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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 19550 - pubb. 24/04/2018.

Illecito amministrativo della società e legittimazione processuale della curatela fallimentare


Cassazione penale, 09 Aprile 2018. Est. Renoldi.

Fallimento - Legittimazione processuale della curatela fallimentare - Sanzioni amministrative - Sussistenza


Se per un verso non può affermarsi che, dopo l'apertura del fallimento, il legale rappresentante del fallimento sia sempre il curatore, atteso che, sia pure in limitati casi, coesiste con quella del curatore la legale rappresentanza del soggetto originariamente investito dei relativi poteri (ad es. per presentare istanza di concordato fallimentare o per impugnare le cartelle esattoriali che il curatore non abbia impugnato o per liquidare beni che il curatore abbia abbandonato etc.), con riferimento all'illecito amministrativo della società deve nondimeno riconoscersi la legittimazione processuale della curatela fallimentare, potendo configurarsi, in conseguenza dell'applicazione della relativa sanzione, il sorgere di un credito privilegiato dell'Erario nei confronti del fallimento, rispetto al quale deve configurarsi la legittimazione in capo all'organo istituzionalmente preposto alla ricostruzione e alla tutela del patrimonio fallimentare. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAVALLO Aldo - Presidente -

Dott. DI STASI Antonella - Consigliere -

Dott. MENGONI Enrico - Consigliere -

Dott. MACRI’ Ubalda - Consigliere -

Dott. RENOLDI Carlo - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Svolgimento del processo

1. A.M. e V.A. erano stati tratti a giudizio davanti al Tribunale di Brescia per rispondere di una serie di delitti in materia tributaria e, nel caso del solo V., contro la pubblica amministrazione, nonchè del delitto di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di una pluralità indeterminata di violazioni finanziarie e contro la pubblica amministrazione. In particolare, secondo l'ipotesi di accusa, A. aveva costituito, organizzato e gestito un'associazione per delinquere volta alla commissione di delitti di natura fiscale, attraverso la pianificazione contabile dell'attività, la costituzione di società "cartiere" incaricate di emettere fatture per operazioni inesistenti e fungendo, le stesse, da fittizie intestatarie dei contratti di lavoro nei cantieri della società dello stesso A.; associazione strutturata su tre livelli, al vertice della quale vi sarebbe stata la (*) S.p.A., società appaltatrice di importanti opere pubbliche, al secondo livello la società P.F.S., riconducibile ai coimputati S.M. e P.A. e, infine, al terzo livello, le società cartiere riferibili ad altri tre coimputati Sc.Da., G.S. e Ve.Ca. (tutti giudicati separatamente). All'interno di tale sodalizio, V. avrebbe poi svolto l'attività di commercialista e di consulente contabile delle società cartiere coinvolte, partecipando, attraverso la prestazione di un essenziale contributo tecnico-consultivo, al complesso meccanismo di frode fiscale costituente attuazione degli scopi sociali dell'organizzazione criminale.

1.1. Con sentenza in data 14/05/2015, pronunciata all'esito di una istruttoria dibattimentale caratterizzata da numerose testimonianze e dall'esame dei due imputati, dalla trascrizione di intercettazioni telefoniche e dalle produzioni offerte dalle varie parti processuali, nonchè da un memoriale con cui A.M. aveva reso ampia confessione in relazione ai delitti contestati ai capi B) e C) della rubrica, il Tribunale di Brescia aveva affermato la responsabilità penale dello stesso A. e di V.A. in relazione a soltanto alcuni dei reati agli stessi ascritti e segnatamente: quanto al primo, in relazione ai delitti, unificati dal vincolo della continuazione, previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, per avere indicato, nella sua qualità di amministratore della (*) S.p.A. ed al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, nelle dichiarazioni relative agli anni di imposta 2008, 2009 e 2010, elementi passivi fittizi, avvalendosi di fatture e di altri documenti per operazioni inesistenti emessi dalle società e per i valori indicati in imputazione (capo B), nonchè dall'art. 8 del medesimo decreto, per avere, nella stessa qualità, al fine di consentire la evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, emesso fatture per operazioni inesistenti per i valori indicati nei prospetti indicati in imputazione (capo C); e, quanto a V., in relazione ai delitti, unificati dal vincolo della continuazione, previsti dall'art. 110 c.p., D.Lgs. n. 74 del 2000, 10-quater, per avere, in concorso con numerosi coimputati, tutti giudicati separatamente, creato, in capo alle società cartiere indicate in imputazione, crediti non spettanti o inesistenti, così consentendo la loro utilizzazione D.Lgs. n. 241 del 1997, ex art. 17, in compensazione delle somme dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali per i lavoratori dipendenti per gli anni 2008, 2009, 2010 e 2011, per i valori anch'essi indicati in imputazione (capo D), dall'art. 61 c.p., n. 2 e il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10, per avere, in concorso con i menzionati G., Sc. e Ve., al fine di commettere i delitti di cui ai capi precedenti o, comunque, per conseguire l'impunità per gli stessi, distrutto o comunque occultato le scritture contabili e i documenti della società B. Edil S.r.l. in modo da non consentirne la ricostruzione dei redditi o del volume degli affari (capo I), nonchè dagli artt. 110, 319 e 321 c.p., per avere, in concorso sempre con G., Sc. e Ve., promesso e quindi consegnato a Ga.Ni., pubblico ufficiale in servizio presso la Cassa Edile di Lodi, la somma di 1.500 Euro per fargli omettere un atto del suo ufficio, consistente nei controlli ispettivi presso il cantiere gestito dalle società Veca Costruzioni e Prisma Costruzioni S.r.l. (capo K). Pertanto, i due imputati erano stati condannati, A., alla pena di tre anni e di tre mesi di reclusione (con le attenuanti generiche) e, V., a qualla di tre anni di reclusione, oltre a varie pene accessorie, con confisca diretta e per equivalente di una serie di beni mobili e immobili riferibili ad entrambi.

1.2. A. e V. erano stati, invece, assolti dal delitto di associazione per delinquere ad essi contestata al capo A). Ciò in quanto, secondo la valutazione del tribunale, doveva riconoscersi "un'intrinseca debolezza del quadro accusatorio circa la sussistenza della fattispecie associativa, destinata a cedere il passo a una più verosimile (e di fatto dimostrata) situazione di compravendita di servizi (illeciti) da parte delle società di terzo livello" (ovvero le cartiere) "verso una società (la (*) S.p.A. di A.) in progressivo e profondo affanno, destinata ad essere travolta dal meccanismo stesso che le società cartiere avevano offerto come il sistema per la risoluzione delle problematiche di liquidità" (v. p. 108 della sentenza di primo grado). Significativi, a questo riguardo, erano stati ritenuti dal tribunale sia il fatto che, alla stregua delle copiose produzioni della difesa di A. e dei contenuti del suo memoriale difensivo, Sc., unitamente a G. e Ve., avesse realizzato, fin dagli anni ‘90, una rete di società cartiere destinate a breve vita, che iniziavano ad operare con un credito Iva conseguito mediante l'emissione di false fatture di vendita, emesse da una loro società (poi chiusa) alla nuova società; sia il fatto che tali "cartiere" operavano nel territorio lombardo a favore di vari committenti e che, alla stregua delle testimonianze "assistite" rese in sede dibattimentale, ex art. 197 - bis c.p.p., da P., Sc. e S., fosse emersa, diversamente da quanto dagli stessi riferito in sede di interrogatorio reso quando si trovavano in custodia cautelare, "l'assenza di qualsivoglia ordine proveniente dall'alto e cioè da A., il quale aveva certo illustrato", a costoro, "per sommi capi, il meccanismo dei subappalti ma non aveva certo imposto alcuna condotta", circa assunzioni o dismissioni degli operai nonchè quello della costituzione delle società cartiere, limitandosi, nel caso del teste S., a illustrare, nel corso di un abboccamento, come risparmiare sui dipendenti (v. p. 107 della sentenza del tribunale).

Ritenuta l'assenza di prova circa il ruolo di vertice dell'intero 91 sodalizio svolto da A., costui era stato, inoltre, assolto dall'accusa relativa al delitto contestato al capo D) della rubrica. Secondo il Tribunale, infatti, come già osservato, il credito di imposta delle società cartiere "era preesistente all'affacciarsi di A. nel complessivo impianto delittuoso, come affermato in particolar modo da Sc.", il quale aveva riferito "di essersi offerto egli stesso all' A. come risolutore delle sue problematiche affermando di poterlo fare essendo a credito Iva" (v. p. 95 della sentenza del tribunale).

Il Tribunale aveva, inoltre, assolto le società (*) S.p.A. e P.F.S. Costruzioni S.r.l., con la formula "perchè il fatto non sussiste", in relazione all'illecito amministrativo alle stesse contestato rispettivamente ai capi R) e S) della rubrica. Secondo la contestazione, la responsabilità dell'ente sarebbe scaturita dall'avere commesso, i loro legali rappresentanti, il delitto di associazione per delinquere di cui al capo A), nell'interesse o comunque a vantaggio della società, senza che fossero stati previamente adottati modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire delitti della specie di quello contestato al predetto capo.

