Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 22609 - pubb. 31/10/2019

Opposizione di terzo all'esecuzione e interruzione del processo per fallimento del debitore

Cassazione civile, sez. III, 05 Settembre 2019, n. 22166. Pres. De Stefano. Est. Rossetti.


Fallimento in corso di causa del debitore esecutato - Conseguenze - Interruzione del giudizio - Eventuale riassunzione nei confronti della curatela - Pronuncia di sentenza - Natura dichiarativa della stessa - Suoi effetti - Fattispecie



In tema di opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c., qualora, nel corso del giudizio, il debitore esecutato sia dichiarato fallito, il processo deve essere interrotto, ai sensi dell'art. 43, comma 3, l.fall., e la pretesa dell'opponente va accertata in sede fallimentare. L'eventuale riassunzione del processo nei confronti della curatela potrà condurre alla pronuncia di una sentenza meramente dichiarativa e non di condanna, inopponibile al fallimento ed idonea esclusivamente a costituire un titolo da fare valere verso il fallito ove dovesse tornare "in bonis" o se il bene oggetto del contendere dovesse restare invenduto alla chiusura della procedura concorsuale. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto inammissibile per carenza di interesse il ricorso proposto dal creditore nei riguardi della curatela, poiché la sentenza di secondo grado che aveva accolto l'originaria opposizione non era opponibile al fallimento). (massima ufficiale)


 


Svolgimento del processo

1. La società Mediocredito di Roma s.p.a., creditrice della società (*) s.a.s. di A.B., nel 1997 iniziò la procedura di espropriazione forzata su un immobile della società debitrice.

Nelle more della procedura il credito azionato pervenne alla Società Immobiliare Pontina - SIP s.r.l." odierna ricorrente.

2. Nel 2007 i coniugi A.B. e B.G. proposero opposizione di terzo all'esecuzione, ex art. 619 c.p.c., esponendo che:

-) l'immobile pignorato apparteneva in passato, in parti uguali e pro indiviso, a M.S. e T.C., genitori dell'opponente A.B.;

-) deceduta T.C. il (*), la quota di lei (pari ad 1/2) si trasferì in parti uguali ai tre unici eredi: e dunque per 1/6 al coniuge M.S., per 1/6 al figlio A.B., e per 1/6 alla figlia A.C.;

-) il 16.2.1985 M.S., con atto ricevuto dal cancelliere della Pretura di Latina, dichiarò di rinunciare alla sua quota di eredità in favore dei figli E. e E.S.;

-) tale rinuncia era tuttavia inefficace, perchè al momento dell'apertura della successione di T.C., M.S. si trovava già nel possesso dell'immobile, ove esercitava l'attività di, impresa alberghiera, e la rinuncia era avvenuta oltre il termine per il compimento di essa, imposto all'art. 485 c.c. nel caso in cui l'erede si trovi nel possesso dei beni ereditari;

-) il 28.9.1985 A.C., L. e E. con scrittura privata autenticata conferirono nella costituenda società (*) di M.S. s.a.s. le rispettive quote di proprietà dell'immobile;

-) i conferenti, reputando erroneamente che la rinuncia all'eredità da parte di M.S. fosse valida ed efficace, nell'atto di conferimento dichiararono che M.S. era comproprietario dell'immobile per 1/2, e che tale quota egli intendeva conferire nel capitale sociale della costituenda società; dichiararono altresì che A.C. e E. erano comproprietari dell'immobile ciascuno per 1/4, e che tale quota essi intendevano conferire nel capitale sociale della costituenda società;

-) tuttavia, per effetto della inefficacia della dichiarazione di rinuncia all'eredità da parte di M.S.:

(a) questi aveva conferito nella società la sola quota dichiarata nell'atto (1/2), e non la maggior quota di cui era effettivamente titolare (4/6);

(b) i due figli avevano potuto conferire nella società la sola quota di cui erano effettivamente titolari (1/6 ciascuno), e non la maggior quota dichiarata nell'atto di conferimento (1/4 ciascuno);

-) M.S. era rimasto, perciò, proprietario dell'immobile pignorato per la residua quota di un sesto, che non aveva mai ceduto ad altri; ed alla sua morte (avvenuta il (*)) tale diritto si era trasferito jure successionis ad A.B. (oltre che, in pari misura, a A.C.), nella misura di un dodicesimo.

