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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23355 - pubb. 11/03/2020.

Giudizio di cassazione: la dichiarazione di fallimento interrompe il mandato difensivo, ma il processo prosegue d’ufficio


Cassazione civile, sez. I, 24 Febbraio 2020. Pres. Federico. Est. Fidanzia.

Fallimento – Mandato difensivo – Giudizio di cassazione – Ultrattività – Eslcusione


In caso di fallimento del mandante, il mandato difensionale conferito con la procura ad litem, in considerazione delle sue peculiari caratteristiche, non è soggetto alla disciplina del mandato in generale di cui all'art. 78, comma 2, legge fall.; infatti, per effetto della dichiarazione di fallimento, il mandato difensionale prestato nelle controversie non aventi natura personale per il fallito non entra né in una fase di sospensione, in attesa che il curatore eserciti la facoltà di cui all'art. 72 legge fall., né è caratterizzato dall'ultrattività, ma si scioglie immediatamente.

L'ultrattività del mandato - intendendosi per tale la possibilità del difensore di continuare a compiere gli atti processuali in nome e per conto del cliente, che trova la propria fonte nel potere discrezionale del professionista di dichiarare o meno (in quella fase del giudizio) la causa interruttiva - non ha luogo in caso di dichiarazione di fallimento atteso che, proprio perché l'interruzione del giudizio di merito è automatica e deve essere dichiarata dal giudice non appena sia venuto a conoscenza dell'evento, la stessa è sottratta all'ordinario regime dettato in materia dall'art. 300 cod. proc. civ..

Né può invocarsi il principio di ultrattività del mandato in ipotesi di dichiarazione di fallimento intervenuta nel corso di un giudizio di cassazione solo perché l'apertura del fallimento non comporta l'interruzione del giudizio di legittimità, fondandosi la mancata interruzione di tale giudizio esclusivamente sull'impulso d'ufficio che lo caratterizza.

La mancata interruzione del giudizio di legittimità a seguito del verificarsi di uno degli eventi di cui agli artt. 299 e ss. cod. proc. civ. o dell'art. 43 legge fall, non dipende affatto dalla ultrattività del mandato difensivo - che è invece venuto inesorabilmente meno - ma dall'impulso d'ufficio di tale giudizio, la cui struttura impone a ciascuna parte (privata della assistenza tecnica) un particolare onere di attenzione, gli effetti della cui inosservanza ricadono sulla stessa parte.

Ne consegue che, a seguito della dichiarazione di fallimento intervenuta nel giudizio di legittimità, il legale cui era stato precedentemente conferito mandato ad litem, proprio perché (nelle controversie non aventi natura personale del fallito) è definitivamente venuto meno il rapporto professionale che lo legava alla parte assistita, non ha più alcun titolo per proseguire la propria attività difensiva. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)

 

Fatti di causa

Con decreto depositato il 18 ottobre 2017 il Tribunale di Siracusa ha rigettato l'opposizione ex art. 98 legge fall, proposta dall'avv. A. Le. avverso il decreto con cui il G.D. aveva dichiarato inammissibile per tardività la sua istanza finalizzata ad ottenere l'insinuazione allo stato passivo del fallimento P. Impianti s.r.l. del proprio compenso professionale per l'attività di difesa giudiziale dallo stesso prestata innanzi alla Corte di Cassazione in un giudizio in cui era originariamente parte la P. Impianti s.r.l., quando era ancora in bonis, con il fallimento intervenuto quando era già pendente il giudizio di cassazione.

Il Tribunale di Siracusa ha statuito:

- che il credito del difensore matura al momento della cessazione dell'incarico, momento che può anche essere procedente al completamento dell'attività difensiva;

che, a seguito della dichiarazione di fallimento, il fallito perde la legittimazione processuale ed il curatore non è obbligato a subentrare nei giudizi incardinati dal fallito o contro il fallito, dovendo il curatore operare una valutazione in concreto di vantaggiosità per la massa e di coerenza con le esigenze della procedura;

che, nel testo riformato dell'art. 78 legge fall., il mandato difensivo non si scioglie più automaticamente per effetto del fallimento del mandante (come avviene in caso di fallimento del mandatario), e, per effetto dell'applicazione della disciplina generale dei contratti pendenti di cui all'art. 72 legge fall, il mandato difensivo è sospeso in attesa che il curatore eserciti la facoltà concessagli dal terzo comma di optare per la prosecuzione o lo scioglimento;

