAZIONI, in persona del Commissario Liquidatore avv. Amelio Improta con sede in Roma elett.te dom.to in Roma, Piazzale Clodio n. 8, c-o l'avv. Luciano Minniti che lo rappresenta e difende giusta delega in atti.

Controricorrente

Avverso la setneza n. 56 della Corte di Appello di Milano del 20.1.89;

Sono presenti per il res. l'avv. Minniti;

Il Cons. dr. De Musis svolge la relazione;

La difesa del res. chiede il rigetto del ricorso;

Il P.M. dott. G. Lo Cascio conclude per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L'avvocato Alberto Totero convenne in giudizio la s.p.a. "Giove assicurazioni" chiedendo che questa fosse condannata a pagargli lire 1.000.000, oltre accessori, a titolo di compenso per prestazioni professionali.

La società (già) in liquidazione si costituì, a mezzo del proprio commissario liquidatore ed eccepì (tra l'altro) la incompetenza del giudice adito.

L'attore riassunse il giudizio e nel corso dello stesso rinunziò ai relativi atti e chiese che fosse dichiarato estinto il processo, con compensazione delle spese processuali.

Insorta controversia su quest'ultima richiesta l'adito Tribunale di Milano dichiarò, con sentenza, la propria incompetenza e condannò l'attore al pagamento delle spese processuali. Avvero quest'ultima statuizione il soccombente propose impugnazione, che la Corte di Appello di Milano respinse, con sentenza del 20.1.1989. Affermò in particolare la Corte: che il comportamento della società, che secondo l'appellante avrebbe dovuto condurre alla compensazione delle spese processuali, e che era consistito nel non aver risposto alle sollecitazioni di pagamento e nel non aver comunicato di essere (già) assoggettata a liquidazione coatta amministrativa, era irrilevante dal momento che quest'ultima situazione era nota all'attore al momento della riassunzione del processo; che pertanto, non essendo stata la rinunzia agli atti del giudizio accompagnate dall'offerta di pagamento delle spese processuali, correttamente l'attore era stato condannato al pagamento delle stesse.

Ha proposto ricorso per cassazione il soccombente; ha resistito, con controricorso, la società in liquidazione; il ricorrente ha presentato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il secondo, il terzo e il quarto motivo, l'esame dei quali è pregiudiziale, si deduce che la Corte di Appello è incorsa in violazione dell'art. 31, secondo comma, del R.D. 16.3.1942 n. 267, in quanto non ha rilevato che tale norma, che impone l'autorizzazione (del giudice delegato) perché il curatore fallimentare possa stare in giudizio, si applica, direttamente o in via analogica, al commissario liquidatore nella liquidazione coatta amministrativa, il quale pertanto, nella specie, in quanto privo dell'autorizzazione (ministeriale), non era abilitato a stare in giudizio. Si assume che detta applicazione: a) scaturisce dal rilievo che gli artt. 200, 201 e 206 di detto decreto modellano il procedimento di liquidazione coatta amministrativa sul procedimento fallimentare ed equiparano il commissario liquidatore al curatore fallimentare; b) non è esclusa dal rilievo che l'art. 206, subordinato all'autorizzazione l'esercizio di alcuni poteri del Commissario liquidatore, escluderebbe implicitamente la necessità dell'autorizzazione in tutti gli altri casi: e ciò perché le ipotesi disciplinate da detta norma sono del tutto peculiari e pertanto la previsione dell'autorizzazione, allorché esse si verifichino, deve ritenersi aggiuntiva e non esaustiva. I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente perché connessi, sono infondati.

La questione proposta consiste nello stabilire se la disciplina della liquidazione coatta amministrativa richiami, per il Commissario liquidatore, la normativa fallimentare che dispone che il curatore abbisogna dell'autorizzazione (del giudice delegato) per stare in giudizio, oppure se tale normativa debba applicarsi, per analogia, al Commissario liquidatore.

Le disposizioni da esaminare per la risoluzione della questione sono gli artt. 31 e 35 e 43 (sul fallimento) e gli art. 200, 201 e 206 (sulla liquidazione coatta amministrativa).

Art. 31: "Il curatore ha l'amministrazione del patrimonio fallimentare sotto la direzione del giudice delegato. Egli non può stare in giudizio senza l'autorizzazione scritta del giudice delegato, salvo....."

Art. 35: "Il giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, può autorizzare... il curatore a.....".

Se gli atti suddetti sono di valore indeterminato o superiore a lire 200.000 l'autorizzazione dev'essere data.... dal Tribunale..." Art. 43: "Nella controversia, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore".

