Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 20394 - pubb. 11/01/2018

Data certa e terzietà del curatore

Cassazione civile, sez. I, 22 Novembre 2007, n. 24320. Est. Petitti.


Terzietà del curatore - Applicazione dell'art. 2704 cod. civ. - Contratto non registrato - Prova della certezza della data fornita per equipollenti - Fatture annotate nei libri contabili - Sufficienza - Condizioni



La prova dell'anteriorità di un credito rispetto alla dichiarazione di fallimento è assoggettata all'applicazione dell'art. 2704 cod. civ., attesa la posizione di terzietà del curatore nei confronti dei creditori del fallito e degli altri creditori della massa, ma, in mancanza della registrazione dell'atto, la certezza della data può essere fornita mediante l'allegazione di fatti equipollenti idonei a stabilire in modo ugualmente certo l'anteriorità della formazione dell'atto da cui scaturisce la pretesa azionata, quali l'emissione delle fatture regolarmente annotate nei libri contabili chiusi con attestazione notarile, recanti l'espresso riferimento alla preesistenza del contratto carente di registrazione e pacificamente pagate. (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato - Presidente

Dott. CECCHERINI Aldo - Consigliere

Dott. NAPPI Aniello - Consigliere

Dott. SCHIRO' Stefano - Consigliere

Dott. PETITTI Stefano - rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

 

sentenza

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 14 novembre 1996, la s.a.s. Charter 2000 chiedeva l'ammissione al passivo del fallimento della Prefimo Costruzioni s.p.a., in via chirografaria, di un proprio credito di L. 676.218.000, a titolo di risarcimento dei danni subiti a causa dell'inadempimento, da parte della fallita, delle obbligazioni assunte con lettera di incarico del 26 aprile 1990. A tal fine, esponeva che con la citata lettera la Prefimo aveva affidato al geom. G., (socio accomandatario della Charter) l'incarico di eseguire, anche a mezzo di sue società, molteplici attività finalizzate all'edificazione di un complesso immobiliare in (OMISSIS), per le quali era stato convenuto un compenso pari al 3% sull'importo dei lavori valutati al prezzo di realizzo, con il pagamento di L. 10.000.000, al mese per la durata dell'incarico a titolo di acconto e a valere sull'importo percentuale. Tuttavia, mentre tutte le attività commissionate erano state svolte, la Prefimo aveva interrotto i lavori per insorte difficoltà economi che e non aveva più adempiuto alle proprie obbligazioni; pertanto, poichè il valore del complesso immobiliare era da stimare in L. venticinque miliardi, i danni da essa ricorrente subiti, dedotti gli acconti ricevuti per L. 73.782.000, erano pari a L. 676.218.000.

Il curatore si oppose e nel giudizio contenzioso scaturito da tale opposizione, il fallimento eccepì l'inopponibilità alla massa della lettera di incarico, perchè priva di data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento e contestò comunque la domanda nel merito, osservando che l'incarico affidato al G. non fu eseguito a causa della interruzione dei lavori e che nessuna risoluzione contrattuale era intervenuta prima della dichiarazione di fallimento.

Con sentenza depositata il 4 settembre 2000, il Tribunale di Milano rigettò la domanda condannando la Charter 2000 alla rifusione delle spese.

