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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 19979 - pubb. 11/01/2018.

Il controllo del collegio sindacale di una società per azioni si estende a tutta l'attività sociale


Cassazione civile, sez. I, 28 Maggio 1998. Est. Marziale.

Sindaci - Responsabilità solidale con gli amministratori - Rapporti esterni - Quantificazione della responsabilità in funzione del contributo causale apportato in concreto alla verificazione dell'evento - Esclusione


Il controllo del collegio sindacale di una società per azioni non è circoscritto all'operato degli amministratori, ma si estende a tutta l'attività sociale (come è lecito desumere dal disposto di cui agli artt. 2403, 2405, 2377, secondo comma, cod. civ.), con funzione di tutela non solo dell'interesse dei soci, ma anche di quello, concorrente, dei creditori sociali. Il diverso rilievo causale di quanti (sindaci ed amministratori) abbiano concorso alla causazione del danno, inteso come insufficienza patrimoniale della società, assume, poi, rilievo nei soli rapporti interni tra coobbligati (ai fini dell'eventuale esercizio dell'azione di regresso), e non anche nei rapporti esterni che legano gli autori dell'illecito al danneggiato (società, creditori sociali, singoli soci e terzi), giusto il principio generale di solidarietà tra coobbligati di cui all'art. 2055, primo comma, c.c. (sancito espressamente in materia di responsabilità extracontrattuale, ma applicabile, altresì, in tema di responsabilità contrattuale, quand'anche il danno derivi dall'inadempimento di contratti diversi, quand'anche la responsabilità abbia, per alcuni dei danneggianti, natura contrattuale, e, per altri, natura extracontrattuale), ribadito, con specifico riguardo ai sindaci della società, dall'art. 2407, secondo comma, cod. civ., che esclude la legittimità di una commisurazione percentuale della responsabilità dei sindaci all'entità del loro concorso nella causazione dell'evento dannoso. (massima ufficiale)

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Alfredo ROCCHI Presidente

Giovanni VERUCCI Consigliere

Giuseppe MARZIALE Rel. "

Massimo BONOMO "

Angelo SPIRITO "

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

Svolgimento del processo

1 - Con atto notificato il 19 luglio 1973, il curatore del fallimento della società S. s.p.a. conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Catania, tutti coloro che avevano ricoperto la carica di amministratore e di sindaco della predetta società, tra i quali l'ing. Emilio A. e l'ing. Giuseppe D., nonché l'ex liquidatore della società, Giovanni Vacirca.

La società, costituita il 20 agosto 1959, prima di essere dichiarata fallita (in data 4 luglio 1970), era stata posta in liquidazione il 15 ottobre 1964, ma la liquidazione era stata successivamente revocata dall'assemblea con deliberazione maggioritaria del 13 maggio 1967.

L'ing. A., nominato componente del collegio sindacale il 19 settembre 1960, aveva mantenuto tale carica fino al 6 maggio 1969, quando era stato sostituito da altro componente dopo le sue dimissioni, rassegnate il 7 marzo 1969.

Esponeva il curatore che dall'esame del passivo fallimentare era emerso un gravissimo squilibrio patrimoniale, imputabile ai titolari degli organi di gestione e di controllo che si erano via via avvicendati nelle rispettive cariche e chiedeva che tali soggetti fossero condannati, con sentenza provvisoriamente esecutiva, al risarcimento di tutti i danni cagionati alla società e ai suoi creditori.

Gli addebiti formulati a carico dei convenuti riguardavano, in particolare: a) la tenuta lacunosa ed irregolare della contabilità, specie nell'ultimo periodo di vita della società, che aveva reso impossibile di ricostruire a posteriori le vicende che avevano caratterizzato la sua gestione; b) l'inveridicità dei bilanci, determinata dalla inadeguatezza delle quote di ammortamento prescritte per le immobilizzazioni tecniche; c) la totale assenza di operazioni liquidatorie durante la fase di liquidazione; d) la circostanza, infine, che la liquidazione fosse stata revocata dall'assemblea con delibera adottata a maggioranza, senza procedere alla ricapitalizzazione della società, che aveva così continuato ad operare aggravando le proprie condizioni economiche patrimoniali, già compromesse, con grave pregiudizio per i propri creditori.

1.1 - Su istanza del curatore, il giudice istruttore, con decreto emesso inaudita altera parte il 3 novembre 1973, autorizzava il sequestro conservativo dei beni dei convenuti fino alla concorrenza di L. 1.500.000.000.

Costituendosi in giudizio, i convenuti eccepivano preliminarmente la prescrizione dell'azione proposta nei loro confronti; alcuni di essi chiedevano anche la condanna della curatela al risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 96, secondo comma, c.p.c., per aver chiesto ed ottenuto la concessione del sequestro a tutela di un diritto inesistente.

1.2 - Il Tribunale, con sentenza del 16 settembre 1976, disponeva la sospensione del giudizio di merito, dopo aver rilevato che era stata iniziata, in relazione agli stessi fatti, nei confronti di tutti i convenuti (salvo uno, Romolo F.) l'azione penale per i reati di cui agli artt. 2621, 2630, 2632 c.c. e degli artt. 216 e 218 l. fall.; quindi, con la stessa sentenza, dichiarava nullo e rispettivamente inefficace il sequestro nei confronti di due dei convenuti (A. e B.) e lo convalidava nei confronti degli altri, ritenendo infondata l'eccezione di prescrizione e rigettando la domanda per responsabilità processuale aggravata proposta nei confronti del fallimento.