Conclusero pertanto gli opponenti chiedendo:

-) l'accertamento della titolarità in capo ad A.B. della suddetta quota di comproprietà dell'immobile;

-) la dichiarazione di nullità dell'esecuzione;

-) la dichiarazione di inefficacia dell'atto di conferimento delle suddette quote di proprietà immobiliari nel capitale sociale della (*) s.a.s..

3. Nel giudizio intervenne l'altra figlia di M.S., A.C., allegando i medesimi fatti appena esposti, e formulando domande coincidenti con quelle proposte da A.B..

4. Nelle more del giudizio la società (*), per effetto del trasferimento delle quote, mutò ragione sociale in Hotel de Ville di C.S. s.a.s..

5. Con sentenza 20.10.2011 n. 2705 il Tribunale di Latina rigettò l'opposizione.

Ritenne il Tribunale che:

-) l'art. 485 c.c. non s'applica quando il chiamato all'eredità sia nel possesso dei beni non a titolo successorio, ma "per altro e diverso titolo", come era avvenuto nel caso di specie, in cui M.S. già prima della morte della moglie possedeva l'immobile in quanto gestore dell'impresa alberghiera ivi esercitata;

-) di conseguenza la rinuncia all'eredità compiuta da M.S. era valida ed efficace.

6. La sentenza venne appellata da A.B. e B.G. in via principale e da A.C. in via incidentale adesiva.

Nelle more del giudizio d'appello la (*) s.a.s. venne dichiarata fallita.

7. La Corte d'appello di Roma con sentenza 4.8.2015 n. 4753 accolse parzialmente il gravame.

La Corte d'appello ritenne che:

-) l'eccezione con cui la SIP aveva invocato il principio della salvezza dell'acquisto compiuto dall'erede apparente (art. 534 c.c.) era inammissibile perchè tardiva (in quanto sollevata nella comparsa conclusionale depositata in primo grado, e non rilevabile d'ufficio); -) la decadenza dal diritto di rinunciare all'eredità prevista dall'art. 485 c.c. s'applica in ogni caso, quale che sia il titolo in base al quale il chiamato all'eredità si trovi nel possesso dei beni caduti in successione;

-) M.S., pertanto, non aveva mai rinunciato all'eredità pervenutagli dalla moglie;

-) di conseguenza, quando venne costituita la (*) s.a.s., egli conferì in essa una quota di proprietà immobiliare minore di quella di cui era effettivamente titolare; i suoi due figli, per contro, conferirono nel capitale sociale una quota superiore a quella di cui erano effettivamente titolari.

Sulla base di questi argomenti la Corte d'appello:

-) dichiarò integralmente nulla la procedura esecutiva;

-) dichiarò di "rigettare" la domanda formulata dagli opponenti di dichiarazione di inefficacia, limitatamente alla quota di 1/6, dell'atto con cui A.C. e E. conferirono nella (*) s.a.s.. le quote di loro proprietà dell'immobile, sul presupposto che essi non avevano interesse all'accoglimento di tale domanda, "avendo gli stessi opponenti dato causa alla costituzione di (*) s.a.s. ed al conferimento alla stessa delle quote del complesso immobiliare".

8. La sentenza d'appello è stata impugnata per cassazione dalla SIP, con ricorso fondato su due motivi ed illustrato da memoria.

Nessuno degli intimati si è difeso.

 

Motivi della decisione

1. I motivi di ricorso.

1.1. Col primo motivo la società ricorrente lamenta la nullità della sentenza, ai sensi dell'art. 132 c.p.c., n. 4, per contraddittorietà insanabile.