2. A seguito di impugnazione del pubblico ministero e degli stessi A. e V., la Corte d'appello di Brescia, con sentenza in data 14/07/2016, emessa in parziale riforma della pronuncia di primo grado, dichiarò la responsabilità penale di A. anche per i reati allo stesso ascritti ai capi A) e D) della rubrica, con esclusione, per quanto concerne quest'ultimo delitto, delle compensazioni operate da Unicoop S.r.l. e Veca Costruzioni S.r.l., nonchè di V. anche per il delitto contestato al capo A), per l'effetto rideterminando la pena, nei confronti di entrambi, rispettivamente in sei anni di reclusione e in quattro anni di reclusione. Inoltre, la Corte territoriale dichiarò le società (*) S.p.A. e P.F.S. Costruzioni S.r.l., in persona dei rispettivi curatori fallimentari, responsabili dell'illecito amministrativo alle stesse ascritto, applicando a ciascuno dei curatori la sanzione amministrativa pecuniaria prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 24-ter e 10, per complessivi 250.000,00 Euro.

2.1. Quanto, in particolare, al delitto contestato al capo A), la Corte territoriale ritenne che fosse stata dimostrata la sussistenza di un reato associativo, realizzato attraverso un consolidato modus operandi attuato nell'ambito di una organizzazione piramidale, costituita allo scopo di realizzare un vantaggio economico per la società (*). In particolare, secondo la Corte territoriale grazie all'utilizzo di alcune società cartiere era stato realizzato uno schema illecito, ripetuto negli anni ed articolatosi attraverso alcuni meccanismi tipici del sistema frodatorio: il primo posto in essere, con la finalità di creare un ingente credito Iva a favore di (*), mediante l'uso di false fatture di acquisto emesse nei confronti di tale società da alcune "cartiere", i cui formali amministratori e gestori di fatto avevano agito secondo le direttive di A.; il secondo consistente nell'emissione, sempre da parte di (*), di false fatture in reverse charge nei confronti delle società cartiere, con la restituzione dell'Iva da parte di queste ultime, al netto dell'aggio del 7%, in denaro contante. Inoltre, la Corte territoriale aveva ritenuto che, in forza di un fittizio contratto di subappalto, i lavori eseguiti nei cantieri di (*) fossero stati effettuati, in realtà, dalle società cartiere, le quali avevano preventivamente assunto la manodopera su impulso di (*); che l'obbligo di pagare i contributi agli operai era stato trasferito, in tal modo, alle società cartiere, le quali lo avevano compensato con il credito Iva conseguito grazie ai falsi acquisti di materiali da parte di (*) e, perciò, con emissione di fatture "ivate"; che benchè non vi fosse prova documentale, relativamente al capo C), del fatto che le fatture emesse da A. in regime di reverse charge fossero state utilizzate dalle cartiere, l'imputato era certamente responsabile del delitto di frode fiscale, essendo quest'ultimo un reato di pericolo di mera condotta; che A. doveva rispondere del fatto contestato al capo D) in quanto era stato lui a creare la società P.F.S. tramite due suoi conoscenti, S. e P., e proprio al fine di abbattere il costo della manodopera; che, ancora, era stato A. a programmare "a tavolino" il meccanismo di costituzione e di organizzazione delle società in tre livelli; che la manodopera era affidata a P.F.S. Costruzioni ma a beneficio delle esigenze di (*); che, sempre con riferimento al capo D), le società di terzo livello compensassero i contributi per gli operai in base alle false fatture emesse da A.; che quest'ultimo aveva indirettamente rapporti con tutti i consociati, ivi compreso il commercialista delle cartiere, V., con il quale pure non erano stati documentati contatti: e ciò grazie all'intermediazione di Sc., G. e Ve.. Secondo la Corte territoriale, dunque, le circostanze riportate e le argomentazioni sviluppate relativamente ai reati-fine consentivano di ricostruire congruamente anche la consumazione del reato associativo. Secondo i giudici di appello, infatti, non era certo prospettabile, da un punto di vista logico, che A. si fosse rivolto a Sc. e G. per fronteggiare talune diffidenze del ceto bancario in ordine alle aperture di credito, come da lui sostenuto; le società utilizzate dal sistema frodatorio non avrebbero avuto ragione di interfacciarsi con A., in quanto certamente le false fatturazioni tra costui e la "triade" ( G., Sc. e Ve.) erano risalenti nel tempo; a detta di S. era stato A. a organizzare l'incontro tra lui e P. con G., Sc. e Ve. in base ad una strategia unitaria, desumibile da svariate intercettazioni telefoniche; il dato dichiarativo offerto da Sc. e S. dimostrava che era stato A. a proporre a S. e P. la costituzione del secondo livello per creare un diaframma tra (*) e le cartiere: e di ciò vi era finanche il conforto delle copiose intercettazioni.

3. Avverso la sentenza d'appello hanno proposto ricorso per cassazione A.M. e V.A. a mezzo dei rispettivi difensori fiduciari. Ha, inoltre, proposto ricorso l'avv. Giacomo Lombardi per conto della (*) S.p.A..

3.1. Muovendo dalla disamina del ricorso proposto dall'avv. Alessandro Mainardi nell'interesse di A.M., l'impugnazione si articola in sei motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p..

3.1.1. Con il primo di essi, il ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. B), C) ed E), l'inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 416 c.p. e art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, nonchè la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla "omessa disamina di plurime decisive risultanze probatorie nonchè al travisamento di altre ulteriori fonti di prova".

In particolare, la sentenza avrebbe omesso di confrontarsi con le osservazioni difensive svolte dall'imputato in sede di esame dibattimentale, asseritamente suffragate dalla documentazione in atti (costituita dalle visure delle società riferibili a G. Sc. e Ve., attestanti la costituzione delle cartiere sia prima che dopo i fatti per cui è processo, secondo quanto confermato dal tenente colonnello D.G. della Guardia di Finanza e, quanto alla esistenza di cartiere, dallo stesso Luogotenente Ab.), da plurime deposizioni testimoniali (in particolare di M.S. e di Mi.Fa., nonchè dei testi assistiti S.M., Sc.Da. e P.A.) e dal contenuto di svariate intercettazioni telefoniche. Osservazioni difensive da cui sarebbe emerso che A.M., a fronte dell'esigenza di sostenere il rilevante apporto del credito bancario e non potendo più utilizzare le "riba" fittiziamente create da società del suo gruppo, nel 2008 aveva chiesto a Sc., G. e Ve. - i quali, da molti anni e ben prima della vicenda per cui è processo avevano ampiamente rodato e affinato il sistema delle società cartiere messe a disposizione del "mercato" - di poter emettere, a favore di alcune delle loro società, fatture in reverse charge, in modo da poter depositare presso gli istituti di credito delle "riba" a loro carico. Ed inoltre, che per poter finanziare tale artificio, si era stabilito di far emettere da altre società, comunque riferibili agli stessi Sc., G. e Ve., fatture con Iva relativa a forniture di materiali alla sua società (*) S.p.a.; e che in questo modo, mediante il pagamento da parte di (*) delle fatture ivate, i tre utilizzassero la provvista così conseguita per pagare le "riba". Pertanto, la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere che le società cartiere con cui A. si era rapportato fossero state costituite appositamente per assecondarne il progetto frodatorio nonchè nell'escludere che Sc., G. e Ve. avessero offerto al mercato, in autonomia, società alle quali formalmente intestare la manodopera con la prospettiva di compensare i contributi previdenziali con il credito Iva, "già in pancia" delle nuove società cartiere e, infine, nell'assegnare alla P.F.S. di S. e P. la funzione di "secondo livello" dell'associazione, funzionale alla realizzazione di uno schermo tra la (*) e le società cartiere in relazione all'impiego della manodopera nei cantieri edili. Circostanza, quest'ultima, esclusa dalle produzioni effettuate il 17/11/2014 e dalle testimonianze di M.S. e Mi.Fa., da cui sarebbe emerso che le società di S. e P. operavano per svariati clienti e non già soltanto per (*), talchè la P.F.S. avrebbe fatturato per (*), in relazione alle prestazioni d'opera di carpenteria, soltanto un quarto del suo fatturato complessivo. Sotto altro profilo, nell'affermare che la P.F.S. fosse stata costituita come società di secondo livello, la Corte territoriale avrebbe violato le disposizioni dettate dall'art. 192 c.p.p., commi 2, 3 e 4 in relazione alla valutazione delle dichiarazioni dei testi assistiti, Sc., S. e P., utilizzando meri brani delle loro deposizioni ed omissando altri passaggi significativi. In particolare, dalle dichiarazioni rese da Sc. sarebbe emerso che fosse stato quest'ultimo ad avere offerto i propri servizi ad A., sicchè non sarebbe stato quest'ultimo a ordinare la realizzazione della cartiere. Analogamente, P., pur smentendo quanto affermato in sede di interrogatorio davanti al pubblico ministero, avrebbe affermato di essere stato sempre a conoscenza del sistema per risparmiare i contributi, di sapere da tempo dell'attività cartiera di Sc., G. e Ve., sicchè erroneamente la Corte territoriale avrebbe affermato che fosse stato A. a veicolare la PFS verso le società cartiere, tanto più che sulla scorta delle produzioni difensive effettuate il 17/11/2014 e della testimonianza di M., sarebbe risultato provato che P. e S. si fossero serviti di alcune cartiere del trio Sc., G. e Ve., già all'epoca in cui essi operavano con la cooperativa COGECA. Infine, S. avrebbe chiarito che A. gli aveva illustrato, solo per sommi capi, il meccanismo dei subappalti, senza però imporre alcuna condotta, tanto meno le assunzioni o le dismissioni degli operai o il passaggio degli stessi da una società all'altra. Dunque, nè S. e P. avrebbero attestato che i rapporti di false fatturazioni tra A. e la "triade" erano risalenti nel tempo, nè Sc. avrebbe affermato che la sua conoscenza con A. risaliva a prima del 2008 ed aveva già riguardato rapporti di illecita fatturazione; nè S. e P. avrebbero riferito che A. avesse loro indicato di costituire la P.F.S. "per creare un passaggio intermedio" tra (*) e le cartiere.

