Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23133 - pubb. 11/01/2019

Recesso del socio illimitatamente responsabile oltre un anno prima del fallimento

Cassazione civile, sez. I, 27 Marzo 2008, n. 7965. Pres. Carnevale. Est. Ceccherini.


Fallimento - Società - Socio illimitatamente responsabile di società di persone regolare - Estensione del fallimento - Opposizione - Recesso del socio oltre un anno prima del fallimento - Rilievo d'ufficio della causa di esonero dal fallimento - Configurabilità - Fondamento



In tema di estensione del fallimento della società regolare al socio illimitatamente responsabile, dopo la sentenza n.319 del 2000 della Corte costituzionale - che ha dichiarato la parziale illegittimità dell'art.147 legge fall. nella parte in cui prevedeva che il fallimento dei predetti soci potesse essere dichiarato dopo il decorso di un anno dal momento in cui essi avessero perso, per qualsiasi causa, la responsabilità illimitata - il recesso del socio, se anteriore di oltre un anno alla dichiarazione di fallimento, conduce all'accoglimento anche d'ufficio dell'opposizione al fallimento, in forza del principio di certezza delle situazioni giuridiche, che pone la necessità di un limite temporale all'assoggettabilità al fallimento del socio di società commerciale. (Il principio è stato affermato dalla S.C. in una fattispecie anteriore alla vigenza del d.lgs. n.5 del 2006). (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARNEVALE Corrado - Presidente -

Dott. RORDORF Renato - Consigliere -

Dott. CECCHERINI Aldo - rel. Consigliere -

Dott. PICCININNI Carlo - Consigliere -

Dott. SCHIRÒ Stefano - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

 

SENTENZA


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto notificato il 2 ottobre 1996, il signor Rocco T. propose opposizione alla sentenza in data 18 settembre 1996 del Tribunale di Trani, che aveva dichiarato il suo fallimento, quale socio illimitatamente responsabile della Si.Ro s.n.c. di De Coglia Silvia, a sua volta dichiarata fallita nella stessa data. L'esponente dedusse che la società era stata costituita da lui e dalla signora Silvia De Ceglia, entrambi dipendenti dell'ALI.DI.S. DIVUEMME s.r.l., ed amministrata di fatto dall'amministratore di quest'ultima, Domenico De Vanna. Questi, agendo per conto della nuova società, aveva preso in affitto l'azienda commerciale dell'ALI.DI.S. DIVUEMME. L'esponente dedusse inoltre che egli aveva ceduto, con atto notarile 5 gennaio 1994, la sua quota di partecipazione sociale all'altra socia De Ceglia, e che, fino alla data in cui era ne stato socio, la società non era stata insolvente, fatta eccezione per il mancato pagamento dell'affitto alla società ALI.DI.S. DIVUEMME. L'opponente citò pertanto sia la curatela del fallimento Si.Ro. s.n.c., e sia la curatela del Fallimento ALI.DI.S. DIVUEMME s.r.l., creditore istante a sua volta dichiarato fallito con sentenza 21 dicembre 1994, e chiese la revoca della sua dichiarazione di fallimento e, in via subordinata, la revoca del fallimento della s.n.c. Si.Ro.. I convenuti non si costituirono, e il tribunale, con sentenza 12 marzo 2002, rigettò l'opposizione. Contro quella sentenza l'attore propose appello, lamentando che il primo giudice avesse trascurato la circostanza dell'avvenuta cessazione, sin dal 5 gennaio 1994, della sua qualità di socio della società, dichiarata fallita il 18 settembre 1996, ben oltre l'anno dalla risoluzione del rapporto societario. Al gravame resistette la sola curatela del fallimento ALI.DI.S. DIVUEMME, creditore istante del fallimento Si.Ro. s.n.c..

Con sentenza in data 20 maggio 2003, la Corte d'appello di Bari accolse il gravame, e condannò la curatela del fallimento ALI.DI.S. DIVUEMME al pagamento delle spese del grado. Nel motivare la sua decisione, la Corte fece applicazione del principio - enunciato dalla Corte costituzionale già nella sentenza n. 66 del 1999, e posto poi a fondamento della pronuncia d'illegittimità costituzionale della L. Fall., art. 147, comma 1, nella parte in cui prevede che il fallimento dei soci a responsabilità illimitata di società fallita possa essere dichiarato dopo il decorso di un anno dal momento in cui essi abbiano perso, per qualsiasì causa, la responsabilità illimitata (sentenza n. 319 del 2000), ma ignorato dal tribunale. Per la cassazione della sentenza, non notificata, la Curatela del Fallimento ALI.DI.S. DIVUEMME s.r.l. ricorre con atto notificato al signor T. il 5 febbraio 2004, e alla curatela del fallimento Si.Ro. s.n.c. in data 17 febbraio 2004, per due motivi, illustrati anche con una memoria.

