Diritto Civile


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23094 - pubb. 29/01/2020

Promissario venditore che non sia proprietario del bene e limiti alla risolubilità del contratto per inadempimento

Cassazione civile, sez. II, 16 Gennaio 2020, n. 787. Pres. Manna. Est. Tedesco.


Contratto preliminare di vendita – Promissario venditore che non sia proprietario del bene – Buona fede del compratore – Risoluzione del contratto per inadempimento – Limiti



L’art. 1479 c.c., comma 1, non è applicabile al contratto preliminare di vendita perché, indipendentemente dalla conoscenza del promissario compratore dell’altruità del bene, fino alla scadenza del termine per stipulare il contratto definitivo, il promittente venditore può adempiere all’obbligo di procurargliene l’acquisto; invece, nel contratto di vendita, se il compratore ignora l’altruità del bene, già al momento della stipula di detto contratto il venditore è inadempiente all’obbligo di trasferirgli la proprietà del bene.

Da tale principio si ricava, da un lato, che i promissari acquirenti, seppure ignari dell’altruità della cosa, non possono chiedere la risoluzione del contratto prima della scadenza del termine; dall’altro, per una ragione speculare, che i promissari acquirenti non sono inadempimenti se, nonostante la maturazione del termine previsto per la stipula del contratto, il promittente venditore non sia ancora proprietario del bene.

Ne discende che il promittente venditore non può in questa situazione avvalersi della clausola risolutiva espressa eventualmente pattuita per il caso di inutile decorso del termine, perché manca l’essenziale condizione dell’inadempimento del promissario. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)


 


Fatti di causa

La presente controversia trae origine da un preliminare di vendita di un immobile in (*) intercorso fra Z.Z., quale promittente venditore, e A.B. e C.D., quali promissari acquirenti.

In tale contratto preliminare si prevedeva, quale causa di risoluzione di diritto, fra le altre, il mancato rispetto del termine per la stipula del contratto definitivo, fissato in tre mesi, decorrenti dalla comunicazione ai promissari acquirenti, intanto immessi possesso dell’immobile in forza di un distinto contratto di comodato, del perfezionamento della pratica di condono.

Il venditore, assumendo di avere comunicato il perfezionamento del procedimento di condono ai promissari acquirenti, li chiamava in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma, Sezione distaccata di Ostia. Chiedeva accertarsi l’avvenuta la risoluzione del preliminare per l’inutile decorso del termine previsto per la stipula del contratto definitivo.

Chiedeva inoltre la restituzione dell’immobile.

I convenuti si costituivano ed eccepivano di non avere avuto comunicazione dell’esito positivo della pratica di condono e di non avere ricevuto alcuna convocazione dinanzi a un notaio per la stipula del contratto definitivo.

Eccepivano ancora che, nel momento in cui il Z. introdusse la causa per far valere la risoluzione di diritto, egli non era ancora proprietario dell’immobile promesso in vendita, acquistato successivamente.

Eccepivano ancora, in ordine alla domanda di rilascio, che il contratto in forza del quale erano stati immessi nella disponibilità dell’immobile non poteva qualificarsi come comodato, ma costituiva una locazione, in quanto prevedeva il pagamento di un corrispettivo.

In quanto locazione il proprietario non aveva il diritto di recesso ad nutum.

La causa iniziata dal Z. era poi riunita al diverso giudizio iniziato dai promissari acquirenti per l’esecuzione in forma specifica del contratto preliminare.

Il Tribunale di Roma accoglieva la domanda dei promissari acquirenti e rigettava la domanda di risoluzione proposta dal venditore. In particolare il primo giudice negava la risoluzione di diritto fatta valere dal Z., argomentando che, nonostante il perfezionamento del condono, non vi era prova che l’esito positivo della pratica fosse stato comunicato ai promissari da parte del venditore.

Il primo giudice aggiungeva che nel momento in cui il Z. introdusse il giudizio, il 7 febbraio 2002, egli non era proprietario del bene, avendolo acquistato il 16 aprile 2002.

La Corte d’appello di Roma, adita dal Z., riformava la sentenza.

Per quanto interessa in questa sede, essa riteneva che vi fossero i presupposti di operatività della risoluzione di diritto, in quanto il promittente venditore aveva dato la prova che il plico contenente la comunicazione del rilascio del condono era pervenuto all’indirizzo dei destinatari. Si applicava quindi la presunzione ex art. 1335 c.c.. A tal fine la corte di merito poneva l’accento sul fatto che la busta contenente il plico raccomandato diretto ai promissari, oltre a recare impressi i timbri postali di invio al comune dei destinatari e di arrivo al comune del mittente, recava la stampigliatura "al mittente non richiesto entro il periodo di giacenza prescritto".