Art. 200: "...............

Nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale dell'impresa, sta in giudizio il commissario liquidatore".

Art. 201: "Dalla data del provvedimento che ordina la liquidazione si applicano le disposizioni del titolo II, capo terzo, sezione seconda ("Effetti del fallimento per i creditori") e sezione quarta ("Degli effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti") e le disposizioni dell'art. 66 (revocatoria degli "Atti a titolo oneroso, pagamenti, garanzie").

Si intendono sostituiti nei poteri del Tribunale e del giudice delegato l'autorità amministrativa che vigila sulla liquidazione, nei poteri del curatore il commissario liquidatore e in quelli del comitato dei creditori il comitato di sorveglianza". Art. 206: "L'azione di responsabilità contro gli amministratori e i componenti degli organi di controllo dell'imprese in liquidazione.... è esercitata dal commissario liquidatore, previa autorizzazione dell'autorità, che vigila sulla liquidazione. Per il compimento degli atti previsti dall'art. 35, in quanto siano di valore indeterminato o di valore superiore a lire 200.000 e per la continuazione dell'esercizio dell'impresa il commissario dev'essere autorizzato dall'autorità predetta, la quale provvede sentito il comitato di sorveglianza".

La disciplina contenuta negli artt. 31, 35 e 43 evidenzia che, ad onta della formulazione letterale, il legislatore ha tenuto distinti i "poteri" del curatore dal loro "esercizio".

Non esistono, cioè, poteri che al curatore spettano per legge e poteri che al curatore sono conferiti dal giudice con l'autorizzazione.

I poteri spettano tutti per legge e l'autorizzazione, ove richiesta, costituisce solo condizione del loro esercizio. La disciplina, pertanto, va così intesa:

a) il curatore ha (tutti) i poteri necessari per l'amministrazione del patrimonio fallimentare (art. 31, primo comma), compreso quello di rappresentare in giudizio il fallimento nelle controversie correlate a detta amministrazione (art. 31, secondo comma) nonché nelle controversie relative a rapporti patrimoniali del fallito compresi nel fallimento (art. 43, primo comma);

b) l'esercizio dei poteri correlati all'amministrazione, allorché questi si estrinsecano negli atti indicati nell'art. 35, è subordinato all'autorizzazione del giudice delegato (primo comma) o del Tribunale, nel caso in cui quegli atti siano di valore indeterminato o superiore a lire duecentomila (secondo comma);

c) l'esercizio del potere rappresentativo nelle controversie è sempre subordinato all'autorizzazione del giudice delegato (art. 31, secondo comma: salve le eccezioni qui previste).

Sulla base della disciplina così individuata va ricostruita la disciplina che, nella stessa materia, è prevista per la liquidazione coatta amministrativa.

In questa al commissario liquidatore competono (gli) (stessi) poteri del curatore (art. 201, secondo comma) compreso quello di rappresentare in giudizio l'impresa nelle controversie correlate alla liquidazione (combinato disposto degli artt. 201, secondo comma e 31, secondo comma) nonché nelle controversie relative a rapporti di diritti patrimoniale dell'impresa (art. 200, secondo comma). L'esercizio dei poteri (da parte) del commissario liquidatore è disciplinato dall'art. 206, e, più precisamente, dal suo solo secondo comma.

Il primo, difatti, in quanto contempla una ipotesi particolare di azione giudiziaria, e cioè l'azione di responsabilità prevista dagli artt. 2393 e 2394 c.c. e subordina il suo esercizio all'autorizzazione dell'autorità di vigilanza, costituisce previsione che, per la sua specificità, non consente di essere interpretata quale implicita disciplina dei casi diversi da quelle cui essa (previsione) si riferisce, come emerge dal rilievo che anche nei confronti del curatore fallimentare, e nonostante la organicità della disciplina dell'esercizio dei suoi poteri, sussiste un'analoga previsione, secondo la quale l'esercizio della menzionata azione è subordinato all'autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori (art. 146, secondo comma).

