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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 19938 - pubb. 13/06/2018.

Il danno per mancato rilascio dell'immobile dopo la diffida non può essere considerato in re ipsa


Cassazione civile, sez. III, 25 Maggio 2018. Est. Chiara Graziosi.

Occupazione senza titolo di bene immobile altrui – Danno per mancato godimento dell’immobile come “danno-conseguenza” e non “in re ipsa” – Onere per il proprietario del bene di allegare e di provare i fatti da cui discende il lamentato pregiudizio


Nell’ipotesi di occupazione senza titolo di bene immobile non sussiste un danno in re ipsa per il proprietario del bene (ammetterlo equivarrebbe ad introdurre una rigida presunzione a favore del medesimo, che prescinde e lo esonera dall’allegazione e dalla prova dei fatti in cui consisterebbe il danno). Il giudice di merito dovrà accertare se il proprietario dell’immobile abbia allegato e provato il danno-conseguenza che potrebbe essergli derivato dall’occupazione senza titolo del bene, come, a titolo esemplificativo, l’intenzione concreta di concederlo in locazione durante tale periodo, l’avere sostenuto spese per risiedere in altro immobile che altrimenti non avrebbe dovuto affrontare, l’avere avuto concreta intenzione nel frattempo di venderlo. (Annamaria Varini) (riproduzione riservata)

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita - Presidente -

Dott. DE STEFANO Franco - Consigliere -

Dott. CIGNA Mario - Consigliere -

Dott. GRAZIOSI Chiara - rel. Consigliere -

Dott. MOSCARINI Anna - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

 

SENTENZA

 

Svolgimento del processo

1. Con ricorso ex art. 702 bis c.p.c. depositato in data 8 marzo 2012, F.A. conveniva davanti al Tribunale di Salerno, sezione distaccata di Cava dei Tirreni, la coniuge separata T.R. per ottenerne la condanna al rilascio di un immobile di sua proprietà che egli adduceva di averle concesso nel novembre 2010 in comodato con lo scopo di controllo sul loro figlio minorenne G., e di cui, venuto meno tale scopo per essersi il figlio trasferito a (*) ed essere divenuto maggiorenne, aveva già chiesto più volte il rilascio, anche con una diffida notificatale il 5 gennaio 2012; ne chiedeva pure la condanna a pagargli le spese di gestione dell'immobile dal novembre 2010 al suo rilascio, a risarcirgli il danno figurativo per il mancato godimento dell'immobile stesso e a rifondergli le spese legali sostenute.

Non essendosi costituita la T., con ordinanza del 13 luglio 2012 il Tribunale la condannava al rilascio dell'immobile, alle spese gestionali da novembre 2010 al rilascio, al risarcimento del danno da mancato godimento e alla corresponsione delle spese legali.

Avendo proposto appello la T. con atto di citazione notificato il 7 settembre 2012, in cui eccepiva la nullità della in jus vocatio per violazione del termine di legge e contestava poi nel merito le pretese di controparte, ed essendosi quest'ultima costituita resistendo, la Corte d'appello di Salerno, con sentenza del 22 ottobre-5 novembre 2015, ha accolto l'eccezione dichiarando nullità della in jus vocatio e del conseguente giudizio di primo grado e deciso nel merito condannando la T. al rilascio dell'immobile, al pagamento di una parte delle spese gestionali e al risarcimento del danno da mancato godimento dell'immobile stesso.

2. Ha presentato ricorso la T. sulla base di nove motivi, illustrati, poi, anche con memoria. Si è difeso il F. con controricorso.

 

Motivi della decisione

3. Il ricorso è parzialmente fondato.

3.1.1 Il primo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza in relazione agli artt. 702 ter e 112 c.p.c. per omesso rilievo di inammissibilità e/o improcedibilità del giudizio di primo grado ex art. 702 bis c.p.c., cui avrebbe dovuto applicarsi il rito speciale ex art. 447 bis c.p.c..

Osserva la ricorrente che l'art. 447 bis indica come rito per le controversie relative al comodato immobiliare quello locatizio, onde il rito sommario di cui all'art. 702 bis c.p.c. non è applicabile a tali cause; pertanto il giudice d'appello avrebbe dovuto dichiarare inammissibile o improcedibile la domanda del F. perchè proposta secondo il rito sommario.