Conclusivamente, il ricorrente rappresenta che secondo le acquisizioni istruttorie:

- i rapporti di A. con G., Sc. e Ve. fossero afferenti ai reati sub B) e C) della rubrica nei modi descritti dall'imputato e non pianificabili, ma di volta in volta determinati dall'insorgere di problematiche finanziarie da parte di A.;

- i rapporti tra PFS di S. e P. con Sc., G. e Ve. sarebbero stati autonomamente intrapresi fin dal 2006/2007 come sarebbe dimostrato dall'elenco fornitori di COGECA (società cooperativa degli stessi S. e P.), e, di volta in volta, rinnovati in base alle esigenze di manodopera di PFS;

- i rapporti di A. con G., Sc. e Ve., consistiti nello scambio fatture in reverse charge con fatture ivate a fini di ri.ba sarebbero stati ontologicamente diversi dai rapporti tra società cartiere e P.F.S.;

- il furto di 2.200.000 Euro perpetrato da G., Sc. e Ve. in danno di A.M., come da costui riferito e risultante dalle intercettazioni telefoniche del giugno - agosto 2010, sarebbe stato dimostrativo dell'inesistenza di un'organica pianificazione dei rapporti dare - avere.

3.1.2. Con il secondo motivo, la difesa di A. censura, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. B) ed E), l'inosservanza o erronea applicazione della legge penale nonchè la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all'art. 6 CEDU. e all'art. 533 c.p.p., e art. 603 c.p.p., comma 3. La Corte territoriale avrebbe riformato la sentenza assolutoria di primo grado in ordine al reato associativo affermando la penale responsabilità eminentemente sulla base di una diversa valutazione di attendibilità delle dichiarazioni di Sc.Da., P.A. e S.M., senza procedere a nuova escussione degli stessi e, dunque, in violazione al'orientamento giurisprudenziale, da ultimo riaffermato con la sentenza Sez. Un., n. 27620 del 28/04/2016, dep. 6/07/2016, Dasgupta, secondo cui il giudice di appello non può pervenire a condanna in riforma della sentenza assolutoria di primo grado basandosi esclusivamente, o comunque in modo determinante, su una diversa valutazione delle fonti dichiarative delle quali non abbia proceduto anche d'ufficio a una rinnovata assunzione. Nel caso di specie, le anzidette dichiarazioni sarebbero state evocate dalla Corte territoriale quale elemento probatorio decisivo al fine di attribuire ad A. l'ordine di costituzione delle cartiere utilizzate, nonchè l'ordine di costituzione della società PFS - il cd. secondo livello - al fine di farne uno schermo per l'utilizzo della manodopera in nero.

3.1.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. B) ed E), l'inosservanza o erronea applicazione della legge penale nonchè la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla compartecipazione di A. al delitto previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-quater, ascritto, in concorso tra loro, a G., Sc. e Ve. in relazione alla compensazione attuata dalle società cartiere tra i crediti Iva e gli importi dovuti a titolo di ritenute previdenziali.

3.1.4. Con il quarto motivo, il ricorrente si duole, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. B) ed E), dell'inosservanza o erronea applicazione della legge penale nonchè della mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla configurabilità del delitto previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8, e contestato al capo C). Secondo la tesi difensiva, non essendo stata dimostrata l'effettiva emissione delle fatture in reverse charge da parte della (*) S.p.A., nè l'effettiva utilizzazione delle stesse, da parte delle società "cartiere", al fine di evadere le imposte sui redditi, il delitto non avrebbe potuto essere integrato, tanto più che la sentenza non avrebbe vagliato le giustificazioni addotte da A. in ordine al fatto che le fatture sarebbero state emesse unicamente per emettere, a loro volta, delle ricevute bancarie da scontare presso gli istituti di credito.

3.1.5. Con il quinto motivo, la difesa di A. denuncia, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. B) ed E), l'inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 81 cpv., 132 e 133 c.p., nonchè la mancanza della motivazione in relazione alla mancata esplicazione delle ragioni per le quali, una volta determinata la pena base per il più grave delitto di cui al capo A), l'aumento in relazione ai delitti contestati ai capi B), C) e D) sia stato determinato in misura pari a un anno di reclusione per ciascuno di essi.

3.1.6. Con il sesto motivo, il ricorrente censura, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. B), l'inosservanza o erronea applicazione della legge processuale penale in relazione all'art. 523 c.p.p., art. 525 c.p.p., comma 1 e art. 544 c.p.p., con conseguente nullità della sentenza ai sensi dell'art. 178 del codice di rito. Il dispositivo della sentenza impugnata recherebbe non la data della sua lettura, ovvero il 14/07/2016, corrispondente all'udienza di rinvio per eventuali repliche delle parti, in realtà mai formulate; quanto quella, ad essa anteriore, del 12/07/2016. Pertanto, non essendo mai stata avviata la procedura per correzione dell'errore materiale, si deduce che la deliberazione sia avvenuta prima dell'udienza per eventuali repliche e della formale chiusura del dibattimento, con conseguente violazione delle regole processuali e nullità della pronuncia.

3.2. Venendo, quindi, al ricorso proposto dagli avv.ti Fabio Lattanzi e Luigi Giugliano nell'interesse di V.A., l'impugnazione si articola in sei distinti motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p..

3.2.1. Con il primo di essi, il ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. B) ed E), l'inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 416 c.p., nonchè la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all'art. 125 c.p.p., comma 3. Sotto un primo profilo, la sentenza impugnata avrebbe erroneamente affermato l'esistenza di una associazione per delinquere a partire dal dato, invero, non concludente, relativo all'esistenza di una struttura societaria, senza che però sia stata dimostrata l'esistenza di un vincolo associativo stabile e di un programma criminoso. Sotto altro profilo, i giudici di appello avrebbero errato nell'affermare che fosse stata dimostrata la partecipazione di V. al sodalizio, apoditticamente rinvenuta nella asserita necessità che la presunta associazione disponesse di figure professionali in grado di muoversi consapevolmente in ambito fiscale. La sentenza, infine, sarebbe illogica laddove avrebbe ritenuto ininfluente la circostanza che A., indicato come il dominus del sodalizio, nell'ambito del quale sarebbe stato necessario realizzare una gestione contabile accentrata, non conoscesse e non avesse avuto alcun contatto con lo stesso V., ovvero con il soggetto al quale sarebbe stata affidata l'intera gestione contabile delle cartiere.

3.2.2 Con il secondo motivo, la difesa di V. censura, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. B) ed E), c l'inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-quater, contestato al capo D) della rubrica, nonchè la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all'art. 125 c.p.p., comma 3. La sentenza di secondo grado, infatti, avrebbe omesso di rispondere alle doglianze con le quali, nell'atto di appello, era stato dedotto che nel capo D) dell'imputazione non fossero state indicate le fatture relative alle operazioni asseritamente inesistenti, nè le società che le avrebbero emesse; e con le quali era stato opinato che le operazioni inesistenti contestate al capo D), che secondo l'ipotesi accusatoria sarebbero state utilizzate in compensazione, sarebbero state, in realtà, esenti da Iva e, come tali, inidonee allo scopo. Inoltre, in relazione alla mancata dimostrazione della consapevolezza di V. dell'attività di illecita compensazione, la sentenza avrebbe illogicamente tratto argomento a favore della piena conoscenza dell'attività illecita dal fatto che il commercialista si interfacciasse con i gestori di fatto delle cartiere e come, in presenza di palesi indici di anomalia delle società in questione, egli dovesse certamente avvedersi della loro "operatività solo fittizia".

