La Responsabilità del Medico


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 21680 - pubb. 21/05/2019

La domanda di mediazione è valida anche quando la somma richiesta diverge dalla domanda giudiziale

Tribunale Mantova, 23 Gennaio 2019. Est. Silvia Fraccalvieri.


Istanza di mediazione – Requisiti necessari – Quantificazione della somma richiesta – Discordanza tra l’istanza di mediazione e l’atto di citazione – Validità



L'istanza di mediazione deve contenere l'indicazione dell'oggetto e delle ragioni della pretesa, al fine di consentire alle parti di poter raggiungere un accordo conciliativo (cfr.art.4 D.lgs. 28/2010). Non costituisce motivo di invalidità della istanza di mediazione la quantificazione di somme inferiori rispetto a quelle chieste nel giudizio, potendo la parte istante al fine di addivenire alla conciliazione, domandare meno di quanto chiederebbe in sede processuale. (Mario Antonio Stoppa) (riproduzione riservata)


Segnalazione dell'Avv. Mario Antonio Stoppa, Responsabile della sede di Lecce di MedyaPro, Organismo di Mediazione


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI MANTOVA

Seconda CIVILE

 

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Silvia Fraccalvieri, ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 1442/2016 promossa da:

G.X B.X - PARTE ATTRICE

contro

AZIENDA S.X SANITARIA TERRITORIALE DI M. - PARTE CONVENUTA

Conclusioni

(…)

Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.

Con atto di citazione ritualmente notificato, G.XX e B.XXB.XX, rispettivamente figlio e marito della defunta I.XX G.XXX, hanno esposto che: a) in data 24.07.2012, I.XX G.XXX, paziente già affetta da ipertensione arteriosa, dislipidemia, ateromasia carotidea e neoplasia mammaria, veniva ricoverata presso il Reparto di Ginecologia ed Ostetricia dell’Ospedale di - (facente parte dell’Azienda Ospedaliera -), al fine di eseguire un intervento chirurgico programmato per la rimozione di una cisti ovarica sinistra; b) l’intervento veniva effettuato, in pari data, dal ginecologo, dott. M.XXX M.X, inizialmente in laparoscopia e, successivamente, in laparotomia, essendo emersa la presenza di una massa anche nell’ovaio destro, rimossa dal chirurgo ginecologo senza che fosse stato richiesto l'ausilio di un chirurgo addominale e senza il posizionamento di drenaggi o di un sondino naso-gastrico; c) successivamente all’intervento, la paziente accusava difficoltà respiratorie e ipossia, con sospetta embolia polmonare, esclusa a seguito di TAC polmonare; d) si evidenziavano, altresì, un’anomala distensione delle anse addominali, aria libera in addome, un versamento pleurico bilaterale ed il collasso degli alveoli polmonari; e) non veniva effettuata una radiografia addominale, come consigliato dalla ginecologa, dott. ssa L.X, ma, al contrario, una ecografia addominale, ovvero una "indagine tecnicamente limitata dall’abbondante contenuto intestinale"; f) in data 27.07.2012, venivano effettuate tre consulenze urgenti (di un cardiologo, un anestesista ed un internista), a fronte di dispnea, tachicardia, tachiaritmia e sudorazione della paziente; g) in data 28.07.2012, la paziente accusava nausea e vomito, oltre a registrare una temperatura corporea di 37.7 gradi; h) nella notte tra il 29 ed il 30 luglio 2012, la paziente veniva sottoposta a rx addominale e, successivamente, condotta in sala operatoria per un intervento urgente all’addome; i) all’esito dell’intervento, la stessa veniva ricoverata nel reparto di rianimazione in stato di shock settico e, in data 31.07.2012, alle ore 19.36, decedeva per una "peritonite stercoracea da perforazione dell’ultima ansa ideale in recente intervento di annessiectomia bilaterale". Tanto premesso, gli esponenti hanno dedotto: 1) la sussistenza di una condotta gravemente negligente, imperita ed imprudente dei sanitari che ebbero in cura la loro congiunta, per avere il dott. M.X proceduto all’asportazione della massa ovarica destra nonostante la stessa aderisse eccessivamente all’intestino - così cagionando la perforazione addominale - senza interpellare un chirurgo addominale e senza prescrivere il posizionamento di drenaggi o del sondino naso gastrico, e per non avere i sanitari, successivamente al predetto intervento, sottoposto la paziente agli accertamenti necessari - con particolare riferimento alla radiografia addominale - che avrebbero consentito di individuare tempestivamente la patologia infettiva in atto; 2) la sussistenza di un nesso di causalità tra le condotte gravemente negligenti dei sanitari e l’evento infausto; 3 ) la conseguente responsabilità dell’Ospedale, sulla base del contratto di spedalità, per tutti i danni subiti, patrimoniali e non patrimoniali, vantati sia iure proprio - per la definitiva perdita del rapporto parentale -, che iure hereditatis - per le sofferenze patite dalla loro congiunta nei giorni intercorrenti tra il primo intervento chirurgico e la morte (danno biologico da inabilità temporanea); 4) di avere esperito il procedimento di mediazione obbligatorio, con esito negativo, come da verbale del 21.09.2015. Pertanto, gli attori hanno chiesto all’intestato Tribunale di condannare l’Azienda Ospedaliera - - Ospedale di - -, al risarcimento dei danni subiti, quantificati in euro 216.315,00 a favore di G.X B.X ed in euro 291.555, 00 a favore di B.XXX B.X, a titolo di danno non patrimoniale da perdita parentale iure proprio; oltre al danno non patrimoniale iure hereditatis, da liquidarsi in via equitativa, oltre al rimborso delle spese mediche, oltre interessi e rivalutazione, con vittoria di spese, da distrarsi a favore del procuratore dichiaratosi antistatario.

