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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 19468 - pubb. 07/04/2018.

Non operatività della presunzione di paternità del bimbo nato 300 giorni dopo l’udienza dinnanzi al giudice della separazione


Cassazione civile, sez. I, 21 Febbraio 2018, n. 4194. Est. Di Marzio.

Figlio nato oltre 300 giorni dopo la separazione dei genitori – Esperibilità dell’azione di cui all’art. 248 c.c. – Rilievo del favor veritatis


Qualora non operi la presunzione di paternità e non sia intervenuto il riconoscimento del figlio nato da genitori non uniti in matrimonio, l’unica azione esperibile da chi dall’atto di nascita del figlio risulti suo genitore è la contestazione dello stato di figlio di cui all’art. 248 c.c.; rappresentando un problema diverso quello relativo all’accertamento dell’eventuale paternità naturale del ricorrente. (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)

Segnalazione della Dott.ssa Paola Castagnoli

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DOGLIOTTI Massimo - Presidente -

Dott. CAMPANILE Pietro - Consigliere -

Dott. GENOVESE Francesco A. - Consigliere -

Dott. BISOGNI Giacinto - Consigliere -

Dott. DI MARZIO Paolo - rel. est. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

omissis

la Corte osserva.

D.P.M., odierno ricorrente, il (*) contraeva il c.d. matrimonio concordatario (matrimonio canonico trascritto) con D.S.A.. Quest'ultima, in data (*), aveva dato alla luce il figlio S., registrato all'anagrafe come figlio suo e di D.P.M., sebbene fosse nato anni dopo la separazione personale dei coniugi, che avevano però conservato sporadiche frequentazioni. Il ricorrente adiva il competente Tribunale di Brescia ed affermava di aver appreso, solo da qualche mese, di non essere il vero padre di D.P.S. e, dunque, conveniva in giudizio la D.S.A. ed il minore, in persona del curatore all'uopo nominato, per contestare la propria paternità. Il Tribunale reputato, a seguito dell'espletata istruttoria, che D.P.M. fosse stato informato fin dall'epoca della gravidanza che il minore non era figlio proprio, ha ritenuto che parte attrice fosse decaduta dall'azione, ed ha perciò rigettato la domanda, condannando l'attore al pagamento delle spese processuali, anche ai sensi dell'art. 96 c.c., D.P.M. ricorreva in appello, D.S.A. e D.P.S. resistevano.

La Corte d'Appello, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Brescia, revocava la statuizione di condanna di D.P.M. ex art. 96 cod. civ. Confermava, invece, la decisione di prime cure di rigetto del disconoscimento, sulla base di una pluralità di elementi. In primo luogo la Corte di merito bresciana riteneva che, per quanto l'art. 232 c.c., comma 2, preveda che la presunzione di concepimento non opera più decorsi trecento giorni: dalla pronuncia di separazione giudiziale, o dalla omologazione di separazione consensuale, ovvero dalla data della comparizione dei coniugi avanti al giudice quando gli stessi sono stati autorizzati a vivere separatamente nelle more del giudizio di separazione, l'attore aveva inequivocabilmente promosso un'azione di disconoscimento di paternità. Solo nel primo termine di cui all'art. 183 c.p.c., comma 6, aveva proposto (anche) la impugnazione del riconoscimento di figlio nato da genitori non uniti in matrimonio per difetto di veridicità, ai sensi dell'art. 263 c.c.. Il termine di cui all'art. 186, comma 6, però, non può essere usato per introdurre una domanda totalmente nuova. L'unica domanda ritualmente proposta restava perciò quella di disconoscimento di paternità. Confermava in proposito, la Corte territoriale, la ritenuta attendibilità delle testimonianze rese dai primi figli della coppia e da L.M., deposizioni tutte le quali attestavano che D.P.M. sapeva di non essere il padre già al tempo della nascita di D.P.S.. La Corte d'Appello, in conseguenza, riteneva che, quando l'azione di disconoscimento era stata introdotta, il termine annuale di decadenza, decorrente dalla conoscenza della non paternità, fosse ampiamente decorso, ed in conseguenza rigettava l'impugnazione.

