Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 22957 - pubb. 08/01/2020

Fallimento, clausola compromissoria statutaria e competenza arbitrale per la controversia in ordine all'esecuzione dei conferimenti

Cassazione civile, sez. I, 30 Settembre 2019, n. 24444. Pres. Didone. Est. Terrusi.


Fallimento - Versamenti dei soci a responsabilità limitata - Arbitrato - Sopravvenuto fallimento - Clausola compromissoria statutaria - Controversia in ordine all'esecuzione dei conferimenti - Diritti disponibili



La controversia integrata dall'opposizione di cui alla L. Fall., art. 150, è da annoverare tra quelle relative a diritti inerenti al rapporto sociale, perchè inscindibilmente correlata alla partecipazione e tramite essa al rapporto in base al quale è stata assunta la deliberazione di aumento di capitale da parte della società in bonis;

L'inerenza alla dimensione sociale organizzativa resta palesata dall'essere (stato) il diritto patrimoniale legato alla partecipazione sociale;

Anche in caso di sopravvenuto fallimento rileva la clausola compromissoria statutaria, e la controversia in ordine all'esecuzione dei conferimenti è da considerare relativa a diritti disponibili, siccome attinente al credito della società e al debito (individuale) del socio. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)


 


Fatti di causa

Il giudice delegato al fallimento di (*) s.r.l. in liquidazione ha ingiunto a Indata s.r.l., ai sensi della L. Fall., art. 150, di versare la somma di Euro 150.000,00 ancora dovuta in base a una Delib. di aumento di capitale assunta dalla società in bonis il 20 dicembre 2010.

Indata s.r.l. ha proposto opposizione ex art. 645 c.p.c. e ha pregiudizialmente eccepito la carenza di giurisdizione o di competenza del giudice statale in base alla clausola compromissoria contenuta nello statuto della società, previdente l'arbitrato rituale per ogni controversia inerente ai rapporti sociali. Ha poi eccepito la decadenza o la prescrizione della pretesa, della quale ha infine contestato anche il fondamento, facendo valere crediti in compensazione.

Nella resistenza della curatela, l'adito tribunale di Mantova ha rigettato l'opposizione.

Per quanto rileva ha osservato che il Fallimento aveva agito in monitorio per ottenere l'esecuzione dei versamenti ancora dovuti dai soci in forza della citata Delibera di aumento del capitale, sicchè la pretesa non aveva trovato la propria fonte nello statuto sociale ma nella deliberazione.

Da questo punto di vista, a giudizio del tribunale, il curatore agendo in monitorio non aveva inteso subentrare nel rapporto contrattuale o nello statuto della società, ma semplicemente aveva inteso ottenere il versamento del dovuto; per cui, sorgendo il credito dalla decisione della società di deliberare l'aumento di capitale, alla relativa controversia non era estensibile la clausola arbitrale.

La società Indata ha impugnato la decisione con regolamento facoltativo ex art. 43 c.p.c., nella parte in cui è stata esclusa la competenza arbitrale in relazione alla controversia instaurata con l'atto di opposizione al decreto ingiuntivo.

La curatela del fallimento ha depositato una memoria difensiva ai sensi dell'art. 47 c.p.c..

Entrambe le parti hanno altresì depositato memorie ai sensi dell'art. 380-ter c.p.c..

La causa è stata rimessa in pubblica udienza con ordinanza interlocutoria della sesta sezione n. 8099-19.

 

Ragioni della decisione

I. - La ricorrente, denunziando la violazione del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 34,L. Fall., art. 83-bis e art. 808-quater c.p.c., censura la sentenza sotto un duplice profilo: (i) per avere affermato che il curatore, espletando l'azione monitoria, non aveva inteso subentrare nel rapporto sociale, quando invece la possibilità di pretendere il versamento dal socio derivava incontrovertibilmente proprio dal rapporto sociale, rispetto al quale il curatore aveva assunto la medesima posizione sostanziale e processuale della fallita a fronte di un diritto già sorto in capo a quella; (ii) per avere ritenuto che la pretesa creditoria non avesse trovato la propria fonte nello statuto sociale sebbene nella Delibera di aumento di capitale, quando invece la stessa Delibera di aumento si sarebbe dovuta ricondurre al rapporto sociale e, tramite esso, alle regole statutarie.

II. - Il ricorso per regolamento facoltativo, ammissibile (in base all'indirizzo inaugurato da Cass. Sez. U n. 24153-13) in quanto limitato alla sola statuizione sulla competenza (art. 43 c.p.c.), è fondato nel senso che segue.