Si è costituita in giudizio l’Azienda Socio Sanitaria Territoriale di -, eccependo, preliminarmente, la nullità della notifica dell’atto di citazione e l’improcedibilità della domanda, ai sensi dell’art. 5, comma 1, D.lgs. 28/2010, e, nel merito, contestando la domanda e chiedendone la reiezione, anche sulla scorta delle risultanze contenute nella relazione del consulente tecnico del PM, disposta nell'ambito del procedimento penale, successivamente archiviato.

La causa, istruita sulla documentazione versata in atti dalle parti e con una CTU medico-legale (depositata in data 23.09.2017), è stata trattenuta in decisione all’udienza del 2.10.2018, sulle conclusioni delle parti trascritte in epigrafe, con concessione dei doppi termini di legge per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica.

Tanto premesso, osserva il Tribunale quanto segue.

Per quanto attiene alle eccezioni preliminari di nullità della notifica dell’atto di citazione e di improcedibilità dell’azione, formulate dalla convenuta in comparsa di costituzione e risposta, si rinvia integralmente all’ordinanza del 20.09.2016, con la quale dette eccezioni sono state integralmente respinte: "in ordine all’eccezione di nullità della notifica dell’atto di citazione, per violazione dell’art. 163, comma 2, n. 2, c.p.c., sollevata da parte convenuta per essere stato l’atto introduttivo notificato all’Azienda Ospedaliera -, mentre, dal 1.01.2016, risulta istituita, per la gestione degli ospedali della Provincia di M., l’Azienda Socio Sanitaria Territoriale -: rilevato che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, la notificazione nulla è suscettibile, oltre che di rinnovazione, anche di sanatoria, nel caso in cui, nonostante il vizio di cui sia affetta, abbia raggiunto il suo scopo, consistente nel far pervenire l’atto nella sfera di conoscibilità del suo destinatario, con la conseguenza che i vizi della notifica restano sanati dalla costituzione in giudizio del convenuto (v. ex multis, Cass. S.U. sent. n. 8468/2004); rilevato che, nella fattispecie, l’Azienda Socio Sanitaria Territoriale M. si è ritualmente e tempestivamente costituita in giudizio, articolando compiutamente le proprie difese nell’atto introduttivo; ritenuto, pertanto, che la costituzione in giudizio del convenuto abbia comportato la sanatoria di ogni eventuale nullità della notifica dell’atto di citazione; b) in ordine all’eccezione di improcedibilità della domanda attorea sollevata da parte convenuta in comparsa di costituzione e risposta e ribadita all’odierna udienza, per pagina non esservi stata identità tra la domanda oggetto del procedimento di mediazione e quella avanzata in via giudiziaria: rilevato che l’istanza di mediazione, ai sensi dell’art. 4 D.lgs. 28/2010, deve contenere l’indicazione dell’oggetto e delle ragioni della pretesa, al fine di consentire alle parti di poter raggiungere un accordo conciliativo; rilevato che, con la memoria allegata all’istanza di mediazione, gli attori hanno compiutamente illustrato i fatti relativi alla controversia insorta tra le parti e chiesto il ristoro del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale subito a seguito del decesso della congiunta; rilevato che, nell'atto di citazione, i medesimi hanno chiesto la condanna dell’azienda sanitaria convenuta al risarcimento del danno non patrimoniale iure proprio da perdita del rapporto parentale, oltre che del danno non patrimoniale iure hereditatis per le sofferenze patite dalla congiunta nel periodo intercorso tra l’intervento chirurgico subito e la morte; ritenuto che, nella fattispecie, anche alla luce del principio di ragionevole durata del processo, la condizione di procedibilità si sia avverata, sussistendo tra il procedimento di mediazione ed il presente giudizio piena identità di causa petendi e parziale identità di petitum, a nulla rilevando che nell’istanza di mediazione gli attori abbiano quantificato le somme richieste diversamente rispetto all’atto di citazione, ovvero non abbiano domandato il risarcimento del danno non patrimoniale iure hereditatis; potendo la parte istante, al fine di addivenire alla conciliazione, domandare meno di quanto chiederebbe in sede processuale ed avendo, in ogni caso, parte convenuta avuto, in sede di mediazione, piena cognizione dei fatti posti a fondamento della pretesa attorea ed essendo stata messa, pertanto, nelle condizioni di valutare l’opportunità della Conciliazione". Venendo al merito, secondo l’orientamento tradizionale affermatosi in tema di responsabilità civile derivante da attività medica (da ultimo messo in discussione, con riferimento alla posizione dei sanitari, a seguito dell’entrata in vigore del c.d. decreto Balduzzi, il quale contiene un espresso rinvio all’art. 2043 c.c.), l’attore deve provare l’esistenza del contratto, ovvero il contatto sociale, l’insorgenza della patologia ed allegare un inadempimento qualificato del sanitario, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, restando a carico del medico o della struttura sanitaria la prova che tale inadempimento non si sia verificato, ovvero che nessun rimprovero di scarsa diligenza o di imperizia possa essere mosso, o che il mancato o inesatto adempimento sia stato determinato da un evento imprevedibile ed inevitabile secondo l’ordinaria diligenza (cfr. Cass. Civ., III, 20.10.2014, N. 22222; Cass. Civ., III, 30.9.2014, N. 20547; Cass. Civ., III, 12.12.2013, N. 27855). Per quanto attiene specificamente alla responsabilità della struttura sanitaria, si evidenzia che, secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il rapporto che si instaura tra paziente ed ente ospedaliero ha la propria fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive, con effetti protettivi nei confronti del terzo, dal quale insorgono a carico dell’ente, accanto a quelli di tipo latu sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie.

Ne consegue che la responsabilità - di natura contrattuale - della struttura nei confronti del paziente può discendere sia dall’inadempimento delle obbligazioni direttamente incombenti a suo carico, ex art. 1218 c.c., sia, ex art. 1228 c.c., dall’inadempimento della prestazione medico professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario, sussistendo un collegamento tra la prestazione effettuata dai sanitari e l’organizzazione aziendale.

