Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 20011 - pubb. 23/06/2018

Revocatoria fallimentare e proponibilità in appello della domanda di condanna all'equivalente monetario

Cassazione civile, sez. VI, 08 Novembre 2017, n. 26425. Est. Ferro.


Revocatoria fallimentare - Oggetto - Bene - Domanda di condanna all'equivalente monetario - Proponibilità in appello - Novità - Esclusione - Configurabilità - Fondamento



Oggetto della domanda di revocatoria fallimentare non è il bene in sé, ma la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori mediante l'assoggettabilità ad esecuzione e, quindi, la liquidazione di un bene che, rispetto all'interesse dei creditori, viene in considerazione soltanto per il suo valore; ne consegue, non solo che la condanna al pagamento dell'equivalente monetario ben può essere pronunciata dal giudice, anche d'ufficio, in ogni caso in cui risulti impossibile la restituzione del bene, ma anche che la relativa domanda può essere proposta per la prima volta nel giudizio d'appello, in quanto non nuova, ma ricompresa implicitamente nell'azione revocatoria stessa. (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DOGLIOTTI Massimo - Presidente -

Dott. CAMPANILE Pietro - Consigliere -

Dott. SCALDAFERRI Andrea - Consigliere -

Dott. SAMBITO Maria Giovanna Concetta - Consigliere -

Dott. FERRO Massimo - rel. est. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

 

ORDINANZA

Rilevato che:

1. Arcobaleno s.r.l. (già Boutique I. Più di B.A. e M. s.n.c.), impugna la sentenza App. Ancona 4.3.2015, n. 355/2015, in R.G. n. 907/2009, con cui è stato respinto il proprio appello avverso la sentenza Trib. Ascoli Piceno 18.9.2008 che aveva accolto la domanda di revocatoria fallimentare, esperita ai sensi dell'art. 67 L. Fall. dal fallimento M.I., così dichiarando inefficace verso la relativa massa dei creditori l'alienazione dell'azienda "Boutique I." per come ceduta (con atto 31.1.1991) dalla fallita alla convenuta, condannata al pagamento di Euro 205.437,60 oltre interessi legali dalla domanda al saldo;

2. la pronuncia, in primo grado, era fondata sul riconoscimento della notevole sproporzione di prezzo rispetto al valore dell'azienda, ceduta con atto rientrante nell'anno anteriore al fallimento (del 21.12.1991) e compiuto quando M. era colpita da moltissime e rilevanti procedure esecutive, mentre la restituzione dell'equivalente monetario s'imponeva per l'impossibilità di restituire il bene in sè;

3. la corte ha rilevato, riunendo la trattazione delle censure ed illustrando la selezione delle prove rilevanti, che: a) la prova dell'elemento soggettivo dell'azione proposta era stata conseguita in virtù di presunzioni, correlate alla condizione professionale dell'accipiens e al contesto dell'atto, in cui l'avente causa aveva rinunciato all'inventario nonostante irregolarità contabili e vi erano mancanze consistenti di magazzino; b) nessuna mutatio libelli era configurabile nella richiesta di controvalore monetario dell'azienda, oramai non retrocedibile materialmente; c) l'eventus damni era presunto con l'uscita del bene dal patrimonio della cedente, fallita di lì ad un anno; d) la detrazione delle somme versate, al di là del dubbio sulla prova dell'adempimento, comunque costituiva titolo semmai per una insinuazione al passivo;

4. con il ricorso si deducono tre motivi e, in particolare:

- la nullità della sentenza ovvero del procedimento ex artt. 113, 115, 116 e 132 c.p.c., per genericità della motivazione per relationem impiegata dalla corte, che tra l'altro non ha dato conto dello scostamento delle risultanze della CTU e dei testi;

- il vizio di ultrapetizione, avendo la sentenza confermato, in luogo della condanna restitutoria quale chiesta nelle prime conclusioni della curatela, la corresponsione dell'equivalente monetario, tra l'altro senza verifica della impossibilità di dare corso alla prima richiesta;

violazione o falsa applicazione dell'art. 67 L. Fall., artt. 2727, 2729 e 2697 c.c. sul punto della prova dell'elemento soggettivo dell'azione, a sua volta mutato dalla mancata prova della inscientia decoctionis, per la sentenza del tribunale, alla prova della scientia decoctionis, secondo quella ora impugnata.