Detta sentenza era appellata da gran parte dei soccombenti (tra i quali l'A.) e, in via incidentale dal curatore del fallimento, il quale si doleva che il sequestro non fosse stato convalidato nei confronti di tutti i convenuti. La Corte, con sentenza del 22 giugno 1979, confermava pressoché tutte le statuizioni della pronuncia impugnata, salvo che in due punti, uno dei quali concernente il rigetto dell'eccezione di prescrizione, in ordine al quale osservava che, a tale riguardo, ogni decisione doveva essere rimessa al giudizio di merito, stante, la necessità di svolgere più approfonditi accertamenti circa la posizione dei convenuti e di attendere, a tal fine, l'esito del giudizio penale.

Tale decisione era parzialmente cassata da questa Corte con sentenza n. 2672 del 19 aprile 1983, relativamente ai capi concernenti la reiezione della domanda di risarcimento danni per responsabilità processuale aggravata (sul rilievo che, in ipotesi di decisione separata sulla convalida di un sequestro conservativo, la competenza a decidere sulla domanda di danni spettava al giudice del merito e non a quello della convalida e che, pertanto, la decisione avrebbe dovuto essere rinviata alla sentenza definitiva di merito) e la mancata convalida del sequestro nei confronti dei signori A. e B..

La causa era così rinviata, per l'esame delle relative questioni, alla Corte d'Appello di Messina, innanzi alla quale il giudizio veniva riassunto da uno dei convenuti (Alfio Conti) con atto notificato il 21 dicembre 1983.

2 - Nel frattempo la causa di merito era stata riassunta dalla curatela con ricorso depositato il 23 novembre 1981, facendo presente che le ragioni della sospensione erano venute meno in quanto il giudizio penale si era concluso con sentenza di proscioglimento divenuta definitiva il 7 ottobre 1980, della quale peraltro era venuta a conoscenza solo il 10 luglio 1981.

Quindi il Tribunale di Catania, dopo essersi pronunziato con sentenza non definitiva del 19 aprile 1984 su alcune questioni di rito e di riguardanti parti diverse dall'A., con sentenza definitiva, emessa il 29 maggio 1990:

- disponeva la separazione delle cause per le quali la curatela non aveva provveduto alla notificazione degli atti di riassunzione, rilevando che la domanda cumulativamente proposta nei confronti degli amministratori, dei sindaci e del liquidatore non aveva dato luogo ad alcuna situazione di litisconsorzio necessario o di inscindibilità e che, pertanto, ben poteva procedersi alla separazione (parziale o totale) delle varie cause ai sensi dell'art. 103, secondo comma, c.p.c.;

- respingeva l'eccezione di prescrizione, sul rilievo che il momento iniziale di decorrenza del termine (quinquennale) stabilito dall'art. 2949 c.c. coincide con quello in cui si manifesta l'insufficienza del patrimonio sociale che, nel caso di specie, in difetto di prova contraria, doveva farsi risalire alla data della dichiarazione di fallimento;

- accoglieva la domanda, condannando i convenuti (tra i quali l'A. e il D.), in solido tra loro, al risarcimento dei danni in favore della curatela, in misura pari alla differenza tra il valore del passivo e dell'attivo accertati in sede fallimentare (L. 922.701.000), con rivalutazione ed interessi sulla somma rivalutata dalla notificazione dell'atto di citazione (19 luglio 1973) al saldo.

Le domande risarcitorie proposte nei confronti della curatela venivano conseguentemente respinte. A giustificazione della decisione adottata, il Tribunale poneva in evidenza:

- che gli amministratori si erano resi responsabili: a) della lacunosa ed irregolare tenuta delle scritture contabili; b) della non veridicità dei bilanci sociali, nei quali non risultavano computate in modo adeguato le quote di ammortamento relative alle immobilizzazioni tecniche; c) di non aver redatto né, quindi, sottoposto all'esame dell'assemblea il bilancio di esercizio relativo al 1969; d) della mancata vigilanza sull'operato dell'amministratore delegato Giuseppe Gullì (in carica dal 25 novembre 1969 al 15 gennaio 1970), il quale si era reso responsabile, tra l'altro, della distrazione di fondi sociali in favore di persone estranee alla società e della appropriazione di altre spettanti alla società; e) di non aver assunto le iniziative richieste dagli artt 2446 e 2447 c.c. in presenza di perdite superiori al terzo del capitale sociale evidenziate dal bilancio relativo all'esercizio 1968;

- che il liquidatore durante la fase della liquidazione, protrattasi per quasi tre anni (dal 15 ottobre 1964 al 13 maggio 1967), non aveva compiuto alcuna attività liquidatoria, malgrado le sollecitazioni ricevute dal collegio sindacale;

- che i sindaci, infine: a) non avevano vigilato sulla regolare tenuta della contabilità sociale e sul rispetto dei criteri stabiliti per le valutazioni di bilancio, con particolare riferimento a quelle inerenti alla determinazione delle quote di ammortamento; b) non erano intervenuti alla riunione assembleare dei 13 maggio 1967, nel corso i soci avevano deliberato la revoca della liquidazione pur in presenza di perdite di capitale e senza procedere alla loro contestuale eliminazione; c) dopo che tale delibera era stata adottata e aver constatato che, successivamente, non era stata assunta alcuna iniziativa diretta alla ricapitalizzazione della società era stata assunta dagli amministratori non avevano provveduto a convocare essi stessi l'assemblea, con all'ordine del giorno, la proposta di mettere nuovamente in liquidazione la società.