Osserva che la Corte d'appello da un lato ha dichiarato nulla la procedura esecutiva, perchè avente ad oggetto l'espropriazione d'un bene che era in parte di proprietà dell'opponente, terzo estraneo; dall'altro, però, ha rigettato la domanda di dichiarazione di inefficacia dell'atto con cui i M. avevano previamente conferito nella (*) s.a.s. le rispettive quote di comproprietà dell'immobile.

Deduce la ricorrente che le due affermazioni sono tra loro inconciliabili, poichè se l'atto di conferimento era valido ed efficace, il conferimento aveva prodotto i suoi effetti e la società esecutata era dunque proprietaria esclusiva dell'immobile pignorato.

La dichiarazione di inefficacia dell'atto era dunque "il logico presupposto" per l'accoglimento dell'opposizione, sicchè, mancando quella, non poteva pronunciarsi questa.

1.2. Col secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione delle regole sull'interpretazione dei contratti.

Il motivo formula una censura così riassumibile:

-) quando A.C. L. e E. conferirono nella (*) s.a.s. le rispettive quote di comproprietà dell'immobile, il loro intento era quello di attribuire alla società l'intera proprietà dell'immobile;

-) questo intento è stato accertato dalla stessa Corte d'appello;

-) la Corte, pertanto, ha interpretato l'atto di conferimento dell'immobile nel capitale sociale senza tenere conto della effettiva volontà delle parti, nè della causa concreta del negozio.

2. Inammissibilità dell'opposizione proposta da B.G..

2.1. Risulta dalla sentenza impugnata che l'opposizione di terzo all'esecuzione, ex art. 619 c.p.c., è stata proposta anche da B.G., coniuge di A.B..

A.B. si afferma, in tesi, comproprietario dell'immobile oggetto dell'espropriazione, ed è incontroverso che tale quota gli sia pervenuta a titolo successorio.

Tuttavia i beni acquisiti da uno dei coniugi a titolo successorio dopo il matrimonio non cadono in comunione, ai sensi dell'art. 179 c.c., comma 1, lett. (b). Ove, poi, quel bene fosse stato acquistato da A.B. prima del matrimonio, esso sarebbe ugualmente sottratto alla comunione legale, ai sensi dell'art. 179 c.c., comma 1, lett. (a).

Questa Corte deve di conseguenza rilevare d'ufficio l'inammissibilità dell'opposizione esecutiva proposta da B.G., per difetto di interesse ai sensi dell'art. 100 c.p.c. e, di conseguenza, cassare senza rinvio in parte qua la sentenza impugnata, giacchè quella opposizione non poteva essere proposta.

3. Inammissibilità del ricorso nei confronti del fallimento.

3.1. Il 21.10.2013, nel corso del giudizio di appello, la società esecutata (*) s.a.s. è stata dichiarata fallita.

La società qui ricorrente non ha tuttavia indicato se il processo di esecuzione sia stato dichiarato improcedibile, nè se e quali istanze abbia, in quel processo, rivolto il curatore al giudice dell'esecuzione, ed in particolare se abbia formulato istanza di subentro nella posizione del debitore esecutato, oppure di improcedibilità, ai sensi dell'art. 107 L. Fall., nel testo applicabile ratione temporis.

La SIP, nondimeno, ha allegato al proprio ricorso copia di un "rapporto sullo stato della procedura", inviato dal curatore fallimentare della (*) s.a.s. al giudice delegato al fallimento, dal quale risulta che:

(a) A.B. e A.C. hanno formulato domanda di rivendica in sede fallimentare, ai sensi (deve ritenersi) dell'art. 93, comma 1, L. Fall.;

(b) su tali domande il Giudice Delegato ha deliberato di "accogliere la domanda di rivendica subordinatamente all'esito del giudizio in corso".

Il "giudizio in corso" cui fa riferimento il suddetto rapporto non può che essere il presente.