La corte d’appello condannava i promissari al rilascio dell’immobile, in conformità alla richiesta di immediata restituzione formulata dal venditore con la citazione. Essa riteneva legittima tale richiesta ai sensi dell’art. 1810 c.c., trattandosi di comodato senza determinazione di durata ed essendo il medesimo contratto collegato alle vicende del preliminare di vendita.

Per la cassazione della sentenza A.B. e C.D. hanno proposto ricorso affidato a cinque motivi. Il Z. ha resistito con controricorso.

Il controricorrente ha depositato memoria in prossimità dell’udienza.

 

Ragioni della decisione

1. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1335 c.c. e omesso esame di un fatto decisivo per giudizio.

La sentenza è oggetto di censura là dove la corte d’appello ha riconosciuto che il Z. aveva dato la prova che la comunicazione dell’avvenuto accoglimento della domanda di condono era pervenuta all’indirizzo dei destinatari.

Si sostiene che la corte, nel riconoscere la rilevanza delle indicazioni contenute sul plico raccomandato diretto ai promissari, si è discostata dagli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità, secondo i quali, in caso di comunicazione trasmessa a mezzo raccomandata, la presunzione di ricezione della stessa comunicazione si realizza al momento del rilascio dell’avviso di giacenza, mentre i timbri hanno solo la funzione di attestare lo smistamento del plico fra i vari uffici postali.

Era quindi onere della controparte produrre l’avviso di ricevimento recante la annotazione dell’avvenuto rilascio dell’avviso di giacenza.

In modo corretto il tribunale aveva riconosciuto che la mancata produzione dell’avviso di ricevimento impediva di stabilire il dies a quo della decorrenza del termine previsto in contratto per la stipula del definitivo.

Il secondo motivo denuncia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio: il promittente venditore aveva acquistato l’immobile promesso in vendita solo dopo l’introduzione della causa volta a farne accertare la risoluzione.

Si evidenzia che i convenuti, già nella comparsa di risposta, avevano eccepito l’inadempimento del Z., in quanto, quando egli introdusse la causa per fare accertare la risoluzione, non era nelle condizioni di concludere il contratto definitivo, non essendo in quel momento proprietario dell’immobile, acquistato in un momento successivo alla notifica della citazione.

Il tribunale aveva accolto tale eccezione, riconoscendo che la circostanza portava ad escludere "la possibilità di un valido acquisto in epoca precedente da parte di C. - S. ".

Al motivo di impugnazione formulato dal Z. su tale capo della sentenza, gli attuali ricorrenti avevano puntualmente replicato che il venditore si era dichiarato proprietario del bene.

La relativa circostanza, certamente decisiva ai fini della decisione, è stata del tutto trascurata dalla corte di merito.

Il terzo motivo denuncia nullità della sentenza per violazione degli art. 112, 346 e 342 c.Z.c..

Il motivo riprende la questione sollevata con il motivo precedente.

Si sostiene che le considerazioni del primo giudice sul difetto di proprietà al momento della introduzione della lite costituivano una ratio autonoma della decisione, sufficiente a giustificare il rigetto della domanda e non efficacemente impugnata.

Si sostiene che il motivo d’appello (il terzo) formulato in proposito dal Z. avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile per difetto di specificità.

Ed invero la ragione accampata per negare l’inadempimento, e cioè che la stipulazione definitiva poteva avvenire come vendita di cosa altrui, non era idonea a incrinare il fondamento logico giuridico della decisione di primo grado, essendo la vendita di cosa altrui non conforme all’intenzione delle parti.

Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366, 1367, 1369 e 1371 c.c. e omesso esame di fatti decisivi ai fini della decisione.

Si denuncia che la corte di merito ha fondato la propria decisione su una interpretazione del contratto preliminare non conforme al suo effettivo contenuto.

In particolare i ricorrenti sostengono che l’operatività della clausola risolutiva espressa prevista nell’art. 22 del contratto rimaneva subordinata alla preventiva scelta di comune accordo del notaio rogante, in conformità alla previsione dell’art. 10 del contratto stesso, che contemplava appunto tale accordo.