3.1.2 A prescindere dal rilievo che l'applicazione del rito sommario nel primo grado (si noti che espressamente l'art. 702 bis c.p.c. individua l'ambito di applicazione del rito sommario "nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica") non è stato oggetto di doglianza nell'atto d'appello, deve osservarsi che la corte territoriale ha dichiarato nullo il giudizio di primo grado, come richiesto dalla appellante, e ha giudicato nel merito secondo il rito con cui la stessa T. aveva proposto il gravame, ovvero non con il rito locatizio, bensì con il rito ordinario.

Peraltro, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che l'omesso mutamento del rito, anche in sede d'appello, dal locatizio/lavoristico all'ordinario e viceversa non comporta di per sè nullità della sentenza e quindi non rileva se non viene denunciata una concreta ed apprezzabile lesione difensiva subita in conseguenza di tale rito (cfr. Cass. sez. 3, 27 gennaio 2015 n. 1448; Cass. sez. 3, 18 luglio 2008 n. 19942; Cass. sez. 3, 13 maggio 2008 n. 11903; Cass. sez. 3, 9 ottobre 1998 n. 10030). A ben guardare, in effetti, quel che incide non è l'erroneità del rito nel senso di applicazione oltre l'ambito di controversie cui è dedicato essendo il rito di per sè una struttura processuale conformata dal legislatore, che ovviamente non può introdurvi comunque caratteristiche costituzionalmente illegittime -, bensì le concrete lesioni dei diritti processuali della parte che, specificamente, si siano verificate nell'applicazione del rito, pur di per sè non erronea, e quindi discendenti, in ultima analisi, dal contenuto della regiudicanda - rispetto alla quale, appunto, è previsto un rito diverso - che talora, per le sue intrinseche peculiarità, influisce sulle modalità del diritto di azione e, in generale, del diritto di difesa con cui si deve trattarla (proprio questo generando, logicamente, la varietà dei riti). Nulla di simile è stato qui addotto dalla ricorrente, per cui il motivo è infondato.

3.2 Il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza in relazione all'art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia sull'eccezione di inesistenza/tardività della notifica del ricorso ex art. 702 c.p.c. alla T..

Nella sua qualità di appellante, l'attuale ricorrente aveva eccepito omesso rilievo da parte del giudice di prime cure della inesistenza e, in subordine, dalla tardiva notificazione del ricorso ai sensi dell'art. 702 bis c.p.c., motivando la doglianza in base alla tardività della notifica in primis per il mancato rispetto dei termini ex art. 702 bis e in subordine per mancato rispetto del termine concesso nel decreto che aveva fissato l'udienza; su questo vi sarebbe omessa pronuncia, con vulnus conseguentemente subito dalla T., perchè, se fosse stato riscontrato il vizio della notifica, il giudizio avrebbe dovuto essere rimesso ai sensi dell'art. 354 c.p.c. al giudice di primo grado.

Questo motivo non ha consistenza, perchè in realtà quel che lamenta non è un vizio della notifica in sè, bensì la tardività della notifica rispetto al termine entro cui avrebbe dovuto essere espletata; e ciò è rientrato nella censura dell'atto d'appello accolta dalla corte territoriale, che ha ritenuto nulla la in jus vocatio in riferimento proprio al mancato rispetto del termine non sanato (art. 164 c.p.c., comma 1), desumendone correttamente la nullità del giudizio di primo grado (si vedano in particolare le pagine 5-6 della motivazione della sentenza impugnata).

3.3 Il terzo motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, denuncia nullità della sentenza in relazione all'art. 702 bis c.p.c., art. 354 c.p.c., u.c. e art. 162 c.p.c. per avere il giudice d'appello dichiarato la "nullità dell'atto di citazione" e deciso il merito "omettendo le attività istruttorie precluse" in primo grado alla T..

Lamenta la ricorrente che la corte territoriale non ha disposto la rinnovazione degli atti nulli, nè le ha consentito di svolgere le attività che le erano rimaste precluse in primo grado, in contrasto con l'art. 354 c.p.c., u.c. e art. 162 c.p.c.. La T. avrebbe dedotto nell'atto d'appello interrogatorio e prova testimoniale su una circostanza rilevante, e richiesto poli all'udienza del 10 gennaio 2013 la concessione di termini ex art. 183 c.p.c., comma 6; la corte territoriale avrebbe però dichiarato inammissibile la richiesta dei termini per formulare istanze istruttorie e non si sarebbe pronunciata sull'istanza già proposta nell'atto d'appello. Ammette la ricorrente che in primo grado non erano stati espletati atti istruttori, per cui non vi erano atti da rinnovare ex art. 354 c.p.c., u.c., ma insiste nel senso che avrebbero dovuto esserle concesse tutte le attività precluse a causa della nullità.