Tali comportamenti, si affermava nella sentenza, avevano, ciascuno per la loro parte, certamente contribuito a determinare la situazione di grave dissesto della società, rendendo sia gli amministratori che il liquidatore e i sindaci responsabili in solido, nei confronti della massa fallimentare, per l'impossibilità di assicurare il soddisfacimento dei creditori ammessi al passivo.

2.1 - La sentenza era separatamente appellata da alcuni dei soccombenti, tra i quali l'A., il quale censurava la sentenza impugnata, in particolare:

- per aver respinto l'eccezione di prescrizione, senza considerare che la situazione di insufficienza patrimoniale si era manifestata già nel 1964 (e, quindi, circa nove anni prima della notificazione della domanda), quando la società era stata posta in liquidazione, in considerazione delle perdite accumulate (L. 179.524.067, solo in minima parte (L. 21.972.208) imputabili agli esercizi anteriori al 1963) rispetto al capitale sociale che in quel momento era di L. 615.000.000:

- per aver affermato la propria responsabilità, in solido con gli amministratori e gli altri componenti del collegio sindacale, senza considerare: a) che la sua permanenza nella carica di sindaco era venuta a cessare, per dimissioni, il 7 marzo 1969 e che, conseguentemente, non poteva essere chiamato a rispondere di irregolarità eventualmente verificatisi nella gestione e nel controllo della società, dopo tale data; b) che il mancato calcolo delle quote di ammortamento dei beni strumentali durante la fase di liquidazione non era stato illegittimo, posto che in tale periodo non era stata svolta alcuna attività produttiva e che tali beni non avevano subito pertanto alcun logorio; c) che nel periodo precedente il calcolo delle quote di ammortamento era stato congruo e doveva quindi escludersi che le valutazioni di bilancio fossero state illegittime; d) che non aveva ricevuto alcuna convocazione per l'assemblea in cui era stata deliberata la revoca della liquidazione e che tale decisione fu comunque presa dai soci dopo aver constatato l'impossibilità di procedere ad una conveniente liquidazione del patrimonio sociale e nella speranza di poter riequilibrare la situazione economico finanziaria della società; e) che l'art. 2406 c.c. non era stato in alcun modo violato, dal momento che detta disposizione impone ai sindaci di convocare l'assemblea della società nei casi in cui essa sia obbligatoria dalla legge e gli amministratori non vi provvedano e non può quindi farsi ad essa ricorso per sollecitare i soci ad assumere iniziative (come l'eventuale ricapitalizzazione della società) rimesse al loro insindacabile apprezzamento; f) che, infine, non era stata fornita la prova di un nesso di causa tra le violazioni che gli erano state addebitate e le perdite patrimoniali accertate in sede fallimentare;

g) che, in effetti, come era stato posto in evidenza dal C.T.U. dott. Nicotra, il dissesto della società (che aveva ad oggetto la produzione di pezzi di macchinari industriali e il montaggio e la manutenzione di grossi impianti dello stesso tipo ed era stata costituita in previsione dello sviluppo di iniziative imprenditoriali in quella zona che avrebbe dovuto dar luogo al sorgere di numerosi stabilimenti industriali) era stato determinato dalla mancata realizzazione di tali presupposti che le aveva impedito, fin dall'inizio, di operare con concrete prospettive di guadagno;

- per non aver ridotto l'ammontare complessivo del risarcimento spettante al fallimento della società S. dell'importo corrispondente alla quota dovuta da uno dei condebitori solidali (l'A.), con il quale era stata stipulata separatamente una transazione a definizione della controversia tra di essi pendente.

2.2 - La Corte territoriale, riuniti i giudizi, con sentenza depositata il 26 maggio 1994 - dopo aver ribadito, respingendo le censure formulate a tale riguardo da altro appellante (Giuseppe D.), che tra le varie cause riunite in quel giudizio non si era determinata alcuna situazione di litisconsorzio necessario - rigettava l'appello, rilevando:

- che l'inizio della decorrenza del termine di prescrizione andava ricollegato al manifestarsi della "insufficienza" del patrimonio sociale e doveva escludersi che tale situazione si fosse determinata nel momento in cui i soci avevano deliberato la messa in liquidazione della società, "giacché l'insufficienza del patrimonio è concetto diverso e più grave che quello dello stato di insolvenza", dovendo invece ritenersi, in mancanza di prova contraria, che essa si fosse realizzata nel momento in cui la società era stata dichiarata fallita;

- che quando le irregolarità riguardano in generale le scritture contabili e i bilanci (nel caso di specie per l'insufficiente o mancata determinazione degli ammortamenti), la relativa responsabilità investe solidalmente non solo gli amministratori, ma anche i sindaci e, quindi anche l'A.;

- che ulteriori motivi di corresponsabilità solidale (con gli amministratori) dell'A. andavano ravvisati: a) nella mancata ricapitalizzazione della società; b) nella mancata partecipazione all'assemblea nella quale venne deliberata la revoca dello stato di liquidazione della società; c) nell'omessa convocazione dell'assemblea ai sensi dell'art. 2406 c.c., dopo che detta delibera era stata (illegittimamente) adottata a maggioranza "senza procedere alla contestuale ricapitalizzazione della società; d) nella mancata richiesta della dichiarazione di fallimento una volta che si era palesato lo stato di insolvenza;

- che da tali omissioni, imputabili anche all'A., "erano sicuramente derivati danni al patrimonio sociale", che dovevano essere quindi risarciti;

