Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23975 - pubb. 11/01/2020

Nozione di imprenditore agricolo è attività ortoflorovivaistica

Cassazione civile, sez. I, 05 Dicembre 2002, n. 17251. Pres. De Musis. Est. Cultrera.


Imprese agricole - Individuazione - Criteri - Fattispecie in tema di attività ortoflorovivaistica



La nozione di imprenditore agricolo contenuta nell'art. 2135 cod. civ. (nel testo precedente alla novella di cui al D.Lgs. n. 228 del 2001), alla quale occorre necessariamente fare riferimento per il richiamo contenuto nell'art. 1 legge fall. (Imprese soggette al fallimento), presuppone che l'attività economica sia svolta con la terra o sulla terra e che l'organizzazione aziendale ruoti attorno al "fattore terra". Ne consegue che il riferimento al solo ciclo biologico del prodotto (pur se esatto dal punto di vista tecnico) non esaurisce il tema d'indagine devoluto al giudice di merito per l'accertamento, ai fini della soggezione al fallimento, della natura dell'impresa (la S.C. ha così cassato la sentenza che aveva ritenuto che l'attività di ortoflorovivaistica potesse essere qualificata agricola, non in base alla coltivazione diretta del fondo, bensì in relazione al fatto che la produzione dipende da un ciclo biologico che, nonostante le tecniche di perfezionamento, non è mai controllabile e, rispetto al quale, il fondo può ridursi a sede dell'attività produttiva). (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


Fatto

Con sentenza 10-1-95, G. P. P., titolare dell'impresa agricola denominata

Agricola Resteya, veniva dichiarato fallito dal tribunale di Treviso innanzi al quale proponeva opposizione, ai sensi dell'art. 18 della legge fallimentare, sostenendo che l'attività di ortoflorovivaista, da lui svolta, non aveva natura commerciale bensì agricola e, perciò, si sottraeva alle procedure concorsuali ex art. 1 legge fallimentare. In particolare, affermava che la coltivazione svolgentesi totalmente in serra e soltanto nei mesi invernali, rimaneva soggetta al rischio ambientale e che l'azienda, anche a prescindere da un effettivo collegamento con il fondo, per il solo fatto della soggezione al rischio tipico, dipendente dal ciclo biologico delle piante, rientrava tra quelle di cui alla disposizione sostanziale citata

Con sentenza n. 567/97 del 14-4-97, il tribunale rigettava l'opposizione ritenendo che la tesi del rischio biologico non avesse rilevanza essendo, in ogni caso, necessario, ai sensi della norma citata, uno stretto collegamento funzionale tra attività esercitata e fondo rustico che, nel caso di specie, andava escluso. Date le dimensioni dell'azienda, escludeva, inoltre, che si trattasse di attività agricola connessa.

Avverso tale pronunzia il P. proponeva impugnazione innanzi alla corte d'appello di Venezia che, con sentenza del 10-2/15-3-2000, l'accoglieva.

Assumeva la corte di merito che, tenuto conto del cambiamento del contesto socioeconomico, e, dunque, basandosi su un'interpretazione evolutiva dell'art. 2135 c.c., occorre verificare, ai fini della qualificazione dell'attività agricola, non tanto se sia coltivazione diretta del fondo, quanto il fatto che la produzione dipenda da un ciclo biologico che, nonostante le tecniche di perfezionamento, non è mai controllabile e, rispetto al quale, il fondo può ridursi a sede dell'attività produttiva.

L'interpretazione della norma, secondo il giudice d'appello, va condotta non con criterio astratto e atemporale, ma tendendo conto del contesto socioeconomico, come sollecitato dal legislatore medesimo nei lavori preparatori al codice civile, e se così è, non si può non aderire alla teoria anzidetta ne' negarsi che le tecniche produttive, come quelle usate nella specie, sono nate da esigenze interne al mondo dell'agricoltura, al quale appartengono secondo il comune sentire.