L'appello proposto da Charter 2000 s.a.s. in liquidazione veniva rigettato dalla Corte d'appello di Milano con sentenza depositata il 27 giugno 2003. La Corte riteneva innanzitutto infondato l'assunto dell'appellante, secondo cui il curatore non potrebbe essere qualificato come terzo rispetto al creditore che chieda l'ammissione del proprio credito al passivo del fallimento, con conseguente inapplicabilità delle disposizioni di cui all'art. 2704 c.c.. In proposito, la Corte, pur dando atto che la tesi dell'appellante era fondata su argomenti non disprezzabili e cioè la incongruenza, a fronte della notoria informalità delle negoziazioni private, della pretesa di autenticazioni di sottoscrizioni o registrazioni di scritture ai fini della opponibilità dei contratti alle curatele rilevava che a tale tesi si opponevano argomenti altrettanto significativi, quale, in particolare, il rischio di pretestuose richieste di soggetti di insinuazione al passivo di fallimenti sulla base di documenti privi di qualsiasi garanzia formale e la cui verifica da parte del curatore potrebbe risultare estremamente disagevole. La Corte confermava, quindi, la inopponibilità al fallimento della lettera di incarico 26 aprile 1990, pacificamente priva di data certa, dovendosi escludere che la certezza della data potesse essere acquisita mediante prove quali quelle formulate dall'appellante ("vero che la Prefimo s.p.a. in data 26/4/1990 con lettera 26/4/1990 ... affidava al Geom. G. l'incarico ..."), giacchè l'ammissione di una simile prova avrebbe costituito chiara violazione dell'art. 2704 c.c., laddove indica i mezzi con i quali detta certezza può essere provata. E la prova per testi articolata dalla Charter era volta direttamente alla prova della data della scrittura e non già a dimostrare un qualsiasi fatto che dimostrasse in modo egualmente certo l'anteriorità della formazione del documento. Ed ancora, privi di detta idoneità erano, come ritenuto dal Tribunale, sia gli atti notarili relativi alla vendita delle are edificabili alla Prefimo e alla stipulazione della convenzione tra questa e il Comune di Biella, trattandosi di atti che non presupponevano necessariamente l'intervento della Charter, sia le fatture emesse da quest'ultima nei confronti della Prefimo e da questa pacificamente pagate, in quanto dette fatture potevano al più dimostrare l'esistenza di rapporti tra le due società, ma non certo i loro contenuti, in relazione ai quali soltanto si poneva il problema della data certa.

Infatti, quando la data certa viene in considerazione in relazione ad un atto inteso non come semplice fatto storico, ma come contratto, essa non può che riguardare i suoi contenuti specifici, sicchè non varrebbe a conferire data certa la semplice prova che un atto qualsivoglia, e di qualsivoglia incerto contenuto, sia stato stipulato in epoca anteriore al fatto certo, essendo invece necessario dimostrare che fu concluso quell'atto, con quegli specifici contenuti dai quali si pretende di dedurre effetti negoziali.

Ma l'appello risultava infondato anche nella parte in cui lamentava la mancata ammissione delle prove dedotte al fine di dimostrare il credito. La prova per testi, infatti, pur essendo in astratto ammissibile al fine di provare l'esistenza del credito, deve ritenersi soggetta, come ritenuto dal Tribunale, ai limiti propri di ammissibilità previsti dalla legge, e in particolare alle disposizioni di cui all'art. 2721 c.c. e ss., a partire da quella che ne esclude l'ammissione con riferimento a contratti di ingente valore, quale quello oggetto della richiesta di ammissione al passivo, ingente non perchè superiore alle L. 5.000, stabilite dal codice civile, ma perchè oggettivamente tale secondo gli attuali criteri di valutazione. Del resto, la stessa appellante aveva assunto che le parti avevano ritenuto necessario dare forma scritta all'accordo tra loro intercorso.

Sotto altro profilo, la Corte condivideva la decisione del Giudice di primo grado in ordine alla inopportunità di affidare alla prova testimoniale la prova di un contratto dai contenuti piuttosto generici, quali certamente erano quelli di cui alla lettera di incarico richiamata; così come condivisibile era la valutazione del medesimo Giudice di primo grado circa la inidoneità della documentazione prodotta a fungere da principio di prova scritta ai sensi dell'art. 2724 c.c., trattandosi di fatture recanti la causale "consulenza" per importi di L. 10.000.000, mensili e in un caso quella di "acconto su contratto del 26/4/1990", che, per il loro contenuto valore e per l'estrema genericità delle indicazioni, apparivano fragile terreno sul quale costruire una prova che sarebbe sostanzialmente rimasta affidata all'oralità. Mentre certamente inammissibile, per la sua genericità, era il capitolo di prova testimoniale n. 3, apparendo per il resto le deduzioni contenute nell'intero capitolato discorsive e scarsamente circostanziate.

Peraltro, osservava la Corte, le prove dedotte dall'appellante dovevano ritenersi inammissibili anche per profili sostanziali.

