Diritto dei Mercati Finanziari


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 20286 - pubb. 28/07/2018

Il collegio sindacale deve comunicare senza indugio alla Consob tutte le irregolarità riscontrate nell'attività di vigilanza

Cassazione civile, sez. II, 17 Maggio 2018, n. 12110. Est. Cosentino.


Società - Di capitali - Attività di vigilanza sulla gestione ai sensi dell'art. 149, comma 3, d.lgs. n. 58 del 1998 - Riscontro di irregolarità - Obbligo di comunicazione alla Consob - Sussistenza - Valutazione discrezionale su rilevanza irregolarità - Filtro preventivo - Esclusione - Fondamento



In tema di controllo sulla legittimità della gestione delle società quotate in borsa, ai sensi dell'art. 149, comma 3, del d.lgs. n. 58 del 1998, il collegio sindacale deve comunicare senza indugio alla Consob tutte le irregolarità riscontrate nell'attività di vigilanza cui è tenuto, senza che l'adempimento sia subordinato ad una valutazione discrezionale circa la rilevanza delle stesse; depongono in tal senso la formulazione letterale della norma – che fa riferimento alle "irregolarità", senza ulteriori qualificazioni - e anche la sua "ratio", finalizzata a scongiurare le incertezze operative che deriverebbero dalla opposta soluzione. (massima ufficiale)


 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano - Presidente -

Dott. ORILIA Lorenzo - Consigliere -

Dott. GIUSTI Alberto - Consigliere -

Dott. COSENTINO Antonello - rel. Consigliere -

Dott. CARRATO Aldo - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

 

SENTENZA

Svolgimento del processo

Con ricorso in opposizione, proposto ai sensi degli artt. 187 septies e 195 del T.U.F., i signori B.M., P.A., G.G. e Ge.An. impugnavano la delibera della CONSOB n. 18942 del 4 giugno 2014, con la quale a B.M. ed P.A. era stata irrogata una sanzione amministrativa di Euro 75.000 e a G.G. e Ge.An. era stata irrogata una sanzione amministrativa di Euro 25.000 per la violazione dell'art. 149, comma 3, T.U.F., ai medesimi ascritta per avere essi, nel corso del mandato 2010-2013, omesso di comunicare alla CONSOB alcune irregolarità riscontrate nell'ambito dell'attività di vigilanza da loro svolta in qualità di membri del collegio sindacale della società Saipem s.p.a..

In particolare, le contestazioni riguardavano le irregolarità riscontrate dalla funzione Internal Audit della Saipem presso una società indirettamente controllata in (*) e presso una filiale in (*), nonchè un rilevante episodio di frode da parte di un dipendente della filiale indiana di un'altra società controllata da Saipem.

Gli opponenti deducevano il mancato rispetto del termine di 180 giorni, previsto a pena di decadenza per la formale contestazione degli addebiti; la violazione del principio del contraddittorio nell'ambito del procedimento sanzionatorio; l'assenza di un filtro di ragionevolezza e proporzionalità nell'individuazione delle irregolarità da segnalare; l'assenza di obiettiva gravità delle violazioni contestate; l'insussistenza dell'elemento soggettivo della colpa; la violazione del principio di legalità per indeterminatezza del precetto violato e della sanzione; l'indebita moltiplicazione delle sanzioni per una condotta di carattere unico.

La corte d'appello di Milano, con decreto depositato il 5 marzo 2015, ha rigettato l'opposizione.

Per la cassazione di tale pronuncia i sigg.ri B., P., G. e Ge. hanno proposto ricorso per cassazione articolando sette motivi di censura.

La CONSOB si è costituita con controricorso.

La causa è stata discussa alla pubblica udienza del 25.10.17, per la quale entrambe le parti hanno depositato una memoria difensiva e nella quale il Procuratore Generale ha concluso come in epigrafe.