Avverso questa pronuncia ha proposto ricorso per cassazione D.P.M., affidandosi a nove motivi.

Motivi della decisione

1.1. - Con il primo motivo di impugnazione, proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, contestando il vizio di motivazione e comunque la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 321 c.c., il ricorrente censura la decisione della Corte di merito per avere omesso di considerare il difetto di legittimazione della D.S.A. a proseguire nel giudizio di appello quale rappresentante del figlio D.P.S., che era frattanto divenuto maggiorenne. L'impugnante contesta che la dichiarazione del raggiungimento della maggiore età sia avvenuta nel corso del primo grado del giudizio e sia stata poi rilevata in udienza, il 19.6.2015, dinanzi alla Corte d'Appello.

1.2. - Mediante il secondo motivo di impugnazione, proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il ricorrente critica la decisione della Corte territoriale giacchè avrebbe omesso di valutare la differente posizione processuale di D.P.S. e di sua madre, D.S.A.. Contesta l'impugnante che D.P.S., nel costituirsi in appello, ha dichiarato di far proprie tutte le deduzioni, eccezioni, allegazioni e conclusioni della madre, e questa condotta processuale non poteva ritenersi ammissibile, stante la diversità della posizione processuale del figlio rispetto a quella della genitrice.

1.3. - Con il terzo motivo di impugnazione, proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente censura la decisione della Corte bresciana per non aver applicato il principio del favor veritatis, che impone, in primo luogo nell'interesse del figlio stesso, di assicurargli l'attribuzione di "uno stato di famiglia prevalente corrispondente al rapporto di procreazione", dovendo assicurarsi tutela al "suo diritto al vero stato filiale".

1.4 - Mediante il quarto motivo di ricorso l'impugnante contesta, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, invocando pure il vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, la decisione adottata dalla Corte d'Appello per aver trascurato che, ai fini della decorrenza del termine annuale di decadenza dall'azione, occorre che il padre disconoscente abbia la "conoscenza certa" di non essere il genitore, risultando a tal fine insufficiente il mero sospetto, più o meno fondato. La conoscenza certa di non esser il padre, l'odierno ricorrente afferma di averla avuta solo in sede giudiziale, quando la moglie ha confessato che il ragazzo era figlio di altro padre. Nessuna decadenza poteva pertanto essersi verificata anteriormente.

1.5. - Con il quinto motivo d'impugnazione, proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente censura la Corte territoriale per aver ritenuto tardiva la domanda di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, effettuata nel primo termine di cui all'art. 183 c.c., comma 6, sebbene controparte non avesse proposto alcuna opposizione, accettando pertanto il contraddittorio nel merito.

1.6. - Mediante il sesto motivo, proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, il ricorrente critica la violazione del disposto di cui all'art. 232 c.c., da parte della Corte territoriale, che aveva qualificato come un disconoscimento di paternità l'azione proposta, mentre non sussistevano i presupposti di legge per qualificare il ricorrente come il padre legittimo del figlio.

1.7. - Con il settimo motivo di impugnazione, proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per "omessa e/o errata valutazione di circostanze fattuali decisive: motivazione perplessa, carente e contraddittoria", il ricorrente lamenta che la Corte territoriale ha ritenuto di valorizzare le deposizioni rese dagli altri suoi figli, che hanno cattivi rapporti con lui, ed ha in conseguenza ritenuto accertata la sua conoscenza di non essere padre dell'ultimo figlio, quello per cui è causa, negando pure l'espletamento della prova testimoniale articolata dall'odierno ricorrente.