Il D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 34, prevede che "gli atti costitutivi delle società, ad eccezione di quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio a norma dell'art. 2325-bis c.c., possono, mediante clausole compromissorie, prevedere la devoluzione ad arbitri di alcune ovvero di tutte le controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale".

Nel caso concreto lo statuto della fallita (*) s.r.l. conteneva (e contiene) una previsione in tal senso, e in particolare l'art. 24, secondo cui "tutte le controversie aventi ad oggetto rapporti sociali, comprese quelle relative alla validità delle delibere assembleari, promosse da o contro i soci, da o contro la società, ivi comprese quelle relative ai rapporti con gli organi sociali, saranno risolte mediante arbitrato rituale secondo diritto in conformità al regolamento della Camera Arbitrale della CCIAA presso cui ha sede la società, da un arbitro unico nominato dalla Camera Arbitrale".

Questa Corte ha affermato il condivisibile principio per cui, in linea generale, l'esistenza di una clausola compromissoria non esclude la competenza del giudice ordinario a emettere un decreto ingiuntivo (atteso che la disciplina del procedimento arbitrale non contempla l'emissione di provvedimenti inaudita altera parte), ma impone a quest'ultimo, in caso di successiva opposizione fondata sull'esistenza della detta clausola, di dichiarare la nullità del decreto opposto e di disporre contestualmente la remissione della controversia al giudizio degli arbitri (cfr. Cass. n. 8166-99, nonchè in motivazione Cass. Sez. U n. 22433-18).

Il principio si attaglia anche all'eventualità dell'ingiunzione L. Fall., ex art. 150, poichè nell'attuale versione della norma è esplicito che il provvedimento emesso dal giudice delegato per i versamenti dovuti dai soci della fallita assume natura di decreto ingiuntivo, come tale opponibile ai sensi dell'art. 645 c.p.c..

Possono dirsi cioè definitivamente in tal senso superate per via normativa le incertezze sorte nel passato a questo riguardo, anche se ben vero in ultimo sopite pure in rapporto al testo originario della legge fallimentare.

III. - Ora è opportuno far precedere all'esame specifico della questione posta dalla ricorrente alcune considerazioni di ordine generale sul tema del nesso tra l'arbitrato e il fallimento.

E devesi convenire con parte della dottrina sul fatto che dalla formulazione della L. Fall., art. 83-bis, sia possibile trarre che la convenzione di arbitrato sopravvive ai fallimento a prescindere dalla cd. prospettiva dicotomica - che come noto distingue a seconda che il giudizio arbitrale sia o meno già pendente al momento della sentenza dichiarativa.

In sostanza, la clausola compromissoria segue sempre le sorti del contratto sostanziale a cui accede (e quindi anche del contratto di società), per modo che il curatore, se subentra in questo, ovvero e più propriamente (quanto alla fattispecie che qui interessa) se agisce in luogo del debitore facendo valere diritti e azioni a lui spettanti, subentra anche nella clausola compromissoria; mentre in caso contrario, vale a dire se si scioglie dal rapporto sostanziale, si scioglie anche dalla clausola.

In base a tale schema, una volta aperta la procedura fallimentare non è dato distinguere neppure a seconda che penda o meno il giudizio arbitrale, nel senso che il problema della sopravvivenza della scelta della via arbitrale a fronte dell'amministrazione fallimentare resta sempre lo stesso.

La constatazione è in qualche misura già riscontrata nella giurisprudenza della Corte, mercè il principio - affermato a fronte del mandato (già) conferito agli arbitri (che si dice non soggetto alla sanzione dello scioglimento prevista dalla L. Fall., art. 78, perchè atto negoziale riconducibile all'istituto del mandato collettivo e di quello conferito anche nell'interesse del terzo), ma in verità suscettibile di più ampia portata - che individua nella L. Fall., art. 83-bis, l'indiretta conferma proprio della suddetta tesi: se il procedimento arbitrale pendente non può essere proseguito nel caso di scioglimento del contratto contenente la clausola compromissoria, è ovvio che la detta clausola conserva la sua efficacia ove il curatore subentri nel rapporto - ovvero, qui potrebbe dirsi, eserciti lui le azioni che sarebbero spettate alla società fallita in base al rapporto -, non essendo consentito a quest'ultimo recedere da singole clausole del contratto di cui chiede l'adempimento (v. Cass. Sez. U n. 10800-15, in tema di arbitrato internazionale).

Non vi sono ragioni per escludere dal principio il contratto di società.