3.2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1 lett. E), la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all'art. 125 c.p.p., comma 3, in relazione all'affermazione di responsabilità di V. per il delitto di distruzione o occultamento delle scritture contabili, non avendo la Corte territoriale adeguatamente valorizzato alcuni elementi di fatto pacificamente provati nel corso del dibattimento: la circostanza che fosse stata depositata la quietanza relativa alla consegna a Pr., da parte di V., dei documenti contabili; che la non operatività della B. era dovuta al recente trasferimento della sede; che la posta della società veniva ritirata non da V. ma dalle sue impiegate, su richiesta di quelle della B.; che le intercettazioni tra Forlani e G. avrebbero dimostrato che V. fosse convinto dell'avvenuto allagamento dei locali in cui era custodita la documentazione contabile.

3.2.4. Con il quarto motivo, la difesa di V. si duole, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. B) ed E), dell'inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 319 e 321 c.p. nonchè della mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all'art. 125 c.p.p., comma 3. I giudici di appello non avrebbero dimostrato il coinvolgimento di V. nella dazione della somma al funzionario corrotto, Ga.Ni., che sarebbe stata ordita a sua insaputa dai coimputati Ve. e Sc., come emergerebbe da una intercettazione telefonica tra i due. La circostanza che l'incontro con Ga., nel corso del quale aveva avuto luogo la dazione della somma, fosse avvenuto nello studio di V. non ne proverebbe la compartecipazione illecita, tenuto conto del fatto che lo stesso V. prestava la propria opera professionale a favore delle società controllate e che, quindi, l'incontro nel suo studio, ove era disponibile la documentazione utile al controllo, sarebbe stato del tutto giustificato.

3.2.5. Con il quinto motivo, il ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. E), la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all'art. 125 c.p.p., comma 3, sotto il profilo del mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, che la sentenza avrebbe apoditticamente giustificato con la "evidente gravità del comportamento tenuto", senza considerare gli elementi a favore evidenziati dalla difesa, quali la corretta condotta professionale svolta per molti anni, la sua irreprensibile condotta di vita, il leale comportamento processuale.

3.2.6. Con il sesto motivo, la difesa di V. lamenta, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. B) ed E), l'inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 322 - ter c.p.p., nonchè la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all'art. 125 c.p.p., comma 3. Sotto un primo aspetto, si rileva come la Corte territoriale non abbia risposto alla questione, posta in sede di appello, relativa alla necessità di scomputare alcune somme (quali quella relativa ai crediti oggetto di indebita compensazione di alcune società che V. non aveva assistito professionalmente, nonchè quella detratta dalla E.C. S.r.l., che non sarebbe mai stata cliente dell'imputato). Sotto altro profilo, si osserva come i giudici di appello abbiano erroneamente ritenuto che il bene sottoposto a confisca, pur formalmente intestato alla moglie dell'imputato, fosse in realtà appartenente a quest'ultimo. In particolare, la sentenza impugnata non avrebbe risposto alle censure svolte in appello circa l'acquisto dell'immobile con i fondi presenti su un conto corrente bancario intestato alla donna e alimentato da prestiti e donazioni di amici e parenti, nonchè utilizzando somme che le sarebbero state fornite dal marito, il quale le avrebbe, in realtà, restituito quanto in precedenza ella gli avrebbe dato in prestito.

3.3. Con atto depositato in data 26/11/2016 ha proposto per cassazione anche l'avv. Giacomo Lombardi in nome e per conto della (*) S.p.A., il quale, dopo avere sunteggiato i punti principali della presente vicenda processuale, ha dedotto due distinti motivi di impugnazione.

3.3.1. Con il primo di essi, il ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), l'inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità in relazione al D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 39, 40, 41, 42, 43, 56 e 59, art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), art. 185 c.p.p., atteso che l'illecito amministrativo da cui è conseguita l'adozione del sequestro preventivo e l'irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria non sarebbe mai stato notificato al Dott. Mo., liquidatore e legale rappresentante della (*) S.p.A., mai indagato e quindi in situazione di non incompatibilità a ricevere la contestazione dell'illecito, secondo quanto ritualmente e tempestivamente eccepito fin davanti al giudice dell'udienza preliminare (e, successivamente, al tribunale e alla stessa Corte di appello). Secondo la difesa, infatti, la società, pur dopo il fallimento, conserverebbe la sua soggettività e la conseguente legittimazione processuale in relazione ai profili cautelari e sanzionatori, secondo quanto desumibile dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 39.

Su tali basi, il primo motivo di ricorso invoca l'annullamento della sentenza in relazione sia alla disposta condanna alla menzionata sanzione pecuniaria, sia al sequestro preventivo.

3.3.2. Con il secondo motivo, il ricorrente censura, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), l'inosservanza e l'erronea applicazione della legge penale in relazione al D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 24 - ter, 69, 39, 40, 41, 42, 43, 56 e 59 art. 322 - ter c.p., atteso che l'illecito amministrativo sarebbe prescritto, che in base al D.Lgs. n. 231 del 2001 non potrebbe configurarsi alcuna responsabilità amministrativa dell'ente nel caso di reato associativo finalizzato alla commissione di reati tributari.

4. Con successivo motivo aggiunto, la difesa di A. ha dedotto la nullità della sentenza ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), in relazione all'art. 322 - ter c.p. e art. 321 c.p.p., avendo la Corte di appello respinto la richiesta di revoca della confisca per equivalente dei beni mobili e immobili nonchè dei valori mobiliari e delle quote societarie oggetto di sequestro preventivo, sul presupposto che, vigendo il principio di solidarietà dei correi fosse legittima la confisca per equivalente del profitto sull'ammontare complessivo del danno tributario al netto delle somme nel frattempo riscosse dall'Agenzia delle Entrate sul patrimonio di A. oltre che su quello del coimputato V..

Invero, dalla documentazione depositata davanti al Tribunale sarebbe emerso che con polizze fideiussorie, da lui garantite personalmente fino a 15 milioni di euro, l'Erario avesse già riscosso la cifra di 9.282.240,51 di Euro, apprestandosi a riscuotere il restante ammontare della fideiussione per circa 15 milioni di euro complessivi, di talchè doveva ritenersi l'evidente sproporzione tra il valore dei beni attinti dalla confisca rispetto al profitto illecito asseritamente attribuito ad A.. Erroneamente la Corte territoriale avrebbe ritenuto che A. fosse soggetto al principio di solidarietà relativamente al profitto conseguito da altri soggetti coimputati per diversi fatti di reato, risultando inconsistente l'ipotesi delittuosa di cui all'art. 416 c.p. e perciò della possibile solidarietà tra correi. Ed invero il profitto illecito attribuito al ricorrente sarebbe risultato essere pari a 11.341.277,00 euro, come indicato dalla stessa sentenza impugnata e A. avrebbe già corrisposto 9.282.240,51 Euro; circostanza che la Corte territoriale avrebbe, però, omesso di considerare, senza effettuare alcuna comparazione tra il valore dei beni assoggettati alla misura ablativa e quello ancora dovuto all'Erario, pur risultando facilmente riscontrabile dagli atti del processo la sproporzione tra il valore dei beni in sequestro e la somma capitale di imposta evasa ancora dovuta. Per consolidata giurisprudenza la Corte territoriale avrebbe dovuto motivare circa la sproporzione tra beni in sequestro e il profitto dei reati non ancora soddisfatti, ma la Corte si sarebbe sottratta a tale incombente non avendo formulato alcuna valutazione circa il valore dei beni a suo tempo sequestrati ad A. rispetto al danno erariale da risarcire, pur risultando chiaramente la necessità di effettuare tale verifica.

5. In data 26/09/2017, la difesa di (*) S.p.A. ha depositato motivi nuovi, con i quali ha dedotto la prescrizione dell'illecito amministrativo, atteso che il sistema di contestazione del medesimo, così come il regime prescrizionale, sarebbero quelli del diritto civile; sicchè la contestazione avrebbe dovuto essere portata a conoscenza del dott. Mo., liquidatore della società e non del curatore fallimentare della società fallita. Nè avrebbe rilevanza il fatto che il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 43, comma 2, consideri valida la notifica e la conoscenza dell'incolpazione al legale rappresentante della società ancorchè imputato e quindi incompatibile, considerato che, nella specie, il legale rappresentante sarebbe stato il citato dott. Mo..

Pertanto e conclusivamente, considerato che la contestazione del reato è stata compiuta fino al 2011 e che quella dell'illecito amministrativo non sarebbe stata ritualmente svolta, quest'ultimo sarebbe ormai prescritto. In ogni caso, la conoscenza fattuale del procedimento da parte del ricorrente, sarebbe comunque successiva al decorso del termine prescrizionale, considerato che la contestazione del reato associativo, riferita a tutto l'anno 2011, sarebbe stata in realtà eccedente rispetto ai fatti, essendo i reati-scopo pacificamente antecedenti.