Ed, inoltre, l'ampia ed articolata struttura organizzativa predisposta dal fallito, volta alla commercializzazione dei prodotti, non basta ad escludere il vincolo di connessione di cui al 2^ co. dell'art. 2135 c.c., perché ciò che rileva è il fatto che la vendita abbia come scopo principale l'immissione sul mercato dei prodotti della terra, che, nella fattispecie concreta, è fatto incontroverso.

Avverso tale pronunzia ricorre per cassazione il fallimento, deducendo due motivi di doglianza.

Resiste con controricorso Gianpaolo P., proponendo, altresì, ricorso incidentale condizionato

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

 

Diritto

In linea preliminare deve disporsi la riunione dei ricorsi. Col 1^ il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli art 1 l.f. e 2135 c.c., nonché omessa insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, osservando che, in base alla lettera chiarissima della norma codicistica, per determinare la natura agricola dell'attività, è necessario un collegamento funzionale fra attività esercitata e fondo, rivelandosi necessario un rapporto fra impresa e suolo, da cui la prima trae occasione e forza determinante.

Del resto, anche la relazione ministeriale, richiamata nella decisione impugnata, è chiara quando afferma che l'espressione agricoltura è assunta dal codice nel senso più ampio di esercizio dell'attività rivolta allo sfruttamento della terra, e delle sue attività produttive, sia che tale sfruttamento consista nella coltivazione del fondo o, invece, nella silvicoltura e nell'allevamento. del bestiame. Ciò vuol dire che non può prescindersi dal fatto che detta attività, in ogni caso, deve trarre forza determinante dal fondo agricolo.

La corte veneziana stravolge il senso della norma, laddove afferma che la condizione necessaria per l'attività agricola è l'incidenza del rischio biologico e non la presenza del fondo o l'utilizzazione dello stesso, o qualsivoglia collegamento con la terra. Trattasi, piuttosto, d'interpretazione sostanzialmente abrogativa dell'art. 2135 c.c. che non tiene conto del dettato normativo, in quanto riduce il fondo a mera sede dell'attività produttiva, con la conseguenza che qualsiasi attività, a prescindere dal collegamento col fondo, viene così ad essere sottratta al fallimento.

La motivazione è, peraltro, meramente apparente in quanto è totalmente obliterato ogni elemento di fatto della causa, risolvendosi in un'acritica adesione alla teoria agronomica del rischio biologico di cui, inoltre, non fornisce neppure spiegazione. Manca, in conclusione, l'iter logico argomentativo della decisione assunta.

Ove la corte di merito avesse svolto accertamento sull'attività in discussione, sarebbe pervenuta a diversa conclusione essendo risultato accertato dalla c.t.u. espletata che l'attività del fallito non aveva collegamento funzionale con la terra, e presentava una combinazione di fattori produttivi che minimizzava i rischi tipici di una produzione di materiale biologico, nell'aspetto sia materiale sia produttivo, essendo la produzione programmata secondo gli ordinativi.

Col 2^ motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli art. 2135-2082 c.c. - 1 l.f. e 12 preleggi. Osserva che la corte territoriale ha sostenuto che unico limite, alla capacità espansiva del criterio di normalità ex art 2135 c.c., è dato dal fatto che la vendita deve avere come scopo l'immissione sul mercato dei prodotti dell'impresa, ma non tiene conto del fatto che l'attività di alienazione dei prodotti, svolta dal P., sicuramente non può essere ricondotta a quella agricola, date le strutture tecniche ed organizzative impiegate dal fallito, che contava 20 dipendenti, 26 collaboratori esterni, diffusi anche in ambito internazionale, e notevoli partecipazioni in realtà sociali legate al commercio.

Tale imponente struttura mal si concilia con l'idea di normalità affermata.

Il resistente ha, a sua volta, proposto ricorso incidentale condizionato, con il quale, premesso che, contrariamente a quanto sostenuto nella decisione impugnata, la qualificazione di imprenditore agricolo è ricavabile dal raccordo fra la norma codicistica e la legislazione speciale, lamenta violazione dell'art. 2135 C.C in relazione all'art. 360 c.p.c. n. 3 e 5. Insiste nelle difese svolte in sede di merito, e chiede ammettersi le prove testimoniali dedotte in quella sede, che integralmente riproduce nel loro capitolato.