 

Motivi della decisione

Col primo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 195, comma 2, T.U.F. e della L. 28 dicembre 2005, n. 262, art. 24, comma 1, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, e all'art. 111 Cost., comma 7, in cui la corte milanese sarebbe incorsa disattendendo la eccezione di illegittimità dell'impugnata delibera sanzionatoria derivata dall'illegittimità del Regolamento Sanzioni CONSOB (nel testo anteriore alle modifiche recate dalla delibera CONSOB n. 19158 del 29.5.2015), sollevata dagli opponenti, oggi ricorrenti, in ragione del mancato rispetto del loro diritto al contraddittorio procedimentale.

Nel motivo di ricorso si argomenta che la struttura del procedimento sanzionatorio disciplinato dal menzionato Regolamento Sanzioni, nel testo previgente, sarebbe lesiva del diritto al contraddittorio dell'incolpato in quanto, per un verso, non prevede la comunicazione all'incolpato della relazione finale trasmessa alla Commissione dall'Ufficio Sanzioni Amministrative (nè, quindi, la possibilità dell'incolpato di replicare a tale relazione, nè davanti al medesimo Ufficio Sanzioni Amministrative, nè davanti alla Commissione) e, per altro verso, non prevede l'audizione dell'incolpato da parte della Commissione. In proposito i ricorrenti, da un lato, argomentano che la lesione del diritto di difesa dell'incolpato non può ritenersi sanata dalla possibilità del pieno dispiegamento del contraddittorio nella fase di impugnativa giudiziale del provvedimento sanzionatorio, giacchè il diritto di difesa può dirsi rispettato quando è data non solo la possibilità di impugnare una sanzione ma anche la possibilità di difendersi adeguatamente per impedire che una sanzione venga irrogata; d'altro lato, contestano l'affermazione della corte territoriale secondo cui sarebbe stato necessario dimostrare una "effettiva lesione del loro diritto di difesa", sottolineando come - al contrario di quanto afferma l'impugnato decreto - il giudizio di opposizione alla delibera sanzionatoria non è esclusivamente un giudizio sul rapporto (avente cioè ad oggetto soltanto la fondatezza della pretesa sanzionatoria) ma è anche un giudizio sull'atto, con la conseguenza che un vulnus al diritto di difesa che abbia reso illegittimo il procedimento sanzionatorio renderebbe illegittima la delibera sanzionatorio, con cui tale procedimento si conclude, indipendentemente dalla dimostrazione di concrete lesioni del diritto di difesa dell'incolpato. I ricorrenti peraltro ulteriormente deducono che, nella specie, già con il ricorso per motivi aggiunti notificato il 7.10.2014 essi avevano indicato alla corte milanese in cosa consistesse la concreta lesione derivata al loro diritto di difesa dalla compressione del contraddittorio in sede endoprocedimentale, giacchè con tali motivi aggiunti si era sottolineato come solo in sede di opposizione alla delibera, e non davanti alla Commissione, essi avevano potuto contraddire alle affermazioni formulate dall'Ufficio Sanzioni Amministrative sul tema della tempestività dell'avvio del procedimento sanzionatorio e sul tema della lettura operata gli uffici della CONSOB circa la portata delle norme di comportamento del CNDCEC (Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili).

Il motivo non può trovare accoglimento.

Osserva al riguardo il Collegio che la questione della compatibilità con il principio del contraddittorio (nella sua duplice articolazione relativa alla distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie ed al diritto alla piena conoscenza degli atti istruttori) del Regolamento Sanzioni della CONSOB, nella parte in cui esso, nel testo previgente, non prevedeva la comunicazione agli interessati della relazione conclusiva rimessa alla Commissione dall'Ufficio Sanzioni Amministrative, nè consentiva di comparire davanti alla Commissione riunita in sede decidente, è stata definita dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 20935/09, ove si è appunto affermato che, ai fini del rispetto del principio del contraddittorio, è sufficiente che venga effettuata la contestazione dell'addebito e siano valutate le eventuali controdeduzioni dell'interessato; con la precisazione che i precetti costituzionali riguardanti il diritto di difesa (art. 24 Cost.) e il giusto processo (art. 111 Cost.) riguardano espressamente e solo il giudizio, ossia il procedimento giurisdizionale che si svolge avanti al giudice, e non il procedimento amministrativo, ancorchè finalizzato all'emanazione di provvedimenti incidenti su diritti soggettivi; cosicchè l'incompleta equiparazione del procedimento amministrativo a quello giurisdizionale non viola in alcun modo la Costituzione.