- che, nel caso di specie, l'inerzia del curatore - dopo essere stato informato dal legale del deposito del ricorso per cassazione e della fissazione dell'udienza - doveva ritenersi espressione del medesimo di non voler subentrare nel rapporto in luogo del fallito;

- che il principio per il quale il fallimento di una parte in costanza di un giudizio di legittimità non costituisce una causa d'interruzione del giudizio attiene ad un profilo diverso dalla perdita della capacità processuale del fallito che si verifica automaticamente per effetto della dichiarazione di fallimento, dovendo il rapporto ritenersi estinto ex art. 1722 cod. civ. e per effetto dell'opzione del curatore di non subentrarvi;

che, pertanto, per effetto del fallimento, il difensore avrebbe dovuto subito insinuare il proprio credito al passivo e non attendere la definizione del procedimento pendente, essendo il credito sorto al momento stesso della cessazione del rapporto difensivo.

Avverso la predetta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione l'avv. Le. affidandolo a tre motivi.

La curatela del fallimento P. Impianti s.r.l. non ha svolto difese.

Il ricorrente ha depositato la memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

 

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo l'avv. Le. ha dedotto la contraddittorietà della motivazione ex art. 360 comma 1. n. 5 cod. proc. civ. e la violazione degli artt. 42, 42, 72, 78 e 101 comma 1. Legge fall., degli artt. 83, 85, 299 e 365 cod. proc. civ. e 1722 cod. civ..

Lamenta il ricorrente che il giudice di merito ha errato nel ritenere sciolto il mandato difensivo conferito al ricorrente, che non è stato né revocato dal cliente ex art. 85 cod. proc. civ. né dal curatore.

Ne consegue che, non applicandosi l'interruzione processuale nel giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione (dominato dall'impulso d'ufficio), ed in virtù del principio di ultrattività del mandato, il ricorrente ha continuato a svolgere la sua attività professionale ed ha maturato il credito, sorto al momento della conclusione del procedimento di legittimità.

Il ricorrente ha, altresì, affermato che è "ius receptum" che nel giudizio di cassazione non può dichiararsi il difetto di capacità processuale della parte dichiarata fallita, che comunque non è mai assoluta ma relativa (nel senso che può essere eccepita solo dal curatore), con la conseguenza che in caso di inerzia del curatore, il fallito rimane in giudizio per proprio conto ed il difensore deve proseguire nel proprio incarico professionale.

Infine, il ricorrente ha dedotto che al comportamento omissivo del curatore non può attribuirsi altro significato se non la volontà di prosecuzione dell'incarico - non potendosi ritenere il rapporto sospeso in attesa che il curatore eserciti la facoltà di cui all'art. 72 legge fall. - che può essere revocato solo esercitando espressamente il diritto di recesso.

Ne consegue che non essendo estinto il mandato professionale del difensore per effetto del fallimento, nessun ritardo è imputabile al ricorrente nella presentazione dell'istanza di insinuazione allo stato passivo, avendo lo stesso presentato tale istanza subito dopo la comunicazione del deposito della sentenza della Suprema Corte di Cassazione (1/12/2015), in concomitanza con la cessazione di tale incarico.

2. Con il secondo motivo il ricorrente ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 101 legge fall, in relazione agli artt. 3 e 24 Cost. nella parte in cui non prevede espressamente che i creditori sopravvenuti ed incolpevoli possano presentare istanza di ammissione al passivo del fallimento entro il termine di un anno decorrente dall'insorgenza del credito.

3. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione dell'art. 91 cod. proc. civ.. in relazione all'art. 360 comma 1. n. 3 cod. proc. civ. in considerazione del fatto che, se il Tribunale avesse fatto corretta applicazione dei principi esposti nei precedenti motivi, non sarebbe pervenuto alla condanna alle spese del ricorrente.