La società qui ricorrente, SIP s.r.l., sulla base di tale provvedimento del Giudice Delegato al fallimento ha dedotto (p. 8, primo capoverso, del ricorso) di avere, per effetto di esso, interesse alla coltivazione del presente giudizio, dal momento che dall'esito di questo dipenderà la sorte della domanda di rivendica proposta dagli odierni intimati in sede fallimentare.

3.2. Per stabilire se persista un interesse della SIP alla coltivazione del presente giudizio, nonostante il debitore esecutato sia stato dichiarato fallito ed i terzi opponenti abbiano proposto domanda di rivendica in sede fallimentare, fondata sugli stessi fatti posti a fondamento dell'opposizione esecutiva, occorre brevemente ricordare, ai limitati fini che qui rilevano, quali interrelazioni vengano a costituirsi tra la procedura concorsuale e il processo civile di opposizione all'esecuzione, quando l'opponente sia un terzo che rivendichi la proprietà d'una parte del bene pignorato.

3.3. Chi rivendica la proprietà d'un bene immobile acquisito dal curatore all'attivo fallimentare ha l'onere di proporre la domanda di rivendicazione in sede fallimentare, con ricorso al giudice delegato, ex art. 93, comma 1, L. Fall..

Su tale domanda deciderà il giudice delegato con decreto, ai sensi dell'art. 96 L. Fall., avverso il quale il rivendicante potrà proporre opposizione al Tribunale, ai sensi dell'art. 98, comma 2 e art. 99, L. Fall..

3.4. Il giudizio di opposizione di terzo all'esecuzione ex art. 619 c.p.c., proposto da chi intenda vantare la proprietà, la comproprietà od altro diritto reale sul bene pignorato, non ha invece ad oggetto l'accertamento della proprietà di quel bene, e non è assimilabile ad una azione di rivendica.

L'opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c., infatti, ha lo scopo non già di fare stabilire con efficacia di giudicato a chi appartenga il bene pignorato, ma quello di sottrarre all'esecuzione uno dei beni che ne era stato colpito, mediante un accertamento solo incidentale, e non idoneo al giudicato, della sussistenza del diritto reale del terzo opponente sul bene stesso (ex permultis, Sez. 3, Sentenza n. 19761 del 13/11/2012, Rv. 624413; Sez. 3, Sentenza n. 694 del 29/01/1981, Rv. 411161 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 6497 del 15/12/1980, Rv. 410268 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 2639 del 25/05/1978, Rv. 392000 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 3277 del 05/12/1962, Rv. 254819 - 01).

L'oggetto del giudizio introdotto dall'opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. è dunque costituito non già dall'accertamento della proprietà, ma dall'accertamento dell'illegittimità dell'esecuzione. Ne discende che esso non può che celebrarsi nei confronti del debitore esecutato: una medesima esecuzione, infatti, non potrebbe mai ritenersi legittima nei confronti del debitore, ed illegittima nei confronti del terzo opponente.

Pertanto, se nel corso del giudizio di opposizione il debitore esecutato venga dichiarato fallito, il processo dovrà essere dichiarato interrotto, secondo la regola generale di cui all'art. 43, comma 3, L. Fall.; la pretesa del terzo opponente dovrà essere accertata nel concorso degli altri creditori e quindi trasferirsi in sede fallimentare; l'eventuale riassunzione del processo nei confronti della curatela, compiuta da qualunque parte vi avesse interesse, potrà mettere capo ad una sentenza meramente dichiarativa e non di condanna, inopponibile al fallimento, ed il cui unico scopo potrebbe essere soltanto quello di costituire un titolo da far valere, da parte del terzo opponente o del creditore procedente, nei confronti del fallito se questi dovesse tornare in bonis, oppure se il bene oggetto dell'opposizione dovesse restare invenduto all'esito della chiusura del fallimento.