Il Collegio ritiene che tale conclusione - ribadita da questa Sezione con le sentenze n. 27225/13 e 18683/14 ed alla quale la decisione della corte territoriale risulta perfettamente allineata - sia da condividere e vada mantenuta ferma.

In primo luogo, ancorchè nel mezzo di ricorso non si deduca la natura sostanzialmente penale, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 7 CEDU, delle sanzioni irrogate agli odierni ricorrenti, nè, quindi, si lamenti alcuna violazione dell'art. 6 della Convenzione EDU, esigenze di coordinamento con la giurisprudenza con cui questa Corte ha recepito i principi enunciati dalla Corte EDU nella sentenza 4.3.14 Grande Stevens impongono di precisare che nella specie non viene in questione alcun profilo di possibile contrasto tra il Regolamento Sanzioni, nel testo anteriore alle modifiche del 2015, e il principio del giusto processo di cui all'art. 6 della Convenzione EDU. In proposito, non appare nemmeno necessario verificare se la sanzione amministrativa pecuniaria (da Euro 10.000 a Euro 1.500.000) che l'art. 193, comma 3, lett. a), T.U.F. commina per l'omissione delle comunicazioni alla CONSOB di cui all'art. 149, comma 3, T.U.F., contestata agli odierni ricorrenti, vada o meno ricondotta alla materia penale, nel senso di cui all'art. 7 CEDU, secondo i criteri fissati dalla Corte EDU nella sentenza 8.6.76 Engel.

Al riguardo risulta infatti tranciante la considerazione che proprio la sentenza Grande Stevens (punti 138 e 139) ha chiarito che le carenze di tutela del contraddittorio che caratterizzino un procedimento amministrativo sanzionatorio non consentono di ritenere violato l'art. 6 della Convenzione EDU quando il provvedimento sanzionatorio sia impugnabile davanti ad un giudice indipendente ed imparziale, che sia dotato di giurisdizione piena e che conosca dell'opposizione in un procedimento che garantisca il pieno dispiegamento del contraddittorio delle parti; situazione che, indubitabilmente, ricorre nella specie, in cui la delibera sanzionatoria era impugnabile, ed è stata impugnata, davanti alla corte di appello territorialmente competente, che, alla stregua dei parametri indicati dalla stessa sentenza Grande Stevens (nonchè, con specifico riferimento al profilo della "full iurisidiction", dalla sentenza 27.9.11 Menarini Diagnostics c. Italia), deve essere considerato un giudice indipendente ed imparziale, dotato di giurisdizione piena e davanti al quale anche alla stregua del disposto dell'art. 187 septies T.U.F. vigente all'epoca in cui si svolse il procedimento definito con la delibera qui impugnata (che richiamava la procedura di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 23) - era garantita la pienezza del contraddittorio e la pubblicità dell'udienza.

Sgombrato il campo dal dubbio di illegittimità del Regolamento Sanzioni, nel testo previgente, per contrasto con i principi del giusto processo di cui all'art. 6 CEDU, va ora affrontato il tema specificamente posto nel primo motivo di ricorso, ossia la legittimità del Regolamento Sanzioni, sempre nel testo anteriore alle modifiche del 2015, in relazione al principio del contraddittorio fissato nell'art. 195, comma 2, T.U.F., il quale recita: "Il procedimento sanzionatorio è retto dai principi del contraddittorio, della conoscenza degli atti istruttori, della verbalizzazione nonchè della distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie".