Premesso che il compenso era stato pattuito nella misura del 3% sull'importo dei lavori valutati a prezzi di realizzo, e premesso altresì che per prezzi di realizzo si poteva parlare solo con riferimento ad immobili vendibili perchè già realizzati, la Corte rilevava che l'appellante non aveva offerto alcuna prova circa la esecuzione delle opere, con conseguente insussistenza delle condizioni per la operatività della clausola che, secondo la prospettazione dell'àappellante, regolerebbe il compenso. Nè, proseguiva la Corte, l'appellante avrebbe potuto ovviare mediante la richiesta di esibizione formulata nelle conclusioni, avente ad oggetto la documentazione relativa alle vendite, realizzate al momento della esibizione, dei lotti del complesso (OMISSIS) in (OMISSIS); infatti, a parte la genericità della richiesta e la mancanza di allegazione di qualsiasi elemento circa l'effettivo compimento di vendite (donde il carattere meramente esplorativo della richiesta), la stessa risultava inammissibilmente formulata per la prima volta in appello.

La Corte respingeva poi la domanda subordinata della Charter di pagamento del compenso dovuto per l'attività svolta in favore della Prefimo, e ciò sulla base del rilievo che la somma già percepita era congrua rispetto all'attività svolta. In proposito, la Corte rilevava che la provvigione per la vendita delle aree poteva essere stimata in L. 30.000.000, con la conseguenza che la restante somma percepita dalla Charter andava a compensare congruamente le restanti attività svolte. Nè l'appellante aveva offerto elementi di maggior concretezza per la valutazione delle attività da essa svolte, non potendosi a tale onere probatorio supplirsi con la richiesta di una consulenza tecnica d'ufficio volta a determinare "le spettanze dovute sulla base dell'attività effettivamente svolta".

Da ultimo, la Corte riteneva generico e infondato il motivo di gravame concernente la condanna dell'appellante al pagamento delle spese del giudizio di primo grado, correttamente pronunciata in applicazione del principio della soccombenza; principio che giustificava anche la condanna al pagamento delle spese del giudizio di gravame.

Per la cassazione di questa sentenza ricorre CHARTER 2000 s.a.s. in liquidazione, sulla base di tre motivi; l'intimata Curatela non ha svolto attività difensiva.

 

Motivi della decisione

Deve preliminarmente essere disattesa la richiesta formulata dal Procuratore Generale presso questa Corte all'esito della discussione in pubblica udienza di dichiarazione di inammissibilità o improponibilità del ricorso. Tale richiesta si fonda sul rilievo che l'azione di risoluzione del contratto di appalto non era stata proposta dalla Charter prima della dichiarazione di fallimento, con il che detta azione non sarebbe stata proponibile o ammissibile in sede di ammissione al passivo.

Dalla sentenza impugnata si evince che la questione della ammissibilità o della proponibilità della domanda per le ragioni addotte dal Procuratore Generale a fondamento della propria richiesta, a prescindere da ogni valutazione circa la correttezza giuridica della prospettazione offerta, è stata dedotta nel giudizio di merito, avendo la Curatela "rilevato come nessun diritto alla risoluzione la Charter avesse conseguito prima del fallimento, non avendo mai proposto una domanda in tal senso". La Corte d'appello di Milano non ha assunto in proposito alcuna pronuncia esplicita, ma ha esaminato la domanda di insinuazione al passivo proposta dalla Charter nel merito, in tal modo implicitamente disattendendo l'eccezione di inammissibilità o improponibilità della domanda stessa, sottesa alla questione dedotta dalla Curatela. Quest'ultima, peraltro, non ha svolto alcuna attività difensiva nel presente giudizio, sicchè la richiesta del Procuratore generale deve ritenersi ormai preclusa.

Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 2704 c.c., in relazione L. Fall., artt. 31, 93, 94, 95, 96 e 97, e artt. 2740, 2741, 2709 e 2710 c.c.), nonchè vizio di motivazione.