- che il fatto che i sindaci, e lo stesso A., avessero in varie occasioni espresso "in maniera autonoma e palese i propri convincimenti" non poteva bastare ad escludere la loro responsabilità in ordine alle omissioni sopra rilevate "in evidente e diretta correlazione con la possibilità di conoscere l'effettiva situazione patrimoniale della società, nonché con il formarsi e l'estendersi dell'insufficienza patrimoniale poi accertata";

- che l'affermazione, reiteratamente fatta dall'A., di aver puntualmente adempiuto a tutti i doveri connessi alla sua carica non poteva essere condivisa, perché "priva di riferimenti concreti .... anche in ordine alla misura ... dei danni", data la mancanza di una contabilità precisa e completa sulla cui esistenza egli avrebbe dovuto comunque vigilare;

- che lo stesso A., del resto, non aveva in proposito fornito alcun elemento preciso, limitandosi a parlare di danni iniziali e successivi alla sua uscita di carica", cercando così di "addossare ai ... giudici l'obbligo di individuare quello che ... non ... (era) ... possibile individuare per l'insussistenza di degli elementi contabili previsti dalla legge";

- che, infine, la commisurazione del risarcimento alla differenza tra il passivo e l'attivo accertato in sede fallimentare non escludeva che, trattandosi di debito di valore, si tenesse conto, ai fini della sua liquidazione della rivalutazione monetaria fino alla data della decisione.

3. - L'A., con ricorso notificato il 27 aprile 1995 alla Curatela del fallimento S. chiedeva la cassazione della sentenza impugnata con otto motivi, al cui accoglimento la Curatela si opponeva con controricorso.

Con ordinanza del 6 marzo 1997 la Corte disponeva l'integrazione del contraddittorio nei confronti delle altre parti che avevano partecipato alla precedente fase. Provveduto a tale incombente, si costituiva in giudizio Giuseppe D., chiedendo a sua volta con atto notificato il 17 luglio 1997 alla Curatela del fallimento, l'annullamento della sentenza impugnata con cinque motivi.

Motivi della decisione

4 - Secondo l'orientamento ormai consolidato di questa Corte qualora, unitamente all'azione di responsabilità contro gli amministratori di una società, venga proposta azione di responsabilità contro i componenti del collegio sindacale, per non aver vigilato sul loro operato, le cause promosse contro i sindaci, tra di loro scindibili ed indipendenti, assumono carattere di dipendenza nel rapporto con quelle proposte nei confronti degli amministratori, l'accertamento della cui responsabilità viene quindi, a configurarsi come presupposto necessario per l'affermazione della responsabilità dei sindaci (Cass. 9 marzo 1988, n. 2355; 22 giugno 1990, n. 6278; 7 maggio 1993, n. 5263).

A tali principi non si è attenuta la sentenza impugnata che, confermando quanto deciso il 29 maggio 1990 dal Tribunale di Catania, ha escluso l'esistenza di una situazione di litisconsorzio necessario tra le parti, giudicando che il collegamento esistente tra le posizioni dei vari convenuti non era tale da compromettere l'autonomia dei rispettivi rapporti processuali. Deve ritenersi tuttavia che, non essendo stata tale statuizione fatta oggetto di gravame, la questione non potesse né possa essere oggetto di riesame in questa sede, ancorché trattasi di questione che, essendo relativa all'integrità del contraddittorio rientri tra quelli rilevabili in ogni stato e grado del giudizio (Cass. S.U. 10 febbraio 1982, n. 832; 6 settembre 1990, n. 9197).

L'ordinanza con la quale il 7 marzo 1997 fu disposta l'integrazione del contraddittorio nei confronti delle parti del giudizio d'appello alle quali non era stato notificato il ricorso va quindi revocata; con l'ulteriore conseguenza che il ricorso incidentale tardivo proposto dall'ing. Giuseppe D. con atto notificato il 17 luglio 1997 deve essere dichiarato inammissibile, essendo venuti meno i presupposti che, eccezionalmente ne avrebbero potuto giustificare la proposizione (art. 334 c.p.c).

5 - Può così passarsi all'esame del ricorso proposto dall'ing. A.. Degli otto motivi di ricorso assume priorità, sul piano logico, il settimo, con il quale il ricorrente - denunziando violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c., in relazione all'art. 146 l. fall., e degli artt. 2392, 2394, 2403, 2407 e 2947 (rectius: 2949) c.c.; nonché difetto di motivazione - censura la sentenza impugnata per aver escluso che l'azione di responsabilità fosse prescritta nel momento in cui il presente giudizio è stato introdotto (19 luglio 1973), senza considerare che l'insufficienza patrimoniale (dal cui manifestarsi inizia a decorrere il termine prescrizionale stabilito dall'art. 2949 c.c.: art. 2935 c.c., in relazione all'art. 2394, secondo comma, stesso codice) si era determinata già nel 1964 (e, quindi, più di cinque anni prima della notificazione della domanda) quando la società era stata messa in liquidazione, come implicitamente riconosciuto in altra parte della stessa sentenza, nella quale gli era stato mosso l'addebito di non essersi attivato "ai fini della ricapitalizzazione della società".

