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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 20816 - pubb. 22/11/2018.

Dal curatore del fallimento non può provenire l’effetto dell’inversione della prova di cui all’art. 1988 c.c.


Cassazione civile, sez. VI, 05 Novembre 2018. Est. Dolmetta.

Fallimento – Riconoscimento di un debito – Posizione del curatore – Inversione dell’onere della prova di cui all’art. 1988 c.c. – Esclusione


Dal curatore del fallimento non può provenire l’effetto dell’inversione della prova di cui all’art. 1988 c.c. ( “la promessa di pagamento o la ricognizione di un debito dispensa colui a favore del quale è fatta dall'onere di provare il rapporto fondamentale”), in quanto il riconoscimento di un debito "deve pur sempre provenire da un soggetto legittimato sotto il profilo sostanziale a disporre del patrimonio sul quale incide l'obbligazione dichiarata, trattandosi di atto avente carattere negoziale" (Cass., 13 ottobre 2016, n. 20689; ivi pure l'indicazione di precedenti ulteriori).

La dichiarazione rilasciata dal soggetto poi fallito non può comunque assumere, nell'ambito dei giudizi relativi allo stato passivo, l'efficacia della confessione stragiudiziale di cui all'art. 2735 c.c., posto che il curatore "rappresenta la massa dei creditori e non il fallito" (così Cass., 18 dicembre 2012, n. 23318; cfr. inoltre, più di recente, Cass., 8 ottobre 2014, n. 21258; Cass., 19 ottobre 2017, n. 24690); nè può essere messo in dubbio che il principio così espresso venga a valere anche per la figura del riconoscimento di debito e in relazione all'inversione dell'onere della prova disposta dalla norma dell'art. 1988 c.c. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria - Presidente -

Dott. SCALDAFERRI Andrea - Consigliere -

Dott. BISOGNI Giacinto - Consigliere -

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro - Consigliere -

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

 

ORDINANZA

 

1.- La S.p.A. F. * ha formulato domanda di insinuazione al chirografo nel passivo fallimentare della s.r.l. (*). Ha assunto di averne titolo in forza di una cessione di credito intervenuta con la s.r.l. Sigma Distribuzione, che le aveva così trasferito un "credito derivante da una fattura emessa nei confronti della (*) s.r.l. in bonis per la fornitura di materiale informatico".

Su conforme proposta del curatore, il giudice delegato alla procedura ha negato accesso alla domanda, ritenendola inerente a "credito derivante da operazioni inesistenti come si desume dal PVC dell'Agenzia delle Entrate".

2.- La società F. ha allora proposto opposizione, rilevando in particolare che "prima del fallimento la (*) s.r.l. aveva ammesso la ricezione della merce, riconosciuto il credito conseguente e accettato la sua cessione con dichiarazioni non solo opponibili alla curatela ai sensi degli artt. 2735 e 2731 c.c. in virtù della valenza confessoria, ma anche idonee a dispensare la cessionaria dall'onere di dimostrare il rapporto fondamentale ex art. 1988 c.c.".

Con decreto del 2 novembre 2016, il Tribunale di Reggio Emilia ha rigettato l'opposizione così presentata.

3.- A fondamento della decisione assunta, il Tribunale ha osservato prima di tutto che "le ricognizioni di debito operate dalla società (poi fallita) nei confronti della F.... non assumono valore positiva circa la spettanza della somma indicata nella fattura prodotta"; "al contrario, l'esistenza di una ricognizione di debito - ancorché recante data certa - non ha valore confessorio", perché il "Fallimento costituisce una parte processuale diversa dal fallito" e si pone come "terzo rispetto agli atti posti in essere dal fallito prima dell'apertura del concorso", in quanto "organo pubblico chiamato ad agire per la realizzazione dei fini propri della procedura".

Escluso altresì che la dichiarazione del soggetto poi fallito "comporti l'insorgere di un'obbligazione prima inesistente", il Tribunale ha proseguito rilevando che "ricade sul curatore, semmai, l'onere di provare l'inesistenza del credito controverso, in adempimento peraltro delle previsioni della L. Fall., art. 95, comma 1". E ha ritenuto che nella specie tale onere fosse stato assolto, in esito all'esame compiuto riscontrando che - a fronte del "quadro" probatorio offerto da curatore - l'esclusione dal passivo del credito in discorso "non denota alcuna contraddizione logica o giuridica".

4.- Nei confronti di questo decreto è insorta la S.p.A. F., proponendo ricorso affidato a tre motivi di cassazione.

Il Fallimento resiste, con controricorso.

La ricorrente ha depositato, altresì, memoria ex art. 380 bis c.p.c..

5.- I tre motivi di ricorso vanno esaminati congiuntamente, in ragione della loro stretta contiguità.

Il primo motivo assume, in particolare, carenza di motivazione del decreto impugnato, con "violazione e falsa applicazione dell'art. 132 c.p.c., n. 4...., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4".

Secondo la ricorrente, nel contesto del decreto non è ravvisabile un iter logico coerente: il Tribunale "prima ha affermato che doveva essere provata dal curatore del Fallimento opposto l'inesistenza della prestazione e, poi, ha rigettato l'istanza di F. S.p.A. sulla base di una mera affermazione del Curatore", nonchè "di un verbale di accertamento della Agenzia delle Entrate poco sopra riconosciuto dallo stesso Tribunale di Reggio Emilia come non attinente ai fatti di causa".