La censura si articola in più profili. Sotto un primo profilo, la ricorrente contesta l'affermazione della Corte d'appello in ordine alla inopponibilità alla curatela della scrittura 26 aprile 1990 per mancanza di data certa. In primo luogo, come affermato da alcune pronunce di legittimità, la data di un atto deve considerarsi certa, indipendentemente dalla registrazione della scrittura, quando sia inoppugnabile la conoscenza della scrittura da parte della persona alla quale si voglia opporla; e il curatore aveva dinnanzi a sè un dato di fatto incontrovertibile e cioè il cantiere della Prefimo, atti pubblici, corrispondenza dei legali, e cioè elementi di fatto che documentavano l'anteriorità della prestazione della CHARTER rispetto alla dichiarazione di fallimento e la correlazione tra ciò che era stato fatto e la prestazione della stessa CHARTER. In secondo luogo, la sentenza impugnata avrebbe errato nel non considerare certi e obiettivi fatti che provavano in sè e per sè l'anteriorità dell'incarico e del contratto alla dichiarazione di fallimento e nel ritenere inopponibile la scrittura 26 aprile 1990 al fallimento sulla base del rischio, astratto e inconferente nella specie, di soggette pretestuose di soggetti che tentino di insinuarsi al passivo del fallimento sulla base di documenti privi di qualsiasi garanzia formale. Argomentare come ha fatto la Corte d'appello, significa non tenere conto che la procedura fallimentare intende favorire la partecipazione di tutti i creditori, sicchè sarebbe incoerente con tale finalità usare la regola dell'art. 2704 c.c.. La terzietà del curatore, quindi, dovrebbe essere intesa come terzietà rispetto al documento e non rispetto al negozio documentato.

Sotto un diverso profilo, la ricorrente ritiene che, nella specie, l'art. 2704 c.c., sia applicabile, sussistendo in atti la prova della anteriorità della formazione del documento sulla base di altri fatti esterni al documento stesso. In particolare, la ricorrente evidenzia come le fatture relative ai versamenti mensili effettuati dalla Prefimo in favore di essa ricorrente e trascritte nei libri contabili portavano l'espresso riferimento "v. contratto 26/4/1990". Tali documenti avrebbero dovuto rendere evidente che il negozio costitutivo del credito era stato annotato nei libri contabili al momento del compimento della operazione e cioè prima della dichiarazione di fallimento della Prefimo. Tanto più che i libri contabili 1992 e 1993 della Prefimo, contenenti le annotazioni delle fatture, erano stati chiusi con attestazione notarile, e cioè con atto redatto da un pubblico ufficiale munito di potere certificativo.

In sostanza, conclude la ricorrente, il curatore non poteva non conoscere l'anteriorità del documento al fallimento, e comunque i dati relativi alle prestazioni rese dalla CHARTER dimostravano la certezza della data anche indipendentemente dalla conoscenza che sicuramente ne aveva il curatore.

Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto e insufficiente, omessa e contraddittoria motivazione, in relazione agli artt. 2721, 2724 c.c., e art. 244 c.p.c.. La Corte d'appello, da un lato, ha ammesso, in ipotesi, la possibilità di una prova orale sui tempi e sul contenuto del contratto di appalto nel caso in cui il contratto non abbia data certa; dall'altro è giunta alla conclusione della impossibilità della prova orale in quanto il valore ingente del contratto esigeva l'atto scritto, tanto che le parti lo avevano espressamente previsto e realizzato. Sarebbe quindi evidente l'aporia del ragionamento svolto nella sentenza impugnata, in quanto il valore ingente del contratto avrebbe imposto lo scritto, che infatti le parti avevano realizzato, ma la presenza dell'atto scritto paradossalmente costituisce l'elemento che giustifica l'esclusione della prova orale.

Tanto più tale motivazione sarebbe illogica, in quanto, nella specie, sussistevano moltissimi elementi idonei a fondare il principio di prova scritta ex art. 2724 c.c., e in particolare le ricevute e le fatture nelle quali era contenuto lo specifico riferimento al contratto del 26 aprile 1990.

La motivazione della sentenza impugnata sarebbe viziata anche nella parte in cui si conclude per l'inammissibilità della prova richiesta per "pregnanti ragioni di ordine sostanziale", per l'estrema genericità del terzo capitolo e per il fatto che le deduzioni capitolate apparirebbero "discorsive e scarsamente circostanziate".

Innanzitutto, osserva la ricorrente, l'affermazione secondo cui il contratto avrebbe avuto una causa mista di appalto di servizi e mediazione, oltre ad essere irrilevante ai fini dell'ammissibilità o meno della prova testimoniale, risulta del tutto priva di riscontro perchè in nessun documento si fa riferimento al compenso per un'attività di mediazione.

