Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 1967 - pubb. 30/01/2007

.

Cassazione civile, sez. I, 11 Giugno 2004, n. 11079. Est. Di Amato.


Fallimento ed altre procedure concorsuali - Fallimento - Società e Consorzi - Società con soci a responsabilità illimitata - In genere - Società di fatto - Socio occulto - Estensione del fallimento - Iniziativa officiosa del tribunale - Necessità di una sollecitazione qualificata - Esclusione - Fattispecie.



Nel procedimento di estensione del fallimento previsto dall'art. 147 legge fall., il tribunale esercita poteri officiosi rispetto ai quali l'istanza di estensione presentata da un creditore (Corte Cost. 16 luglio 1970, n. 142) o dal curatore o dallo stesso fallito (Corte Cost. 28 maggio 1975, n. 127) non è niente più che una sollecitazione ad attuare la regola della responsabilità illimitata dei soci nei fallimenti delle società a cui si riferisce il predetto art. 147, onde il tribunale può procedere anche in mancanza di una sollecitazione qualificata; ne' pertinente, si rivela, al riguardo, la disposizione di cui all'art. 8 legge fall., la cui disciplina dell'iniziativa d'ufficio - estesa, comunque, a tutte le ipotesi in cui il tribunale competente, nell'esercizio della sua ordinaria attività, acquisisca la conoscenza dell'insolvenza di un imprenditore ovvero gli indicati presupposti gli risultino dal rapporto di un altro giudice per situazioni emerse in un altro procedimento giurisdizionale - non esclude certamente la stessa quando i poteri officiosi del tribunale sono, come nell'ipotesi in esame, espressamente previsti. (Nella fattispecie la S.C. ha respinto il motivo di ricorso con cui si lamentava che il tribunale avesse dichiarato il fallimento del socio occulto su sollecitazione fatta per conto di un creditore, nel corso dell'adunanza di verificazione dei crediti, da un soggetto privo di valida procura). (fonte CED – Corte di Cassazione)


Massimario, art. 8 l. fall.

Massimario, art. 147 l. fall.


omissis

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

G. D. proponeva opposizione avverso la sentenza, resa il 7 febbraio 1994, con la quale il Tribunale di Catania aveva dichiarato il suo fallimento quale socio occulto della s.n.c. E., il cui fallimento, unitamente a quello dei soci palesi, era stato dichiarato dallo stesso Tribunale in data 15 luglio 1993. In particolare, l'opponente deduceva che, nel corso dell'adunanza per la verifica dello stato passivo, il suo fallimento in estensione era stato chiesto per conto di un creditore, la s.r.l. L., da un soggetto che non era munito di valida procura e che, comunque, non aveva mai formalizzato l'istanza; nel merito contestava di essere mai stato socio della s.n.c. E. con la quale aveva soltanto concordato verbalmente una permuta immobiliare avente ad oggetto lo scambio di un terreno di sua proprietà con cinque delle unità immobiliari che la E. avrebbe dovuto realizzare sullo stesso terreno. Il curatore del fallimento, la s.r.l. L. e V. L., altro creditore istante per il fallimento della società, si costituivano contestando la fondatezza dell'opposizione. Il Tribunale di Catania, con sentenza del 26 marzo 1998, rigettava l'opposizione. Avverso detta sentenza G. D. proponeva appello che la Corte di Catania rigettava, con sentenza dell'8 febbraio 2001, osservando per quanto qui ancora interessa che: 1) l'art. 147, 2^ co., l. fall., attribuisce espressamente al Tribunale che ha dichiarato il fallimento di una società di persone il potere di dichiarare d'ufficio il fallimento di altri soci illimitatamente responsabili dei quali risulti successivamente l'esistenza; 2) il fallimento del G. D. era stato dichiarato in quanto lo stesso era risultato socio occulto della s.n.c. E.; 3) l'esistenza del vincolo sociale era rimasta provata da indizi gravi, precisi e concordanti, consistenti nel fatto che il G. D. aveva conferito alla E. un terreno di sua esclusiva proprietà affinché la stessa vi costruisse un complesso residenziale; che non vi era altra ragionevole spiegazione, da un lato, del fatto che il G. D. aveva ceduto un terreno a scopo edificatorio senza la pattuizione per iscritto della controprestazione e, dall'altro, del fatto che la s.n.c. E. aveva costruito un complesso edilizio su un terreno altrui, senza neppure la garanzia di un contratto preliminare; 4) indipendentemente dal problema della forma, nella specie non risultava la stipula di un contratto di permuta; 5) altri indizi dell'esistenza del vincolo sociale andavano individuati nel fatto che il G. D. aveva conferito ad un professionista l'incarico di redigere il progetto del complesso edilizio; nel fatto che lo stesso professionista era stato presentato dal G. D. ai soci della s.n.c. E., che gli avevano conferito l'ulteriore incarico di direttore dei lavori; nel fatto che il G. D. aveva continuato ad interessarsi dei lavori, richiedendo alla pubblica amministrazione le autorizzazioni necessaria; nel fatto che la E., pur non avendo alcuna veste giuridica, aveva stipulato i preliminari di vendita degli appartamenti realizzati; 6) in contrario non poteva darsi rilievo alla circostanza che solo al G. D. e non anche ai soci della E. era stata attribuita una porzione del costruendo edificio, considerato che non si trattava di una cooperativa edilizia e che il G. D. non era entrato a fare parte della società E., ma aveva costituito con essa una diversa società di fatto; per la stessa ragione era irrilevante la circostanza, peraltro non provata, che la E. nello stesso periodo avesse avuto in corso altri lavori ai quali il G. D. era rimasto estraneo, 7) infine, la prova per testi, riproposta in appello dal G. D., era in parte generica e in parte verteva su circostanze irrilevanti o su valutazioni.