Con riferimento al nesso di causalità, si è affermato che, in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’evento di danno (aggravamento della patologia preesistente, ovvero insorgenza di una nuova patologia) e l’azione o l’omissione dei sanitari, non potendosi predicare, rispetto a tale elemento della fattispecie, il principio della maggiore vicinanza della prova al debitore, in virtù del quale, invece, incombe su quest’ultimo l’onere della prova contraria solo relativamente alla colpa ex art. 1218 cod. civ. (Cass. Sez. 3 - , Ordinanza n. 20812 del 20/08/2018, Rv. 650417 - 01). A tal fine, si precisa che, in ambito civile, l’accertamento del nesso causale deve essere compiuto secondo il criterio della "preponderanza dell’evidenza", ovvero del "più probabile che non" (cfr., ex multis, Cass. Civ., III, 20.02.2015, N. 3390; infatti, l’accertamento del legame eziologico tra la condotta illecita del medico, commissiva o omissiva, e la lesione in concreto patita dal paziente è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, con la precisazione che nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola del "più probabile che non", mentre nel processo penale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio", Cass. Civ. 16 ottobre 2007, n. 21619). Tanto premesso, deve ora farsi riferimento alle risultanze istruttorie e, in particolare, alle risultanze dell’indagine eseguita dal C.T.U., dott. N.XXXX C.