A parte che la istanza di concessione di termini ex art. 183 c.p.c. non risulta essere stata preservata nelle precisate conclusioni (che, come emerge dal ricorso stesso - pagine 8-9 furono solo quelle presenti nell'atto d'appello), non è comunque autosufficiente la censura, in quanto non indica su che cosa verteva il capitolato di cui avrebbe chiesto l'ammissione per prove orali nell'atto d'appello.

3.4 Il quarto motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omessa motivazione sulla ritenuta inammissibilità della "domanda" di concessione di termini ex art. 183 c.p.c., comma 6.

Ancora si deduce che nell'atto d'appello si sarebbero chieste le prove orali - interrogatorio e testimonianza - in ordine ad "una circostanza di fatto decisiva" e che dal verbale dell'udienza del 10 gennaio 2013 risultano chiesti i termini ex art. 183 c.p.c., comma 6. Il giudice d'appello avrebbe dichiarato inammissibile la "domanda" di concessione di termini ex art. 183 c.p.c. senza motivarlo, per cui sarebbe incorso in un vizio di omessa motivazione.

Dallo stesso ricorso (e precisamente dalla premessa illustrativa dello svolgimento del processo, a pagina 9) emerge che con ordinanza del 18 febbraio 2013 la corte territoriale ritenne inammissibile la richiesta di concessione di termini ex art. 183 c.p.c., comma 6; e, come già si è rimarcato a proposito del precedente motivo, la richiesta non fu reiterata in sede di precisazione delle conclusioni, per cui - a prescindere dal fatto che si tratta di questione di diritto per cui non è applicabile l'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 - nessuna omessa motivazione al riguardo è configurabile nella sentenza impugnata.

Quanto poi alla decisività della prova non ammessa, si rimanda alla precedente constatazione della carenza di sufficiente specificità, ovvero di non autosufficienza, della censura.

3.5.1 Il quinto motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, denuncia violazione/falsa applicazione dell'art. 1809 c.c..

Il giudice d'appello, secondo la ricorrente, avrebbe correttamente inquadrato il contratto di cui è causa nella fattispecie del comodato di scopo, ma avrebbe poi errato ponendo come presupposto dell'applicabilità della sua disciplina la destinazione dell'immobile a casa familiare nel giudizio di separazione e facendo valere il fatto che in tale giudizio un altro immobile era stato invece assegnato alla T. come casa familiare.

3.5.2 Il motivo tenta di "schivare" quella che è stata la reale ratio decidendi della sentenza: la corte territoriale ha riconosciuto la sussistenza del diritto al rilascio dell'immobile in capo all'appellato per avere accertato che lo scopo connotante il comodato era la vigilanza del figlio minorenne delle parti, il quale nello stesso immobile risiedeva, prima del comodato con il padre. Gli argomenti relativi al comodato ad uso di casa familiare che la corte ha effettivamente - e pure impropriamente - miscelato con il suddetto fondamento della sua decisione non incidono; nè quest'ultimo fondamento viene inficiato nel presente motivo (v. motivazione della sentenza impugnata, pagine 8ss.: "Risulta pacifico che nel novembre del 2010 tra le attuali parti in causa si convenne di mettere a disposizione della T. l'appartamento de quo, allo scopo di garantire al figlio minore G. un controllo e una presenza genitoriale più costante di quella che avrebbe potuto assicurargli il padre, che all'epoca viveva con il figliolo in quella abitazione... Emerge, inoltre, dagli atti di causa che in data 8 settembre 2011 F.G., nato il (*), e quindi ormai quasi maggiorenne, ha ottenuto dal Liceo Classico Convitto Nazionale "(*)" il nulla osta per il trasferimento presso l'Istituto Paritario "(*)" di (*). Il 2 ottobre 2012 è stata avviata presso il Primo Municipio del Comune di Roma la pratica per l'iscrizione del ragazzo nella popolazione residente di quel Comune... E' quindi evidente che dall'inizio dell'anno scolastico 2011/2012 il giovane F. abbia (sic) iniziato a frequentare il Liceo di (*), stabilendo in quella città la propria residenza. Ciò ha comportato il venir meno dello scopo per il quale l'appartamento in questione era stato concesso in comodato alla T.. Invero, l'allontanamento di G. dalla cittadina ove per ragioni legate all'ambiente e alle cattive frequentazioni del giovane si era imposta l'esigenza di un costante controllo del ragazzo da parte di uno dei genitori ha eliminato in radice la necessità che la madre dovesse continuare disporre dell'alloggio...ove ella si era un anno prima sistemata proprio al fine di assicurare tale controllo").