Motivi della decisione

1. I ricorsi proposti da A.M. e da V.A. sono fondati solo parzialmente e, pertanto, devono essere accolti per quanto di ragione.

2. Partendo dall'analisi dei motivi di impugnazione proposti nell'interesse di A., deve innanzitutto rilevarsi la manifesta infondatezza del sesto motivo, con il quale il ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata, il cui dispositivo recherebbe non la data della sua lettura pubblica, ovvero il 14/07/2016, quanto piuttosto quella, ad essa anteriore, del 12/07/2016; ciò che dimostrerebbe il fatto che la deliberazione sia avvenuta prima dell'udienza destinata a eventuali repliche e della formale chiusura del dibattimento.

La tesi difensiva, infatti, prova troppo, non potendo assumersi dagli elementi appena riportati un indice univoco della avvenuta deliberazione della decisione prima della formale chiusura dell'istruttoria dibattimentale. Molto più probabile, infatti, è che vi sia stato un mero errore materiale nella indicazione della data in questione. E la circostanza che non vi sia stata, quantomeno fino alla data del ricorso, l'attivazione della relativa procedura ex art. 130 c.p.p. non è parimenti significativa, attesa la mancanza di un termine, sia pure ordinatorio, entro il quale provvedervi.

2.1. Muovendo, quindi, nella disamina delle ulteriori doglianze è necessario delibare, secondo l'ordine logico delle questioni dedotte, il secondo motivo, con il quale la difesa di A. censura la violazione dell'art. 6 CEDU, art. 533 c.p.p., e art. 603 c.p.p., comma 3. La Corte territoriale avrebbe riformato la sentenza assolutoria di primo grado in ordine al reato associativo affermando la penale responsabilità eminentemente sulla base di una diversa valutazione di attendibilità delle dichiarazioni di Sc.Da., P.A. e S.M., senza procedere a nuova escussione degli stessi e, dunque, in violazione dell'orientamento giurisprudenziale, secondo cui il giudice di appello non può pervenire a condanna in riforma della sentenza assolutoria di primo grado basandosi esclusivamente, o comunque in modo determinante, su una diversa valutazione delle fonti dichiarative delle quali non abbia proceduto anche d'ufficio a una rinnovata assunzione.

Il motivo è fondato.

2.1.1. Secondo l'opinione autorevolmente affermata dalle Sezioni Unite di questa Corte, la previsione contenuta nell'art. 6, par. 3, lett. D) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, relativa al diritto dell'imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico, come definito dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU - che pur non traducendosi in norma direttamente applicabile nell'ordinamento nazionale, costituisce parametro interpretativo al quale il giudice nazionale è tenuto a ispirarsi nell'applicazione delle norme interne - implica che il giudice di appello, investito della impugnazione del pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, anche se emessa all'esito del giudizio abbreviato, con cui si adduca una erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell'imputato, senza avere proceduto, anche d'ufficio, ai sensi dell'art. 603 c.p.p., comma 3, a rinnovare l'istruzione dibattimentale attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, dep. 6/07/2016, Dasgupta, Rv. 267487).

A tal fine, inoltre, costituiscono prove decisive quelle che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato, o anche soltanto contribuito a determinare, l'assoluzione e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte dal complesso materiale probatorio, si rivelano potenzialmente idonee ad incidere sull'esito del giudizio, nonchè quelle che, pur ritenute dal primo giudice di scarso o nullo valore, siano, invece, nella prospettiva dell'appellante, rilevanti - da sole o insieme ad altri elementi di prova - ai fini dell'esito della condanna (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, dep. 6/07/2016, Dasgupta, Rv. 267491).

Peraltro, la necessità per il giudice dell'appello di procedere, anche d'ufficio, alla rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una dichiarazione ritenuta decisiva, non consente distinzioni a seconda della qualità soggettiva del dichiarante e vale: a) per il testimone "puro"; b) per quello c.d. assistito; c) per il coimputato in procedimento connesso; d) per il coimputato nello stesso procedimento (fermo restando che, in questi ultimi due casi, l'eventuale rifiuto di sottoporsi all'esame non potrà comportare conseguenze pregiudizievoli per l'imputato); e) per il soggetto "vulnerabile" (salva la valutazione del giudice sulla indefettibile necessità di sottoporre il soggetto debole, sia pure con le dovute cautele, ad un ulteriore stress); f) per l'imputato che abbia reso dichiarazioni "in causa propria", dal cui rifiuto non potrebbe, tuttavia, conseguire alcuna preclusione all'accoglimento della impugnazione (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, dep. 6/07/2016, Dasgupta, Rv. 267488).

Consegue alle considerazioni che precedono, che deve ritenersi affetta da vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per mancato rispetto del canone di giudizio "al di là di ogni ragionevole dubbio" di cui all'art. 533 c.p.p., comma 1, la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell'imputato, in riforma di una sentenza assolutoria, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, delle quali non sia stata disposta la rinnovazione a norma dell'art. 603 c.p.p., comma 3. Pertanto, al di fuori dei casi di inammissibilità del ricorso, qualora il ricorrente abbia impugnato la sentenza di appello censurando la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, pur senza fare specifico riferimento al principio contenuto nell'art. 6, par. 3, lett. D), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, la Corte di cassazione deve annullare con rinvio la sentenza impugnata (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, dep. 6/07/2016, Dasgupta, Rv. 267492).

2.1.2. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha riformato la sentenza assolutoria di primo grado, relativamente al reato associativo, affermando la penale responsabilità dell'imputato sulla base di una diversa valutazione di attendibilità delle dichiarazioni dei testi assistiti Sc.Da., P.A. e S.M., le quali sono state utilizzate quale elemento probatorio "decisivo", nella accezione richiamata dalle Sezioni unite, quale elemento di riscontro al fine di attribuire ad A. sia l'ordine di costituzione delle cartiere utilizzate per intestare formalmente la manodopera, onde compensare i contributi previdenziali con il credito Iva, sia l'ordine di costituzione della società PFS - il cd. secondo livello dell'associazione - al fine di farne uno schermo tra la (*) e le società cartiere in relazione all'impiego della manodopera nei cantieri edili.

Infatti, la sentenza di primo grado, nel giungere alla pronuncia assolutoria, aveva ritenuto che la fattispecie associativa contestata al capo A) dovesse "cedere il passo a una più verosimile (e di fatto dimostrata) situazione di compravendita di servizi (illeciti) da parte delle società di terzo livello" (ovvero le cartiere) "verso una società (la (*) S.p.A. di A.) in progressivo e profondo affanno, destinata ad essere travolta dal meccanismo stesso che le società cartiere avevano offerto come il sistema per la risoluzione delle problematiche di liquidità" (v. p. 108 della sentenza di primo grado).

Centrale, nella ricostruzione accolta dal tribunale, era stata la circostanza che, come già evidenziato, P., Sc. e S., sentiti in sede dibattimentale come testimoni "assistiti" ex art. 197-bis c.p.p., avessero riferito, diversamente da quanto dagli stessi riportato in sede di interrogatorio reso quando si trovavano in custodia cautelare, circa "l'assenza di qualsivoglia ordine proveniente dall'alto e cioè da A., il quale aveva certo illustrato", a costoro, "per sommi capi, il meccanismo dei subappalti ma non aveva certo imposto alcuna condotta", circa assunzioni o dismissioni degli operai nonchè circa quello di costituzione di società cartiere, limitandosi, nel caso del teste S., a illustrare, nel corso di un abboccamento, come risparmiare sui dipendenti (v. p. 107 della sentenza del tribunale).

Viceversa, la sentenza di appello ha ritenuto che fosse stata dimostrata la sussistenza del reato associativo, realizzato allo scopo di far conseguire un vantaggio economico della società (*) amministrata da A.. In particolare, secondo la Corte territoriale era stata raggiunta la prova del fatto che l'imputato avesse creato a tavolino" un meccanismo, costituito su tre livelli societari, attraverso il quale, da un lato, creare un ingente credito Iva a favore di (*) mediante l'uso di false fatture di acquisto emesse dapprima dalle società cartiere a beneficio della stessa (*) e, quindi, con l'emissione di altre fatture, anch'esse per operazioni inesistenti, nella direzione opposta (da (*) a beneficio delle società cartiere); e, dall'altro lato, consentire l'utilizzazione dei crediti fittizi relativi all'Iva da portare in detrazione in compensazione delle somme dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali per i lavoratori dipendenti, fittiziamente operanti a favore di (*) ma assunti formalmente dalle stesse cartiere, al fine di abbattere il costo della manodopera. E in questo contesto la costituzione della società P.F.S. era stata funzionale alla creazione di un diaframma tra (*) e le cartiere, onde dissimulare l'esistenza dei rapporti illeciti tra di esse.

Centrale nel ragionamento probatorio compiuto dalla Corte territoriale è stato, ancora una volta, il contributo dichiarativo di alcuni coimputati, utilizzato per corroborare il contenuto di talune intercettazioni telefoniche; contributo che però è stato valutato in maniera del tutto opposta rispetto al giudizio espresso dal tribunale.