Al riguardo i ricorrenti richiamano talune affermazioni svolte nelle sentenze del Consiglio di Stato nn. 1595/15 e 1596/15 in ordine alla illegittimità del procedimento sanzionatorio della CONSOB. Nella parte motiva di tali sentenze il Consiglio di Stato - dopo aver escluso che il procedimento sanzionatorio della CONSOB (nel testo previgente) presentasse profili di illegittimità in riferimento all'art. 6 della Convenzione EDU ed agli artt. 24 e 111 Cost. - afferma che il medesimo procedimento risulterebbe tuttavia illegittimo con riguardo al disposto degli artt. 187 septies e 195 T.U.F., giacchè esso non assicurerebbe il rispetto dei principi del contraddittorio e della piena conoscenza degli atti, in tali disposizioni espressamente menzionati.

Osserva al riguardo il Collegio che, a prescindere da qualunque vaglio sulla intrinseca condivisibilità delle suddette valutazioni (peraltro non tradottesi in alcuna statuizione di annullamento del regolamento contenente la previgente disciplina del procedimento sanzionatorio CONSOB, giacchè il decisum delle sentenze del Consiglio di Stato nn. 1595/15 e 1596/15 si risolve in una declaratoria di inammissibilità del ricorso delle parti private, per carenza di interesse) risulta assorbente la considerazione che in un giudizio che, come il presente, abbia ad oggetto non il regolamento che disciplina il procedimento sanzionatorio della CONSOB, bensì uno specifico provvedimento sanzionatorio, l'interesse all'impugnativa può essere riconosciuto solo quando la doglianza relativa alla compressione del diritto al contraddittorio procedimentale si accompagni all'indicazione della concreta lesione che detta compressione abbia recato al diritto di difesa del ricorrente.

A tal proposito va qui ribadito il principio, enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte con la più volte citata sentenza n. 20935/09, che la doglianza relativa alla violazione del diritto al contraddittorio presuppone la deduzione di una lesione concreta ed effettiva del diritto di difesa specificamente conculcato o compresso nel procedimento sanzionatorio. Detto principio, ripreso in tema di contraddittorio nel procedimento per l'applicazione delle sanzioni irrogate dalla Banca d'Italia dalla sentenza n. 27038/13 e in tema di contraddittorio nel procedimento per l'applicazione delle sanzioni irrogate dalla CONSOB dalle sentenze nn. 24048/15, 8210/16 e 770/17, è condiviso dal Collegio e si colloca nella medesima prospettiva ermeneutica indicata dalle medesime Sezioni Unite con la sentenza n. 24823/15, ove, in tema di contraddittorio nel procedimento tributario, si è affermato che "la violazione del diritto al contraddittorio comporta l'invalidità dell'atto purchè il contribuente abbia assolto all'onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere". Quest'ultima affermazione privilegia una lettura sostanzialistica (della tutela del) del diritto al contraddittorio, che il Collegio condivide perchè richiama il pragmatico canone giuspubblicistico della strumentalità delle forme e risulta in piena sintonia con il diritto dell'Unione Europea e, in particolare, con gli approdi della giurisprudenza elaborata dalla Corte di giustizia sull'articolo 41 della Carta dei diritti fondamentali (cfr. CGEU sentt. 3.7.2014, Kamino International Logistics, ove si afferma che la violazione dei diritti di difesa, in particolare del diritto ad essere sentiti prima dell'adozione di provvedimento lesivo, determina l'annullamento dell'atto adottato al termine del procedimento amministrativo soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, detto procedimento "avrebbe potuto comportare un risultato diverso"; nello stesso senso, si veda anche la sentenza 26.9.2013, Texdata Software).