1.8.- Mediante l'ottavo motivo, il ricorrente ha poi contestato il vizio di nullità della sentenza ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione del diritto di difesa, perchè la Corte territoriale non ha ritenuto ammissibile la testimonianza da lui offerta, e raccolta nelle forme di cui al D.P.R. 28 ottobre 2000, n. 445, art. 47, in considerazione dell'età avanzata della deponente.

1.9.- Con il nono motivo di ricorso, proposto per violazione o falsa applicazione dell'art. 92 cod. proc. civ., il ricorrente censura la decisione della Corte di merito per aver fatto gravare su di lui le spese di lite.

2.1. - Con il primo motivo di ricorso l'impugnante contesta il vizio di legittimazione della madre a proseguire nel giudizio quale rappresentante del figlio, a seguito del compimento della maggiore età da parte di quest'ultimo. Il ricorrente non si premura, però, di indicare, dettagliatamente, quando la circostanza sia stata dichiarata e da chi, nonchè dove se ne rinvenga annotazione negli atti processuali. Il ricorrente non fornisce neppure elementi da cui desumere la tempestività della sua contestazione. Peraltro, D.P.S. risulta essersi correttamente costituito in proprio innanzi alla Corte d'Appello.

Il motivo di ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile.

2.2. - Mediante il secondo motivo di impugnazione il ricorrente critica che il figlio, nel costituirsi avendo compiuto la maggiore età, non avrebbe potuto dichiarare di far proprie tutte le difese proposte dalla madre, perchè le loro posizioni sostanziali e processuali risultano differenti. La censura appare infondata. Evidentemente, nel costituirsi in proprio, il figlio ha inteso fare proprie le difese proposte dalla madre in quanto sua rappresentante, scelta che gli era senz'altro consentita. Inoltre, in generale, non spetta al ricorrente sindacare le scelte difensive adottate da una controparte.

Il motivo di ricorso deve essere pertanto respinto.

2.3. - 2.6. - Il terzo ed il sesto motivo di ricorso possono essere trattati congiuntamente poichè, dalla loro sintesi, emerge la censura della decisione impugnata perchè l'azione proposta non avrebbe dovuto essere qualificata come un disconoscimento di paternità, perchè non sussisteva alcuna paternità "legittima" e comunque la valutazione della Corte di merito avrebbe dovuto essere orientata dall'applicazione del principio del favor veritatis, nell'interesse dello stesso figlio.

Invero, il favor veritatis è ormai riconosciuto, nella legislazione vigente come nella coscienza sociale, come un principio giuridico essenziale in materia di stati personali. La verità biologica costituisce di regola una componente essenziale del diritto all'identità personale, riconducibile alle previsioni di cui all'art. 2 Cost., ed all'art. 8 CEDU. L'incertezza su tale status può infatti determinare una condizione di disagio dell'individuo, ed un vulnus allo sviluppo adeguato ed alla formazione della sua personalità (Cass. Sez. 1^ sent. 29.11.2016, n. 24292). Sul punto si è pronunciata anche la Corte Costituzionale, ed ha affermato che non si verifica la violazione di diritti costituzionalmente protetti del minore, in conseguenza dell'impugnazione del riconoscimento. Infatti, non vi può essere conflitto tra favor veritatis e favor minoris, se si considera che l'autenticità del rapporto di filiazione corrisponde all'interesse del minore, quale inviolabile diritto alla sua identità. Gli eventuali pregiudizi conseguenti all'accertamento della falsità del riconoscimento, possono essere eliminati con il ricorso ad altri strumenti predisposti a tutela del minore (Corte Cost., 22 aprile 1997, n. 112).

