Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23809 - pubb. 02/07/2020

Reclamo contro la sentenza di fallimento e conseguenze della irrituale o mancata costituzione del reclamato

Cassazione civile, sez. I, 12 Marzo 2020, n. 7121. Pres. Didone. Est. Amatore.


Dichiarazione di fallimento - Reclamo - Irrituale o mancata costituzione del reclamato - Conseguenze - Fattispecie



In tema di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, in caso di irrituale costituzione o di mancata comparizione in udienza del reclamato il giudice, verificata la regolarità del contraddittorio, deve decidere il reclamo nel merito, non potendosi far discendere dalle predette circostanze il disinteresse processuale della parte a coltivare la domanda di fallimento. (Nella specie, la S.C. ha escluso che la mancata costituzione del P.G. presso la Corte d'appello comportasse la rinuncia all'istanza di fallimento). (massima ufficiale)


Massimario Ragionato




Fatto

1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Firenze - decidendo sul reclamo L. Fall., ex art. 18, avanzato da (*) s.r.l. nei confronti del FALLIMENTO (*) s.r.l. avverso la sentenza dichiarativa di fallimento emessa dal Tribunale di Firenze in data 29.7.2015 - ha confermato la detta sentenza, rigettando, pertanto, il reclamo.

La corte del merito ha ritenuto: che era infondata la doglianza incentrata sulla metodologia di accertamento dell'insolvenza invocata da parte della società reclamante, posto che l'accertamento statico tra attività patrimoniali e passività si attaglia alle società poste in liquidazione e la reclamante invece era una società attiva e neanche in stato di scioglimento, nonostante l'integrale erosione del capitale sociale; che, comunque, risultava inverosimile la stima offerta dalla reclamante dell'azienda condotta da quest'ultima, e cioè Euro 1.300.000, in quanto anche l'accertamento della Ctu, disposta in corso di istruttoria prefallimentare, aveva evidenziato un valore non superiore ad Euro 104.826,21, che, se paragonato all'entità dei debiti sociali (Euro 990.875,46), evidenziava il conclamato stato di insolvenza già accertato dal tribunale fallimentare; che anche il debito erariale era assai consistente, pari ad Euro 670.000, e che il piano di risanamento, con la previsione del pagamento rateizzato dei debiti, riguardava invero solo alcuni creditori; che, peraltro, il ricorso sistematico alla rateizzazione era altro sintomo evidente dell'insolvenza; che il previsto affitto di azienda era stato costruito negozialmente al fine di consentire una continuità di gestione aziendale a P.R., l'amministratore della fallita, e che, comunque, il provvedimento di sequestro preventivo adottato dal Gip, nell'ambito di un procedimento per bancarotta fraudolenta riguardante la diversa società Sky S., aveva svuotato del residuo valore commerciale l'azienda della fallita.

2. La sentenza, pubblicata il 25.1.2016, è stata impugnata da (*) s.r.l. con ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui la curatela fallimentare ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

La Procura Generale presso la Corte di cassazione, nella persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Immacolata Zeno, ha depositato requisitoria scritta, con la quale ha chiesto il rigetto del ricorso.

 

Diritto

1. Con il primo motivo la ricorrente - lamentando, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 3 disp. att. c.p.c., nonchè degli artt. 267 e 72, medesimo codice di rito, e L. Fall., art. 18 - si duole della invalida costituzione del Procuratore Generale nel giudizio di reclamo, costituzione non intervenuta tramite deposito di comparsa di risposta, ma attraverso un'irrituale annotazione apposta sulla copertina del fascicolo processuale ("v. per intervento, conclude per la reiezione del proposto reclamo con conseguente conferma dell'opposto provvedimento").

2. Con il secondo motivo si denuncia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza impugnata per violazione della L. Fall., artt. 6 e 7, nonchè della L. Fall., artt. 15 e 18, in relazione agli artt. 69 e 70 c.p.c., e per illegittimità dell'iter procedurale e difetto di valida iniziativa da parte del Procuratore della Repubblica, con conseguente perpretata violazione del principio "ne procedat judex ex officio". Si evidenzia che la mancata rituale costituzione del P.G. nel giudizio di reclamo e la sua mancata presenza in udienza comportava un'implicita desistenza dalla domanda di fallimento, con la conseguenza che, in assenza di tale domanda, la dichiarazione di fallimento doveva essere revocata.