4. Il primo motivo è in parte fondato, nei termini sotto illustrati.

Ritiene questo Collegio che in caso di fallimento del mandante, il mandato difensionale conferito con la procura ad litem, in considerazione delle sue peculiari caratteristiche, non sia soggetto alla disciplina del mandato in generale di cui all'art. 78 comma 2 . legge fall..

Infatti, per effetto della dichiarazione di fallimento, il mandato difensionale prestato nelle controversie non aventi natura personale per il fallito non entra né in una fase di sospensione in attesa che il curatore eserciti la facoltà di cui all'art. 72 legge fall. - come ritenuto dal decreto impugnato - né è caratterizzato dall'ultrattività, come, invece, invocato dal ricorrente, bensì si scioglie immediatamente.

Ciò può evincersi sia dall'art. 43 comma 1. legge fall., secondo cui il fallito perde per effetto della dichiarazione di fallimento la legittimazione processuale in tutte le controversie non aventi natura personale, sia dall'art. 43 comma 3. legge cit., secondo cui l'apertura del fallimento determina automaticamente l'interruzione dei processi (di merito) in corso.

L'ultrattività del mandato - intendendosi per tale la possibilità del difensore di continuare a compiere gli atti processuali in nome e per conto del cliente, che trova la propria fonte nel potere discrezionale del professionista di dichiarare o meno (in quella fase del giudizio) la causa interruttiva - non ha luogo in caso di dichiarazione di fallimento atteso che, proprio perché l'interruzione del giudizio di merito è automatica e deve essere dichiarata dal giudice non appena sia venuto a conoscenza dell'evento, la stessa è sottratta all'ordinario regime dettato in materia dall'art. 300 cod. proc. civ.. (cfr. Cass. n. 9016/2018; Cass. n. 5288/2017).

Né può invocarsi il principio di ultrattività del mandato in ipotesi di dichiarazione di fallimento intervenuta nel corso di un giudizio di cassazione solo perché l'apertura del fallimento non comporta l'interruzione del giudizio di legittimità, fondandosi la mancata interruzione di tale giudizio esclusivamente sull'impulso d'ufficio che lo caratterizza (vedi recentemente Cass. n. 27143/2017).

In proposito, sin dalla lontana pronuncia delle S.U. n. 11195/1992, questa Corte ha osservato che "... l'argomento sulla cui base la dottrina e la giurisprudenza sono contrarie all'operatività dell'istituto dell'interruzione è costituito dal rilievo che il giudizio di cassazione, una volta instauratosi con la notificazione del ricorso e con il deposito dello stesso, è dominato dall'impulso d'ufficio, sicché non possono operare eventi, previsti dagli artt. 299 e ss. c.p.c, che - nel giudizio di merito ispirato al principio dispositivo - determinano l'interruzione del processo...". Peraltro, la citata sentenza delle S.U., nel contrastare l'orientamento di quella dottrina e quella giurisprudenza che ritenevano che, in presenza degli eventi di agli artt. 299 ss c.p.c. , l'unico mezzo attraverso cui realizzare il diritto di difesa costituzionalmente garantito fosse appunto quello di procedere all'interruzione del processo, allo scopo di consentire il ripristino dell'effettività del contraddittorio ed una efficiente rappresentanza tecnica delle parti nel processo, ha argomentato in questi termini:

" Le stesse osservazioni possono farsi per il giudizio di legittimità.

E' ben vero che in tale giudizio, dominato dall'impulso d'ufficio, esistono una serie di attività che presuppongono la presenza del difensore, ma la circostanza che il legislatore non abbia previsto, proprio per tale motivo, la rilevanza degli eventi di cui all'art. 299 ss. c.p.c, non induce né ad applicare in via analogica le norme predette, ostandovi il divieto dell'art. 14 delle preleggi, né ad affermare l'incostituzionalità di tale mancata previsione, dovendosi invece ritenere che la struttura del giudizio di legittimità impone un particolare onere di attenzione per la parte, sicché è da dire che la mancata osservanza di quest'onere, per fatti relativi al procuratore -come nel caso di specie - ricadono sulla parte stessa che non si è attivata per ovviare alle conseguenze derivanti da eventi che essa avrebbe potuto e dovuto conoscere...".