Tanto premesso, la disposizione invocata dal ricorrente, l'art. 232 cod. civ., prevede effettivamente che la presunzione di concepimento dei figli durante il matrimonio non opera "decorsi trecento giorni dalla pronuncia di separazione giudiziale" dei genitori, o "dalla omologazione di separazione consensuale, ovvero dalla data della comparizione dei coniugi avanti al giudice quando gli stessi sono stati autorizzati a vivere separatamente nelle more del giudizio di separazione". E' proprio quest'ultima la situazione che, pacificamente, si è verificata nel caso di specie. Il figlio è nato, infatti, il (*), quasi tre anni dopo che le parti erano comparse innanzi al Presidente del Tribunale, il quale le aveva autorizzate a vivere separate all'udienza del 1.10.1991. Neppure si pone, pertanto, il problema di dover provvedere ad un bilanciamento tra valori entrambi di rilevo fondamentale, risolvendo un contrasto tra il favor legitimitatis ed il favor veritatis. Al bambino, invero, è stato impropriamente attribuito nei registri dell'anagrafe lo status di figlio c. d. legittimo nato nel matrimonio del ricorrente, potendo soltanto, al ricorrere dei presupposti, valutarsi se egli non sia comunque figlio c.d. naturale (nato fuori dal matrimonio) di D.P.M..

Il ricorrente si impegna anche, mediante il quinto motivo di ricorso, a contestare la Corte di merito per aver ritenuto tardiva la sua domanda di impugnazione del riconoscimento del figlio per difetto di veridicità, ma non è questo il punto. L'impugnazione della veridicità del riconoscimento presuppone che un riconoscimento sia stato effettuato ma, nel caso di specie, non risulta che il ricorrente abbia mai provveduto al riconoscimento del figlio.

Discende da quanto osservato - anche a prescindere dai termini di proposizione dell'azione, e dalla possibilità che maturi una decadenza - che nel caso di specie non risulta esperibile l'azione di disconoscimento della paternità, perchè il concepimento non è intervenuto nel corso del matrimonio, e neppure l'impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, perchè nessun riconoscimento del figlio è mai stato operato.

Il legislatore ha mostrato di avere ben presente la possibile ricorrenza di simili circostanze ed ha infatti previsto un'azione, che se si vuole può anche definirsi "residuale", ed è quella di cui all'art. 248 c.c., disposizione che prevede, al comma 1, "L'azione di contestazione dello stato di figlio spetta a chi dall'atto di nascita risulti suo genitore e a chiunque vi abbia interesse". E' allora appena il caso di ricordare che, nel caso di specie, dall'atto di nascita del figlio risulta che il padre è l'odierno ricorrente.

Il rilievo attribuito dal legislatore, anche in questa norma, al favor veritatis, appare ampiamente dimostrato dal riconoscimento del diritto all'azione "a chiunque vi abbia interesse", ed è poi confermato dalla previsione di cui all'art. 248 c.c., comma 2, ove si dispone che "l'azione è imprescrittibile". Anche questa scelta appare agevolmente comprensibile. Nell'ipotesi del disconoscimento di paternità (di cui, ora, all'art. 243 bis c.c. e ss.) opera una presunzione legale, ed è perciò consentito agire per il suo superamento soltanto a soggetti determinati: padre, madre e figlio, imponendosi pure, alle prime due categorie di legittimati, stringenti termini di decadenza. Una valutazione analoga ha compiuto il legislatore in materia di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, di cui all'art. 263 c.c., limitando nel tempo la possibilità di chi ha operato il riconoscimento (e degli altri legittimati, ma non del figlio) di smentire se stesso mediante una controdichiarazione. Nessuno dei limiti succintamente indicati sussiste in relazione all'azione di cui all'art. 248 c.c., perchè in questo caso non opera alcuna presunzione legale e non vi è da smentire alcuna dichiarazione precedentemente resa. Ci troviamo, in sostanza, a dover verificare se effettivamente un figlio sia nato da un certo padre, come risulta dall'atto di nascita, ma senza che operi alcuna presunzione legale. Proprio la circostanza che ricorre nel caso di specie.