Il 1^ motivo è fondato.

La nozione di imprenditore agricolo contenuta nell'art. 2135 c.c., alla quale occorre necessariamente far riferimento per il richiamo espresso contenuto nell'art. 1 della legge fallimentare, è stata riqualificata dal nostro legislatore e, propriamente, dall'art. 1 del d.lgs n. 228/2001, secondo la cui previsione testuale "È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, silvicoltura, allevamento di animali e attività connesse.

Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del cielo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco, o le acque dolci, salmastre o marine. Si intendono comunque connesse le attività esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dell'allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge".

Tale formula, se confrontata col dettato normativo precedente, che recita al 1^ co. "È imprenditore agricolo chi esercita un'attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento di bestiame e attività connesse" e al 2^ co. "Si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all'alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura" rappresenta una figura di imprenditore agricolo che, come quello precedente produce utilità per il mercato (non va trascurato il rilievo che l'attività agricola per il nostro legislatore è quella del soggetto individuato ai sensi dell'art. 2082 c.c. nel capo 1^ del titolo 2^ del libro 5^, intitolato dell'impresa in generale), la cui attività, però, appare del tutto riformata.

In particolare con riguardo all'attività agricola principale, che rappresenta il profilo di maggior rilievo, se non altro perché oggetto della doglianza in esame, a differenza di quanto previsto nella previgente icastica disposizione normativa, la modifica legislativa considera la "possibilità" e non più "la necessità", di utilizzare il fondo per il suo esercizio, relegando tale utilizzazione ad un fatto meramente potenziale Ciò che conta, in sostanza, è che il prodotto possa essere ottenuto utilizzando - in astratto - il fondo, anche se- in concreto- esso venga realizzato fuori da esso, escluso, comunque, il caso in cui, neppure in linea teorica, del fondo possa farsi a meno.

Tale attività, per usare l'espressione di uno studioso, "non è più, dunque, solo estrattiva, ma finalizzata a favorire quanto le caratteristiche biologiche di piante ed animali consentono di ottenere", sicché, al fine di qualificare l'attività agricola, occorre tener conto solo del bene prodotto, che va individuato secondo il criterio del ciclo agrobiologico, purché possa svolgersi, dal punto di vista naturale, nel fondo.

Imprenditore agricolo è, inoltre, oltre il coltivatore diretto ed il silvicultore, anche l'allevatore di "animali", e non più solo di "bestiame", onde cade la diatriba circa la l'attribuzione della qualificazione di impresa agricola a quell'attività organizzata che riguardasse non già solo gli animali legati al fondo, che è la nozione che, secondo la tradizione rurale e la nostra lingua, va attribuita al sostantivo, bestiame, ma anche ad altre specie che stanzialmente non vivono sul fondo, ne' appartengono all'agricoltura ovvero alla pastorizia.

Tanto già basta a ritenere la portata innovativa e non interpretativa della disposizione normativa in esame. Ove poi si considerino le attività connesse, sia pur

brevemente, va rilevato che le novità introdotte sono molte e di portata tale da smantellare il precedente impianto normativo. Solo per esemplificare, basta rilevare che la categoria della attività connesse tipiche è stata oltremodo ampliata, passando da due a cinque (manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali) di cui l'ultima - la valorizzazione - rappresenta vera innovazione; si è introdotta ex novo altra categoria di attività tipica nella 2^ parte del 3 co. (fornitura di beni o servizi.....), ed infine è stato abbandonato, perle attività atipiche, il criterio della normalità, per essere sostituito da quello della prevalenza.

Per logico corollario, non potendo porsi in dubbio la natura innovativa di tale intervento legislativo, deve esserne esclusa la retroattività, e, di conseguenza, l'applicazione al caso di specie che resta, pertanto, regolato dalla disposizione regolatrice previgente.