A tali principi si è correttamente attenuta la corte milanese affermando per rigettare la doglianza relativa alla lesione del diritto al contraddittorio patita dagli opponenti per non essere stati resi edotti del contenuto della relazione dell'Ufficio Sanzioni Amministrative e per non essere stati convocati davanti alla Commissione - che essi opponenti non avevano "dimostrato alcuna effettiva lesione del proprio diritto di difesa", giacchè i medesimi avevano potuto interloquire estensivamente, per iscritto e verbalmente, con la divisione Corporate Governance e le loro deduzioni erano state esaminate dalla Commissione (cfr. pag. 13, p. 40 del decreto impugnato). Nè tali valutazioni della corte territoriale risultano smentite dal rilievo che nel ricorso per motivi aggiunti notificato alla CONSOB nel corso del giudizio di merito (debitamente trascritta in parte qua a pag. 10, nota 13, del ricorso per cassazione) gli opponenti avevano dedotto che la concreta lesione del diritto di difesa loro arrecata dalla compressione del contraddittorio endoprocedimentale sarebbe derivata dal non aver potuto contraddire nell'ambito del procedimento amministrativo alle affermazioni dell'Ufficio Sanzioni Amministrative sulla tempestività dell'avvio del procedimento sanzionatorio e sulla lettura operata dagli uffici della CONSOB circa la portata delle norme di comportamento del summenzionato CNDCEC; a tale assunto, infatti, l'impugnato decreto risponde, con affermazione non specificamente censurata nel mezzo di gravame in esame, che "nessun nuovo elemento è emerso in questa sede che non sarebbe stato possibile proporre in sede di istruttoria procedimentale" (ancora pag. 13, p. 40 del decreto impugnato).

Il primo mezzo di ricorso va quindi, conclusivamente, rigettato.

Col secondo motivo si denuncia l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5, e all'art. 111 Cost., comma 7. Nel decreto gravato il dies a quo del termine di cui all'art. 195 T.U.F. viene fissato al febbraio 2013, sull'assunto che gli elementi contenuti nella relazione ex art. 153 T.U.F. del 28 marzo 2012 non fossero sufficienti per procedere ad un accertamento. Tuttavia, secondo i ricorrenti, la corte territoriale non avrebbe tenuto conto di altri documenti, pure prodotti in giudizio, e, precisamente, di un comunicato stampa della Saipem del 22 giugno 2011 in cui si dava conto dell'inchiesta avviata dalla magistratura sulle attività svolte dal gruppo in (*) e (*), delle relazioni finanziarie annuali 2011 di Saipem ed Eni - pubblicate al più tardi il 29 marzo 2012 (e quindi, si argomenta nel mezzo di ricorso, da tale data in disponibilità della CONSB) - nelle quali si dava conto del coinvolgimento delle società in indagini penali relative alle vicende per cui è causa, nonchè dell'adozione di conseguenti provvedimenti correttivi. Donde l'illegittimità della delibera impugnata, perchè notificata oltre il termine di cui all'art. 195 T.U.F. dal marzo 2012.

Il motivo non può trovare accoglimento, in ragione della non decisività dei fatti di cui si lamenta l'omesso esame. La circostanza della notorietà di una generica notizia circa l'esistenza di indagini penali su attività di dipendenti della Saipem o di società da questa controllate non può infatti ritenersi idonea ad infirmare il ragionamento decisorio della corte territoriale, che si fonda sul rilievo, non specificamente censurato nel mezzo di gravame in esame, che alla CONSOB non poteva imputarsi alcuna inerzia nell'esercizio dei propri poteri di accertamento in presenza di situazioni qualificate come "sostanzialmente insignificanti" nella relazione del collegio sindacale del 28 marzo 2012 (pag. 11, sesto rigo, del decreto impugnato). La doglianza proposta nel secondo mezzo di ricorso si sostanzia dunque, in ultima analisi, nella manifestazione di un dissenso dei ricorrenti dall'apprezzamento del materiale istruttorio operato dalla corte di merito, inammissibile nel giudizio di legittimità, nel quale, come è noto, le censure poste a fondamento del ricorso non possono risolversi nella sollecitazione di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito, o investire la ricostruzione della fattispecie concreta, o riflettere un apprezzamento dei fatti e delle prove difforme da quello dato dal giudice di merito (ex multis, sent. n. 7972/07).

Col terzo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 132 c.p.c., comma 2, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 4, e all'art. 111 Cost., comma 7, in cui la corte territoriale sarebbe incorsa omettendo qualsiasi motivazione - tranne uno sbrigativo rinvio alle argomentazioni già svolte per confutare la doglianza relativa al mancato rispetto del principio del contraddittorio procedimentale - della statuizione di rigetto dei motivi aggiunti presentati dagli opponenti, odierni ricorrenti, in seguito all'accesso gli atti.