3.6.1 Il sesto motivo denuncia, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, contraddittorietà motivazionale: il giudice d'appello avrebbe affermato che l'attore era gravato solo dall'onere di provare la consegna dell'immobile e il rifiuto della restituzione, laddove il convenuto avrebbe dovuto dimostrare l'esistenza di un titolo, mentre nel comodato di scopo spetterebbe al comodante dimostrare l'intervenuta cessazione dello scopo.

3.6.2 A parte che una mera contraddittorietà non rientra più come vizio motivazionale nel vigente testo dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, se è vero che il giudice d'appello ha così formalmente ripartito l'onere della prova (a pagina 8 della motivazione), è peraltro dirimente il fatto che la corte rimarca l'ammissione da parte della T. che lo scopo del comodato era tenere sotto controllo il figlio allora minorenne, ricostruendo poi tutta la vicenda, incluso il trasferimento del figlio a (*), come dimostrazione della cessazione del siffatto scopo (si rimanda al passo trascritto a proposito del precedente motivo), concludendo il suo percorso di accertamento fattuale semplicemente affermando non provato che vi fosse un ulteriore scopo come aveva prospettato la T. (motivazione, pagina 10s.: "non può condividersi l'assunto della appellante, la quale sostiene che l'esigenza per la quale la casa le era stata concessa in comodato...sia attualmente ancora sussistente, per non avere il figlio ancora raggiunto la propria indipendenza economica e costituendo quella abitazione il centro degli interessi del ragazzo...il raggiungimento della maggiore età da parte di G., in una con il trasferimento dello stesso a (*), ha comportato il venire meno proprio di quell'esigenza di controllo assiduo e sistematico che aveva giustificato il trasferimento della donna presso il figlio, a nulla valendo, in contrario, il fatto che il giovane non abbia ancora raggiunto la piena indipendenza economica... Ne consegue che, essendo venuto meno lo scopo che aveva determinato la concessione in comodato del bene alla convenuta, l'occupazione è divenuta "sine titulo" e quest'ultima dovrà quindi immediatamente rilasciare l'immobile in favore dell'attore").

3.7 Il settimo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di fatto discusso e decisivo e omessa considerazione di elementi di prova su di esso vertenti: l'attuale ricorrente avrebbe documentalmente dimostrato tramite certificazione anagrafica il ritorno nell'immobile del figlio G. nel marzo 2014.

Il motivo è palesemente privo di consistenza, in quanto si impernia su un fatto del tutto irrilevante: che il figlio dei litigatores sarebbe ritornato nell'appartamento nel 2014, ovvero quando da tempo era cessato lo scopo connesso al comodato; scopo che certo non poteva con un tale rientro venire retroattivamente "recuperato", tanto più che non poteva sussistere comunque, trattandosi ormai di persona maggiorenne e quindi non sottoponibile a vigilanza da parte dei genitori.

3.8 L'ottavo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione/falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c., nonchè, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di fatto discusso e decisivo e omessa considerazione di elementi di prova su di esso vertenti: l'appellante avrebbe addotto che controparte si era accollata delle spese della gestione dell'immobile, e su ciò non vi sarebbe stata contestazione, come poi dalla stessa appellante rilevato.

A tacer d'altro, il motivo è del tutto inconsistente, giacchè, lungi dalla non contestazione di un simile accollo, fin dall'avvio del giudizio il F. aveva proposto - e poi mai abbandonato una specifica domanda di restituzione delle spese gestionali; per di più, al riguardo le istanze istruttorie della T. erano risultate tardive, in quanto proposte nella comparsa conclusionale, come rileva espressamente la corte territoriale nella parte finale della pagina 11 della motivazione della sentenza impugnata.