In particolare, il consulente, dopo aver ricostruito l’esatta cronologia degli eventi verificatisi tra il 24.07.2012 - data del ricovero della paziente presso il Reparto di Ginecologia ed Ostetricia dell’Ospedale di - e dell’intervento chirurgico programmato per l’asportazione di neoformazioni in sede pelvica - ed il 31.07.2012 - data del decesso, cagionato da uno "scompenso multiorganico in paziente affetta da shock settico in esiti di peritonite stercoracea da perforazione di un’ansa ileale"-, sulla base della documentazione sanitaria presente in atti - costituita dalle cartelle e dai diari clinici relativi al ricovero della paziente presso la suindicata struttura ospedaliera - e tenuto conto delle osservazioni preliminari formulate dai CT delle parti, ha evidenziato: - la corretta indicazione della procedura chirurgica volta all’asportazione delle neoformazioni presenti a livello annessiale, considerata la pregressa patologia neoplastica individuata a livello mammario, potendo tali neoformazioni costituire metastasi, con conseguente modifica della stadiazione e dell’approccio terapeutico della patologia primaria; - la correttezza della preventiva procedura laparoscopica, più conservativa e meno demolitiva rispetto alla procedura laparotomica (alla quale è stato comunque necessario ricorrere "in considerazione della complessità del quadro aderenziale e della difficoltà di lisare le aderenze intestinali", con riferimento alla massa rinvenuta nell’ovaio destro nel corso dell’intervento); - la correttezza della condotta del chirurgo-ginecologo, il quale ha condotto in autonomia l’intervento, in assenza di un chirurgo generale, non essendo necessario il coinvolgimento di quest’ultimo, posto che la contiguità anatomica tra l’apparato riproduttore femminile, gli apparati digerente ed emuntore ed il sistema vascolare delle pelvi richiede al chirurgo ginecologo di essere in grado di gestire in autonomia la fase di viscerolisi; - che, nella fattispecie, l’operatore, pur a fronte di "una laboriosa viscerolisi", è stato in grado di isolare i diversi organi in assenza di conclamate lesioni ("verifica dell’integrità della parete intestinale. Isolamento bilaterale degli ureteri e verifica della loro peristalsi. Emostasi accurata"), - che, pertanto, la complicanza, ovvero la perforazione della parete addominale, "anche se condizionata dall’intervento chirurgico, si deve con ogni verosimiglianza essere prodotta dopo alcuni giorni dallo stesso; la perforazione potrebbe essere la conseguenza indesiderata di una necrosi parietale seguita da speritoneizzazione di un’ansa ileale oppure la conseguenza tardiva di una ustione da termocoagulazione"che, in caso di "dissezioni complicate (come nel caso di specie a causa delle tenaci aderenze)", non dipende "necessariamente da condotte inadeguate"; - che la tipologia di intervento e la mancata apertura di organi cavi non ponevano indicazione all’applicazione di drenaggi e che, in ogni caso, "la presenza di un drenaggio, oltre a non essere richiesta da documentabili regole scientifiche, non avrebbe verosimilmente portato alcun vantaggio per l’anticipazione della diagnosi". Pertanto, in ordine alla prima doglianza di parte attrice, il consulente tecnico ha escluso la sussistenza di profili di colpa, per imprudenza, imperizia e negligenza, con riferimento alla condotta dell’operatore chirurgo ginecologo, in relazione all’intervento del 24.07.2012. Per quanto attiene al prospettato ritardo diagnostico della peritonite, l’ausiliario ha evidenziato che, nel caso di specie, il quadro clinico della paziente doveva essere considerato "aspecifico e fuorviarne ", atteso che "il dolore addominale è stato assente fino alle fasi finali, quando ormai la peritonite era conclamata ed erano presenti segni di shock settico; alle ore 20.15 del 30.07 il quadro clinico evidenziava "addome trattabile su tutto l’ambito, non meteorico, non peritonitico, sutura adesa non infiltrata". La febbre era assente (...) la leucocitosi è comparsa solo la mattina del 29.07". A parere del consulente, tali elementi "sembrerebbero giustificare la mancata considerazione di una peritonite nella diagnosi differenziale delle potenziali cause che giustificassero l’evidente criticità delle condizioni cliniche della paziente a partire dalla sera del 26.07.2012". Ciò, tuttavia, a fronte di elementi di segno contrario, quali: l’età avanzata della paziente (73 anni), considerato "l’impatto confondente di tale condizione sulle manifestazioni cliniche in caso di infezioni intraddominali"; le risultanze dell’angio-TAC