Il signor T. resiste con controricorso notificato il 15 marzo 2004.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso, la curatela fallimentare del creditore istante denuncia la violazione dell'art. 112 c.p.c., e della L. Fall., art. 10. Nel primo grado, l'opponente aveva dedotto che alla data della dichiarazione di fallimento era decorso un anno dal preteso scioglimento del rapporto sociale, conseguente alla mancata ricostituzione della compagine sociale nel termine di sei mesi dal suo recesso, ma non aveva eccepito nulla a proposito dell'estensione del fallimento al socio con riferimento al tempo decorso dal momento del suo recesso dalla società; egli aveva invece fatto implicita acquiescenza in ordine all'estensibilità del fallimento indipendentemente dal tempo decorso dal recesso, avendo semplicemente contestato che l'insolvenza fosse anteriore al recesso medesimo. Il primo giudice si era limitato all'esame dei profili prospettati dall'opponente, in ossequio al principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, mentre il giudice d'appello aveva deciso sulla base di una violazione della L. Fall., art. 10, che era stata dedotta per la prima volta con l'atto d'appello. Il motivo è infondato. Il tribunale, infatti, dovendo pronunciarsi sulle difese del socio dichiarato fallito, il quale aveva allegato e provato la data del suo recesso dalla società in nome collettivo, anteriore di oltre un anno alla dichiarazione di fallimento, avrebbe dovuto su questa premessa accogliere l'opposizione anche d'ufficio (donde l'impossibilità di configurare una violazione dell'art. 112 c.p.c.), in forza del principio di certezza delle situazioni giuridiche, che pone la necessità di un limite temporale all'assoggettabilità al fallimento del socio di società commerciale, così come in tutti i casi di perdita, per qualsiasi causa, della responsabilità illimitata; e se a tale corretta soluzione del problema avesse ritenuto di non poter pervenire, a causa della testuale formulazione della norma, avrebbe dovuto ritenere non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma impugnata, sospendendo il giudizio nell'attesa della decisione del giudice delle leggi. Corretta, conseguentemente, è stata la decisione della corte d'appello sul punto.

Nella memoria depositata s'invoca inoltre il principio per il quale, se il termine di un anno dalla cessazione dell'attività, prescritto dalla L. Fall., art. 10, ai fini della dichiarazione di fallimento, decorre dalla cancellazione dal registro delle imprese, perché solo da tale momento la cessazione dell'attività è formalmente portata a conoscenza dei terzi, tale principio non e applicabile nei casi risalenti ad epoca anteriore all'istituzione del registro, nei quali l'accertamento della tempestività della dichiarazione del fallimento rimane affidato esclusivamente al criterio dell'effettività di una perdurante attività dell'impresa entro l'anno precedente (Cass. 21 febbraio 2007 n. 4105). Il richiamo non è tuttavia pertinente, riferendosi la giurisprudenza ricordata al diverso caso della società occulta. Nel caso di società regolari, invece, la pubblicità legale era assicurata - anche prima dell'entrata in vigore della L. 29 dicembre 1993, n. 580, che con l'art. 8 ha istituito presso la camera di commercio l'ufficio del registro delle imprese di cui all'art. 2188 c.c. - dall'iscrizione nel registro delle società esistente presso i tribunali.

Con il secondo motivo di ricorso si denuncia il vizio di motivazione in ordine alla condanna alle spese del giudizio d'appello, basata sulla sola soccombenza, e senza considerazione del fatto che questa era stata determinata da una difesa svolta per la prima volta in appello.

Il motivo è manifestamente infondato. Il giudice di merito s'è attenuto al principio legale della soccombenza, mentre il potere di dichiarare in tutto o in parte compensate tra le parti le spese del giudizio è di natura discrezionale, e il suo mancato esercizio si sottrae al sindacato di legittimità della Corte di cassazione. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio seguono la soccombenza, e sono liquidate come in dispositivo.

 

P.Q.M.

LA CORTE Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.600,00, di cui Euro 2.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione prima della Corte di Cassazione, il 18 febbraio 2008. Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2008