Il secondo comma dell'art. 206 subordina all'autorizzazione (solo) il compimento degli atti previsti nel secondo comma dell'art. 35. Ora se, come più sopra è stato rilevato, il legislatore, dopo aver attribuito al commissario liquidatore, direttamente o mediante rinvio, gli stessi poteri che competono al curatore fallimentare, ha poi disciplinato l'esercizio dei poteri da parte del primo non con un rinvio generalizzato all'esercizio dei poteri da parte del secondo, ma con un rinvio all'esercizio, da parte di costui, di poteri singoli e predeterminati, quest'ultimo rinvio non può che essere interpretato nel senso che esso è esaustivo, e cioè comprende tutte le (sole) ipotesi nelle quali i poteri dal commissario liquidatore sono subordinati alle stesse condizioni previste per l'esercizio degli stessi poteri da parte del curatore fallimentare: con la conseguenza che nessun condizionamento deve ritenersi previsto per l'esercizio, da parte del commissario liquidatore, di poteri diversi da quelli per i quali è stato disposto il rinvio "de quo". Pertanto l'esercizio, da parte del commissario liquidatore, dei poteri che gli competono, deve ritenersi subordinato all'autorizzazione solo allorché consista nel compimento di quegli atti contemplati nel secondo comma dell'art. 35.

D'altronde ritenere che l'art. 201, secondo comma, nello stabilire che ".... si intendono sostituiti... nei poteri del curatore il commissario liquidatore..." contenga non solo la attribuzione, al secondo, degli stessi poteri che competono al primo, ma anche il richiamo generalizzato alla disciplina dell'esercizio dei poteri da parte di questo stesso, equivarrebbe a considerare superfluo il rinvio contenuto nel secondo comma dell'art. 206: e tale interpretazione, in difetto di giustificazione della superfluità di quest'ultima norma, sarebbe arbitraria.

La conclusione cui si è pervenuti, e cioè che la disciplina dell'esercizio dei poteri da parte del commissario liquidatore sia esaustiva, esclude, conseguentemente, l'applicabilità analogica di norme non richiamate in detta disciplina.

Le svolte considerazioni conducono al seguente principio: il commissario liquidatore (nella liquidazione coatta amministrativa) per l'esercizio dei poteri che gli spettano, fatta eccezione per la disposizione specifica contenuta nel primo comma dell'art. 206 del R.D. 16.3.1942 n. 267, abbisogna dell'autorizzazione solamente per il compimento degli atti previsti dal secondo comma della norma stessa. Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 306, primo comma, c.p.c., perché, avendo la convenuta dissentito dalla rinunzia agli atti del giudizio solo in ordine alla attribuzione delle spese processuali, e quindi per motivi non sostanziali, avrebbe dovuto essere emessa ordinanza di estinzione del processo e pertanto non avrebbero potuto essere addebitate all'attore le spese processuali successive a tale (omesso) provvedimento. Il motivo è inammissibile.

La Corte di Appello ha affermato - e il punto non è oggetto di censura - che l'impugnazione aveva investito - non la statuizione di incompetenza, ma - solo la statuizione sulle spese processuali. E difatti la Corte ha esaminato, peraltro attenendosi alla doglianza, il comportamento della società, che, secondo l'appellante, aveva provocato la instaurazione della lite, e l'ha ritenuto, a tal fine, irrilevante.

La pronunzia sulle spese processuali, pertanto, è stata ritenuta corretta dalla Corte di Appello (ulteriori argomentazioni dalla stessa svolte sono irrilevanti) in relazione alla statuizione, alla quale esse dovevano ritenersi correlate, di incompetenza, e nei limiti della impugnativa.

La questione sollevata nel ricorso, quindi, in quanto non esaminata ne' decisa dalla Corte di Appello costituisce questione nuova, che, come tale, non può essere prospettata per la prima volta in sede di legittimità.

Nè si deduce che essa sia stata proposta e non esaminata dalla Corte di appello.

D'altronde, stante la riferita correlazione tra le spese processuali e la statuizione di incompetenza, la questione non sarebbe stata, al fine, rilevante "ex se", ma solo in via strumentale alla impugnazione - invece non proposta - di detta statuizione. Con il quinto motivo si deduce che la Corte di Appello è incorsa in violazione e falsa applicazione dell'art. 92, secondo comma c.p.c., perché, pur sussistendone giusti motivi, dei quali peraltro ha omesso l'esame, compensato le spese processuali. Il motivo è infondato.

L'orientamento costante di questa Corte, difatti, dal quale non si ha motivo per discostarsi, è nel senso che la compensazione delle spese processuali costituisce una valutazione di opportunità che rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito, e che il sindacato della cassazione, in ordine al regolamento delle spese processuali, è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa.

Il ricorso dev'essere pertanto respinto.

Il soccombente va condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, a favore della resistente, di lire 20.000, per spese e di lire 700.000 per onorari.

Così deciso in Roma il, 6.7.1992.