3.5. E' alla luce di questi principi che deve giudicarsi la vicenda processuale che oggi ci occupa.

Dall'applicazione di essi discende che il giudice delegato, quando ha ritenuto di "accogliere la domanda di rivendica" proposta dagli eredi M. "subordinatamente all'esito del giudizio in corso", ha pronunciato in sostanza un provvedimento analogo all'ammissione con riserva dei crediti al passivo fallimentare, secondo la previsione di cui all'art. 96, comma 3, n. 3, L. Fall., evidentemente apparentando la domanda di rivendicazione, sulla quale vi era già stata una pronuncia in sede di opposizione all'esecuzione, a quella di insinuazione al passivo di crediti accertati con sentenza non passata in giudicato, pronunziata prima della dichiarazione di fallimento.

3.5.1. Vero è che la domanda di rivendicazione proposta in sede fallimentare può essere dal giudice delegato accolta tout court o rigettata, ma non può essere ammessa con riserva, poichè l'ammissione con riserva è consentita nei soli casi tassativamente previsti dalla legge (art. 96, comma 2, L. Fall.), e tra questi non rientra l'ipotesi in cui il Giudice Delegato dubiti della proprietà del bene rivendicato (così Sez. 1 -, Sentenza n. 20191 del 18/08/2017, Rv. 645395 - 01; per l'affermazione dello stesso principio, Sez. 1, Sentenza n. 7297 del 10/04/2015, Rv. 635250 - 01).

Tuttavia non risulta che la suddetta decisione del giudice delegato abbia formato oggetto di opposizione ai sensi dell'art. 98 L. Fall., nè la SIP, la quale ne aveva il relativo onere, ex art. 366 c.p.c., nn. 3 e 6, ha mai dedotto che una simile opposizione sia stata da essa proposta.

In mancanza di quell'opposizione, pertanto, non può in questa sede sindacarsi la correttezza della suddetta scelta del giudice delegato, ovvero quella di ammettere con riserva una domanda di rivendicazione. Diversamente opinando, si perverrebbe al non consentito esito di trasformare questo giudizio di opposizione in un riesame della decisione adottata dal Giudice delegato.

3.6. Occorre ora chiedersi se la sentenza impugnata dinanzi a questa Corte, conclusiva del giudizio di opposizione di terzo all'esecuzione, nuoccia alla posizione della SIP, e se di conseguenza questa abbia un interesse giuridico, ex art. 100 c.p.c., alla sua rimozione.

A tale ultimo quesito deve darsi risposta negativa.

Del giudizio di opposizione all'esecuzione, anche dopo il fallimento della (*), la Corte d'appello non rilevò l'avvenuta interruzione ope legis, ai sensi dell'art. 43, comma 3, L. Fall..

Nè la SIP risulta mai avere provveduto, anche di sua iniziativa, a notificare alla curatela un atto di riassunzione o di denuntiatio litis.

Il grado di appello del giudizio di opposizione, in definitiva, si è celebrato e si è concluso in assenza della curatela della (*) s.a.s.: al fallimento, pertanto, la sentenza d'appello che ha accolto l'opposizione degli eredi M. non potrebbe mai essere opposta.

Orbene, se il giudizio di opposizione ex art. 619 c.p.c. si è concluso con una sentenza inopponibile al fallimento, ciò vuol dire che la pretesa del terzo opponente nei confronti della curatela non ha trovato conferma giudiziale; che di conseguenza la "condizione" posta dal giudice delegato all'accoglimento della domanda di rivendica proposta dagli eredi M. in sede fallimentare non si è avverata; e che pertanto la sentenza impugnata per cassazione non nuoce alla posizione della SIP, ma anzi le giova, perchè comporterà in sede fallimentare il rigetto della pretesa dei terzi.

Sarebbe stato onere dei terzi opponenti (ovvero i germani M., per il già visto difetto di legittimazione della sua coniuge B.), semmai, impugnare per cassazione una sentenza d'appello che, non essendo stata pronunciata nei confronti della giusta parte (il fallimento), precludeva loro di far valere il relativo accertamento in sede fallimentare, secondo la "riserva" apposta dal giudice delegato all'accoglimento della domanda di rivendica.