5.1 - La doglianza è chiaramente infondata. Invero, il termine quinquennale di prescrizione per l'esercizio dell'azione di responsabilità che i creditori sociali (ovvero, in caso di fallimento, il curatore fallimentare) possono proporre nei confronti degli amministratori e dei sindaci della società, a norma dell'art. 2394 c.c. e dell'art. 146 l. fall., per l'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del capitale sociale (artt. 2394, primo comma, 2407, secondo comma, c.c.) comincia a decorrere (non già dal momento in cui la violazione di tali disposizioni sia concretata, ma) solo dopo che, per effetto di tale comportamento, risulti che il patrimonio sociale non è sufficiente al soddisfacimento dei crediti sociali, come si ricava con sicurezza dal secondo comma dell'art. 2394, che subordina la proponibilità dell'azione al manifestarsi dell'evento dannoso, (Cass. S.U. 6 ottobre 1981, n. 5241; Cass. 15 maggio 1991, n. 5445).

L'insufficienza patrimoniale, che assume rilievo ai fini della decorrenza della prescrizione, data dalla eccedenza delle passività sulle passività. Tale situazione, si distingue quindi dall'insolvenza, che costituisce il presupposto per la dichiarazione di fallimento ed è determinata dall'impossibilità per il debitore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni (art. 5, l. fall)e, come tale, non implica necessariamente un'eccedenza delle passività sulle attività, potendo essere determinata anche da una semplice situazione di illiquidità (Cass. N. 5241/81, cit.). Il che, naturalmente, non esclude che l'insufficienza patrimoniale possa manifestarsi ancor prima (ed eventualmente, molto tempo prima) che il fallimento sia dichiarato. Ma è evidente che l'onere di fornire la prova dell'esistenza di una situazione siffatta - tenuto conto che a giustificare la dichiarazione di fallimento basta la (semplice) insolvenza e che quando tale situazione si sia determinata tale pronuncia può essere può essere adottata anche d'ufficio (art. 6, l. fall.) e che il debitore, il quale aggravi il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento è penalmente responsabile (art. 217, primo comma, n. 4, l. fall. ) - incombe, in base ai principi, su colui che eccepisce la prescrizione.

Non può dirsi che tale onere sia stato assolto dal ricorrente, il quale si è limitato a dedurre che l'insufficienza patrimoniale si era manifestata nel momento la società era stata posta in liquidazione, senza peraltro fornire alcun elemento ulteriore a sostegno del proprio assunto; come invece sarebbe stato necessario, posto che la messa in liquidazione della società non è necessariamente determinata dalla eccedenza delle passività sulle attività patrimoniali e che la stessa perdita integrale del capitale sociale non implica la perdita di ogni valore attivo del patrimonio sociale, dal momento che la cifra del capitale esprime solo il valore delle attività assoggettate ad un vincolo di indisponibilità a tutela dei creditori sociali e non si estende quindi necessariamente a tutti i valori attivi ricompresi nel patrimonio della società.

Né, d'altro canto, è possibile ritenere che tale capo della sentenza si ponga in contraddizione con quello in cui viene mosso al ricorrente l'addebito di non essersi attivato al fine di promuovere la "ricapitalizzazione" della società, posto che non è possibile trarre dalla sua motivazione alcun elemento il quale stia ad indicare che tale ricapitalizzazione fosse specificamente diretta a sanare l'eccedenza delle passività sulle attività, piuttosto che a porre rimedio all'inadeguatezza del capitale di esercizio della società rispetto alle sue necessità operative.

6 - La declaratoria di responsabilità pronunciata dalla Corte territoriale nei confronti dei sindaci e, in particolare, dell'A.

- il quale ha ricoperto tale ufficio dalla costituzione della società (20 agosto 1959) alla data delle sue dimissioni (6 maggio 1969) - si basa sul secondo comma dell'art. 2407 c.c., secondo cui i sindaci "sono responsabili solidalmente con gli amministratori per le omissioni di questi, quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica".

Tale forma di responsabilità - che si distingue da quella prevista dal primo comma dello stesso articolo, la quale trova il suo fondamento nel comportamento dei sindaci, in sé e per sé considerato, e perciò viene detta "esclusiva" - viene comunemente qualificata come "concorrente" perché postula l'esistenza di un connesso illecito (contrattuale o extracontrattuale) degli amministratori. Appunto per questo i suoi presupposti sono costituiti: a) dalla violazione, da parte degli amministratori, dei loro doveri istituzionali; b) dal danno che da essa sia derivato per la società, per i creditori sociali o per il socio o per il terzo individualmente considerato, a seconda delle ipotesi specificamente considerate dagli artt. 2392-2395 c.c., la cui previsioni debbono intendersi, complessivamente richiamate dall'art. 2407 c.c.; c) dall'esistenza di un nesso di causalità tra il difetto di vigilanza imputabile ai sindaci e il pregiudizio patito dalla società o dagli altri soggetti specificati alla lettera precedente.

6.1 - Essi sono stati ravvisati, dalla Corte territoriale:

a) nella lacunosa ed irregolare tenuta della contabilità che, specie nell'ultimo periodo di vita della società, era stata così grave da impedire ai consulenti la possibilità di ricostruire con puntualità le vicende che avevano caratterizzato la gestione sociale;

b) nella redazione di bilanci non veritieri, a causa della insufficiente determinazione delle quote di ammortamento;

c) nella mancata "reazione" alla deliberazione con la quale l'assemblea della società aveva, il 15 aprile 1967, deliberato la revoca della liquidazione della società;

d) nell'aver continuato a gestire la società pur non avendo i soci provveduto alla sua ricapitalizzazione, contribuendo così ad aggravare le sue condizioni economiche, con grave pregiudizio per le ragioni dei creditori sociali.