Occorre ricordare che il costante insegnamento del giudice delle leggi avverte che indipendentemente dalla autoqualificazione e formulazione assunte, che nella specie neppure si rinvengono nella norma in esame, non corrisponde ai caratteri propri di una legge interpretativa quella legge che "anziché desumere, enucleare o escludere un qualche significato già insito nella disposizione interpretata, interviene sotto la veste surrettizia di una norma d'interpretazione autentica, modificando quella precedente" (ex multis Cost. n. 233/1988). In altre parole, intanto la norma è interpretativa in quanto essa, nella sua nuova formulazione, letta congiuntamente al testo di quella precedente, integri quest'ultima in modo da costituire unica disposizione.

Nella specie ciò non è per tutte le ragioni esposte. Il legislatore delegato è intervenuto nella materia non certo per chiarire il precedente suo dettato, ed allo scopo di eliminare un perdurante contrasto di interpretazione(che, di certo a livello di giurisprudenza di legittimità non è ravvisabile - v. tutte in senso conforme e tra le molte Cass. n. 150/1966, 3174/1971, 210071980, 5914/1980, 5773/90, 1334/91, 2767/92, S.U. 265/97, 6911/97 e 10527/98), quanto piuttosto, al fine di emettere "uno o più decreti legislativi contenenti norme per l'orientamento e la modernizzazione nei settori dell'agricoltura, delle foreste, della pesca, dell'acqualcoltura, e della lavorazione del pescato, anche in funzione della razionalizzazione degli interventi pubblici", e, dunque, per correggere il vecchio disposto normativo, onde rafforzare la posizione imprenditoriale dell'operatore agricolo spostando la chiave prospettica ai fini della sua individuazione, dal fondo al prodotto da immettere sul mercato (v. legge delega n. 57/2001). Non diversamente da quanto è avvenuto in materia di

artigianato, la modifica legislativa ha determinato un nuovo assetto della materia, applicabile, perciò, anche in tale caso, "ratione temporis", solo per il futuro V. cass. S.U. n. 1050/97 per l'artigianato).

Nè può dirsi che, come lamenta il resistente, la nozione di imprenditore agricolo, nel vecchio regime normativo, va colta alla stregua anche della legislazione speciale e di settore che ne ha ampliato il significato elidendo il rapporto col fondo, inteso come humus e fattore produttivo genetico avente funzione imprenscindibile. Come ha ben detto la corte territoriale, tali interventi esauriscono la loro portata nell'ambito esclusivo dei rispettivi sistemi in relazione ai quali sono stati previsti (per tutte cfr. Cass. n. 18/89). A ciò va aggiunto che, il fatto stesso che si sia avvertita da parte del legislatore l'esigenza della specifica qualificazione per determinati ambiti, ne convalida la natura limitata di intervento circoscritto e, come tale speciale (si veda in materia fiscale d.p.r. 1124/1965 come modificato dalla l. 778/96 in materia di acquacoltura l. n. 102/92 e di funghicoltura l. n. 126/85 e n.31/ 1986) da cui non possono trarsi spunti ermeneutici in funzione applicativa generica e generale.

Tanto premesso, va rilevato che la corte territoriale non ha fatto buon governo dei principi elaborati in tema di ermeneusi dell'art 2315 c..c nella sua precedente formulazione, atteso che ha recepito, di certo acutamente, la teoria formulata in agronomia del ciclo (agro)biologico, ma l'ha applicata ex se, traendone tout court la conclusione che basta rinvenire tale requisito nel prodotto ottenuto dall'imprenditore, per qualificare agricola l'attività diretta a tale forma di produzione, ed ha nel contempo svalutato il rapporto produzione-fondo, avendo sostenuto che questo può anche ridursi a mera sede dell'attività produttiva.

Tale affermazione è errata.

Ciò che caratterizza l'attività agricola nel precedente testo, anche alla luce della disposizione contenuta nell'art. 44 della Costituzione, è che l'attività "economica" sia svolta con la terra o sulla terra, e che l'organizzazione aziendale ruoti attorno al fattore produttivo terra. Solo questo dato segna il discrimine tra l'attività agricola e quella commerciale, disciplinata dall'art. 2195 c.c., posto che in entrambi casi trattasi di un operatore che esercita la sua attività attraverso una struttura organizzata in forma d'impresa.