Emerge quindi con chiarezza dall'insegnamento della citata pronuncia, le cui conclusioni sono state (anche tralaticiamente) confermate in tutte le pronunce successive fino ai nostri giorni, che la mancata interruzione del giudizio di legittimità a seguito del verificarsi di uno degli eventi di cui agli artt. 299 e ss. cod. proc. civ. o dell'art. 43 legge fall, non dipende affatto dalla dedotta (dal ricorrente) ultrattività del mandato difensivo - che è invece venuto inesorabilmente meno - ma dall'impulso d'ufficio di tale giudizio, la cui struttura impone a ciascuna parte (privata della assistenza tecnica) un particolare onere di attenzione, gli effetti della cui inosservanza ricadono sulla stessa parte.

Ne consegue che, a seguito della dichiarazione di fallimento intervenuta nel giudizio di legittimità, il legale cui era stato precedentemente conferito mandato ad litem, proprio perché (nelle controversie non aventi natura personale del fallito) è definitivamente venuto meno il rapporto professionale che lo legava alla parte assistita, non ha più alcun titolo per proseguire la propria attività difensiva.

E' quindi priva di pregio l'affermazione del ricorrente secondo cui al comportamento omissivo posto in essere dal curatore (dopo essere stato notiziato della pendenza del giudizio di cassazione in cui patrocinava lo stesso ricorrente) non potrebbe attribuirsi altro significato se non la volontà di prosecuzione dell'incarico. Tale assunto si pone, altresì, in netto contrasto con la disciplina del mandato al procuratore legale del fallimento prevista dalla legge fallimentare (vedi artt. 25 e 31 legge fall), che costituisce una fattispecie complessa di procura alle liti che si perfeziona con il concorso di tre distinti atti, uno (solo) dei quali - a seguito della riforma del diritto fallimentare del 2006 - è demandato alla competenza del giudice delegato (autorizzazione a stare a giudizio, da concedersi per ogni grado) e gli altri due alla competenza del curatore (nomina e rilascio della procura al difensore).

L'incarico al legale che patrocinava la società poi fallita prima della dichiarazione di fallimento non può quindi attribuirsi certo per effetto del comportamento omissivo del curatore, il quale, come sopra anticipato, non è comunque dotato di capacità processuale autonoma, essendo questa integrata dall'autorizzazione del giudice delegato (vedi Cass. n. 26359/2014).

Accertato quindi che il legale nominato dalla società (poi fallita) quando era ancora in bonis non ha titolo per richiedere il compenso per l'attività giudiziale eventualmente prestata una volta intervenuto il fallimento - anche se tale attività è stata prestata in sede di legittimità - va, tuttavia, osservato che non può condividersi la valutazione dei giudici di merito di ultratardività del credito insinuato dal legale (che era dovuto quantomeno per l'attività difensiva svolta prima della dichiarazione di fallimento).

Infatti, tenuto conto che non constano precedenti specifici sulla questione che ha formato oggetto del presente procedimento e che il caso esaminato dai giudici di merito presentava la peculiarità che il legale ricorrente aveva continuato a patrocinare nell'ambito di un giudizio di cassazione - che non si interrompe per effetto della dichiarazione di fallimento - deve ritenersi che il ritardo da parte del ricorrente nella presentazione dell'istanza di insinuazione allo stato passivo fosse allo stesso non imputabile.

Il ricorrente, infatti, confidando che il suo mandato difensivo non si fosse sciolto per effetto della dichiarazione di fallimento, non ha immediatamente presentato l'istanza di insinuazione per il credito maturato fino alla dichiarazione di fallimento ritenendo erroneamente, ma in una materia che non era stata ancora esplorata - che il suo mandato difensivo fosse cessato solo in coincidenza della conclusione del giudizio di cassazione.

Deve quindi cassarsi la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Siracusa, in diversa composizione, per nuovo esame e per statuire sulle spese del giudizio di legittimità.

5. Il secondo ed il terzo motivo sono assorbiti.

 

P.Q.M.

Cassa la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Siracusa, in diversa composizione, per nuovo esame e per statuire sulle spese del giudizio di legittimità.