3.9.1 Il nono motivo denuncia violazione/falsa applicazione di norme, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sul fatto discusso e decisivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con riferimento agli artt. 2043 e 2056 c.c. in relazione agli artt. 1223, 1226 e 2697 c.c..

La doglianza, che presenta in realtà una natura riconducibile alla denuncia dell'error in iudicando, rimarca che il giudice d'appello avrebbe erroneamente ritenuto - in difformità con la giurisprudenza di questa Suprema Corte, inequivoca a partire dalle c.d. sentenze di San Martino - sussistente il danno in re ipsa, tale qualificando il danno che al F. sarebbe derivato dal mancato godimento dell'immobile, mentre avrebbe dovuto correttamente tenere in conto che il F. nulla avrebbe allegato nè tantomeno provato quanto all'utilizzazione dell'immobile.

Tale doglianza è fondata.

3.9.2 La corte territoriale, invero, afferma (motivazione, pagine 12-13), che, secondo il "consolidato orientamento" della giurisprudenza di legittimità, "in caso di occupazione senza titolo di un cespite immobiliare altrui, il danno del proprietario usurpato è "in re ipsa" in quanto si rapporta al semplice fatto della perdita della disponibilità del bene da parte del "dominus" ed all'impossibilità per costui di conseguire l'utilità normalmente ricavabile di bene medesimo in relazione alla natura normalmente fruttifera di esso; conseguentemente la determinazione del risarcimento ben può essere determinata dal giudice sulla base di elementi presuntivi semplici, facendo riferimento al cosiddetto danno figurativo e, quindi, con riguardo al valore locativo del cespite abusivamente occupato".

In effetti, questa impostazione, antecedente alle sentenze di San Martino (proprio come sintetizza la corte territoriale si era espressa Cass. sez. 3, 8 maggio 2006 n.10498), in molti arresti massimati è sopravvissuta, in modo tralatizio, al celebre intervento nomofilattico di S.U. 11 novembre 2008 n.26972 (v. Cass. sez. 3, 11 febbraio 2008 n. 3251, Cass. sez. 3, 10 febbraio 2011 n. 3223, Cass. sez. 3, 16 aprile 2013 n. 9137, Cass. sez. 2, 28 maggio 2014 n. 11992, Cass. sez. 2, 15 ottobre 2015 n. 20823, Cass. sez. 3, 9 agosto 2016 n. 16670; cfr. pure Cass. sez. 1, 7 marzo 2017 n. 5687). Sempre tra gli arresti massimati, dichiara invece espressamente la natura non qualificabile come in re ipsa del danno de quo Cass. sez. 3, 17 giugno 2013 n. 15111, che - richiamando pure un precedente anteriore alle sentenze di San Martino, Cass. sez. 3, 11 gennaio 2005 n. 378 - in motivazione così osserva:"...il danno da occupazione abusiva di immobile non può ritenersi sussistente "in re ipsa" e coincidente con l'evento, che è viceversa un elemento del fatto produttivo del danno, ma, ai sensi degli artt. 1223 e 2056 cod. civ., trattasi pur sempre di un danno-conseguenza, sicchè il danneggiato che ne chieda in giudizio il risarcimento è tenuto a provare di aver subito un'effettiva lesione del proprio patrimonio per non aver potuto ad esempio locare o altrimenti direttamente e tempestivamente utilizzare il bene, ovvero per aver perso l'occasione di venderlo a prezzo conveniente o per aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli, con valutazione rimessa al giudice del merito, che può al riguardo peraltro pur sempre avvalersi di presunzioni gravi, precise e concordanti...L'impostazione del danno in re ipsa non è sostenibile. Ed invero sostenere ciò significa affermare la sussistenza di una presunzione in base alla quale, una volta verificatosi l'inadempimento, appartiene alla regolarità causale la realizzazione del danno patrimoniale oggetto della domanda risarcitoria, per cui la mancata conseguenza di tale pregiudizio debba ritenersi come eccezionale. Così operando si pone a carico del convenuto inadempiente l'onere della prova contraria all'esistenza del danno in questione, senza che esso sia stato provato dall'attore".