L'interpretazione letterale dell'art. 2135 c.c. non consente altra lettura.

L'indubbia chiarezza del dato testuale esclude l'ingresso ai criteri sussidiari di cui all'art. 12 delle preleggi, che vieta l'attribuzione al testo normativo di altro senso che quello fatto proprio dalle parole secondo la connessione di esse. In tale chiave, nella ricerca della vis et potestas, della legge occorre tener conto del presente, e cioè delle evoluzioni che modificano il sistema sul quale la forza precettiva della regola di diritto interviene, ma deve anche volgersi lo sguardo al passato e cioè al momento in cui la legge venne emessa ed al sistema legislativo che, all'epoca, vigeva perché, come sostenuto da autorevole studioso "la norma non è intellegibile in sè, ma solo in funzione di una realtà e compito del giurista è la valutazione normativa di tale realtà".

Per logico precipitato, se, per un verso la nozione di coltivazione può essere dilatata alla stregua dei progressi dell'agronomia, fino a ricomprendervi processi di fecondazione del tutto nuovi rispetto alla classica "piantagione", di certo, però, occorre nel contempo che essi si realizzino in collegamento col fondo, perché nella mente del legislatore del 1942, l'ager ha rappresentato la base di ogni attività agricola e perno dell'agricoltura, e da esso, non può, dunque prescindersi. Il riferimento al solo ciclo biologico del prodotto, che elimina la precedente teoria del doppio rischio - ambientale ed atmosferico quale specifico e tipizzante, pur nella sua esattezza dal punto di vista strettamente tecnico, non esaurisce, dunque, il tema d'indagine devoluto ai giudici di merito, poiché è, altresì, necessario l'apprezzamento in concreto del detto collegamento, che la corte veneta ha omesso di verificare.

Pur abbandonando l'immagine del soggetto che opera con o sulla terra, che l'inciso testuale" coltivazione del fondo" contenuto nell'art. 2135 c.c. in esame suggestivamente evoca, data la valenza tecnica della nozione di coltivazione, che, come si è detto, conosce strutture agricole altamente meccanizzate, al fine, anche di evitare ingiusta estensione del privilegio dell'esonero dal fallimento (ovvero al fine di non escludere, se così si può dire, il diritto di fallire) in situazioni che nulla hanno di agricolo se non la mera natura del prodotto, occorre accertare, oggi più di ieri, che vi sia un collegamento fra il processo produttivo ed il fondo, comunque esso si atteggi, non necessariamente di sfruttamento imprenscindibile della forza genetica dell'humus, come presumibilmente ha immaginato il legislatore, ma anche di semplice supporto strumentale, anche limitato o parziale., purché, però, vi sia, e che valorizzi la funzione del fondo nell'ambito della produzione, senza omologarlo a qualsiasi altro elemento idoneo a costituire mera base o forma di stanziamento della stessa, rendendolo cosa fungibile, e, come tale, di nessuna incidenza sul ciclo produttivo.

Nella decisione impugnata tale indagine, come si è detto, è stata trascurata, essendo stata ritenuta assorbita ogni questione al riguardo.

Detta sentenza deve, pertanto, essere cassata in parte qua, e gli atti devono essere rinviati ad altra sezione della corte veneziana, perché accerti, alla luce del principio anzidetto, se vi sia connessione, pur nella forma dilatata sopra indicata, fra l'attività produttiva del fallito ed il fondo.

Non essendo stato dato ingresso alle prove dedotte dal predetto fallito, il cui articolato, riprodotto nel ricorso incidentale condizionato, ha ad oggetto proprio l'indagine su suddetto rapporto, il giudice del rinvio dovrà pronunziarsi anche sulla loro ammissibilità e rilevanza.

Di qui la declaratoria d'inammissibilità del ricorso incidentale.

L'indagine sul 2^ motivo resta assorbita.

 

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi; accoglie il 1^ motivi del ricorso principale; dichiara assorbito il 2^; dichiara inammissibile il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Corte d'Appello di Venezia.

Così deciso in Roma, il 6 giugno 2002.

Sentenza n. 17251 dep. 05/12/2002