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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23182 - pubb. 11/01/2019.

Cessazione non pubblicizzata dell'appartenenza alla compagine sociale per intervenuta cessione di quote


Cassazione civile, sez. I, 16 Giugno 2004, n. 11304. Pres. Saggio. Est. Giuliani.

Fallimento - Società - Socio di società di persone - Estensione del fallimento - Recesso del socio prima del fallimento - Omessa pubblicità - Conseguenze


La cessazione per qualsiasi causa (nella specie, per intervenuta cessione di quote) dell'appartenenza alla compagine sociale del socio di società di persone, cui non sia stata data pubblicità, ai sensi dell'articolo 2290, secondo comma cod.civ., è inopponibile ai terzi, con ciò dovendosi intendere che non produce i suoi effetti al di fuori dell'ambito societario; conseguentemente la cessazione non pubblicizzata non è idonea ad escludere l'estensione del fallimento pronunciata ai sensi dell'articolo 147 legge fall. ne' assume rilievo il fatto che il recesso sia avvenuto oltre un anno prima della sentenza dichiarativa di fallimento, posto che il rapporto societario per quanto concerne i terzi a quel momento è ancora in atto. (massima ufficiale)

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAGGIO Antonio - Presidente -

Dott. PLENTEDA Donato - Consigliere -

Dott. FIORETTI Francesco Maria - Consigliere -

Dott. DI PALMA Salvatore - Consigliere -

Dott. GIULIANI Paolo - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

 

SENTENZA


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 30.6/6.7.1994, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere dichiarava, unitamente al fallimento della Rosario E. Petroli S.n.c. (già Antonio S. Petroli S.n.c.), altresì quello dei soci illimitatamente responsabili Anna M. ed Antonio S., sul presupposto che la società apparisse in stato di insolvenza al tempo (il 23.6.1993) del recesso di questi ultimi.

Avverso tale sentenza, con atti rispettivamente notificati il 22/29.7.1994 ed il 21/23.7.1994, proponevano opposizione la M. e lo S., deducendo l'illegittimità della decisione con la quale era stato esteso anche ad essi il fallimento ed assumendo, in particolare, che il riferito stato di insolvenza non sussistesse all'epoca del loro recesso e che siffatta pronuncia fosse intervenuta quando risultava già decorso il termine di un anno, stabilito dall'art. 10 della legge fallimentare, dal momento in cui i predetti avevano dismesso la qualità di soci.

In contumacia della Curatela fallimentare e del Banco di Napoli S.p.A., si costituivano in giudizio la Banca della Provincia di Napoli S.p.A. e la S.p.A. Esso Italiana, chiedendo il rigetto dell'opposizione.

Il Giudice adito, con sentenza depositata il 26.4.1996, provvedeva in quest'ultimo senso, rilevando;

a) che l'estensione del fallimento della società al socio illimitatamente responsabile, imposta dall'art. 147 della legge fallimentare, dovesse ritenersi svincolata dal termine annuale fissato dall'art. 10 della legge medesima, applicabile esclusivamente all'imprenditore individuale, restando soggetta all'unico limite che l'insolvenza fosse derivata anche dall'inadempimento di obbligazioni assunte prima del recesso del socio;

b) che, nella specie, dagli atti del fascicolo fallimentare fosse emerso che la società versava in stato di insolvenza già al tempo del recesso degli opponenti.

Avverso la pronuncia anzidetta, proponeva tempestivo appello la M., censurandola con i motivi già posti a sostegno dell'opposizione.

Resistevano nel grado la Banca della Provincia di Napoli e la Esso Italiana, chiedendo il rigetto del mezzo, nonché lo S., il quale spiegava a propria volta appello incidentale. Dichiarato interrotto il processo a seguito dell'incorporazione della Banca anzidetta nella Credito Emiliano S.p.A. e, quindi, riassunto a cura dell'appellante principale, la Corte di Appello di Napoli, con sentenza in data 11/25.10.2000, in accoglimento di ambo i gravami, revocava il fallimento della M. e dello S., assumendo:

a) che i primi giudici avevano seguito l'uniforme indirizzo della Suprema Corte, là dove subordinava il fallimento dei soci illimitatamente responsabili delle società di persona, in via di estensione del fallimento della società, anche successivamente alla perdita, per qualsiasi causa (morte, recesso, esclusione, cessione della quota), della loro qualità di soci, alla sola condizione che agli stessi fossero riferibili le situazione debitorie dalle quali era dipesa l'insolvenza, senza alcuna limitazione di ordine temporale;

b) che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 66 del 1999, nel dichiarare non fondata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 147, primo e secondo comma, della legge fallimentare, aveva invece interpretato la disposizione denunciata nel senso che, a seguito del fallimento della società commerciale di persone, il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, rispetto ai quali fosse comunque venuta meno l'appartenenza alla compagine sociale, poteva essere dichiarato solo entro il termine di un anno dallo scioglimento del rapporto sociale, fissato dagli artt. 10 e 11 della legge fallimentare, la cui ratio assumeva una portata generale ed era, in quanto tale, applicabile anche al fallimento degli ex soci;

c) che il Collegio riteneva di conformarsi alla sopra riportata pronuncia interpretativa della Corte Costituzionale;

d) che, alla stregua di tali principi, avendo la M. e lo S. ceduto le loro quote sociali con rogito del 23.6.1993, doveva essere revocata la pronuncia di fallimento adottata nei loro confronti con la decisione del 30.6/6.7.1994. Avverso la sentenza anzidetta, ricorre per cassazione la Curatela fallimentare, deducendo un solo motivo di gravame cui non resistono il Credito Emiliano, la Esso Italiana ed il Banco di Napoli, mentre resistono con rispettivi controricorsi la M., illustrando il proprio con memoria, nonché lo S., il quale, a sua volta, spiega ricorso incidentale condizionato affidato a quattro profili di censura.


MOTIVI DELLA DECISIONE

Deve, innanzi tutto, essere ordinata, ai sensi del combinato disposto degli artt. 333 e 335 c.p.c., la riunione di entrambi i ricorsi, relativi ad altrettante impugnazioni separatamente proposte contro la stessa sentenza.

Con l'unico motivo di gravame, lamenta la ricorrente principale violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ed in particolare dell'art. 10 della legge fallimentare, in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., assumendo:

1) che la Corte territoriale, se per un verso ha ritenuto astrattamente applicabile, in virtù della sentenza della Corte Costituzionale n. 66 del 1999, il citato art. 10 anche all'ipotesi del socio illimitatamente responsabile che abbia sciolto il rapporto con la società e nei cui confronti, quindi, può verificarsi l'estensione della sentenza dichiarativa di fallimento, ha tuttavia, per altro verso, ritenuto di non avvalersi di tale norma a causa del decorso, alla data di dichiarazione del fallimento stesso, del termine annuale dallo scioglimento del vincolo societario, individuando l'inizio del suddetto termine nell'atto di cessione delle quote, posto in essere il 23.6.1993 ovvero oltre l'anno dalla suindicata dichiarazione, intervenuta con la sentenza pronunciata il 30.6/6.7.1994 e, quindi, al di fuori dell'ambito di applicazione del già richiamato art. 10;

2) che, per quanto concerne il dies a quo dello scioglimento del vincolo societario, ai fini della permanenza della fallibilità del socio, tale termine deve farsi invece decorrere dalla pubblicità dello scioglimento medesimo, secondo quanto la giurisprudenza ha avuto modo di riconoscere là dove ha affermato, in ragione del principio generale dell'affidamento dei terzi di buona fede il quale va applicato anche in ambito fallimentare così da far conseguire effetti sostanziali in favore di chi dell'apparenza si sia incolpevolmente fidato per aver consultato il registro delle imprese, che il recesso del socio (cui è equiparata l'ipotesi della cessione delle quote), là dove ad esso non sia stata data pubblicità ai sensi dell'art. 2290, secondo comma, c.c., non è opponibile ai terzi e, pertanto, non è idoneo ad escludere l'estensione di fallimento pronunciata ex art. 47 l.f., senza che rilevi il fatto che il recesso sia avvenuto oltre un anno prima della dichiarazione di fallimento, considerato che il rapporto societario, per quanto concerne i terzi, a quel momento è ancora in atto;