6.2 - La sussistenza di tali presupposti è contestata dall'A. con i primi cinque motivi che, essendo tra loro connessi, possono essere congiuntamente esaminati. Con essi il ricorrente - assumendo l'esistenza di omissioni, insufficienze e contraddittorietà della motivazione, circa punti decisivi della controversia, e denunziando violazione e falsa applicazione, sotto diversi profili: a) dell'art. 2043 c.c. e del principio generale di causalità posto dall'art. 40 c p.c.); b) degli artt. 1292 e segg. c.c.; c) degli artt. 2403, 2406, 2407 c.c., in relazione agli artt. 2392, 2394 c.c. e all'art. 146, R.D. 16 marzo 1942, n. 267; d) degli artt. 2424 e 2425 c.c., in relazione all'art. 98, d.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645; e) dell'art. 2453 c.c.; f) degli artt. 2697 e segg. c.c., in relazione agli artt. 15, 16 e 115 c.p.c.; g) dell'art. 2909 c.c. e dell'art. 324 c.p.c. - censura la sentenza impugnata, rilevando:

che la responsabilità dei sindaci, in solido con gli amministratori, ai sensi dell'art. 2407, secondo comma, c.c., presuppone, non solo che essi non abbiano ottemperato ai doveri di vigilanza inerenti alla loro carica, ma anche l'esistenza di un nesso di causalità tra le violazioni addebitate e il danno accertato;

- che i sindaci, conseguentemente, possono essere chiamati a rispondere delle perdite patrimoniali della società solo nel caso e nella misura in cui esse siano ad essi direttamente imputabili (Cass. 30 luglio 1980, n. 4891);

- che i giudici d'appello avevano affermato in modo apodittico l'esistenza di tale rapporto, affermando che le omissioni dei sindaci

- sia inerenti al controllo della regolare tenuta della contabilità che, in genere, alla vigilanza sul corretto andamento della gestione sociale - avevano "sicuramente" contribuito alla determinazione del grave stato di dissesto in cui era venuta a trovarsi la società, senza spiegare "come, perché e in quale misura" il danno doveva essere ricollegato a tali comportamenti invece che a scelte gestionali (come tali insindacabili) errate e allo sfavorevole andamento del mercato, come sostenuto nell'atto d'appello e nella stessa consulenza tecnica d'ufficio;

- che la Corte territoriale, tenendo ferma una condanna "indiscriminata e cumulativa" anche a carico di chi, come esso ricorrente, aveva cessato di far parte del collegio sindacale ben prima che fosse dichiarato il fallimento della società, aveva disatteso i principi in tema di onere della prova e non aveva considerato che il vincolo della solidarietà se coinvolge "coloro che sono insieme protagonisti di una situazione giuridica o di una situazione di fatto giuridicamente rilevante ... a quello nel quale la situazione giuridica, o di fatto, si è dispiegata";

- che, a parte ciò, la gravità degli addebiti contestati doveva essere sensibilmente ridimensionata, se non esclusa del tutto, posto che: a) alcune irregolarità (come quelle inerenti alla mancata tenuta, per un certo periodo, del libro giornale) nella tenuta della contabilità, la cui esistenza era stata affermata dalla Corte territoriale essenzialmente sulla base delle risultanze della consulenza redatta (dal dott. Fazio) su incarico del giudice delegato (il quale era, in sostanza, un consulente di parte ed aveva compiuto i suoi accertamenti senza alcun contraddittorio con gli amministratori e i sindaci della società) non avevano trovato riscontro nelle indagini effettuate dal C.T.U. (dott. Nicotra) nominato nel corso del giudizio e in quelle redatte dai periti nominati in sede penale; b) altre irregolarità (come quelle inerenti al mancato aggiornamento del libro magazzino e l'omessa redazione del bilancio per l'esercizio 1969) riguardavano il periodo successivo alle sue dimissioni (7 marzo 1969); c) esso ricorrente non era stato personalmente convocato per l'assemblea del 13 maggio 1967 nella quale fu deliberata la revoca della liquidazione; d) la revoca della liquidazione era stata disposta dopo aver deliberato l'eliminazione delle perdite mediante riduzione del capitale sociale, nel pieno rispetto di quanto stabilito dagli artt. 2446 e 2447 c.c.; e) l'eliminazione delle perdite rendeva non più doverosa, ma solo opportuna, una eventuale ricapitalizzazione della società, facendo venir meno i presupposti per la convocazione dell'assemblea ai sensi dell'art. 2406 c.c.; f) i rilievi relativi alla inadeguatezza delle quote di ammortamento, contenuti nella sentenza impugnata, erano basati unicamente sulle valutazioni contenute nella consulenza redatta in sede fallimentare, la cui considerazioni avevano trovato smentita sia nella relazione redatta dal C.T.U. che nella perizia contabile eseguita nel giudizio penale, sulle quali la Corte territoriale non si era minimamente soffermata.

7 - Orbene, non può dubitarsi che il controllo del collegio sindacale non è circoscritto all'operato degli amministratori, ma si estende a tutta l'attività sociale, come può desumersi dall'obbligo, ad essi imposto, di assistere alle assemblee (art. 2405 c.c.) e dal potere - che in realtà è un potere dovere, essendo finalizzato alla salvaguardia del rispetto della legalità nello svolgimento dell'attività sociale, in applicazione del principio sancito in via generale dall'art. 2403, primo comma, c.c. - di impugnare le deliberazioni assembleari che non siano prese in conformità della legge o dell'atto costitutivo (art. 2377, secondo comma, c.c.).