In particolare, è stato sottolineato come la creazione della società P.F.S. da parte di A., per il tramite dei suoi conoscenti, S. e P., fosse proprio finalizzata ad abbattere il costo della manodopera; e tale giudizio è stato fondato sulle dichiarazioni rese da Sc. e S., i quali avevano significativamente sottolineato come lo stesso A. li avesse aiutati nell'avviamento dell'impresa, offrendo garanzie per l'ottenimento del leasing volto ad acquistare il capannone e i relativi appoggi bancari. E nello stesso tempo sono state le dichiarazioni di S. a indurre la Corte territoriale a ritenere che A., perseguendo una strategia unitaria, avesse organizzato l'incontro presso gli uffici di (*) tra lo stesso S. e P., da un lato, e G., Sc. e Ve., dall'altro lato.

Quanto poi al ruolo apicale di A., esso è stato fondato anche sulle dichiarazioni di Sc., secondo il quale le cartiere e la P.F.S. lavoravano per (*), tanto è vero che i relativi importi venivano decisi proprio da A..

Tale operazione di ricostruzione fattuale è stata, nondimeno, compiuta senza procedere a nuova escussione degli stessi dichiaranti e, dunque, in violazione della richiamata cornice di principio, onde si rende necessario procedere, in relazione al delitto previsto al capo A) della rubrica, ad una nuova valutazione del materiale probatorio con riferimento alla posizione di A.M., sul punto annullando, con rinvio, la sentenza di secondo grado.

2.1.3. Le considerazioni che precedono impongono di addivenire ad analoga soluzione con riferimento al delitto previsto dall'art. 10-quater del D.Lgs. n. 74 del 2000, contestato al capo D). Anche in questo caso, infatti, l'affermazione di responsabilità dell'imputato in relazione alla compensazione attuata dalle società cartiere tra i crediti Iva e gli importi dovuti a titolo di ritenute previdenziali è stata fondata su una diversa valutazione, da parte dei giudici di merito, di prove dichiarative decisive.

Il tribunale, invero, aveva ritenuto che il credito di imposta delle società cartiere fosse "preesistente all'affacciarsi di A. nel complessivo impianto delittuoso, come affermato in particolar modo da Sc.", il quale aveva riferito "di essersi offerto egli stesso all' A. come risolutore delle sue problematiche affermando di poterlo fare essendo a credito Iva" (v. p. 95 della sentenza del tribunale).

Come anticipato, la Corte di appello è, invece, pervenuta ad affermare il ruolo determinante svolto da A. nell'intero sistema fraudolento, costruito proprio in funzione delle esigenze di (*). Nondimeno, per giungere a tale approdo conclusivo i giudici di appello hanno dovuto, ancora una volta, attribuire un ruolo determinante alle dichiarazioni, come quelle di Sc. e S., che hanno ricondotto in capo ad A. l'iniziativa relativa alla creazione di P.F.S. Costruzioni S.r.l. quale schermo tra la (*) e le società cartiere.

Ne consegue che, anche con riferimento al capo D), si impone l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata, onde consentire alla Corte di appello una nuova valutazione del materiale probatorio alla luce della più sopra richiamata cornice di principio.

2.1.4. A diversa conclusione deve, invece, pervenirsi con riferimento al quarto motivo di impugnazione, con il quale il ricorrente censura la configurabilità del delitto previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8, e contestato al capo C) dell'imputazione. Secondo la tesi difensiva, non essendo stata dimostrata l'effettiva emissione delle fatture in reverse charge da parte della (*) S.p.A., nè l'effettiva utilizzazione delle stesse, da parte delle società "cartiere", al fine di evadere le imposte sui redditi, il delitto non avrebbe potuto essere integrato, tanto più che la sentenza non avrebbe vagliato le giustificazioni addotte da A. in ordine al fatto che le fatture sarebbero state emesse unicamente per consentire la successiva emissione delle ricevute bancarie da scontare presso gli istituti di credito.

Osserva, nondimeno, il Collegio che la sentenza impugnata ha condivisibilmente richiamato i principi posti dalle Sezioni unite di questa Corte in relazione al carattere di reato di pericolo proprio del delitto in esame (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 19/01/2011, Giordano ed altri, Rv. 248869); circostanza che rende irrilevante, ai fini della integrazione della fattispecie, l'effettiva utilizzazione delle fatture false, peraltro indimostrabile proprio a cagione della condotta di occultamento della contabilità, mai rinvenuta. Quanto alle ulteriori censure, i giudici di appello hanno, per un verso, evidenziato come la circostanza che le fatture fossero state emesse in regime di inversione contabile dovesse ritenersi non contestata, essendo stato calcolato l'importo della frode fiscale al netto dell'IVA; e, per altro verso, che la finalità di evasione fiscale potesse trarsi, secondo una massima di comune esperienza, dalla considerazione del complessivo meccanismo fraudolento realizzato, chiaramente orientato a consentire un risparmio di imposta, in sè non incompatibile con l'ottenimento di nuove linee di credito.

A fronte di tali puntuali argomentazioni, la difesa del ricorrente si è limitata ad una pedissequa riproposizione delle medesime questioni già esaustivamente affrontate dalla sentenza impugnata, incorrendo, conseguentemente, nel difetto di specificità dei motivi di impugnazione.

2.1.5. Il quinto motivo di doglianza, con il quale la difesa di A. ha denunciato la mancata esplicazione del criterio seguito ai fini dell'aumento per la continuazione disposto, una volta determinata la pena base per il più grave delitto di cui al capo A), con riguardo ai delitti contestati ai capi B), C) e D), deve ritenersi assorbito a seguito dell'accoglimento del secondo e del terzo motivo di doglianza.

3. Venendo, quindi, all'esame delle doglianze articolate dalla difesa di V., occorre muovere dal primo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente ha dedotto la violazione di legge ed il vizio della motivazione in relazione all'esistenza dell'associazione per delinquere e alla partecipazione di V. al sodalizio criminoso.

Osserva, in proposito, il Collegio che anche in questo caso debbono ribadirsi le considerazioni precedentemente svolte in merito alla mancata osservanza dell'onere, incombente sul giudice di appello, di procedere, in caso di totale riforma di una sentenza assolutoria, alla nuova audizione di coloro i quali, in primo grado, avevano reso dichiarazioni decisive e diversamente valutate da parte del giudice di prime cure. Dovendo procedersi, infatti, ad un nuovo giudizio in ordine all'esistenza stessa del sodalizio per quanto concerne la posizione di A., non può che addivenirsi alla medesima soluzione anche per quanto riguarda V., presupponendo l'accertamento del loro ruolo personale la verifica, preliminare, dell'esistenza dell'associazione per delinquere.

3.2. Manifestamente infondato è, invece, il secondo motivo di impugnazione, con il quale la difesa di V. deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-quater, contestato al capo D) della rubrica.

Sotto un primo profilo, in maniera niente affatto illogica la sentenza ha tratto argomento per sostenere la piena consapevolezza, da parte dell'imputato, dell'attività illecita, dal fatto che V. avesse solidi e rapporti con i gestori di fatto delle cartiere (ovvero Sc., G. e Ve., la cd. triade) e come, in presenza di palesi indici di anomalia delle società del secondo e del terzo livello (connesse all'ingentissimo importo di fatture relative all'acquisto di beni non corrispondenti ad alcun pagamento, attesa ("indisponibilità finanziaria della società, appena costituita), egli certamente non potesse che avvedersi, alla luce della sua conclamata competenza professionale, della loro "operatività solo fittizia"; tanto più ove si consideri che egli era il commercialista dell'intera galassia delle cartiere ruotanti intorno a (*), come tale dotato di una conoscenza d'insieme delle loro dinamiche.

Quanto, poi, alla mancata risposta, da parte della sentenza di secondo grado, in ordine ad alcune doglianze formulate nell'atto di appello, giova osservare, quanto alla mancata indicazione, al capo D) dell'imputazione, delle fatture relative alle operazioni inesistenti, nè delle società che le avevano emesse, che in ogni caso l'indicazione cumulativa, riportata nella rubrica, dei debiti verso l'erario, degli importi versati e di quelli compensati, nonchè delle società cui questi erano riferibili in relazione alle singole annualità, consentiva certamente di definire l'oggetto della contestazione e, correlativamente, di esercitare pienamente, da parte dell'imputato, i propri diritti di difesa.

Manifestamente infondata è, poi, la doglianza con la quale il ricorrente opina che le operazioni contestate al capo C) non avrebbero potuto essere utilizzate in compensazione in quanto esenti da Iva. Anche in tal caso la sentenza impugnata ha esaustivamente spiegato (v. pag. 26), come l'assoggettamento delle fatture al regime cd. di reverse charge non comportasse, in termini assoluti, una sottrazione al regime impositivo dell'operazione fatturata, quanto una diversa allocazione degli oneri da adempiere, dal soggetto erogante la prestazione (attestata dalla fattura) alla società destinataria della stessa; e come fosse proprio quest'ultima ad operare la relativa compensazione illecita.