Avverso detta sentenza O. S. P., quale erede del marito G. D., propone ricorso per Cassazione, deducendo cinque motivi. Il fallimento dalla s.n.c. E. a la s.r.l. L. resistono con distinti controricorsi. Il fallimento della società E. ha presentato memoria. V. L. non ha svolto attività difensiva.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 6, 8, 9 e 147 l. fall., lamentando che erroneamente la Corte di appello aveva ritenuto possibile una dichiarazione di fallimento in estensione in assenza di una sollecitazione qualificata; al contrario, il potere officioso del Tribunale deve ritenersi, secondo la ricorrente, limitato alle sole ipotesi di cui all'art. 8 l. fall., non potendosi spiegare per il fallimento in estensione la soggezione a regole diverse da quelle previste per il fallimento "originario";

una conferma indiretta di tale assunto e offerta, secondo la ricorrente, dal dibattito sulla necessità (altrimenti assorbita dai poteri officiosi del tribunale) che il curatore, nel proporre una istanza di fallimento in estensione si munisca dell'autorizzazione del giudice delegato.

Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione dall'art. 147 l. fall., e dell'art. 345 c.p.c. lamentando che la Corte di merito, a fronte di una censura con cui si prospettava che il Tribunale non aveva chiarito se il G. D. si dovesse considerare socio occulto ovvero socio apparente della s.n.c. E., aveva da un lato affermato che il G. D. era socio effettivo, seppure occulto, della E. e, dall'altro, che il G. D. non era entrato a far parte della sodata E., ma aveva costituito con essa una diversa società di fatto; in tal modo, tuttavia, la Corte aveva introdotto un tana nuovo, mai emerso in primo grado e sicuramente precluso in appello. Nel merito mancava un qualsiasi indizio dell'esistenza della predetta società.

Con il terzo motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 2251, 2293 e 1350 cod. civ., lamentando che la tesi della permuta era stata disattesa pur in presenza di elementi che confermavano l'esistenza di trattative in questo senso e pur in presenza di un frazionamento volto a separare catastalmente la porzione di terreno su cui si dovevano costruire le unità immobiliari attribuite al G. D. dalla porzione su cui si dovevano costruire le altre unità; la Corte territoriale, inoltre, aveva escluso, in quanto al di fuori di ogni logica imprenditoriale, la possibilità che la società E. avesse costruito su un terreno non proprio, dimenticando che la fattispecie è tanto frequente da trovare apposita regolamentazione nel codice civile; infine, la ricorrente lamenta che pur in presenza della stessa regola di forma la sentenza impugnata aveva escluso l'esistenza e/o la validità della permuta, affermando l'esistenza e/o la validità del conferimento dell'immobile in società.

Con il quarto motivo la ricorrente deduce il vizio di motivazione per omessa o insufficiente valutazione di alcuni elementi, quali il previsto frazionamento del terreno, la prevista attribuzione al G. D. di una parte del costruendo complesso edilizio, l'estraneità del G. D. rispetto ad altre attività della E., l'assenza di incassi ed esborsi nei rapporti tra il G. D. e l'E., la prova per testi articolata per dimostrare l'esistenza di trattative per una permuta, i rapporti tra il progettista ed il proprietario del terreno anche nelle ipotesi di permuta, i rapporti tra il G. D. ed i promissari acquirenti. Con il quinto motivo la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 2697, 2721 e 2724 cod. civ. in quanto l'opposizione al fallimento in estensione era stata respinta pur negandosi al G. D. la possibilità di provare per testi che il suo rapporto con l'E. si inquadrava in un progetto di permuta e pur dandosi atto che nulla era dato sapere circa gli effettivi rapporti tra il G. D. e la E..