Se il curatore agisce in luogo del fallito, la convenzione arbitrale è sicuramente a lui opponibile, mentre non lo è quando il curatore fa valere diritti o esercita azioni diverse da quelle che sarebbero spettate al fallito prima del fallimento, come le azioni che - si dice comunemente - dal fallimento derivano, e che quindi prima e indipendentemente dal fallimento non sono date.

Naturalmente, anche se l'accordo arbitrale è opponibile al curatore, non sono mai arbitrabili le pretese fatte valere da terzi verso l'amministrazione fallimentare, soggette al procedimento di verifica dello stato passivo. Ma laddove si discorra del lato attivo del rapporto, può affermarsi che solo per le azioni che derivano dal fallimento il curatore non è vincolato dalla clausola compromissoria preesistente alla sentenza dichiarativa; in tutti gli altri casi lo è, invece, a meno che non decida di sciogliersi dal contratto che la contiene; cosa che ovviamente neppure in astratto può prospettarsi laddove il curatore semplicemente eserciti contro il socio e in luogo della società i diritti in ordine all'esecuzione dei conferimenti.

IV. - Tanto premesso, il cuore della questione devoluta alla Corte è se la controversia radicata dall'opposizione al decreto ingiuntivo del giudice delegato abbia giustappunto a oggetto, o meno, diritti relativi al rapporto sociale; e inoltre se, nella prospettiva di cui al D.Lgs. n. 5 del 2003, citato art. 34, tali diritti siano da considerare disponibili.

L'ordinanza interlocutoria della sesta sezione ha sollecitato un approfondimento su questi temi, con riguardo soprattutto al limite di arbitrabilità, venendo in considerazione il tema dell'aumento di capitale potenzialmente involgente la tutela dei terzi.

V. - Ad avviso del collegio non può negarsi che la controversia implicata dalla L. Fall., art. 150, sia deferibile in arbitrato societario, poichè, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice a quo, essa è relativa al rapporto sociale.

Lo è in quanto deriva dal contratto di società, solo a fronte del quale il curatore può ottenere, agendo in luogo della società fallita, il titolo per imporre al socio il versamento di quanto ancora dovuto rispetto a una Delibera di aumento del capitale.

Come esattamente notato dal procuratore generale, il versamento di cui si discute, laddove sia stata adottata l'ingiunzione conseguente alla Delibera di aumento, corrisponde all'esecuzione di un conferimento.

Conferimento iniziale e conferimento dovuto in esecuzione di un aumento di capitale coincidono sul piano concettuale e su quello effettuale, come può desumersi dalla disciplina di cui agli artt. 2344 e 2466 c.c., comunemente ritenuta non relegabile al procedimento di costituzione della società - sia essa azionaria, sia essa a responsabilità limitata.

Una simile controversia coinvolge direttamente il credito da conferimento, non l'aumento di capitale previamente deliberato.

E peraltro deve osservarsi che questa Corte ha avuto modo di stabilire che finanche ove relativa alla validità della deliberazione assembleare di aumento, tipicamente riguardante i soci e la società in relazione ai rapporti sociali, la controversia sarebbe da considerare compromettibile in arbitri ai sensi del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 34, comma 1, in quanto avente a oggetto - essa pure - diritti disponibili (v. Cass. n. 17283-15, anche in relazione alla susseguente domanda di danni).

Ciò implica che non possa dubitarsi, poi, che lo sia altresì, sul medesimo versante, la controversia semplicemente succedanea, tesa all'esecuzione del conferimento e in cui si discuta della sua esigibilità.

VI. - Residua il profilo al quale ha alluso la sesta sezione, che è quello degli interessi implicati dalla controversia che riguarda i versamenti diretti al capitale, potendosi ipotizzare che una tal controversia finisca per influire su interessi superindividuali dei soci e dei terzi.

Ad avviso del collegio, seguendosi come determinante il criterio degli interessi per le conseguenze che ne derivano sul concetto di "diritti disponili" relativi al rapporto sociale, cosa notoriamente dibattuta in dottrina ma tuttora sottesa al predominante indirizzo interpretativo giurisprudenziale, non si può sostenere un affidabile dubbio sull'arbitrabilità di una lite del genere.

E' certamente consolidato l'indirizzo secondo cui le controversie in materia societaria possono, in linea generale, formare oggetto di compromesso, con esclusione di quelle che hanno a oggetto interessi della società o che concernono la violazione di norme poste a tutela dell'interesse collettivo dei soci o dei terzi (v. Cass. n. 3772-05). A tal fine è stato puntualizzato che l'area della indisponibilità deve ritenersi circoscritta a quegli interessi protetti da norme inderogabili, la cui violazione determina una reazione dell'ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte.