 

Considerato che:

1. Il primo motivo è inammissibile poichè il ricorrente non ha assolto al principio, fissato da Cass. s.u. 7074/2017, per cui "in tema di ricorso per cassazione, ove la sentenza di appello sia motivata "per relationem" alla pronuncia di primo grado, al fine di ritenere assolto l'onere ex art. 366 c.p.c., n. 6, occorre che la censura identifichi il tenore della motivazione del primo giudice specificamente condivisa dal giudice di appello, nonchè le critiche ad essa mosse con l'atto di gravame, che è necessario individuare per evidenziare che, con la resa motivazione, il giudice di secondo grado ha, in realtà, eluso i suoi doveri motivazionali";

2. sul piano contenutistico, accanto al richiamo delle regole probatorie applicate, la corte ha esplicitamente fatto rinvio, per il "caso in esame" alle valutazioni del tribunale per come operate su specifici elementi e circostanze (la merce presente, la mancata redazione di inventario), correlando la condivisione del significato indiziario ad essi conferito dal primo giudice ad un valore di prevalenza rispetto alle altre risultanze probatorie; si tratta di constatazione che permette di ritenere integrato il principio, che va ribadito, per cui "la sentenza pronunziata in sede di gravame è legittimamente motivata "per relationem" ove il giudice d'appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero purchè il rinvio sia operato sì da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto delle argomentazioni delle parti e della loro identità con quelle esaminate nella pronuncia impugnata, mentre va cassata la decisione con cui il giudice si sia limitato ad aderire alla decisione di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l'esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame." (Cass. 14786/2016);

3. il secondo motivo è inammissibile, ai sensi dell'art. 360bis c.p.c., n. 1, poichè la corte ha deciso la questione in modo conforme alla giurisprudenza di legittimità, qui non sollecitata ad alcuna revisione con nuovi argomenti già non considerati; invero, "oggetto della domanda di revocatoria fallimentare non è il bene in sè, ma la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori mediante l'assoggettabilità ad esecuzione e, quindi, la liquidazione di un bene che, rispetto all'interesse dei creditori, viene in considerazione soltanto per il suo valore; ne consegue, non solo che la condanna al pagamento dell'equivalente monetario ben può essere pronunciata dal giudice, anche d'ufficio, in ogni caso in cui risulti impossibile la restituzione del bene, ma anche che la relativa domanda può essere proposta per la prima volta nel giudizio d'appello, in quanto non nuova, ma ricompresa implicitamente nell'azione revocatoria stessa." (Cass. 14098/2009, 11440/2014), nè manca - nella fattispecie - l'apprezzamento di fatto, in questa sede insindacabile ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, della circostanza per la quale la retrocessione aziendale non era più economicamente operabile;

4. il terzo motivo è inammissibile, deducendosi con esso, in realtà, un vizio di motivazione, ora precluso nei termini prospettati alla stregua del principio per cui "in tema di ricorso per cassazione, dopo la modifica dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell'essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili" (Cass. 12928/2014); tale norma trova applicazione quanto alla sentenza impugnata, poichè pubblicata oltre il trentesimo giorno successivo alla vigenza della conversione del D.L. n. 83 del 2012;

5. il ricorso è pertanto inammissibile, con condanna alle spese secondo la regola della soccombenza e liquidazione come da dispositivo.

 

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento di legittimità in favore del controricorrente, liquidate in Euro 5.200 (di cui 100 per esborsi), oltre al 15% a forfait sui compensi e agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del co. 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 19 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2017.