del 26.07.2012, che "se non patognomoniche di peritonite in atto avrebbero dovuto costituire motivo di allarme e consigliare una verifica strumentale dopo qualche giorno"; la tachicardia; la febbricola presente dal 28.07.2012; la leucocitosi e l’ipopiastrinemia presenti dalla mattina del 29.07.2012; il vomito e la nausea presenti dalla sera del 29.07.2012. Tali elementi, a parere dell’ausiliario, avrebbero dovuto suggerire ai sanitari l’ipotesi diagnostica di una peritonite da perforazione intestinale e, quindi, l’espletamento di una rx diretta dell’addome o di una TAC addominale, non essendo, a tal fine, sufficiente una ecografia addominale (esame eseguito nella fattispecie). Di conseguenza, il CTU ha rilevato un ritardo diagnostico, atteso che le evidenze cliniche (febbre, leucocitosi, piastrinopenia) presenti nella mattina del 29.07.2012 avrebbero richiesto l’effettuazione di una TAC addominale, che avrebbe consentito di giungere alla diagnosi corretta nel corso della tarda mattinata del 29.07.2012, con conseguente anticipazione del secondo intervento chirurgico nel pomeriggio del 29.07.2012 (intervento di laparotomia esplorativa effettuato, invece, nella notte tra il 30 ed il 31 luglio 2012, per sospetta occlusione intestinale). Ciò posto, il consulente ha concluso: "tenuto conto della gravità della situazione addominale riscontrata [nel corso dell’] intervento eseguito nella notte tra il 30 ed il 31 luglio 2012, dell’epoca della perforazione, che deve essere ante datata almeno al 26-27 luglio, della maggiore fragilità dei pazienti anziani nei confronti di patologie infiammatorie infettive addominali, non è chiaramente definibile quale avrebbe potuto essere l’effetto salvifico di un’anticipazione diagnostica che, come detto, non poteva concretamente e doverosamente superare le 36 ore circa (...) Tutto ciò considerato si ritiene che il colposo ritardo diagnostico abbia giocato un ruolo non indifferente nel determinismo del decesso della signora G.XXX I.XX, ma che tale ruolo non sia identificabile nella categoria del più probabile che non; considerati tutti gli elementi in gioco si è portati a ritenere che vi sia stata una concreta riduzione delle chance di sopravvivenza della paziente quantificabile indicativamente nella misura intorno ad un terzo (33%)". Con particolare riferimento al nesso di causalità, l’ausiliario ha affermato: "in considerazione della iniziale difficoltà della diagnosi [trattandosi di un caso, soprattutto nella fase iniziale, di particolare complessità] e della conseguente limitata (circa 36 ore) potenziale anticipazione della diagnosi si ritiene che il decesso sia stato favorito dal ritardo diagnostico in termini di perdita di chances, prospettabile nella misura intorno ad un terzo"; ancora, nel rispondere alle osservazioni del CT di parte convenuta il consulente ha sostenuto che il "complesso dei dati (pur singolarmente aspecifici), se il caso fosse stato affrontato nella sua globalità avrebbe dovuto consentire una seppur limitata anticipazione diagnostica (peraltro dalla limitata efficacia salvifica) ". In conclusione, l’ausiliario ha ritenuto che, pur sussistendo profili di colpa nella condotta dei sanitari che ebbero in cura la paziente, con riferimento al predetto ritardo diagnostico, non vi sia, nella fattispecie, la prova della sussistenza del nesso di causalità tra della condotta negligente e l’evento infausto (ovvero la morte della degente), quantomeno nei termini indicati dalla suesposta giurisprudenza di legittimità (cioè secondo il criterio della "preponderanza dell’evidenza", ovvero del "più probabile che non"), non potendosi determinare, sulla base dei dati clinici a disposizione, in quale misura la limitata anticipazione della diagnosi corretta e, quindi, l’anticipazione del secondo intervento avrebbe evitato il prodursi dell’evento infausto (ovvero impedito il decesso della paziente). Ciò posto, si osserva che non vi è motivo di disattendere le risultanze peritali, poiché la relazione tecnica prodotta dal consulente d’ufficio va indenne da vizi logici e metodologici, dando conto di una disamina obiettiva, meticolosa ed esaustiva del caso concreto, nonché di un’analisi scrupolosa della documentazione prodotta in giudizio, con la conseguenza che, con riferimento alla condotta dei sanitari che ebbero in cura la paziente nella fase post operatoria, deve escludersi la sussistenza del nesso causale tra la loro condotta e l’evento infausto; mentre, in ordine al chirurgo ginecologo, va esclusa la sussistenza di profili di rimproverabilità della sua condotta.