Nel mezzo dei gravame si riferisce come con tali motivi gli opponenti avessero lamentato:

a) la violazione del principio di separazione tra fase istruttoria e fase decisoria del procedimento sanzionatorio, risultante dall'acritica recezione, da parte della Commissione, dei contenuti della relazione dell'Ufficio Sanzioni Amministrative;

b) l'illegittimità della partecipazione del direttore generale della CONSOB (che aveva sottoscritto la lettera di contestazione con la quale aveva avuto inizio la fase istruttoria) alla seduta nella quale la Commissione adottò l'impugnata delibera sanzionatoria;

c) la carenza dei requisiti di cui agli artt. 12 e 19 della delibera CONSOB 8674/1994 nel verbale della seduta della Commissione di cui al precedente punto "b"; da detto verbale, infatti, non sarebbero emersi nè gli elementi essenziali della discussione, nè le conclusioni per ciascun argomento trattato, nè il risultato degli scrutini;

d) la violazione del principio di collegialità derivante dall'attribuzione al Presidente della CONSOB di un voto dirimente, in caso di parità di voti, qualora, come nella specie, alla riunione della Commissione partecipino solo due commissari.

Il motivo non può trovare accoglimento perchè la motivazione della statuizione con cui nel decreto gravato si rigettano i motivi aggiunti di opposizione, lungi dall'essere apparente, esprime in maniera sufficientemente chiara, ai fini del rispetto del "minimo costituzionale" della motivazione (cfr. Cass. SSUU 8053/14) la ratio decidendi della corte territoriale, esplicitata nella affermazione che i ricorrenti non avevano dimostrato come le asserite violazioni del procedimento avessero inciso sulla legittimità della pretesa sanzionatoria della CONSOB (pag. 13, p. 41 del decreto). Nè rileva che nel menzionato p. 41 vengano espressamente richiamati solo due dei quattro motivi aggiunti, sopra riportati, giacchè la suddetta ratio decidendi copre anche i motivi non richiamati (riportati sopra sub "b" e "c").

Col quarto motivo di ricorso - con il quale si denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 149, comma 3, T.U.F., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, e all'art. 111 Cost., comma 7, - i ricorrenti reiterano l'argomento, già avanzato in sede di merito, secondo cui una corretta interpretazione della menzionata disposizione non potrebbe porre in capo ai sindaci un obbligo indiscriminato di comunicazione alla CONSOB di qualunque violazione o criticità riscontrata nello svolgimento della loro attività di vigilanza, senza la possibilità di operare un qualche filtro di ragionevolezza e proporzionalità, anche rispetto alle concrete caratteristiche dell'impresa. Nel mezzo di gravame si sollecita questa Corte ad una rivisitazione del principio espresso nel precedente richiamato alla corte milanese (Cass. 3251/09). Ad avviso dei ricorrenti il generico riferimento normativo alla nozione di "irregolarità" andrebbe necessariamente integrato dal requisito della gravità, non emergente dalla lettera della norma ma rispondente ai criteri di ragionevolezza e proporzionalità.

Il motivo, prima che infondato, appare inammissibile per carenza di interesse, in quanto - proponendo di interpretare l'art. 149, comma 3, T.U.F. nel senso che l'obbligo di comunicazione alla CONSOB ivi previsto concerna non qualunque irregolarità, ma soltanto quelle irregolarità che presentino un minimo di gravità secondo profili di ragionevolezza e proporzionalità correlati alle dimensioni aziendali - pone una questione di diritto che risulta del tutto astratta e scollegata dalle concrete motivazioni del decreto impugnato, nel quale le irregolarità di cui agli odierni ricorrenti si contesta la mancata comunicazione alla CONSOB vengono qualificate, con affermazione che non ha formato oggetto di specifica censura nel mezzo di gravame in esame, "in termini di rilevante significatività" (pag. 15, p. 48, del decreto).