Di recente, ha in qualche misura attinto da questo arresto Cass. sez. 6-3, ord. 15 dicembre 2016 n. 25898, che qualifica sì il danno in esame come danno in re ipsa, ma rileva che è tale "perchè inteso in senso descrittivo cioè di normale inerenza del pregiudizio all'impossibilità stessa di disporre del bene, senza comunque far venir meno l'onere per l'attore quantomeno di allegare e anche di provare, con l'ausilio delle presunzioni, il fatto da cui discende il lamentato pregiudizio, ossia che se egli avesse immediatamente recuperato la disponibilità dell'immobile l'avrebbe subito impiegato per finalità produttive, quali il suo godimento diretto o la sua locazione".

Poco prima di quest'ultima, Cass. sez. 3, 9 agosto 2016 n. 16670, già sopra citata, nella motivazione menziona l'esistenza dei due precedenti contrari all'orientamento cui aderisce qualificando il danno de quo come danno in re ipsa - ovvero Cass. sez. 3, 17 giugno 2013 n. 15111 e la più risalente Cass. sez. 3, 11 gennaio 2005 n. 378 -, affermando peraltro che essi "nella sostanza non si discostano da questa impostazione, benchè precisando che non di "danno in re ipsa" si tratta, ma di danno-conseguenza che va approvato dal danneggiato, il quale può al riguardo peraltro pur sempre avvalersi di presunzioni". In effetti, come si è appena mostrato trascrivendo il passo motivazionale su cui si regge Cass. sez. 3, 17 giugno 2013 n. 15111, non emerge in quest'ultima una linea compatibile con quella maggioritaria, premurandosi anzi l'arresto a rimarcare come il danno in re ipsa non possa, nel caso in esame, sussistere in luogo del danno conseguenza, perchè altrimenti verrebbe a crearsi una presunzione che non solo esonera chi sarebbe danneggiato dall'onere probatorio (onere per il cui adempimento, qui come in ogni fattispecie per cui non sia prescritta una determinata forma ad probationem, chi lamenta il danno può avvalersi dello strumento della presunzione semplice), ma altresì impone al preteso danneggiante, per "sciogliersi" dall'avversa pretesa, di fornire una prova negativa (è il caso di riproporre il clou motivazionale della pronuncia: "L'impostazione del danno in re ipsa non è sostenibile. Ed invero sostenere ciò significa affermare la sussistenza di una presunzione in base alla quale, una volta verificatosi l'inadempimento, appartiene alla regolarità causale la realizzazione del danno..., per cui la mancata conseguenza di tale pregiudizio debba ritenersi come eccezionale. Così operando si pone a carico del convenuto inadempiente l'onere della prova contraria all'esistenza del danno in questione, senza che esso sia stato provato dall'attore").

3.9.3 Non si può negare che, in generale, dopo lo "sbarramento" nomofilattico apparentemente definitivo opposto al danno in re ipsa dalle sentenze di San Martino profittando di un'occasione attinente al tirare le fila dell'evolutivo danno non patrimoniale (rispetto al quale, in effetti, talora l'esclusione assoluta è problematica) ma inequivocamente sul punto concernente anche il danno patrimoniale, l'identificazione dell'evento dannoso con il danno in senso proprio ovvero il compattamento del danno-evento con il danno-conseguenza - permane nell'orientamento giurisprudenziale per alcune fattispecie, sia patrimoniali sia non patrimoniali, tanto in riferimento al risarcimento di danni di fonte aquiliana quanto al risarcimento di danni derivanti da inadempimento contrattuale: la vis attractiva del danno in re ipsa non si è estinta (da ultimo cfr., p. es., Cass. sez. 3, ord. 29 settembre 2017 n. 22815; Cass. sez. 2, ord. 31 maggio 2017 n. 13792; Cass. sez. 2, 28 settembre 2016 n. 19215; Cass. sez. 1, 22 giugno 2016 n. 12954; Cass. sez. 2, 10 marzo 2016 n. 4713).

E il riconoscimento dell'istituto del danno in re Osa è stato formulato pure come regola generale, a proposito dei presupposti della liquidazione equitativa del danno: Cass. sez. 3, 8 gennaio 2016 n. 127 ha infatti affermato che tale species di liquidazione presuppone la prova dell'esistenza di danni risarcibili di cui sia impossibile o particolarmente difficile determinare il quantum, dovendo comunque la parte interessata provare l'an debeatur del diritto al risarcimento ove sia stato contestato o non debba "ritenersi in re ipsa in quanto discendente in via diretta ed immediata dalla stessa situazione illegittima rappresentata in causa" (conforme poi Cass. sez. 3, 17 ottobre 2016 n. 20889).