Inoltre, l'affermazione secondo cui le prove non sarebbero ammissibili "per la loro inconsistenza rispetto al tema di indagine istruttoria" che sarebbe invece stato costituito dalla realizzazione degli immobili, contrasterebbe con i dati documentali e con le deduzioni di prova dedotti, dai quali, al contrario, risultava espressamente descritto il contenuto delle attività svolte da essa ricorrente.

Con il terzo motivo, la ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 61, 191 e ss., artt. 210 e 345 c.p.c..

Sotto un primo profilo, e quanto alla richiesta consulenza tecnica, dalla Corte d'appello ritenuta inammissibile perchè volta a surrogare le attività delle parti, la ricorrente deduce che essa aveva ad oggetto non l'attività da essa svolta, ma l'entità dei lavori eseguiti da Prefimo all'evidente fine di ottenere una stima più adeguata alla realtà di quanto potesse non essere la valutazione di L. 25 miliardi quale valore di realizzo degli immobili. Il richiamo all'art. 2041 c.c., del resto, avrebbe dovuto rendere evidente che questa era l'unica interpretazione possibile della richiesta da essa formulata posto che l'arricchimento di cui si era avvantaggiata Prefimo non poteva essere valutato altro che con riferimento alla correlazione esistente tra lo stato delle costruzioni e l'attività da essa ricorrente posta in essere.

Sotto un secondo profilo, la ricorrente censura la motivazione con la quale la Corte d'appello ha rigettato l'istanza di esibizione ex art. 210 c.p.c., (genericità e carattere esplorativo della richiesta; tardività della stessa, perchè formulata solo in appello). La richiesta di esibizione dei documenti relativi alle vendite poste in essere dal fallimento costituiva il mezzo più sicuro e obiettivo per conoscere lo stato di fatto e i ricavi realizzati dal fallimento, con indicazioni attualizzate al momento della esibizione, più rispondenti alla realtà di quanto avrebbero potuto essere i dati desumibili dalle visure dei registri immobiliari, che proprio per tale ragione non aveva prodotto in giudizio, avvalendosi di una sua facoltà. Quanto poi alla tardività della richiesta, la ricorrente rileva che la richiesta subordinata di pagamento di somme correlate al beneficio tratto da Prefimo dall'attività della CHARTER ex art. 2041 c.c., era già stata formulata in primo grado, ancorchè senza uno specifico riferimento alla norma citata. Tale domanda, inoltre, era stata proposta formalmente, con specifico riferimento all'art. 2041 c.c., nel giudizio di appello del tutto legittimamente, fondandosi questa domanda sui medesimi fatti dedotti in primo grado, sicchè, se era ammissibile la domanda, avrebbe dovuto essere ritenuta ammissibile anche la deduzione di prova volta a sorreggerla.

Del tutto infondata sarebbero infine le argomentazioni con le quali la Corte d'appello ha respinto nel merito la domanda di equo compenso, poichè gli acconti versati da Prefimo avevano una specifica imputazione che non poteva essere disattesa dal Giudice per costruirne un'altra da lui liberamente scelta; e nulla lasciava comunque supporre che tra le parti fosse intercorso un rapporto di mediazione, come arbitrariamente affermato dalla Corte d'appello, la quale è giunta altresì a formulare una valutazione di congruità dei compensi ricevuti rispetto alla realtà delle attività poste in essere da CHARTER e oggetto delle richieste di prova non ammesse.

Il primo profilo del primo motivo di ricorso è infondato.

Questa Corte ha infatti reiteratamente affermato, e la stessa ricorrente ne da atto, il principio secondo cui, in sede di formazione dello stato passivo, il curatore agisce in qualità di terzo sia rispetto ai creditori del fallito che richiedono l'insinuazione al passivo sia rispetto allo stesso fallito; sicchè, in applicazione dell'art. 2704 c.c., è necessaria la certezza della data nelle scritture allegate come prova della pretesa fatta valere nei confronti del fallimento (Cass., n. 13813 del 2001; Cass., n. 6465 del 2001; Cass., n. 9539 del 2000; Cass., n. 5920 del 1996).