3. Con il terzo motivo si articola, sempre ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 91,94 e 96 c.p.c., in relazione alla L. Fall., art. 18. Si osserva che la parte soccombente nel giudizio di reclamo era la società e non già l'amministratore della stessa che, dunque, era stato illegittimamente attinto dal provvedimento di condanna al pagamento delle spese, ai sensi dell'art. 94 c.p.c., in assenza di una domanda di parte ed in mancanza dei gravi motivi richiesti dalla norma da ultimo citata.

4. Il ricorso è infondato.

4.1 Possono essere esaminati congiuntamente il primo e secondo motivo di censura che prospettano, sotto due diversi angoli visuali, la medesima questione.

Ebbene, essi sono infondati.

4.1.1 Sotto un primo profilo di riflessione, va ricordato che, secondo la giurisprudenza espressa da questa Corte (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 8227 del 24/05/2012;Sez. Sez. 1, Sentenza n. 24797 del 03/10/2019), dovendosi applicare al giudizio in esame le norme sul reclamo, in quanto non derogate dalla L. Fall., art. 18, vale il principio per cui, in caso di difetto di comparizione del reclamante all'udienza di trattazione, il giudice, verificata la regolarità della notificazione del ricorso e del decreto, deve decidere il reclamo nel merito, esclusa la possibilità di una decisione di rinvio della trattazione o di improcedibilità per disinteresse alla definizione o di "non luogo a provvedere".

Tale principio deve valere a fortiori per la parte reclamata.

Ne consegue che non può farsi discendere dall'invalida costituzione della parte reclamata ovvero dalla sua assenza in udienza il disinteresse processuale a coltivare la domanda di fallimento, come pretenderebbe la parte oggi ricorrente.

4.1.2 Sotto altro profilo, non può essere dimenticato che, sempre secondo la giurisprudenza di questa Corte di legittimità, nel giudizio di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento hanno rilievo esclusivamente i fatti esistenti al momento della sua decisione, e non quelli sopravvenuti, perchè la pronuncia di revoca del fallimento, cui il reclamo tende, presuppone l'acquisizione della prova che non sussistevano i presupposti per l'apertura della procedura alla stregua della situazione di fatto esistente al momento in cui essa venne aperta; ne discende che la rinuncia all'azione o desistenza del creditore istante, che sia intervenuta dopo la dichiarazione di fallimento, è irrilevante perchè al momento della decisione del tribunale sussisteva ancora la sua legittimazione all'azione (cfr. Sez. 1, Ordinanza n. 16180 del 28/06/2017).

4.1.2.1 Premesso che - per quanto già sopra riferito - non è possibile rintracciare nel comportamento processuale del P.G. un'implicita volontà di desistenza dalla domanda di fallimento, va aggiunto che, quand'anche la parte reclamata avesse espresso tale volontà processuale, ciò non avrebbe avuto alcun rilievo sulla tenuta della declaratoria di fallimento, proprio perchè fatto sopravvenuto a quest'ultima.

4.1.3 Senza contare che la lamentata violazione delle norme in materia di intervento del P.M. attiene, invero, alla costituzione di quest'ultimo e presenta, al più, profili di nullità che non toccano la decisione adottata, che, dunque, resta valida (cfr. Cass. 19797/2015; v. anche Cass. 9260/2011; Cass. 19241/2009). Più in particolare, la giurisprudenza di questa Corte ha escluso l'interesse del reclamante a far valere tale violazione al posto del p.m. (v. Cass. 9260/2011).

Ne discende il complessivo rigetto dei primi due motivi.

4.2 Anche il terzo motivo è infondato.

4.2.1 Sul punto, va ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di condanna del rappresentante sostanziale o del curatore della parte alle spese, a differenza di quanto previsto dall'art. 96 c.p.c., per la condanna della parte per responsabilità aggravata, la quale va esplicitamente richiesta, l'art. 94 del codice di rito contempla il potere del giudice di condannare, per gravi motivi, il rappresentante (sostanziale)o il curatore della parte alle spese dell'intero processo o di singoli atti anche indipendentemente da una specifica richiesta della controparte, giacchè inerisce pur sempre al potere - dovere del giudice di regolare le spese processuali sostenute dalle parti con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, secondo quanto previsto dall'art. 91 c.p.c., (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 3977 del 18/03/2003).

Deve pertanto essere esclusa la dedotta prima violazione di legge, sub art. 94 c.p.c., in punto di contestata condanna ex officio del legale rappresentante della società fallita.

4.2.2 Ma anche il secondo profilo di doglianza, articolato sempre in relazione alla violazione della L. Fall., art. 94, non merita accoglimento.