3) che, nella specie, mentre per lo S. l'iscrizione nel registro delle imprese della modificazione del contratto sociale è avvenuta il 7.7.1993, ovvero un giorno prima della scadenza dell'anno dalla data di deposito della sentenza dichiarativa di fallimento, per la M. una simile iscrizione non è mai avvenuta, onde, pur essendosi realizzata la cessione delle quote oltre un anno prima della dichiarazione di fallimento, è da prevedere nei suoi confronti l'estensione del fallimento;

4) che, infine, per quanto concerne il presupposto oggettivo, il socio fallisce anche se lo stato di insolvenza della società si è manifestato successivamente allo scioglimento del vincolo societario. Il motivo è fondato.

Giova al riguardo osservare come la Corte territoriale, sulla premessa che "i primi giudici hanno seguito l'indirizzo uniforme della Corte di Cassazione, che subordinava il fallimento dei soci illimitatamente responsabili delle società di persona, in via di estensione del fallimento della società, anche successivamente alla perdita, per qualsiasi causa (morte, recesso, esclusione, cessione della quota), della loro qualità di soci, alla sola condizione che agli stessi fossero riferibili le situazioni debitorie dalle quali era dipesa l'insolvenza, senza alcuna limitazione temporale", abbia ritenuto invece, giungendo quindi, sulla base dell'incensurato apprezzamento di fatto relativo alla circostanza che la M. e lo S. "cedettero le loro quote sociali con atto per notar Trinchillo del 23.6.1993", alla revoca della dichiarazione di fallimento adottata nei loro confronti "il 30.6/6.7.1994", di doversi conformare alla pronuncia "interpretativa" della Corte Costituzionale là dove il giudice delle leggi, con la sentenza n. 66 del 1999, più volte richiamata dalla successiva giurisprudenza anche di questa stessa Corte (Cass. 6 ottobre 2000, n. 13322; Cass. 11 aprile 2001, n. 5379), ha affermato:

a) che, così come l'assoggettabilità a fallimento dell'imprenditore cessato o defunto postula, in applicazione del generale principio di certezza delle situazioni giuridiche, la fissazione di un limite temporale entro cui debba seguire la dichiarazione di fallimento (limite fissato negli artt. 10 e 11 legge fall., in un anno dalla cessazione dell'impresa o dalla morte dell'imprenditore), analogamente e a maggior ragione deve essere circoscritta entro un prestabilito limite temporale l'ammissibilità del fallimento dell'ex socio, la cui sottoposizione alla procedura fallimentare prescinde del tutto dalla sussistenza dei presupposti di cui agli artt. 1 e 5 legge fall., che vanno accertati solo nei confronti della società;

b) che, in coerenza all'affermazione secondo cui le leggi, in linea di principio, non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali, ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali, è quindi da individuare, per via di interpretazione, il limite temporale all'ammissibilità del fallimento dell'ex socio all'interno della stessa legge fallimentare e, precisamente, nella norma dettata dagli artt. 10 e 11 di detta legge, attribuendo a questa, in considerazione della sua ratio, una portata generale e non limitata al solo imprenditore individuale;

c) che è perciò infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 147 legge fall., nella parte in cui non prevede che la sentenza dichiarativa di fallimento, in estensione, del socio illimitatamente responsabile possa essere pronunciata entro un periodo predeterminato, come accade per l'imprenditore individuale, in quanto la norma di cui al richiamato art. 147 va interpretata nel senso che il fallimento del socio può essere dichiarato, ai sensi degli artt. 10 e 11 legge fall., solo entro un anno dallo scioglimento del rapporto sociale.