3.3. Il terzo motivo, con il quale il ricorrente deduce il vizio di motivazione in relazione all'affermazione di responsabilità di V. per il delitto di distruzione o occultamento delle scritture contabili, è, del pari, manifestamente infondato.

L'impugnazione, infatti, lamenta che la Corte territoriale non abbia adeguatamente valorizzato alcuni elementi di fatto provati nel corso del dibattimento, che secondo la tesi difensiva dimostrerebbero l'assenza di dolo in capo all'odierno imputato: dal deposito della quietanza relativa alla consegna a Pr., da parte di V., dei documenti contabili, al fatto che la B. non fosse operativa a causa del recente trasferimento della sede e che la posta veniva ritirata non da V. ma dalle sue impiegate, su richiesta di quelle della B.; fino al fatto che le intercettazioni tra F. e G. avrebbero dimostrato che V. fosse convinto dell'avvenuto allagamento dei locali in cui era custodita la documentazione contabile.

Osserva, tuttavia, il Collegio che la Corte territoriale ha fornito una giustificazione del proprio convincimento del tutto adeguata sul piano della stretta aderenza alle emergenze istruttorie e della lettura logica del dato probatorio, costituito dal contenuto delle intercettazioni delle conversazioni occorse tra alcuni dei sodali, evidenziando: la mancata dichiarazione da parte di Pr.Sa., in occasione del controllo effettuato il 6/10/2010 dalla Guardia di finanza, di avere ricevuto la documentazione contabile da V., circostanza successivamente dedotta una volta che i sodali avevano concordato, telefonicamente, tale versione; ed ancora la significativa mancanza di una tempestiva denuncia dell'allagamento dei locali, da cui sarebbe derivata la distruzione dei documenti contabili.

A fronte di tale ricostruzione, le censure svolte dalla difesa di V. con il presente motivo di impugnazione, nondimeno, sono chiaramente finalizzate ad offrire una versione alternativa a quella accolta dai giudici di appello; operazione pacificamente preclusa in sede di legittimità, ove il controllo del giudice è circoscritto alla congruenza sul piano logico del tessuto argomentativo che regge la decisione.

3.4. Manifestamente infondato è, ancora, il quarto motivo di doglianza, concernente l'episodio corruttivo contestato al capo K).

La Corte territoriale ha, infatti, puntualmente richiamato (v. pag. 37 e ss.) i plurimi elementi acquisiti in istruttoria che, secondo la interpretazione offerta, frutto di corretta ermeneutica sul piano logico, fondano la responsabilità di V. in relazione al predetto episodio.

In particolare, i giudici di appello hanno osservato come sia stato proprio l'imputato ad adoperarsi fattivamente, peraltro conseguendo il relativo risultato, in vista della posticipazione dell'ispezione a carico della Prisma Costruzioni S.r.l. da parte di Ga.Ni., ispettore della Cassa edile, costituente il frutto dell'accordo corruttivo. Ed ancora come sia stato sempre V. a rappresentare a Ve. la necessità di incontrare l'ispettore; e come sia l'incontro che il pagamento del corrispettivo dell'accordo corruttivo siano avvenuti nello studio professionale dell'imputato. Inoltre, la Corte ha fornito una spiegazione, non manifestamente illogica, come tale riferibile ad un non censurabile apprezzamento di merito, in relazione al contenuto della intercettazione tra Ve. e Sc., con la quale il primo aveva detto "di non essersi fatto vedere da nessuno", sottolineando come il riserbo tenuto fosse giustificato dalla eventuale presenza di terzi soggetti, oltre a V., al momento della dazione o, in alternativa, dalla necessità di non far conoscere al commercialista l'ammontare preciso del denaro, che i due avrebbero anche potuto volere non fosse portato a conoscenza dell'imputato (v. pag. 38 della sentenza di appello).

In presenza di un percorso ricostruttivo immune da censure di tipo logico, il ricorso si è, dunque, limitato a proporre, ancora una volta, un diverso percorso di ricostruzione del fatto, peraltro attraverso una differente lettura del dato probatorio; operazione che, si ribadisce, è pacificamente preclusa in sede di legittimità.

3.5. Dall'accoglimento del motivo di doglianza relativo al delitto contestato al capo A), al quale consegue l'annullamento con rinvio sul punto, deriva l'assorbimento del quinto motivo, concernente il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche; giudizio che dovrà essere riformulato, in sede di giudizio di rinvio, nell'ambito del nuovo pronunciamento che dovrà essere compiuto anche in relazione al predetto delitto.

3.6. Manifestamente infondato è il sesto motivo di doglianza proposto da V., con il quale egli lamenta, sotto un primo profilo, che la Corte territoriale non abbia risposto alla questione, posta in sede di appello, relativa alla necessità di scomputare alcune somme (quali quella relativa ai crediti oggetto di indebita compensazione di alcune società che V. non aveva assistito professionalmente, nonchè quella detratta dalla E.C. S.r.l., che non sarebbe mai stata cliente dell'imputato).

Osserva, tuttavia, il Collegio che la Corte territoriale ha fatto puntuale riferimento al principio di solidarietà tra i concorrenti al fine di spiegare le ragioni per le quali la confisca per equivalente sia stata correttamente disposta per l'intero ammontare del profitto illecito, senza che, pertanto, possa procedersi ad alcuna decurtazione (v. pag. 53).

Quanto, poi, alla legittimità dell'ablazione di un bene formalmente intestato alla moglie, i giudici bresciani hanno evidenziato, in maniera articolata, l'insieme degli elementi che, a loro giudizio, fondano l'asserita fittizietà della intestazione (v. pag. 54). Pertanto, anche sotto tale profilo deve ritenersi la palese infondatezza della dedotta censura motivazionale.

4. Venendo, infine, all'impugnazione proposta nell'interesse di (*) S.p.A., il ricorrente ha eccepito, sotto un primo profilo, la nullità della richiesta di rinvio a giudizio e, a seguire, degli atti consequenziali: ciò in quanto l'illecito amministrativo non sarebbe mai stato contestato formalmente al dott. M.A., liquidatore e legale rappresentante della (*) S.p.A.. Costui, infatti, pur dopo il fallimento della società, conserverebbe la legittimazione processuale in relazione ai profili cautelari e sanzionatori, atteso che, pur dopo questo momento, la società conserverebbe la sua soggettività; e per tale motivo la contestazione avrebbe dovuto essere portata a conoscenza dello stesso Dott. Mo. e non, come invece avvenuto, del curatore fallimentare della società fallita. Nè avrebbe rilevanza il fatto che il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 43, comma 2 consideri valida la notifica e la conoscenza dell'incolpazione al legale rappresentante della società ancorchè imputato e quindi incompatibile, considerato che, nella specie, il legale rappresentante sarebbe stato il citato dott. Mo..

Nel merito, la difesa opina che, da un lato, in base al D.Lgs. n. 231 del 2001 non potrebbe configurarsi alcuna responsabilità amministrativa dell'ente nel caso di reato associativo finalizzato alla commissione di reati tributari e che, dall'altro lato, in ogni caso, l'illecito, quand'anche esistente, sarebbe ormai prescritto. Ciò in quanto il sistema di contestazione del medesimo, così come il regime prescrizionale, sarebbero quelli del diritto civile e considerato che la contestazione del reato è stata compiuta fino al 2011, laddove i reati-scopo sarebbero stati pacificamente antecedenti, che quella dell'illecito amministrativo non sarebbe stata ritualmente svolta e che, in ogni caso, la conoscenza fattuale del procedimento da parte del ricorrente, sarebbe comunque successiva al decorso del termine prescrizionale.

4.1. Preliminare all'analisi delle questioni poste con i due motivi del ricorso introduttivo e con l'ulteriore deduzione in sede di motivi aggiunti, è, invero, la questione della legittimazione alla proposizione dell'odierna impugnazione da parte del dott. M.A., liquidatore della (*) S.p.A.

Sul punto, va premesso, in fatto, che la contestazione di cui al capo R) concerne l'illecito amministrativo ascritto alla predetta società in relazione al delitto di associazione per delinquere commesso dal suo legale rappresentante, A.M., nell'interesse o comunque a vantaggio della società, senza avere previamente adottato modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire delitti della specie di quello contestato al predetto capo; e che l'imputazione indica la commissione del medesimo illecito fino all'anno 2011.

Successivamente, in data 12/11/2012, il Tribunale di Brescia aveva dichiarato il fallimento della (*) S.p.A., nominando come curatore il dott. F.