Tuttavia deve anche sottolinearsi il limite del menzionato principio, e in particolare che esso ha trovato occasione in controversie di tutt'altra natura rispetto a quella che qui viene in considerazione: segnatamente nelle controversie involgenti le norme dirette a garantire la chiarezza e la precisione del bilancio di esercizio (tale era il caso esaminato da Cass. n. 3772-05, seguita poi, con eguale principio, da Cass. n. 18600-11 e da Cass. n. 13031-14; e tale è stato anche lo specifico oggetto della lite devoluta alla recentissima Cass. n. 12391-19).

Ciò consente di prescinderne nella fattispecie in esame, poichè il medesimo principio non è punto invocabile laddove il coinvolgimento degli interessi superindividuali non sia direttamente inciso dall'oggetto del processo, così da non rientrare tra quelli specificamente da esso presidiati.

Va ribadito che in ambito societario non ci sono posizioni del socio tecnicamente qualificabili come "diritti inerenti al rapporto sociale", visto che la natura organizzativa delle regole societarie implica che rispetto a tali regole non vengano in considerazione "diritti" in senso proprio ma solo "interessi". Di diritti potrebbe discorrersi con riferimento alla posizione del socio uti singulus, vale a dire solo in ambito extrasociale.

Il punto allora è che, mantenendosi (non fosse altro che perchè sedimentata) la qualificazione richiamata ai fini del criterio considerato dirimente, l'interesse superindividuale, per escludere l'ambito di compromettibilità della lite, deve risultare (non mediatamente ma) direttamente coinvolto dall'oggetto del processo. Il che è ovvio, poichè altrimenti si finirebbe per far coincidere l'area della indisponibilità del diritto (sostanziale) - e dunque l'impossibilità di disporne per esempio a scopo transattivo - con l'inderogabilità della norma tesa a regolarlo.

Ne consegue che una sola cosa rileva nell'odierna fattispecie, e cioè che oggetto del processo non è mai stata la conformazione del capitale sociale, ma l'obbligatoria esecuzione del versamento consequenziale alla deliberazione.

E tanto consente di affermare la piena compromettibilità della controversia.

Una volta deliberato l'aumento di capitale, la posizione del socio si pone, rispetto ai connessi obblighi di versamento, come quella di un qualunque debitore. Cosicchè l'interesse direttamente coinvolto nel processo non è superindividuale ma è proprio (e soltanto) quello patrimoniale della società creditrice e quello speculare del socio uti singulus.

Per quanto sia vero che ciò possa intercettare anche l'interesse di terzi estranei - come i terzi creditori interessati alla solidità patrimoniale della società (nel concreto peraltro fallita) - è certo che non codesto ulteriore interesse ma solo il primo, individuale e antitetico, del socio debitore in contrapposizione a quello della società (in luogo della quale agisce il curatore ai sensi della L. Fall., art. 150) fa parte dell'oggetto del processo di opposizione al decreto del giudice delegato.

VII. - In conclusione: (i) la controversia integrata dall'opposizione di cui alla L. Fall., art. 150, è da annoverare tra quelle relative a diritti inerenti al rapporto sociale, perchè inscindibilmente correlata alla partecipazione e tramite essa al rapporto in base al quale è stata assunta la deliberazione di aumento di capitale da parte della società in bonis; (ii) l'inerenza alla dimensione sociale organizzativa resta palesata dall'essere (stato) il diritto patrimoniale legato alla partecipazione sociale; (iii) anche in caso di sopravvenuto fallimento rileva la clausola compromissoria statutaria, e la controversia in ordine all'esecuzione dei conferimenti è da considerare relativa a diritti disponibili, siccome attinente al credito della società e al debito (individuale) del socio.

Alla stregua dei citati principi deve essere dichiarata la competenza arbitrale in ordine alla causa de qua.

L'impugnata sentenza va cassata, con rimessione delle parti dinanzi agli arbitri.

Le spese del regolamento possono essere interamente compensate, tenuto conto della rilevanza e della complessità della sottostante questione di diritto, priva di precedenti nella giurisprudenza della Corte.


P.Q.M.

La Corte dichiara la competenza arbitrale; cassa l'impugnata sentenza e rimette le parti dinanzi agli arbitri; compensa le spese del regolamento.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 2 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2019.