Una diversa interpretazione portava inevitabilmente a sancire l’invalidità della clausola risolutiva espressa, che finiva per rimettere la risoluzione del vincolo contrattuale al mero arbitrio della parte che avesse mantenuto un contegno inerte sulla scelta del notaio.

I ricorrenti evidenziano ancora che il venditore aveva fatto valere la risoluzione senza preventivamente assumere alcuna iniziativa per pervenire a un accordo sulla scelta del notaio da incaricare per la stipula del contratto definitivo, nè aveva comunque convocato i promissari dinanzi a un notaio da lui prescelto.

Nonostante la mancanza dell’una e dell’altra iniziativa costituissero fatti pacifici e incontroversi in causa, la corte non ne aveva minimamente tenuto conto, legando l’operatività della clausola risolutiva al solo decorso del tempo.

Il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1803, 1571, della L. n. 431 del 1998, artt. 1 e 2 e omesso esame di fatti decisivi ai fini della decisione.

La sentenza è oggetto di censura là dove la corte di merito ha qualificato come comodato il contratto in base al quale gli attuali ricorrenti avevano conseguito la disponibilità dell’immobile promesso in vendita.

Già nella comparsa di risposta i promissari avevano eccepito che non si trattava di comodato, ma di locazione, in quanto il contratto prevedeva un corrispettivo di Lire 600.000 mensili.

La tesi fu ripresa dai promissari in grado d’appello, allorché, nel replicare a una ragione di censura sollevata dal Z., essi avevano chiarito che, essendo previsto un corrispettivo, non si giustificava il recesso ad nutum del concedente, non potendosi applicare la disciplina del comodato.

La corte, nonostante la previsione del corrispettivo fosse un fatto pacifico, non ha minimamente considerato la relativa circostanza, incorrendo così nello stesso tempo, oltre che nel vizio di omissione dell’esame di questioni giuridiche decisive, nella violazione delle regole di qualificazione del contratto.

2. Il primo motivo è infondato.

Non è vero infatti che, nel caso di comunicazioni trasmesse a mezzo del servizio postale, per ritenere sussistente la presunzione, stabilita dall’art. 1335 c.c., la prova dell’arrivo a destinazione del relativo documento non potrebbe essere data diversamente se non con la produzione dell’avviso di giacenza. Costituisce infatti saldo orientamento di questa Corte che "la prova dell’arrivo a destinazione del relativo documento, nel caso di impiego del servizio postale, deve essere particolarmente rigorosa e, se non data mediante l’avviso di ricevimento della raccomandata o con la attestazione del periodo di giacenza di questa presso l’ufficio postale, deve essere fornita con mezzi idonei, anche mediante presunzioni, purché caratterizzate dai requisiti legali della gravità, della precisione e della concordanza" (Cass. n. 4525/1999; n. 3195/2003; n. 18823/2018).

La sentenza impugnata è in linea con tali principi.

Secondo la ricostruzione della corte di merito, il Z. aveva prodotto un plico diretto ai promissari acquirenti, trasmesso a mezzo posta il 27 giugno 2001, mediante raccomandata con avviso di ricevimento. Quindi essa ha rilevato che la busta, oltre a recare impressi il numero della raccomandata e i timbri postali di invio al comune dei destinatari e di arrivo al comune del mittente, recava anche la stampigliatura "al mittente non richiesto entro il periodo di giacenza prescritto".

Tale valutazione, all’evidenza fondata su elementi nient’affatto vaghi generici, è incensurabile in questa sede.

L’ulteriore rilievo dei ricorrenti, secondo cui, mancando l’avviso, non sarebbe possibile stabilire il dies a quo della decorrenza del termine previsto per la stipula del definitivo, è palesemente irrilevante. Il giudizio di risoluzione è stato iniziato dal Z. dopo oltre sei mesi dall’invio della raccomandata, nè i promissari hanno minimamente posto un problema di tempestività di una loro iniziativa in risposta all’invito del promittente, avendo piuttosto eccepito di non avere ricevuto alcuna comunicazione.

3. Il secondo motivo è fondato.

Presupposto per l’applicazione della clausola risolutiva espressa è infatti l’inadempimento della controparte di colui che se ne avvale (Cass. n. 24532/2018).

Secondo la ricostruzione del giudice di primo grado, l’immobile promesso in vendita fu acquistato dal venditore il 16 aprile 2002, circa due mesi dopo la notificazione della citazione, con la quale il promittente venditore aveva dichiarato di volersi avvalere della clausola risolutiva prevista nel preliminare, che contemplava, quale causa di risoluzione di diritto, anche il mancato rispetto del termine per la stipula del definitivo.