Ciò nonostante, il sequestro preventivo, disposto dal Giudice per le indagini preliminari di Brescia il 27/06/2013, era stato eseguito sui beni della stessa (*) S.p.A.; e, per tale motivo, questa Sezione della Suprema Corte, con sentenza n. 31457 del 31/03/2016, aveva dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal curatore fallimentare in nome e per conto del fallimento della società in questione, ravvisando in capo a tale organo un difetto di legittimazione, connessa al fatto che il curatore, in quanto "soggetto terzo" rispetto al procedimento cautelare, non sarebbe titolare di diritti sui beni in sequestro, nè potrebbe agire in rappresentanza dei creditori, non essendo anche questi ultimi, prima dell'assegnazione dei beni e della conclusione della procedura concorsuale, titolari di alcun diritto sugli stessi.

Nondimeno, gli atti del presente processo, a partire dall'avviso di conclusione delle indagini ex art. 415 - bis c.p.p., e dalla successiva richiesta di rinvio a giudizio (del 30/07/2013), erano stati notificati all'avv. B., in qualità di difensore del fallimento e successivamente all'avv. F., difensore di ufficio, sempre per conto della società fallita e del curatore fallimentare, dott. Pr., senza che alcun atto processuale fosse stato notificato al liquidatore della (*) S.p.A.

Coerentemente con tale impostazione, con sentenza del 14/07/2016 la Corte di appello di Brescia ha condannato la (*) S.p.A. in persona del suo curatore fallimentare.

Dunque, nonostante che nella procedura cautelare sia stato configurato un deficit di legittimazione del fallimento alla proposizione del ricorso avverso il sequestro preventivo, nel procedimento principale di merito tutti gli avvisi e, corrispondentemente, la condanna è stata pronunciata nei confronti del fallimento.

Ora, la difesa del dott. Mo., legale rappresentante della (*) S.p.A. fino al suo fallimento, opina che, non realizzando il fallimento della società una estinzione della stessa ed anzi mantenendo essa, pur dopo il fallimento, la sua soggettività, il suo legale rappresentante conserverebbe la legittimazione processuale nell'ambito sia del procedimento cautelare che di quello di merito, secondo quanto stabilito dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 39.

4.2. Tanto premesso, deve osservarsi che in tema di responsabilità da reato degli enti, il fallimento della persona giuridica non determina l'estinzione dell'illecito amministrativo previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2001 (Sez. U, n. 11170 del 25/09/2014, dep. 17/03/2015, Uniland Spa e altro, Rv. 263682). Ciò in quanto l'instaurazione della procedura concorsuale non integra una situazione assimilabile a quella della morte dell'autore del reato (Sez. 5, n. 4335 del 16/11/2012, dep. 29/01/2013, Franza e altro, Rv. 254326; Sez. 5, n. 44824 del 26/09/2012, dep. 15/11/2012, P.M. in proc. Magiste International S.A., Rv. 253482). Il fallimento, infatti, non determina alcun mutamento soggettivo della società, la quale viene sottoposta semplicemente a una procedura di gestione della crisi ad opera di un pubblico ufficiale (il curatore) e sotto il controllo dell'autorità giudiziaria. L'estinzione dell'ente, del resto, che non si produce, automaticamente, nemmeno alla chiusura della procedura concorsuale, essendo necessario un atto formale di cancellazione della società da parte del curatore (Sez. 5, n. 47171 del 2/10/2009, dep. 11/12/2009, Vannuzzo). Fino a quel momento, dunque, la società rimane in vita, mantenendo funzioni limitate ed ausiliarie e potendo comunque ritornare in bonis, con conseguente riespansione dei poteri gestionali ed amministrativi degli organi sociali (Sez. 5, n. 44824 del 26/09/2012, dep. 15/11/2012, P.M. in proc. Magiste International S.A., in motivazione).

In questa prospettiva, la sentenza che dichiara il fallimento priva la società fallita dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti a quella data, assoggettandoli alla procedura esecutiva concorsuale finalizzata al soddisfacimento dei creditori; fermo restando che tale effetto di spossessamento non si traduce in una perdita della proprietà, in quanto la società resta titolare dei beni fino al momento della vendita fallimentare (Sez. U, n. 29951 del 24/05/2004, dep. 9/07/2004, C. fall. in proc. Focarelli, Rv. 228164).

Ne consegue che, durante il fallimento, la società continua ad essere soggetto passivo della sanzione pecuniaria, di cui risponde con il suo patrimonio ai sensi del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 27; e la sanzione irrogata nel corso del fallimento potrà legittimare la pretesa creditoria dello Stato al recupero dell'importo di natura economica mediante la insinuazione al passivo.

Per tali ragioni, dunque, il legislatore delegato non prevede il fallimento tra le vicende modificative disciplinate dalla sezione 2^ del Capo 2 del D.Lgs. n. 231, atteso che il fallimento non comporta una modifica soggettiva dell'ente e non è assimilabile in alcun modo alle fattispecie colà contemplate. Ma vi è anche una ragione di politica criminale, connessa alla finalità preventiva e sanzionatoria perseguita dal legislatore con la previsione della responsabilità amministrativa; finalità che impone di scoraggiare soluzioni di calcolo preventivo del costo dell'illecito nella valutazione economica delle conseguenze delle condotte da adottare. In questa prospettiva, si comprende anche la ragione per la quale la sanzione continui a gravare sul patrimonio dell'ente anche quando, per l'incapacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, sia stato dichiarato il fallimento di quest'ultimo (per tali considerazioni Sez. 5, n. 4335 del 16/11/2012, dep. 29/01/2013, Franza e altro, in motivazione).

4.3. Poste queste premesse, deve ulteriormente osservarsi che, in linea generale, il curatore cumula la legittimazione ad agire che gli deriva dalla gestione patrimoniale degli affari del fallito e la legittimazione ad agire che gli deriva dalla rappresentanza degli interessi patrimoniali dei creditori che, ai sensi della L.Fall., art. 51, non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali, ma devono sottoporre la loro pretesa all'accertamento degli organi fallimentari secondo le regole proprie del concorso. In questa prospettiva, come recentemente osservato da questa Sezione della Suprema Corte (Sez. 3, n. 37439 del 7/03/2017, dep. 22/07/2017, Cosentino, non massimata), il curatore è un soggetto che a) ai sensi della L.Fall., art. 31, ha l'amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell'ambito delle funzioni ad esso attribuite, stando in giudizio con l'autorizzazione del giudice delegato, salvo che in alcuni casi specificati dalla legge; b) ai sensi della L.Fall., art. 42, a seguito della sentenza che dichiara il fallimento, ha l'amministrazione e la disponibilità dei beni del fallito esistenti alla data della dichiarazione di fallimento, a meno che il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, non abbia rinunciato alla relativa acquisizione; c) ai sensi della L.Fall., art. 43, sta in giudizio nelle controversie, anche in corso, relative ai rapporti patrimoniali del fallito, il quale può intervenire in giudizio personalmente solo per le questioni dalle quali può dipendere un'imputazione di bancarotta a suo carico o se l'intervento è previsto dalla legge (o, va aggiunto, se il curatore ha mostrato disinteresse rispetto a quella lite, per esempio l'impugnativa di un avviso di accertamento tributario o di una cartella esattoriale); d) ai sensi della L. Fall., art. 240, può costituirsi parte civile nel procedimento per bancarotta fraudolenta a carico del fallito con la puntualizzazione che, laddove abbia manifestato il relativo disinteresse, alla costituzione possono provvedere i creditori in proprio, i quali hanno sempre e comunque una legittimazione autonoma allorquando intendano far valere un titolo di azione propria personale.

Ora, se per un verso non può affermarsi che, dopo l'apertura del fallimento, il legale rappresentante del fallimento sia sempre il curatore, atteso che, sia pure in limitati casi, coesiste con quella del curatore la legale rappresentanza del soggetto originariamente investito dei relativi poteri (ad es. per presentare istanza di concordato fallimentare o per impugnare le cartelle esattoriali che il curatore non abbia impugnato o per liquidare beni che il curatore abbia abbandonato etc.), con riferimento all'illecito amministrativo della società deve nondimeno riconoscersi la legittimazione processuale della curatela fallimentare, potendo configurarsi, in conseguenza dell'applicazione della relativa sanzione, il sorgere di un credito privilegiato dell'Erario nei confronti del fallimento, rispetto al quale deve configurarsi la legittimazione in capo all'organo istituzionalmente preposto alla ricostruzione e alla tutela del patrimonio fallimentare.

Consegue alle considerazioni che precedono, l'inammissibilità dell'impugnazione proposta dal dott. M.A. nell'interesse della (*) S.p.A.. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., in capo al liquidatore dott. M.A., l'onere delle spese del procedimento nonchè quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 2.000,00 Euro.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata: nei confronti di A.M., limitatamente ai reati di cui ai capi A) e D), rigettando nel resto il ricorso; nei confronti di V.A., limitatamente al reato di cui al capo A) e dichiara inammissibile nel resto il ricorso. Dichiara inammissibile il ricorso di (*) S.p.A. in persona del liquidatore dott. M.A. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di Euro 2.000,00 (duemila) in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 11 ottobre 2017.

Depositato in Cancelleria il 9 aprile 2018