3.7. In conclusione, il ricorso proposto dalla SIP è inammissibile per carenza di interesse, in quanto:

(a) la mancata riassunzione del processo d'appello nei confronti della curatela fallimentare ha fatto sì che la sentenza d'appello fosse a questa inopponibile;

(b) l'inopponibilità della sentenza d'appello alla curatela fallimentare comporta ex se il mancato avveramento della "condizione" apposta dal giudice delegato all'accoglimento della domanda di rivendica proposta dai germani M. (condizione della cui apposizione nessuna delle parti risulta essersi tempestivamente doluta nelle sedi e con le forme appropriate);

(c) il mancato avveramento della suddetta condizione comporterà il rigetto della domanda di rivendica in sede fallimentare, e priva la SIP di interesse ad impugnare una sentenza che, lungi dal nuocerle, le giova.

4. Il residuo (ed eventuale) interesse della SIP. 4.1. S'è già detto (supra, p. 3.4 della motivazione) come l'esito del presente giudizio di opposizione di terzo, inopponibile al fallimento che non vi ha preso parte, avrebbe potuto conservare una astratta rilevanza per il creditore procedente SIP, nell'eventualità in cui la società fallita dovesse tornare in bonis, oppure il fallimento dovesse chiudersi senza che il bene oggetto dell'esecuzione forzata sia stato venduto.

La sussistenza di tale residuo interesse impedisce di dichiarare sic et simpliciter inammissibile il ricorso proposto dalla SIP ed impone di esaminarne il merito, beninteso al limitato fine e per la sola eventualità di cui si è appena detto.

4.2. Nei circoscritti limiti di cui si è detto, ambedue i motivi di ricorso sono fondati.

Fondato è, innanzitutto, il motivo col quale la società ricorrente lamenta la nullità della sentenza per insanabile contraddittorietà della motivazione.

La Corte d'appello, infatti, investita (anche) d'una domanda di dichiarazione di inefficacia dell'atto con cui i congiunti M. conferirono nel capitale sociale della (*) s.a.s. l'immobile oggetto del contendere, da un lato ha ritenuto che l'atto di conferimento ebbe un oggetto diverso da quanto in esso dichiarato e sulla base di questo rilievo ha accolto l'opposizione; dall'altro però ha ritenuto che gli opponenti non "avessero interesse" ad una sentenza di inefficacia di quell'atto.

Così giudicando, però, la Corte d'appello ha in definitiva sancito l'inefficacia parziale dell'atto di conferimento compiuto dai tre signori M. (reputando che M.S. avesse conferito meno di quanto dichiarato ed i suoi figli avessero conferito più di quanto dichiarato) e nello stesso tempo ha rigettato la domanda di accertamento dell'inefficacia del suddetto atto.

La Corte d'appello ha perciò compiuto due affermazioni oggettivamente contraddittorie, da un lato accertando l'inefficacia parziale d'un atto e dall'altro reputando inammissibile per difetto di interesse la domanda di accertamento della suddetta inefficacia.

4.3. Fondato, altresì, è il secondo motivo di ricorso.

E' noto che i contratti ed i negozi giuridici unilaterali debbano essere interpretati non solo in base alla lettera, ma anche, e principalmente, indagando la volontà delle parti che li hanno posti in essere (art. 1362 c.c., comma 1); e che tale volontà debba desumersi dalla condotta complessiva delle parti, anche posteriore alla stipula (art. 1362 c.c., comma 2).

Nel caso di specie, la Corte d'appello doveva stabilire quali fossero gli effetti di un atto di conferimento di un immobile nel capitale sociale d'una società di persone.

L'atto venne compiuto dai tre comproprietari dell'immobile, ciascuno dei quali dichiarò di voler conferire per intero la quota di cui riteneva di essere titolare.