Ora, nonostante il difetto di titolarità nel momento in cui fu introdotta la lite fosse stato nuovamente eccepito dai promissari con la comparsa di risposta in grado d’appello, la corte di merito ha del tutto omesso l’esame di tale circostanza, che è certamente decisiva ai fini della soluzione della lite.

Si insegna che l’art. 1479 c.c., comma 1, non è applicabile al contratto preliminare di vendita perché, indipendentemente dalla conoscenza del promissario compratore dell’altruità del bene, fino alla scadenza del termine per stipulare il contratto definitivo, il promittente venditore può adempiere all’obbligo di procurargliene l’acquisto; invece, nel contratto di vendita, se il compratore ignora l’altruità del bene, già al momento della stipula di detto contratto il venditore è inadempiente all’obbligo di trasferirgli la proprietà del bene (Cass. n. 925/1997).

Da tale principio si ricava, da un lato, che i promissari acquirenti, seppure ignari dell’altruità della cosa, non possono chiedere la risoluzione del contratto prima della scadenza del termine; dall’altro, per una ragione speculare, che i promissari acquirenti non sono inadempimenti se, nonostante la maturazione del termine previsto per la stipula del contratto, il promittente venditore non sia ancora proprietario del bene.

Ne discende che il promittente venditore non può in questa situazione avvalersi della clausola risolutiva espressa eventualmente pattuita per il caso di inutile decorso del termine, perché manca l’essenziale condizione dell’inadempimento del promissario.

La sentenza va pertanto cassata in relazione a tale motivo e il giudice di rinvio dovrà procedere a nuovo esame della vicenda, onde tenere conto del difetto di titolarità nel momento in cui il venditore fece valere la risoluzione di diritto motivata con l’inutile decorso del termine previsto per la stipula del definitivo.

4. L’accoglimento del secondo motivo comporta l’assorbimento del terzo e del quarto motivo.

5. Il quinto motivo è fondato.

Perché il comodato non perda la sua natura essenzialmente gratuita, è necessario che l’interesse del comodante (che può ritenersi sempre immanente al contratto, quanto meno come intento di fare acquisire un’utilità al comodatario) non abbia di per sé contenuto patrimoniale, ovvero, pur avendolo, si tratti della prospettiva di un vantaggio indiretto e mediato, o, comunque, di un interesse secondario del concedente, il cui vantaggio non venga a trovarsi in rapporto di corrispettività con il beneficio concesso al comodatario (Cass. n. 4912/1996; n. 9718/1990).

In altre parole il carattere di essenziale gratuità del comodato, mentre è compatibile con l’apposizione, a carico del comodatario, di un modus di consistenza tale da non poter integrare le caratteristiche di corrispettivo del godimento del bene (come la consegna periodica di una certa quantità di prodotti del fondo o il pagamento di una soma periodica di rimborso spese), viene invece meno se il vantaggio conseguito dal comodante si pone come corrispettivo del godimento della cosa con natura di controprestazione (Cass. n. 3021/2001; n. 8073/2002).

La sentenza impugnata non è in linea con tali principi, perché la corte di merito ha qualificato il contratto come comodato, in conformità al nomen iuris dato dai contraenti, senza valutare l’entità dell’onere economico posto a carico dei promissari con l’art. 6 del contratto (consistente in un "corrispettivo per l’uso temporaneo dell’immobile pari a Lire 600.000, che il comodatario verserà anticipatamente a mani del comodante entro il giorno cinque di ogni mese") onde verificare se tale assetto contrattuale potesse escludere la gratuità del rapporto, che, come affermato da consolidata giurisprudenza di legittimità.

È inutile dire che nella indagine relativa alla qualificazione del contratto il giudice di merito non è vincolato dal nomen iuris che le parti hanno attribuito al contratto, potendo correggere la loro qualificazione quando riscontri che non corrisponde all’effettivo contenuto del rapporto (Cass. n. 16342/2002; n. 13399/2005).

6. In conclusioni sono fondati il secondo e il quinto motivo, è infondato il primo motivo, sono assorbiti il terzo il quarto.

La sentenza deve essere cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Roma, che liquiderà le spese del presente giudizio.

 

P.Q.M.

accoglie il secondo e il quinto motivo; rigetta il primo motivo; dichiara assorbiti il terzo e il quarto motivo; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti; rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Roma anche per le spese.

Depositato in cancelleria il 16 gennaio 2020.