Né può revocarsi in dubbio che le norme, sulla cui osservanza i sindaci sono tenuti a vigilare, sono poste, oltre che nell'interesse dei soci, anche in quello, concorrente od esclusivo, dei creditori sociali: basti pensare a quelle dettate a tutela dell'integrità del capitale sociale e della corretta redazione del bilancio.

Deve altresì riconoscersi che, contrariamente a quel che sembra ritenere il ricorrente, il diverso rilievo causale di quanti (sindaci o amministratori) hanno concorso alla causazione del danno - che nel caso di specie si è materializzato nella "insufficienza patrimoniale" (sulla cui nozione v., retro, 5.1) della società che è stata dichiarata fallita - assume rilievo solo nei rapporti interni, ai fini del regresso tra coloro che sono tenuti al risarcimento del danno, e non anche nei rapporti esterni, che legano gli autori dell'illecito al danneggiato (società, creditori sociali, o singoli soci e terzi, nell'ipotesi considerata dall'art. 2395 c.c., sempre che tale disposizione, che regola direttamente la responsabilità degli amministratori, sia ritenuta applicabile anche a quella dei sindaci). Invero, quando il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno (art. 2055, primo comma, c.c.). Tale principio, posto dalla legge in modo espresso in materia di responsabilità extracontrattuale, vale certamente anche per la responsabilità contrattuale (Cass. 4 dicembre 1991, n. 13039), quand'anche il danno derivi dall'inadempimento di contratti diversi, ovvero quando la responsabilità abbia per alcuno dei danneggianti natura contrattuale e, per altri, natura extracontrattuale: questo perché tale forma di responsabilità, trovando la sua ragion d'essere in un'esigenza di tutela del danneggiato, ha il suo fondamento nell'unicità del fatto dannoso, la quale non viene meno se le norme violate sono diverse (Cass. 10 dicembre 1996, n. 10987; 26 giugno 1995, n. 7231; 4 marzo 1993, n. 2605). Ed è comunque espressamente sancito dall'art. 2407, secondo comma, c.c., per il quale i sindaci "sono solidalmente responsabili con gli amministratori, per i fatti o le omissioni di questi, quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica": non vi è alcun elemento nella formulazione di tale disposizione, che possa autorizzare a ritenere che essa deroghi ai principi generali in tema di partecipazione nella produzione dell'evento dannoso e deve quindi escludersi (così rettificandosi l'opinione manifestata da questa Corte con la sentenza 30 luglio 1980, n. 4891, nella quale peraltro la riduzione del risarcimento appare correlata, più che ad una diverso rilievo causale delle condotte dei danneggianti, al concorso di colpa del danneggiato) che la responsabilità dei sindaci, verso il danneggiato, sia commisurata, in percentuale, all'entità del loro concorso nella causazione dell'evento dannoso.

8 - Tutto ciò premesso, deve tuttavia riconoscersi che i rilievi del ricorrente sono, quanto meno in parte, fondati.

E' agevole infatti osservare, per quel che riguarda le rilevate irregolarità nella tenuta della contabilità e nella redazione dei bilanci (retro, 6.1, lett. a, b), che si tratta di comportamenti che, in linea di massima, non sono di per sé idonei a causare un pregiudizio patrimoniale alla società (e, di riflesso, ai suoi creditori) e che pertanto, in un giudizio di responsabilità nei confronti degli amministratori e dei sindaci, esse possono venire in considerazione solo quale presupposto di altri e diversi inadempimenti direttamente produttivi di danno: è questo il caso, ad es., della illegittima sottovalutazione degli ammortamenti che abbia permesso l'occultamento di perdite evitando lo scioglimento della società che altrimenti sarebbe stato doveroso, permettendo agli amministratori di intraprendere nuove operazioni, che in caso di scioglimento sarebbero state vietate e che si sono rivelate pregiudizievoli per la società.

Naturalmente nulla esclude che dette violazioni siano, di per sé stesse, causative di un danno. Ma è evidente che, in tal caso, tale particolare incidenza causale deve essere dimostrata. La Corte territoriale si è invece limitata a darla per presupposta indicando, in maniera apodittica, in tali irregolarità una concausa del dissesto della società; dissesto che invece secondo le affermazioni del C.T.U., alle quali si era riportato l'appellante e che non sono state specificamente esaminate dalla sentenza impugnata, avrebbe la sua origine in scelte gestionali dei soci, come tali rimesse al loro libero apprezzamento.

Le altre cause andrebbero ravvisate: c) nella revoca della liquidazione deliberata il 15 aprile 1967; d) nell'aver continuato a gestire la società, quantunque fosse "sottocapitalizzata".

8.1 - Quanto alla revoca della liquidazione, nella sentenza impugnata si dà per scontato che la delibera sia stata illegittima e ai sindaci viene mosso l'addebito di non aver presenziato all'assemblea e (implicitamente) di non aver preso alcuna iniziativa idonea ad impedirne l'operatività

Ma, come si è già posto in evidenza, il ricorrente, richiamandosi a quanto già dedotto nelle precedenti fasi di giudizio, contesta che la delibera sia stata illegittima, deducendo tra l'altro che la revoca era stata accompagnata dal completo assorbimento delle perdite, mediante riduzione del capitale. La revoca della liquidazione non è di per sé illegittima e non può essere quindi negato, in linea di principio, ai soci il potere di rimuovere, con una deliberazione assembleare, l'intervenuta causa di scioglimento. Il problema, come è noto, è quello dei limiti entro i quali tale deliberazione può essere legittimamente assunta. Ma, appunto per questo, non ci si poteva arrestare ad affermare genericamente l'illegittimità di tale deliberato, ma occorreva individuare le ragioni che giustificavano tale valutazione, tanto più che la sua esattezza era recisamente contestata dal ricorrente.