Viceversa, e praticamente in contemporaneità, altra giurisprudenza di sezioni semplici ha continuato nei più vari casi ad applicare i principi consolidati dalle sentenze di San Martino, escludendo la fattispecie del danno in re ipsa e intendendola in ultima analisi come integrante un illegittimo esonero dall'onere della prova (ex multis Cass. sez. 2, 22 settembre 2017 n. 22201; Cass. sez. 3, 13 ottobre 2016 n.20643; Cass. sez. 1, 23 dicembre 2015 n. 25921; Cass. sez. 3, 18 novembre 2014 n. 24474; Cass. sez. 6-3, ord. 5 settembre 2014 n. 18812, Cass. sez. 3, 3 luglio 2014 n. 15240; Cass. sez. 1, 3 giugno 2014 n. 12370; Cass. sez. 6 - 1, ord. 26 settembre 2013 n. 22100; Cass. sez. 6 - 1, ord. 24 settembre 2013 n. 21865; Cass. sez. 1, 10 settembre 2013 n. 20695).

3.9.4 Il celebre intervento di S.U. 11 novembre 2008 n. 26972, nella sua ampia motivazione, pur imperniata - logicamente - soprattutto sulla figura del danno non patrimoniale che qui non rileva, dichiara espressamente che il sistema della responsabilità aquiliana, situato nella bipolarità appunto tra il danno patrimoniale e il danno non patrimoniale, fornisce una struttura dell'illecito "articolata negli elementi costituiti dalla condotta, dal nesso causale tra questa e l'evento dannoso, e dal danno che da quello consegue (danno-conseguenza)", e l'evento dannoso è rappresentato dalla "lesione dell'interesse protetto". Pertanto quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, "che deve essere allegato e provato"; non è accettabile la tesi che identifica il danno con l'evento dannoso, ovvero come "danno-evento", e parimenti da disattendere è la tesi che colloca il danno appunto in re ipsa, perchè così "snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo".

Non si può certo non riconoscere che questa scissione del danno dalla lesione al diritto deve valere, per non snaturare appunto in tal modo la funzione risarcitoria "di base", anche nel caso in cui il fatto illecito che ha generato la lesione non è aquiliano. L'esclusione dell'accertamento effettivo del danno, che fonde invece quest'ultimo direttamente con la lesione del diritto, in ogni fattispecie quantomeno di danno patrimoniale conduce infatti a oltrepassare l'ambito del tradizionale danno compensativo/ripristinatorio per raggiungere un vero e proprio danno punitivo. Chiaro esempio è proprio il caso della occupazione senza titolo, in cui se il danno è in re ipsa chi ha occupato l'immobile a ben guardare viene "punito" per il suo illecito, essendo comunque obbligato a corrispondere a controparte - ovvero a prescindere da ogni accertamento al riguardo - l'importo del canone locatizio che l'immobile stesso avrebbe fruttato se fosse stato dal proprietario concesso in locazione o in affitto per tutta la durata del periodo di occupazione. Impostazione, questa del c.d. danno figurativo, che non può quindi accogliersi non solo in riferimento alle sentenze di San Martino, ma oramai anche in considerazione dell'ulteriore, recentissimo intervento nomofilattico di S.U. 5 luglio 2017 n. 16601, che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l'ordinamento ponendo però come limite l'espressa sua previsione normativa, in applicazione dell'art. 23 Cost..

Le Sezioni Unite, in tale arresto, dopo uno specifico elenco di istituti con cui il legislatore ordinario negli ultimi anni ha introdotto nel sistema il danno punitivo così da superare "il carattere monofunzionale della responsabilità civile, avente la sola funzione di "restaurare la sfera patrimoniale" del soggetto leso", rimarcano che ciò non significa che "questa curvatura deterrente/sanzionatoria consente ai giudici italiani che pronunciano in materia di danno extracontrattuale, ma anche contrattuale, di imprimere soggettive accentuazioni ai risarcimenti che vengono liquidati", dato che "ogni imposizione di prestazione personale esige una "intermediazione legislativa", in forza del principio di cui all'art. 23 Cost. (correlato agli artt. 24 e 25), che pone una riserva di legge". E quel che viene affermato espressamente in riferimento all'accentuazione di un quantum, a fortiori, secondo l'evidenza logica, non può non valere parimenti per il riconoscimento, tramite una cognizione giurisdizionale meramente interpretativa e non fattualmente accertativa, di un an e di un quantum risarcitori di contenuto predeterminato, così come già avevano ben lasciato intendere le sentenze di San Martino nei passi sopra richiamati.