Ciò posto, appare comunque necessario ribadire, per ragioni nomofilattiche, che le argomentazioni svolte dagli odierni ricorrenti non sono tali da indurre a modificare il principio, fissato da questa Corte nella sentenza n. 3251/09, che la comunicazione che il collegio sindacale deve fare senza indugio alla CONSOB, ai sensi dell'art. 149, comma 3, T.U.F., riguarda tutte le irregolarità che tale collegio riscontri nell'esercizio della sua attività di vigilanza.

A detto principio il Collegio ritiene di dare conferma e seguito, perchè la legge non demanda ai sindaci alcuna funzione di filtro preventivo sulla rilevanza delle irregolarità da loro riscontrate, al fine di selezionare quali debbano essere comunicate alla CONSOB e quali non debbano formare oggetto di tale comunicazione. L'assolutezza del comando normativo emerge, oltre che dalla lettera dell'art. 149, comma 3, T.U.F. - in cui il sostantivo "irregolarità" non è accompagnato da alcun aggettivo qualificativo - anche dall'evidente ratio legis di evitare che i collegi sindacali debbano misurarsi con parametri di rilevanza/gravità delle irregolarità da segnalare alla CONSOB la cui concreta applicazione dipenderebbe da valutazioni inevitabilmente opinabili, così da risultare foriera di gravi incertezze operative e, in ultima analisi, da rischiare di pregiudicare proprio lo scopo della disposizione in esame, evidentemente volta a garantire alla CONSOB una completa e tempestiva informazione sull'andamento delle società sottoposte alla sua vigilanza.

Col quinto motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 3, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, e all'art. 111 Cost., comma 7, in cui l'impugnato decreto incorrerebbe là dove, rigettando l'eccezione di assenza di colpa sollevata dai sindaci, si argomenta che "la presunta buona fede serbata dai ricorrenti nel caso di specie si tradurrebbe in un errore di diritto" (pag. 16, p. 53, del decreto). Secondo i ricorrenti, infatti, la corte territoriale avrebbe errato nel qualificare la suddetta eccezione come deduzione di un errore di diritto, giacchè, al contrario, essi avevano invocato la loro buona fede non in relazione ad un errore sulla interpretazione del precetto normativo, bensì deducendo un errore sul fatto, vale a dire "un errore concernente i presupposti che integrerebbero la pretesa violazione dell'art. 149, comma 3, T.U.F." (pag. 26, ultimo rigo, del ricorso).

Con il sesto motivo si censura l'omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5, e all'art. 111 Cost., comma 7. Secondo i ricorrenti l'erronea qualificazione giuridica censurata con il motivo precedente avrebbe indotto la corte d'appello ad omettere l'esame di taluni fatti dedotti in giudizio dagli opponenti e potenzialmente dimostrativi della mancanza di colpa in capo a loro. In particolare nel motivo in esame si fa riferimento:

a) al contenuto della scheda di controllo raccomandata dalla stessa CONSOB contenuta con la comunicazione n. 1025564 del 6 aprile 2001;

b) alle indicazioni degli organismi professionali di categoria;

c) alla prassi consolidata degli organi di controllo delle società quotate;

d) al comportamento della stessa CONSOB, la quale solo in pochissimi casi avrebbe avviato procedimenti sanzionatori per violazione dell'obbligo di comunicazione ex art. 149, comma 3, T.U.F., e spesso avrebbe omesso di dare seguito a segnalazioni di irregolarità formulate dagli organi aziendali in casi analoghi a quello oggetto di giudizio.

Tutte tali risultanze di fatto, complessivamente valutate, dimostrerebbero univocamente, secondo i ricorrenti, che essi avrebbero omesso di comunicare alla CONSOB le irregolarità di cui si discute nella incolpevole convinzione che detta comunicazione non fosse doverosa; cosicchè, se la corte d'appello avesse proceduto all'esame di tali risultanze, sarebbe emersa l'esistenza di un incolpevole errore sul fatto idoneo ad escludere l'elemento soggettivo della colpa.

Il quinto e sesto motivo vanno trattati congiuntamente, per la loro intima connessione, e devono essere disattesi.