Ed è appena il caso di osservare, sempre a tale proposito, che la mancata partecipazione dei sindaci rende la deliberazione assembleare invalida solo nell'ipotesi, prevista dall'art. 2366, ultimo comma, c.c., in cui quest'ultima non sia stata legittimamente convocata: solo in tal caso, infatti, la partecipazione dei sindaci assume rilievo ai fini della regolare costituzione dell'assemblea, mentre in ogni altra ipotesi l'inosservanza di tale adempimento è presa in considerazione dal legislatore solo ai fini dell'eventuale decadenza del sindaco dal proprio ufficio (art. 2405, secondo comma, c.c.). Ma anche a questo riguardo la motivazione della sentenza è completamente carente, poiché in essa nessuna indicazione viene fornita circa l'esistenza (o meno) di una rituale convocazione d'assemblea. Né può dirsi che tale precisazione fosse inutile, posto che il ricorrente si era limitato a dedurre la mancanza di una sua personale convocazione, senza pronunciarsi sull'esistenza delle "formalità" di convocazione richieste dall'art. 2366 c.c. Non vi è dubbio che. se prima non vengono chiarite le ragioni per le quali la delibera deve essere considerata illegittima, mancano i presupposti per ritenere censurabili eventuali comportamenti omissivi (o inerti) dell'A..

8.2 - Resta a dire della mancata assunzione di iniziative dirette a porre rimedio alla "sottocapitalizzazione" della società, che, secondo quanto accertato dalla sentenza ha contribuito a determinarne il dissesto.

Non può negarsi che, in tal caso, il comportamento addebitato ai sindaci, rientra tra quelli idonei, è in linea astratta, a pregiudicare il patrimonio sociale. Ma, anche in questo caso, il giudizio di responsabilità è stato formulato in modo assolutamente generico e, quindi, inadeguato.

Ora, è indubbio che il controllo del collegio sindacale non ha carattere meramente formale, ma si estende alla legittimità sostanziale dell'attività sociale e che, in questo quadro, i sindaci sono tenuti a verificare altresì che l'operato degli amministratori si svolga nel rispetto del generale dovere di diligenza ad essi stabilito in via generale dalla legge (art. 2392, primo comma, c.c.). Resta tuttavia fermo che esso è finalizzato alla verifica dell'osservanza della legge e dell'atto costitutivo (art. 2403, primo comma, c.c.) e non può quindi estendersi anche all'esame dell'opportunità e della convenienza delle scelte gestionali, il cui apprezzamento è riservato alla competenza esclusiva degli amministratori e dei soci.

S'intende allora che, in relazione all'ipotesi considerata nel presente paragrafo, non può essere sufficiente a giustificare l'affermazione della responsabilità dei sindaci il rilievo che, nel caso di specie, sarebbe stata "necessaria" una "ricapitalizzazione della società" e che i sindaci non hanno operato perché tale iniziativa fosse adottata dai soci, quando non sia accompagnato dalla indicazione di circostanze atte ad evidenziare che la "necessità" della ricapitalizzazione non derivava semplicemente da esigenze operative ma dal rispetto delle norme che debbono essere inderogabilmente osservate nella gestione della società.

Questa precisazione, come si è detto, non è contenuta nella sentenza impugnata, nella quale si è anche omesso di precisare se gli amministratori avessero, o meno, sollecitato i soci a provvedere alla ricapitalizzazione della società. E non può non concludersi allora che, neppure sotto tale riguardo, la motivazione della sentenza impugnata può dirsi idonea a sorreggere la decisione adottata.

9 - Entro tali limiti le doglianze formulate con i primi cinque motivi del ricorso principale vanno quindi riconosciute fondate e la sentenza impugnata va conseguentemente cassata con rinvio della causa alla Corte d'appello di Messina.

Il settimo motivo, come si è già rilevato, deve essere invece respinto (retro, 5.1). Mentre il sesto e l'ottavo - con i quali il ricorrente censura la sentenza impugnata, rispettivamente: a) per aver disatteso, senza la benché minima motivazione, la censura (formulata con il settimo motivo d'appello) diretta ad evidenziare l'erroneità della sentenza di primo grado che non aveva ridotto l'ammontare complessivo del risarcimento della quota dovuta da uno dei condebitori in solido (l'A.) con il quale la curatela fallimentare aveva separatamente definito transattivamente la controversia; b) per aver ritenuto che la somma dovuta a titolo di risarcimento dovesse essere rivalutata e che sull'intera somma rivalutata fossero dovuti gli interessi legali - restano assorbiti.

Per ciò che riguarda le spese, ricorrono giusti motivi per disporre l'integrale compensazione di quelle relative al ricorso incidentale proposto dall'ing. Giuseppe D., il quale è stato dichiarato inammissibile (retro, 4), mentre la liquidazione di quelle riguardanti il ricorso principale va rimessa al giudice di rinvio.

 

P.Q.M.

La Corte di cassazione, riuniti i ricorsi, dichiara inammissibile quello incidentale, compensando le relative spese di giudizio; accoglie i primi cinque motivi del ricorso principale, respinge il settimo motivo dello stesso ricorso e dichiara assorbiti gli altri.

Cassa, in relazione ai motivi accolti, la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d'appello di Messina anche per le spese.

Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 13 gennaio 1998.

Depositata in cancelleria il 28 maggio 1998.