Il secondo motivo denunzia "violazione e falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4". Ad avviso della ricorrente, è "riscontrabile una violazione del paradigma dell'art. 115 c.p.c. quando il giudice abbia deciso in contrasto, anche implicito, con la norma stessa, e ciò avviene senz'altro quando giudichi sulla base di prove inesistenti". "La mera affermazione da parte del curatore del Fallimento opposto della inesistenza della merce non è assolutamente una prova"; il Tribunale "ha poi dato rilevanza ai verbali prodotti dal curatore - pur se non attinenti alla compravendita in oggetto - solo perchè, evidentemente, ha ritenuto prima già provata l'inesistenza della compravendita sulla base delle mere affermazioni del curatore".

Il terzo motivo riscontra "violazione e falsa applicazione dell'art. 1988 c.c. e dell'art. 2697 c.c. in materia di inversione dell'onere della prova e di prova dell'inesistenza del rapporto fondamentale in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n.". "Deve rilevarsi" - così argomenta la ricorrente - "che la posizioni di terzietà del curatore potrebbe avere rilevanza soltanto se i riconoscimenti di debito dedotti e prodotti da F. S.p.A. non avessero una data certa opponibile al Fallimento". E' tuttavia pacifico che, nel caso in esame, un riconoscimento di debito ha data certa: "ne consegue" conclude la ricorrente - "che il destinatario della promessa, ovvero F. S.p.A. è dispensato dall'onere di provare il rapporto fondamentale".

6.- I motivi, appena sopra esposti, non meritano di essere accolti.

Per illustrarne le ragioni, è opportuno muovere dall'esame dello svolgimento che la ricorrente ha dato al terzo motivo del suo ricorso.

Non condivisibile risulta, in particolare, l'affermazione che - nel procedimento di verifica del passivo fallimentare - la terzietà del curatore si esaurisce nell'ambito disciplinare della certezza di data delle scritture private.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, la dichiarazione rilasciata dal soggetto poi fallito non può comunque assumere, nell'ambito dei giudizi relativi allo stato passivo, l'efficacia della confessione stragiudiziale di cui all'art. 2735 c.c., posto che il curatore "rappresenta la massa dei creditori e non il fallito" (così Cass., 18 dicembre 2012, n. 23318; cfr. inoltre, più di recente, Cass., 8 ottobre 2014, n. 21258; Cass., 19 ottobre 2017, n. 24690). Nè può essere messo in dubbio che il principio così espresso venga a valere anche per la figura del riconoscimento di debito e in relazione all'inversione dell'onere della prova disposta dalla norma dell'art. 1988 c.c.

Tanto più che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, per potere comunque produrre l'effetto dell'inversione di cui alla detta norma il riconoscimento di un debito "deve pur sempre provenire da un soggetto legittimato sotto il profilo sostanziale a disporre del patrimonio sul quale incide l'obbligazione dichiarata, trattandosi di atto avente carattere negoziale" (Cass., 13 ottobre 2016, n. 20689; ivi pure l'indicazione di precedenti ulteriori). E tale il curatore evidentemente non è (quand'anche a voler sfumare l'autonomia della sua posizione, sino a renderla sostanzialmente evanescente).

Dati questi rilievi, risulta dunque da correggere, ai sensi del comma 4 dell'art. 384 c.p.c., la motivazione svolta dal Tribunale reggiano, laddove questo ha erroneamente ritenuto che anche nell'ambito del procedimento di verifica dei crediti in sede fallimentare potesse venire a trovare piena applicazione la disciplina dettata nella norma dell'art. 1988 c.c.

7.- Per il caso la dichiarazione di riconoscimento provenga da un terzo (in genere), bandita comunque ogni inversione o modificazione dell'onere probatorio, la giurisprudenza di questa Corte non esclude a priori, per la verità, l'eventualità di potere trarre da questa degli "elementi di prova", da valutare nel "concorso con gli altri elementi istruttori" (cfr. ancora Cass., n. 20689/2016). Secondo una valutazione che per propria natura si affida al riscontro delle fattispecie concrete volta a volta prese in esame.

Nel caso qui in attenzione, il Tribunale reggiano ha tratto seppure nella non corretta prospettiva di un onere probatorio addossato alla curatore fallimentare - un'indicazione propriamente intesa a escludere, in tutta ragionevolezza, la significatività probatoria della dichiarazione resa dalla (*), società poi fallita: "dai verbali di contestazione e dagli avvisi di accertamento dell'Agenzia delle Entrate presenti agli atti si ricava che proprio la New Line S.p.A. e la (*) s.r.l. si sono rese responsabili di reiterate frodi iva avendo rispettivamente emesso e impiegato (la seconda anche per il tramite di società incorporate) numerosissime fatture per operazioni inesistenti allo scopo, tra l'altro, di conseguire vantaggi fiscali di natura illecita".

8.- In conclusione, il ricorso dev'essere respinto.

Le spese seguono la regola della soccombenza e si liquidano in dispositivo.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida nella misura di Euro 4.100,00 (oltre a Euro 100,00 per esborsi).

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della ricorrenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, di misura pari a quello dovuto per il ricorso, a mente del comma 1 bis del medesimo art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta Sezione civile, il 14 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2018.