Solo quando propone domanda giudiziale di adempimento di un'obbligazione contratta dal terzo nei confronti dell'imprenditore in epoca antecedente al fallimento, il curatore non agisce in sostituzione dei creditori al fine della ricostruzione del patrimonio originario del fallito (e, dunque, nella veste processuale di terzo), ma esercita un'azione rinvenuta nel patrimonio del fallito stesso, ponendosi, conseguentemente, nella sua stessa posizione (sostanziale e) processuale, nella posizione, cioè, che avrebbe avuto il fallito agendo in proprio al fine di acquisire al suo patrimonio poste attive di sua spettanza già prima della dichiarazione di fallimento, ed indipendentemente dal dissesto successivamente verificatosi (Cass., n. 13813 del 2001, cit.; Cass., n. 11904 del 1998; Cass., n. 8143 del 1998; Cass., n. 4551 del 1998).

Le argomentazioni svolte dalla ricorrente a sostegno della tesi secondo cui il curatore non sarebbe terzo rispetto ai creditori non appaiono tali da indurre il Collegio mutare l'orientamento di cui ora si è detto, il quale trova il proprio fondamento come illustrato dalle sentenze (Cass., n. 2707 del 1995; Cass., n. 4551 del 1998) che per prime si sono contrapposte a quelle espressive del diverso principio al quale si ispirano le deduzioni della ricorrente (Cass., n. 4904 del 1992; Cass., n. 9552 del 1992) nella situazione di conflitto che si determina tra i creditori del fallito in sede di formazione dello stato passivo; situazione che non è di mero fatto, poichè viene ad incidere (non soltanto sull'entità delle quote di riparto, ma anche) sul riconoscimento del diritto a partecipare al concorso ed instaura, conseguentemente, un conflitto giuridico tra due categorie di creditori, non dissimile da quello che si determina nella esecuzione individuale fra creditori tempestivi e creditori tardivi e che si ritrova fra creditori intervenuti e creditori muniti di causa di prelazione successiva al pignoramento (Cass., S.U., 28 agosto 1990, n. 8879; Cass. 8 marzo 1995, n. 2707). Tale situazione è quindi "sufficiente a qualificare come terzi, rispetto al creditore che chieda l'accertamento di un suo credito nei riguardi del fallito, gli altri potenziali creditori concorsuali e a giustificare pertanto l'applicabilità dell'art. 2704 c.c., nei loro reciproci rapporti. Identica situazione di terzietà deve essere riconosciuta al curatore, dal momento che egli agisce a tutela degli "interessi indifferenziati della massa dei creditori", non solo nella fase di opposizione allo stato passivo ma anche in quella che immediatamente la precede, la quale, pur nella sua sommarietà, ha un indubbio carattere giurisdizionale, che si manifesta particolarmente nel momento della "verificazione" dello stato passivo, prevista dalla L. Fall., art. 96, ma che non è assente neppure in quella concernente la sua "formazione" preliminare, regolata dall'art. 95 della stessa legge" (Cass., n. 4551 del 1998 del 2005, cit.; in senso conforme, v. anche le richiamate sentenze Cass., n. 5294 del 1992; Cass., n. 1016 del 1993; Cass., n. 10013 del 1993; Cass., n. 2188 del 1994; Cass., n. 2707 del 1995; recentemente, sulla posizione di terzo del curatore rispetto ai creditori che chiedono l'ammissione al passivo, v. Cass., n. 23793 del 2006).

La richiamata sentenza n. 4551 del 1998 ha inteso ribadire detto orientamento ®perchè se è indubbio che la nozione di "terzo" rilevante per l'applicazione dell'art. 2704 c.c., è più lata di quella desumibile dagli artt. 1380 e 2644 dello stesso codice (Cass. 3 giugno 1976 n. 1987), essendo a tal fine sufficiente che il soggetto estraneo al rapporto sia portatore di un interesse differenziato rispetto a quello delle parti, in guisa da rendere possibile la configurazione di un conflitto anche solo potenziale con tali soggetti (Cass. 6 dicembre 1974, n. 4074; 17 luglio 1993, n. 7 944) è non meno vero che in detta categoria deve essere annoverato anche il curatore del fallimento quando, nell'ambito delle funzioni a lui istituzionalmente attribuite dalla legge, assuma, nell'interesse precipuo della massa dei creditori del debitore fallito, iniziative dirette all'accertamento della reale consistenza del passivo".