Peraltro, vale notare come, attraverso le decisioni successive a quella sopra riportata, l'orientamento della stessa Corte Costituzionale si sia quindi ulteriormente precisato nel senso:

a) di ritenere l'illegittimità costituzionale degli artt. 10 e 147, primo comma, legge fall., nella parte in cui, rispettivamente, prevedono che il termine di un anno dalla cessazione dell'impresa, entro il quale può intervenire la dichiarazione di fallimento, decorra, per l'impresa collettiva, dalla liquidazione effettiva dei rapporti facenti capo alla società, invece che dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese e che il fallimento della società produca il fallimento dei soci illimitatamente responsabili pur dopo che sia decorso un anno dal momento della perdita, regolarmente pubblicizzata, da parte di costoro, della qualità di socio illimitatamente responsabile a seguito di vicende che siano state, a loro volta, debitamente portate a conoscenza dei terzi nelle forme prescritte (sentenza n. 319 del 2000; ordinanza n. 568 del 2000; ordinanza n. 11 del 2001; nonché Cass. 8 novembre 2002, n. 15677; Cass. 6 marzo 2003, n. 3338);

b) di ritenere la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art 10 della legge fall., nella parte in cui non prevede che per l'imprenditore individuale il termine di un anno per la dichiarazione di fallimento decorra dalla pubblicazione della cessazione dell'attività nel registro delle imprese, argomentando dal fatto che l'interpretazione secondo la quale il termine di un anno ivi previsto per l'assoggettabilità a fallimento dell'imprenditore decorra in ogni caso dalla cessazione di fatto dell'impresa, dovendosi attribuire alle risultanze dei registri pubblici un valore soltanto indiziario dell'effettiva interruzione dell'attività, è erroneamente qualificata in termini di diritto vivente e non è sicuramente l'unica compatibile con il tenore della norma (ordinanza n. 361 del 2001 e ordinanza n. 131 del 2002);

c) di ritenere la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 147, secondo comma, della legge fall., nella parte in cui non prevede un limite temporale, decorrente dalla data della sentenza dichiarativa di fallimento del fallimento principale, per la dichiarazione di fallimento c.d. in estensione del socio "occulto" illimitatamente responsabile, sul rilievo che tutto il nostro sistema normativo, ed in particolare le disposizioni del libro quinto del codice civile in tema di responsabilità personale del socio per le obbligazioni delle società di persone, è improntato a netta differenza tra società registrate e società irregolari o occulte, potendo essere opposte ai creditori (salvo che questi ne abbiano avuto ugualmente conoscenza) solo le vicende, societarie o personali, conoscibili attraverso la regolare iscrizione nel registro delle imprese, secondo quanto prescrivono gli artt. 2193 e 2200 c.c. e le altre disposizioni connesse, donde l'impossibilità di ragguagliare, ai fini dell'applicabilità del termine annuale entro cui può essere dichiarato il fallimento personale del socio illimitatamente responsabile di una società personale, due situazioni fra loro affatto diverse quali sono quelle del socio receduto da una società regolarmente costituita e registrata, nel rispetto delle forme di pubblicità prescritte dalla legge, e quella del socio occulto di una società irregolare perché non iscritta nel registro delle imprese o, addirittura, a sua volta del tutto occulta (ordinanza n. 321 del 2002 e ordinanza n. 36 del 2003). Orbene, l'illustrazione, nei termini di cui sopra, della più recente giurisprudenza della Corte Costituzionale e lo stesso rilievo che tale giurisprudenza appare ormai espressione di una linea di principio uniforme, costantemente seguita, che l'odierno Collegio ritiene di dover condividere, persuadono della necessità di addivenire alla conclusione (già fatta propria, del resto, con riguardo all'ipotesi del recesso, anche da questa Corte; Cass. 5 ottobre 1999, n. 11045) secondo cui la cessazione dell'appartenenza del socio di società di persone alla compagine sociale (per morte o per altra causa, come, ad esempio, con specifico riferimento al caso in esame, per intervenuta cessione delle quote, la quale, pur non comportando necessariamente l'intento di provocare lo scioglimento della società, contiene in sè la volontà di dismettere la partecipazione ceduta e, dunque, di uscire dal novero dei soci, sicché, ove non rimanga nel limitato ambito del rapporto interpartes, ma trovi il consenso unanime occorrente per la variazione della compagine sociale con il subingresso del cessionario al cedente, segna il perfezionarsi del recesso di quest'ultimo, per effetto del concorrere di detta volontà di uscire dall'ente societario e della sua comunicazione agli altri soci: Cass. 4 giugno 1999, n. 5479), cui non sia stata data pubblicità, ai sensi dell'art. 2290, secondo comma, c.c., è capace di produrre i suoi effetti nei confronti della società e degli altri soci (per quanto attiene, ad esempio, alla divisione degli utili, se esistenti, nonché alla liquidazione della quota sociale), ma non è opponibile ai terzi, con ciò dovendosi intendere che non riveste efficacia al di fuori dell'ambito societario, onde tale cessazione, là dove non sia pubblicizzata, non è idonea ad escludere l'estensione del fallimento pronunciata ai sensi dell'art. 147 legge fall., senza che assuma rilievo il fatto che la cessazione medesima sia avvenuta oltre un anno prima della sentenza dichiarativa di fallimento, posto che il rapporto societario, per quanto concerne i terzi, a quel momento è ancora in atto.