3.9.5 Ogni elemento sanzionatorio che venga a sostituire - in ultima analisi - quello risarcitorio non può, invero, derivare da volontà del giudicante, bensì esige riserva di legge. Nè può aggirarsi questo ostacolo organizzando interpretativamente una rigida presunzione a favore del proprietario dell'immobile, che prescinde completamente (e quindi lo esonera) dalle allegazioni di quest'ultimo: se è vero, infatti, che il danno, nei casi in cui è particolarmente evidente, può agevolmente dimostrarsi sulla base di presunzioni semplici (e qui si rinviene il - di per sè non negabile - "confine ambiguo" con il danno in re ipsa in cui si trovano talune fattispecie di danno-conseguenza), ciò non toglie che l'alleggerimento dell'onere probatorio non può includere l'esonero dalla allegazione dei fatti che attraverso l'adempimento di tale onere devono essere accertati. In tal modo, tra l'altro, si addentra la prospettazione attorea in un livello di genericità tale che il diritto alla difesa di controparte diviene, in pratica, non esercitabile, non risultando identificati gli specifici elementi in rapporto al cui diniego occorra esercitarlo. In ultima analisi, non può essere affidata ad una valutazione del giudice la necessità o meno della allegazione dei fatti in cui consisterebbe il danno, potendo così ritenerla necessità inesistente nelle fattispecie in cui questi sarebbero sempre gli stessi e quindi già di per sè saldamente presumibili - come, appunto, si prospetta nel risarcimento del danno da occupazione senza titolo: la perdita dei frutti civili dell'immobile - o al contrario "scegliendo" la necessità nelle fattispecie non parimenti predeterminate nelle conseguenze dell'evento lesivo. Proprio nella ipotesi di occupazione sine titulo risalta, d'altronde, che il risarcimento comunque del danno attraverso il canone locatizio per la durata dell'occupazione è un danno punitivo qualora non vi sia allegazione sulla intenzione concreta del proprietario di mettere l'immobile a frutto: sussiste nell'ordinamento, infatti, quale istituto economico-giuridico, ciò che dimostra ictu oculi che non sempre il proprietario mette a frutto il suo immobile, non traendone così per sua scelta alcun guadagno, ovvero il sopravvenire della usucapione in capo a soggetti diversi, appunto, dal proprietario dell'immobile.

Alla luce, pertanto, di quanto esposto in ordine anche alla natura punitiva che una presunzione probatoria fondata sull'esonero dell'obbligo allegatorio come quella in realtà sottesa (quantomeno nel danno patrimoniale) al concetto di danno in re ipsa giunge a conferire al risarcimento, illegittimamente in difetto di specifica norma in tal senso, non si può non aderire all'orientamento che ha escluso detta impostazione, che ora viene a sintonizzarsi pure all'intervento nomofilattico del 2017. Il nono motivo del ricorso merita quindi accoglimento, per cui la sentenza impugnata deve essere cassata nella parte in cui condanna la T. a risarcire controparte per l'asserito danno da mancato godimento del bene a partire dalla data di notifica dell'atto stragiudiziale di diffida al rilascio dell'immobile - 5 gennaio 2012 - sino al rilascio stesso, con rinvio ad altra sezione della corte territoriale che dovrà accertare, non sussistendo nella fattispecie alcun danno in re ipsa, se il proprietario dell'immobile ha allegato e provato il danno-conseguenza che potrebbe essergli derivato dalla occupazione senza titolo, come - si indica meramente per esempio dovendosi il giudice di merito rapportare alle effettive allegazioni compiute - la sua intenzione concreta di concederlo in locazione durante tale periodo, o l'avere sostenuto spese che altrimenti non avrebbe dovuto affrontare per risiedere egli stesso durante tale periodo in un altro immobile, o l'avere avuto concreta intenzione nel frattempo di venderlo.

Al giudice di rinvio, ai sensi dell'art. 285 c.p.c., comma 3, viene altresì rimessa la pronuncia sulle spese del presente grado.

 

P.Q.M.

Accoglie il nono motivo del ricorso, respinti gli altri, cassa per quanto di ragione e rinvia, anche per le spese del grado, alla Corte d'appello di Salerno.

Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2018.