E' opportuno chiarire, in via preliminare, che la giurisprudenza di questa Corte (ex multis, Cass. 20866/10) insegna che, in tema di elemento soggettivo dell'illecito amministrativo, l'errore scusabile sul fatto determinato dall'interpretazione di norme giuridiche in tanto può assumere rilievo in quanto non attinga la sola interpretazione giuridica del precetto, ma verta sui presupposti della violazione, e sia stato determinato da un elemento positivo, estraneo all'autore, che sia idoneo ad ingenerare in quest'ultimo l'incolpevole opinione di liceità del proprio agire. Il relativo accertamento, peraltro, rientra nei poteri del giudice di merito, la cui valutazione è sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione.

Ciò premesso, nei due mezzi di ricorso in esame si sostiene che la corte territoriale avrebbe violato la L. n. 689 del 1981, art. 3, nel valutare come errore di diritto, invece che come errore sul fatto, quello che essi avrebbero asseritamente commesso nel ritenere che le vicende di cui viene loro contestata la mancata comunicazione alla CONSOB non costituissero irregolarità da comunicare ai sensi dell'art. 149, comma 3, T.U.F. e, conseguentemente, avrebbe omesso di valutare fatti, allegati e documentati in giudizio, estranei ai sindaci e idonei ad ingenerare in costoro tale incolpevole convincimento.

Al riguardo è sufficiente considerare che nessuno dei fatti enumerati nel sesto motivo - sopra sintetizzati nei punti "a", "b", "c" e "d - presenta caratteri di decisività tali da rendere censurabile il loro omesso esame ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5; nè il contenuto della scheda di controllo raccomandata dalla CONSOB (per come riportato nella nota 42 a pag. 28 del ricorso), nè le indicazioni degli organismi professionali di categoria (il cui contenuto, peraltro, non è riportato nel ricorso per cassazione), nè la prassi consolidata degli organi di controllo delle società quotate (per come descritta nella nota 44 a pag. 29 del ricorso), nè, infine, il riferimento al comportamento della stessa CONSOB (per come rappresentato nella nota 44 a pag. 29 del ricorso), rappresentano, infatti, elementi positivi anche soltanto astrattamente idonei ad ingenerare nei sindaci di una società per azioni - persone la cui stessa carica deve far presumere un elevato livello di qualificazione professionale e conoscenza dei meccanismi di funzionamento di una grande società industriale - l'incolpevole convinzione di non dover comunicare alla CONSOB, a mente dell'art. 149, comma 3, T.U.F., irregolarità della gestione aziendale che, come già sopra rilevato nell'ambito dell'esame del quarto mezzo di ricorso, devono qualificarsi, secondo il non censurato apprezzamento della corte di merito, "in termini di rilevante significatività".

Col settimo motivo di ricorso si censura la violazione e falsa applicazione dell'art. 195, comma 7, T.U.F. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 4, e all'art. 111 Cost., comma 7, in cui la corte d'appello sarebbe incorsa trattando la causa in pubblica udienza, nonostante che il rito previsto dalla legge fosse quello camerale.

Il motivo va giudicato inammissibile per carenza di interesse. Secondo il costante insegnamento di questa Corte, infatti, l'art. 360 c.p.c., n. 4, nel consentire la denuncia di vizi di attività del giudice che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, non tutela l'interesse all'astratta regolarità dell'attività giudiziaria, ma garantisce solo l'eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza del denunciato error in procedendo (da ultimo Cass. 28229/17); i ricorrenti non hanno indicato quale pregiudizio sarebbe derivato al loro diritto di difesa dalla trattazione della causa in pubblica udienza, invece che in camera di consiglio, e tanto basta per pervenire alla conclusione della inammissibilità del motivo.

Il ricorso va quindi in definitiva rigettato in relazione a tutti i motivi nei quali esso si articola.

Le spese seguono la soccombenza.

Deve altresì darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, del raddoppio del contributo unificato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1 quater.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna i ricorrenti a rifondere alla contro ricorrente le spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 5.000, oltre Euro 200 per esborsi ed oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto a norma dell'art. 1 bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 25 ottobre 2017.

Depositato in Cancelleria il 17 maggio 2018.