Ne consegue che la Corte territoriale, là dove, sulla base della sentenza interpretativa della Corte Costituzionale n. 66 del 1999 ed alla stregua degli enunciati ivi contenuti, ha ritenuto di dover revocare la pronuncia di fallimento adottata nei confronti della M. e dello S. il 30.6/6.7.1994 in ragione della (sola) circostanza che questi ultimi "cedettero le quote sociali con atto...del 23.6.1993", senza evidentemente apprezzare gli ulteriori profili di fatto inerenti alle vicende "pubblicitarie" di tale cessione, non ha correttamente applicato i principi dianzi illustrati, onde, non essendo dato di ravvisare alcuna effettiva e specifica censura nell'assunto di cui al capo "4" della precedente illustrazione del motivo in esame, il ricorso principale merita accoglimento e l'impugnata sentenza va cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio, anche ai fini delle spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli, affinché detto giudice, ai fini dell'assoggettabilità a fallimento degli ex soci illimitatamente responsabili che (come la M. e lo S.) abbiano ceduto le loro quote sociali, provveda ad apprezzare il profilo dell'avvenuta decorrenza del termine annuale e ad accertare in fatto il rispetto del prescritto limite temporale avendo riguardo non già alla data della cessione in sè, ma alla data della pubblicità, nelle forme di legge, che a tale cessione sia (eventualmente) seguita, così da ritenere l'ininfluenza della cessione medesima, agli effetti indicati, vuoi nel caso di sua mancata pubblicizzazione, vuoi nel caso in cui una simile pubblicizzazione risulti avvenuta oltre un anno prima della pronuncia dichiarativa di fallimento.

Il ricorso incidentale, per contro, è inammissibile. Premesso, infatti, come tale gravame risulti espressamente spiegato "non avendo la Corte di Appello di Napoli esaminato gli altri motivi di appello sollevati dallo S., (cosicché) tuzioristicamente appare opportuno riproporre in questa sede, nella denegata ipotesi di accoglimento del ricorso principale, quegli stessi argomenti, quali motivi di ricorso incidentale condizionato...", basterà, al riguardo, richiamare il principio secondo cui il ricorso incidentale per cassazione, anche se condizionato, deve essere giustificato da un interesse che abbia per presupposto una situazione sfavorevole al ricorrente, cioè una soccombenza, onde va considerato appunto inammissibile quando proposto dalla parte vittoriosa e, segnatamente, come nella specie, quando la parte medesima sollevi nuovamente questioni che il giudice di merito non abbia ne' considerato ne' deciso (in senso ad essa sfavorevole) avendole ritenute, pur se implicitamente, assorbite, dal momento che siffatte questioni, anche in caso di accoglimento del ricorso principale, possono essere eventualmente riproposte davanti al giudice del rinvio (Cass. 20 luglio 1998, n. 7103; Cass. 23 novembre 1998, n. 11861; Cass. 30 marzo 2000, n. 3908; Cass. 16 luglio 2001, n. 9637; Cass. 8 ottobre 2002, n. 14382; Cass. 29 agosto 2003, n. 12680).

 

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, accoglie il ricorso principale, dichiara l'inammissibilità del ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche ai fini delle spese del giudizio di Cassazione, ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli.

Così deciso in Roma, il 5 novembre 2003.

Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2004