2.1. Il primo motivo è infondato. Nella giurisprudenza di questa Corte è pacifico - e non potrebbe essere altrimenti, considerato il tenore della norma ("il tribunale, su domanda del curatore o d'ufficio, dichiara il fallimento") - che nel procedimento di estensione del fallimento previsto dall'art. 147 l. fall., il Tribunale esercita poteri officiosi, rispetto ai quali l'istanza di estensione presentata da un creditore (Corte cost. 16 luglio 1970, n. 142) o dal curatore o dallo stesso fallito (Corte cost. 28 maggio 1975, n. 127) non è niente più che una sollecitazione ad attuare la regola della responsabilità illimitata dei soci nei fallimenti delle società a cui si riferisce il predetto art. 147 l. fall.. In questa prospettiva, tra l'altro e contrariamente a quanto assunto dalla ricorrente, la Corte ha escluso la necessità che il curatore sia autorizzato dal giudice delegato per chiedere l'estensione del fallimento al socio illimitatamente responsabile, la cui esistenza risulti dopo il fallimento della società (Cass. 30 gennaio 1995, n. 1106).

Del tutto fuori luogo è, quindi, il richiamo dell'art. 8 l. fall., la cui disciplina dell'iniziativa d'ufficio - estesa, comunque, a tutte le ipotesi in cui il tribunale competente, nell'esercizio della sua ordinaria attività, acquisisca la conoscenza dell'insolvenza di un imprenditore ovvero gli indicati presupposti gli risultino dal rapporto di un altro giudice per situazioni emerse in un altro procedimento giurisdizionale (Cass. 9 marzo 1996, n. 1876) - non esclude certamente la stessa quando i poteri officiosi del tribunale sono espressamente previsti.

2.2. Il secondo motivo è fondato. Il fallimento del G. D. è stato dichiarato, come da atto la sentenza impugnata, in estensione del fallimento della s.n.c. E., sul presupposto che il G. D. ne fosse socio occulto. La Corte di merito, invece, ha escluso tale vincolo sociale, assumendo l'esistenza di una società di fatto tra il G. D. e la stessa E.. Il fallimento del G. D. è stato, pertanto, confermato nel giudizio d'appello sulla base di presupposti totalmente diversi da quelli posti a fondamento della dichiarazione di fallimento e della sentenza che ha deciso in primo grado sulla proposta opposizione.

In proposito, si deve rammentare che questa Corte, sulla base del principio che i poteri d'ufficio di cui è dotato il tribunale fallimentare persistono anche nel giudizio di opposizione, ha escluso la revoca del fallimento quando il tribunale accerta comunque la sussistenza dei relativi presupposti (Cass. 26 ottobre 1981, n. 5579 secondo cui la revoca del fallimento dalla società, in sede di opposizione, non comporta la revoca del fallimento del socio, ove si accerti - anche d'ufficio - che l'impresa erroneamente attribuita alla società risulti essere individuale del socio, il quale rivesta la qualità di imprenditore e versi in stato d'insolvenza). Questa Corte ha anche affermato che l'officiosità del processo non e limitata allo svolgimento del giudizio di primo grado, ma prosegue anche nel successivo grado di appello (Cass. 17 marzo 1997, n. 2323;

Cass. 28 marco 1990, n. 2539); l'officiosità, tuttavia, non implica una deroga ai principi fissati per l'appello dall'art. 342 cod. proc. civ.. Pertanto, mentre in primo grado il giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento, per la sua natura pienamente devolutiva, non resta vincolato dagli eventuali motivi (Cass. 26 aprile 1971, n. 1210), in sede di gravame, avverso la pronuncia del tribunale, il riesame del giudice di secondo grado è consentito nei limiti in cui sia stato chiesto con specifici motivi d'impugnazione (Cass. 3 ottobre 2003, n. 14736; Cass. 9 febbraio 2001, n. 1852; Cass. 24 maggio 2000, n. 6796; Cass. 30 dicembre 1997, n. 13117; Cass. 21 ottobre 1980, n. 5366; Cass. 13 luglio 1979, n. 4075; v. anche Cass. 4 marzo 1978, n. 1091 e Cass. 24 novembre 2000, n. 15187, in relazione a nullità verificatesi nel giudizio camerale). Pertanto, nella materia fallimentare non subisce deroghe il principio secondo cui l'ambito del giudizio di appello, con la conseguente cristallizzazione dal tosata decidendola su cui il giudice di secondo grado è chiamato a pronunciarsi, è determinato dalle questioni effettivamente devolute con gli specifici motivi di impugnazione, oltre quelle rilevabili d'ufficio che delle stesse costituiscono l'antecedente logico ed in ordine alle quali non sia intervenuta pronuncia in prime cure. Da ciò consegue che nella specie il giudice d'appello, investito della questione se il G. D. fosse o meno socio occulto della s.n.c. E., non poteva conoscere della diversa questione relativa all'esistenza di una società di fatto tra la stessa E. ed il G. D..

Dall'accoglimento del secondo motivo deriva l'assorbimento dei successivi motivi, attinenti alla natura ed alla prova del rapporto tra la E. ed il G. D..

La sentenza impugnata deve essere cassata in relaziona al motivo accolto, con rinvio, anche per le spese del giudizio di Cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Catania.

P.Q.M.

rigetta il primo motivo; accoglie il secondo e dichiara assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del giudizio di Cassazione, ad altra sezione della corte di appello di Catania.

Così deciso in Roma, il 23 ottobre 2003.

Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2004


Testo Integrale