Né può fondarsi la prova della sussistenza del nesso di causalità (prova incombente su parte attricesulla base della (sola) simulazione effettuata dal CTU a seguito delle osservazioni del CT di parte attrice, posto che l’ausiliario ha dato atto che "la difficoltà di giudizio sul nesso di causalità risiede nel fatto che mentre si conosce la condizione clinico-chirurgica nella quale la paziente è stata portata sul tavolo operatorio nella notte tra il 30 ed il 31 luglio non si può ovviamente conoscere quale fosse la condizione clinico chirurgica nella giornata del 29 Luglio (...). Anche se si volesse, con la metodica suggerita dal dott. M.XXXX, valutare il tasso di mortalità al momento dell’intervento (30-31.07.2012) risulterebbe difficile operare analoga valutazione sul tasso di mortalità esistente il 29.07.2012"; ciò con particolare riferimento all’incertezza relativa al profilo della contaminazione peritoneale in data 29.07.2012 (posto che i criteri clinici generali, dispnea, funzione cardiaca, valori ematochimici, ecc., non si sono modificati tra il 29.07 ed il 30.07), dato preso in considerazione dal CTU nella misura minima (minor soiling), sulla base di un "atteggiamento estremamente conservativo e favorevole alla parte attrice", ma in assenza di dati certi.