Sul punto, giova ricordare che, secondo la giurisprudenza espressa da questa Corte, l'art. 94 c.p.c., il quale contempla la condanna alle spese nei confronti dell'avversario vincitore, eventualmente in solido con la parte, del soggetto che la rappresenti (e, quindi, come nella specie, anche dell'amministratore di una società), si giustifica con il fatto che il predetto, pur non assumendo la veste di parte nel processo, esplica pur tuttavia, anche se in nome altrui, un'attività processuale in maniera autonoma, conseguendone l'operatività del principio della soccombenza; tale condanna postula la ricorrenza di gravi motivi, da identificarsi in modo specifico dal giudice, per la loro concreta esistenza, nella trasgressione del dovere di lealtà e probità di cui all'art. 88 c.p.c. ovvero nella mancanza della normale prudenza che caratterizza la responsabilità processuale aggravata di cui all'art. 96 c.p.c., comma 2, (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 20878 del 08/10/2010; v. anche Sez. u, sentenza n. 5398 del 06/10/1988).

4.2.2.1 Sul punto, va infatti precisato che i giudizi di valore compiuti ai fini della qualificazione di un comportamento ai sensi di norme "elastiche" (come nel caso dei "gravi motivi", di cui all'art. 94 del codice di rito), che indichino solo parametri generali, presuppongono da parte del giudice un'attività di integrazione giuridica della norma, a cui viene data concretezza ai fini del suo adeguamento ad un determinato contesto storico-sociale. Ne consegue la censurabilità in cassazione di tali giudizi quando gli stessi si pongano in contrasto con i principi dell'ordinamento (espressi dalla giurisdizione di legittimità) e con quegli "standard" valutativi esistenti nella realtà sociale che, concorrendo con detti principi,

compongono il diritto vivente (cfr., Cass. Sez. L, Sentenza n. 3645 del 13/04/1999; così, anche Cass., Sez. 1, Sentenza n. 22950 del 10/11/2015; cfr. Sez. 2, Sentenza n. 8047 del 21/03/2019).

Va peraltro ricordato che anche le Sezioni unite (sent. 22 febbraio 2012, n. 2572), nel valutare la formula di cui all'art. 92 c.p.c., comma 2, c.p.c. sulla compensazione delle spese di lite, hanno ribadito che, di fronte a norma "elastica", il giudice di merito è chiamato ad integrarne il contenuto: attività di precisazione e integrazione censurabile in sede di legittimità, al pari di ogni giudizio fondato su norme giuridiche, atteso che, nell'esprimere il giudizio di valore necessario ad integrare il parametro generale contenuto nella norma elastica, il giudice compie un'attività di interpretazione e non meramente fattuale.

4.2.2.2 Ciò posto, osserva la Corte come, nel caso in esame, il giudice del gravame si sia espresso in ordine alla valutazione della sussistenza dei gravi motivi di cui all'art. 94 c.p.c., con giudizio corretto e non censurabile, nel senso sopra chiarito, da questa corte, come violazione del predetto art. 94. Ed invero, tale motivazione è ricavabile dalle argomentazioni utilizzate per il giudizio di manifesta infondatezza del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, come emerge dalla circostanza, rappresentata nella precedente sede processuale e ben valutata dal giudice di appello, della costituzione della società affittuaria, amministrata dal padre dell'amministratore della fallita, il giorno stesso della sottoscrizione del contratto di affitto, con un modesto capitale sociale, con l'affermata (e legittima presunzione) della sostanziale continuità di gestione della società affittante (poi dichiarata fallita) e di quella affittuaria, sempre da parte del P.R., e con la conseguente corretta valutazione della reale incertezza dell'adempimento degli obblighi di pagamento assunti nei confronti di alcuni creditori e della consapevolezza del dissolvimento del valore dell'azienda per la perdita dei locali: tutte circostanze quest'ultime, ben rappresentate dalla corte fiorentina, e che integrano quei gravi motivi di condanna ex art. 94 c.p.c., essendo emerso, cioè, nella rappresentazione della situazione societaria e contabile della fallita, un comportamento processuale improntato alla trasgressione del dovere di lealtà e probità di cui all'art. 88 c.p.c. (come, peraltro, testimoniato ex post dalla contemporanea vicenda penalistica, che ha attinto altra società fallita, la Sky S. s.r.l., con provvedimenti di sequestro da parte del Gip del Tribunale di Firenze, provvedimenti che avevano interessato proprio i locali ove si svolgeva l'attività aziendale). Ne consegue il rigetto del ricorso.

Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da separato dispositivo.

 

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente e P.R., in solido, al pagamento, in favore della curatela fallimentare controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.200 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dall'art. 1, comma 17 della L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2020.