Alla stregua di tali argomentazioni, che il Collegio condivide e ribadisce, deve quindi affermarsi che l'art. 2704 c.c., era, contrariamente a quel che assume la ricorrente, nel caso di specie pienamente applicabile.

E' invece fondato il secondo profilo del primo motivo di ricorso, con il quale la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere negato l'esistenza, in atti, della prova della anteriorità della formazione del documento.

La Corte d'appello ha ritenuto che i documenti prodotti, tra i quali figuravano le fatture recanti l'espresso riferimento al contratto 26 aprile 1990, fossero inidonei a provare la data di tale contratto.

La Corte territoriale ha in proposito osservato che "l'inidoneità degli atti notarili relativi alla vendita delle aree edificabili della Prefimo ed alla stipulazione della convenzione tra questa ed il Comune di Biella, non trattandosi di atti necessariamente presupponenti l'intervento della Charter (o un qualsiasi coinvolgimento della stessa nella vicenda) e dai quali si potesse inferire l'anteriorità della lettera di incarico di cui si è detto.

Ed altrettanto è da dire a proposito delle fatture emesse dalla Charter nei confronti della Prefimo e da questa pacificamente pagate: del tutto correttamente il primo Giudice ha osservato che dette fatture possono al più dimostrare l'esistenza di rapporti fra le due società, ma non certo i loro contenuti, in relazione ai quali soltanto si pone il problema della data certa. Va chiarito, in proposito, che quando la data certa viene in considerazione in relazione ad un atto inteso non come semplice fatto storico, ma come contratto, essa non può che riguardare i suoi specifici contenuti, sicchè non varrebbe a conferire la data certa la semplice prova che un atto qualsivoglia, e di qualsivoglia incerto contenuto, sia stato stipulato in epoca anteriore al fatto certo, essendo invece necessario dimostrare che fu concluso quell'atto, con quegli specifici contenuti dai quali si pretende di dedurre effetti negoziali".

Nel lamentare la violazione dell'art. 2704 c.c., e l'omessa ed illogica motivazione su un punto decisivo della controversia la ricorrente osserva che si sarebbe in presenza di fatti l'avvenuto pagamento delle fatture recanti l'espresso riferimento al contratto 26 aprile 1990 che, ai sensi dell'art. 2704 c.c., stabiliscono in modo certo, l'anteriorità della formazione del documento.

E la censura coglie nel segno, non apparendo logico riconoscere che le fatture recanti il citato riferimento al contratto 26 aprile 1990 sono state pacificamente pagate e al contempo escludere che l'avvenuto pagamento possa valere a far ritenere esistente la prova che il contratto esplicitamente richiamato dalle fatture è stato formato in data anteriore a quello delle fatture stesse. La distinzione che la Corte d'appello introduce tra l'esistenza dell'atto e la prova del suo contenuto non pare idonea a rendere logica l'esclusione della opponibilità al curatore del contratto 26 aprile 1990 per mancanza di data certa, giacchè le fatture e il relativo pagamento valgono solo come fatti idonei a dimostrare la preesistenza di un contratto, mentre il contenuto di tale contratto altro non può essere che quello risultante dal contratto prodotto dalla ricorrente. Ne consegue che la Corte d'appello, nel pretendere che la identificabilità, sulla base del fatto successivo certo, del contenuto negoziale recato da un contratto che si assume essersi perfezionato anteriormente, e nell'escludere, quindi, la rilevanza, a tali fini, dell'elemento successivo dal quale si sarebbe dovuta desumere in modo certo l'anteriorità del documento, è incorsa nel denunciato vizio.

L'accoglimento del motivo di ricorso in esame comporta la necessità di un nuovo esame della controversia alla luce delle esposte considerazioni, con assorbimento degli ulteriori profili di censura, al cui esame la Corte d'appello ha proceduto sulla base della ritenuta inoperatività, nella specie, della regola posta dall'art. 2704 c.c., u.p., comma 1.

La sentenza impugnata deve quindi essere cassata con rinvio alla Corte d'appello di Milano, in diversa composizione, alla quale è demandato altresì il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'appello di Milano in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 26 giugno 2007.

Depositato in Cancelleria il 22 novembre 2007.