Evidente era dunque l'intento dei tre soggetti conferenti di attribuire alla società l'intera proprietà del complesso immobiliare.

Dunque il conferimento, da parte dei due germani M., di una quota nominale di proprietà superiore a quella effettivamente posseduta, costituiva per la società un acquisto a non domino, e per i conferenti un atto dispositivo avente ad oggetto una cosa altrui.

Ma poichè il reale dominus della quota ceduta da chi non ne aveva la legittimazione ( M.S.) era presente all'atto, non solo nulla osservò, ma anzi diede volontariamente esecuzione al negozio, manifestò in tal modo ha facta concludentia la volontà di ratificare il conferimento in società dell'intera sua quota, sebbene compiuto in parte non da lui, ma dai suoi figli.

4.4. Dai fatti sopra evidenziati discende, quale conseguenza giuridica, una duplice violazione dell'art. 1362 c.c., comma 2, da parte della Corte d'appello.

Questa, infatti, in primo luogo ha ritenuto che una quota dell'immobile conferito in società fosse rimasta in proprietà del conferente M.S., nonostante la evidente volontà delle parti di conferire nel capitale sociale della (*) s.a.s. tutte le quote di cui erano titolari nella convinzione che la loro somma corrispondesse appunto alla totalità delle quote, e quindi di rendere la costituenda società proprietaria dell'intero immobile.

In secondo luogo, ed in ogni caso, la Corte d'appello ha violato l'art. 1362 c.c., comma 2, per non avere tenuto conto che M.S., quand'anche per ipotesi avesse davvero conferito nel capitale sociale una quota di proprietà dell'immobile inferiore a quella di cui era effettivamente titolare, in ogni caso nulla oppose al conferimento in società della sua quota restante di proprietà immobiliare da parte dei suoi figli, in tal modo manifestando la volontà di accettarne l'operato e ratificarlo, volontà di per sè idonea a rendere valido e produttivo di effetti il negozio dispositivo compiuto da parte di un soggetto diverso da quello avente la proprietà della cosa che ne costituisce l'oggetto (così già Sez. 3, Sentenza n. 1838 del 19/03/1980, Rv. 405457 - 01, sia pure in fattispecie in parte diversa da quella qui in esame).

4.5. La ritenuta erroneità della sentenza impugnata non ne impone la cassazione con rinvio.

Infatti, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, rigettando l'opposizione proposta da A.B. con l'originario ricorso e da A.C. con atto di intervento.

5. Le spese.

5.1. Nei rapporti tra la SIP da un lato, ed i tre opponenti dall'altro, le spese seguono la soccombenza.

La decisione nel merito impone a questa Corte di provvedere anche sulle spese dei gradi di merito, che saranno liquidate nel dispositivo.

5.2. Nei rapporti tra la SIP e le altre parti non è luogo a provvedere sulle spese, attesa la indefensio degli intimati in questa sede.

 

P.Q.M.

la Corte di cassazione:

(-) cassa senza rinvio la sentenza impugnata nella parte in cui ha provveduto sull'opposizione per come proposta da B.G., perchè la domanda non poteva essere proposta;

(-) dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti della curatela del fallimento della (*) s.a.s.;

(-) cassa la sentenza impugnata nei confronti di A.B. e A.C. e, decidendo nel merito, rigetta l'opposizione da questi ultimi proposta, nei limiti e per gli effetti di cui in motivazione;

(-) condanna A.B., A.C. e B.G., in solido, alla rifusione in favore di SIP s.r.l. delle spese del primo grado di giudizio, che si liquidano nella somma di Euro 10.543, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2;

(-) condanna A.B., A.C. e B.G., in solido, alla rifusione in favore di SIP s.r.l. delle spese del giudizio di appello, che si liquidano nella somma di Euro 8.266, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2;

(-) condanna A.B., A.C. e B.G., in solido, alla rifusione in favore di SIP s.r.l. delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 6.271, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile della Corte di cassazione, il 23 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2019.