Ancora, sulla scorta di un condivisibile e consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, si rileva che, nel caso in cui l’attore abbia chiesto con l’atto di citazione il risarcimento del danno da colpa medica per errore nell’esecuzione di un intervento chirurgico (e, quindi, per la lesione del diritto alla salute), e domandi poi in corso di causa anche il risarcimento del danno derivato dall’inadempimento, da parte dello stesso medico, del dovere di informazione necessario per ottenere un consenso informato (inerente al diverso diritto alla autodeterminazione nel sottoporsi al trattamento terapeutico), si verifica una "mutatio libelli"e non una mera "emendatio", in quanto nel processo viene introdotto un nuovo tema di indagine e di decisione, che altera l’oggetto sostanziale dell’azione e i termini della controversia, tanto da porre in essere una pretesa diversa da quella fatta valere in precedenza (Cass. Sez. 3 - , Sentenza n. 24072 del 13/10/2017, Rv. 645833 - 01). Tanto premesso, si osserva che, nel caso in esame, né in atto di citazione, né nella prima memoria ex art. 183, comma VI, c.p.c. vi sono allegazioni relative all’inadempimento, da parte dei sanitari, del dovere di informazione necessario ad ottenere un consenso informato, né la relativa domanda risarcitoria risulta proposta; soltanto nella formulazione del quesito da sottoporre al CTU, contenuto nella seconda memoria ex art. 183, comma VI, c.p.c. di parte attrice, si fa riferimento al profilo relativo al consenso informato, con conseguente tardività della relativa allegazione, successiva alla maturazione delle preclusioni relative alla definizione del thema probandum e decidendum. Ancora, ritiene il Tribunale di aderire all’orientamento di legittimità secondo il quale la domanda di risarcimento del danno da perdita delle chance di guarigione di un prossimo congiunto, in conseguenza d’una negligente condotta del medico che l’ebbe in cura, deve essere formulata esplicitamente e non può ritenersi implicita nella richiesta generica di condanna del convenuto al risarcimento di "tutti i danni"causati dalla morte della vittima (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 21245 del 29/11/2012, Rv. 624449 -01). Infatti "la domanda per perdita di chances è ontologicamente diversa dalla domanda di risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato, perché in questo secondo caso l’accertamento è incentrato sul nesso causale, mentre nel primo oggetto dell’indagine è un particolare tipo di danno, e segnatamente una distinta ed autonoma ipotesi di danno emergente, incidente su di un diverso bene giuridico, quale la mera possibilità del risultato finale". Né può reputarsi che, nella fattispecie, tale domanda sia stata esplicitamente proposta, per il solo fatto che a pag. 12 dell’atto di citazione la parte abbia incidentalmente fatto riferimento al "crollo irreversibile delle chances di vita della predetta". Pertanto, le domande attoree devono essere rigettate, non essendo emersa, sulla base delle risultanze istruttorie, la prova della sussistenza del nesso di causalità tra le condotte colpose imputate ai sanitari ed i danni lamentati dagli attori, con conseguente assorbimento di ogni altra eccezione e/o domanda. Spese processuali Tenuto conto della natura del giudizio, della qualità delle parti e della complessità delle questioni trattate, sia in fatto, che in diritto, sussistono gravi ed eccezionali ragioni per compensare integralmente le spese di lite tra le parti, ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c., come interpretato a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale n. 77/2018. Deve, infine, darsi atto che, con decreto del 24.04.2018, è stata rigettata l’istanza di liquidazione presentata dal CTU, per essere stata la stessa presentata oltre il termine previsto, a pena di decadenza, dall’art. 71, comma 2, D.P.R. 115/2002 (ovvero oltre i 100 giorni dal compimento delle operazioni).

P.Q.M.

Il Tribunale di Mantova, definitivamente pronunciando, ogni altra eccezione, domanda o istanza rigettata o assorbita, così dispone:

- rigetta le domande attoree;

- compensa integralmente le spese di lite tra le parti.

Mantova, 22 gennaio 2019

Il Giudice dott. ssa Silvia Fraccalvieri