Non ignora il Collegio il risalente orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui la norma di cui all'art. 248 c.c., "non è concorrente con quelle dettate in tema di disconoscimento della paternità e non può ad esse derogare, configurando una azione con contenuto residuale, esperibile nelle sole ipotesi in cui non ricorrano altre disposizioni che regolino in modo autonomo azioni di contestazione della legittimità", Cass. sez. 1^, sent. 28.11.1992, n. 12733, ed anzi intende assicurarvi continuità, visto che nell'ipotesi in esame, per le ragioni esposte, non risulta consentita al ricorrente alcun'altra azione per contestare la propria paternità.

Diversamente, non si intende assicurare continuità all'affermazione secondo cui "nell'ipotesi in cui la moglie abbia partorito oltre i trecento giorni dopo l'omologazione della separazione consensuale, il marito, che contesti di aver generato il neonato, non può esercitare l'azione di contestazione di legittimità di cui all'art. 248 c.c., (che configura una disposizione residuale, diretta a contestare lo "status" di figlio legittimo indipendentemente dalla paternità del marito e, quindi, non escludendo necessariamente che possa trattarsi di figlio naturale, ancorchè illegittimo, di questi), ma esercita l'azione di disconoscimento di paternità di cui all'art. 235 c.c., salve, per la difformità del caso da quello testualmente previsto dal menzionato art. 235 (limitato al "concepimento durante il matrimonio", secondo le indicazioni fornite al riguardo dall'art. 232 c.c., comma 1), le conseguenze sul regime della prova. Infatti, in tal caso a differenza dell'ipotesi di concepimento durante il matrimonio (in cui non è consentito al marito superare la presunzione di paternità, su di lui ricadente a norma dell'art. 231 c.c., se non nei casi tassativamente elencati dall'art. 235) non operando detta presunzione, a norma dell'art. 232, comma 2, si ha un ristabilimento delle normali regole sulla ripartizione dell'onere della prova, sicchè al marito spetta di provare soltanto lo stato di separazione legale, mentre incombe alla moglie dimostrare la paternità del marito come se agisse al di fuori del matrimonio e, quindi, ai sensi dell'art. 269 c.c., con ogni mezzo, con insufficienza, però, della madre" e della "sola esistenza Cass. sez. 1^, sent. 20.2.1998, n. 2098. Qualora non operi la presunzione di paternità, infatti, e non sia intervenuto il riconoscimento del figlio nato da genitori non uniti in matrimonio, l'unica azione a disposizione del padre è proprio la contestazione dello stato di figlio di cui all'art. 248 c.c., rappresentando un problema diverso quello relativo all'accertamento dell'eventuale paternità naturale del ricorrente.

In definitiva, il giudice di prime cure, nel presente giudizio, ha errato nel qualificare l'azione proposta dall'odierno ricorrente come un disconoscimento paternità di cui non sussistevano i presupposti, essendo il figlio nato anni dopo la separazione della madre e del presunto padre, e la Corte d'Appello, mediante la decisione impugnata è incorsa nel vizio contestato, confermando siffatta qualificazione della domanda.

Nei limiti esposti, pertanto, gli indicati motivi di ricorso devono essere accolti.

I residui motivi di ricorso restano assorbiti.

Occorre pertanto procedere alla cassazione della decisione impugnata, con rinvio alla Corte di appello di Brescia che, in diversa composizione, procederà a rinnovare il giudizio, applicando i principi innanzi richiamati e provvedendo, inoltre, al regolamento delle spese processuali relative al presente grado.

P.Q.M.

La Corte accoglie, nei limiti esposti in motivazione, il terzo ed il sesto motivo di ricorso proposti da D.P.M. e, in relazione ai motivi accolti, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la disciplina delle spese del ricorso per cassazione, alla Corte d'Appello di Brescia in diversa composizione, che provvederà a rinnovare il giudizio nel rispetto dei principi innanzi esposti.

Dispone, ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52, comma 5, che, in caso di riproduzione per la diffusione della presente decisione, le generalità e gli altri dati identificativi delle parti e dei soggetti menzionati siano omessi.

Così deciso in Roma, il 20 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2018