Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23985 - pubb. 11/01/2020

Dichiarazione di fallimento del socio apparente

Cassazione civile, sez. I, 09 Settembre 1996, n. 8168. Pres. Cantillo. Est. Ferro.


Socio apparente - Dichiarazione di fallimento - Condizioni - Prova del rapporto sociale - Contenuto



Ai fini della assoggettabilità al fallimento del socio apparente di una società di persone, in conseguenza del fallimento della società, non occorre la dimostrazione della stipulazione e dell'operatività di un patto sociale, ma basta la prova di un comportamento del socio tale da integrare la esteriorizzazione del rapporto, ancorché inesistente nei rapporti interni, a tutela dei terzi che su quella apparenza abbiano fatto affidamento. (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


Svolgimento del processo

Su istanza del Curatore del Fallimento della FILPER s.a.s. di F. F. e C., il Tribunale di Vicenza con sentenza 4 aprile 1985 n. 334 dichiarava il fallimento di P. B. quale socio illimitatamente responsabile della società suddetta.

Avverso tale sentenza proponeva rituale tempestiva opposizione, a norma dell'art. 18 R.D. 16 marzo 1942 n. 267, P. B., contestando l'attendibilità degli elementi di prova in base ai quali il Tribunale aveva ritenuto che egli "non solo era socio della FILPER ma si ingeriva nell'amministrazione e gestione della società, non certo per incarico di chi figurava accomandatario", e affermando - e chiedendo di essere ammesso a provare - che egli "non si era mai interessato della contabilità e di pratiche amministrative" e "aveva limitato il suo ruolo nella società a prestazioni saltuarie di poco conto".

Costituendosi in giudizio, il Curatore eccepiva pregiudizialmente la nullità dell'atto di citazione per non essere stata in esso indicata la residenza dell'attore, e nel merito contestava la fondatezza dell'opposizione chiedendone la reiezione.

Con sentenza 10 giugno-14 dicembre 1989 n. 999 il Tribunale di Vicenza, disattesa l'eccezione di nullità, respingeva l'opposizione.

Proponeva appello P. B. con atto notificato il 4 gennaio 1990, insistendo nell'affermazione della insussistenza di elementi probatori univoci circa il preteso ruolo di amministratore da lui svolto nell'ambito societario della FILPER.

Il Curatore si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del gravame e censurando a sua volta la sentenza di primo grado nella parte relativa al mancato accoglimento dell'eccezione pregiudiziale e nella parte relativa alla dichiarata incapacità a testimoniare del fallito F. F..

Con sentenza 22 ottobre 1992-26 gennaio 1993 n. 142 la Corte d'Appello di Venezia così decideva: "1) respinge l'appello proposto da P. B. avverso la sentenza n. 999-89 del Tribunale di Vicenza che per l'effetto conferma; 2) condanna l'appellante a rifondere all'appellato le spese del giudizio di secondo grado...".

Ricorre per cassazione P. B., deducendo "violazione dell'art. 360 n. 5 C.P.C. per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla circostanza che P. B. fosse socio occulto o quanto meno socio apparente della FILPER s.a.s.

Il Curatore del fallimento di P. B. resiste con controricorso nel quale tra l'altro eccepisce la decadenza dall'impugnazione per essere stato il ricorso proposto nel sessantunesimo giorno successivo alla data della notificazione, della sentenza di secondo grado, e chiede comunque la reiezione del ricorso stesso in quanto infondato.

 

Motivi della decisione

Deve essere anzitutto disattesa la pregiudiziale eccezione di inammissibilità del gravame, per intervenuta decadenza dall'impugnazione: la notificazione del ricorso, effettuata il 28 giugno 1993 e quindi nel sessantunesimo giorno successivo alla notificazione della sentenza avvenuta il 28 aprile 1993, deve infatti ritenersi tempestiva a norma dell'art. 155 u.c. C.P.C. dappoiché il sessantesimo giorno (28 giugno 1993) cadeva in domenica.

In diritto, il ricorso di P. B. si palesa infondato e come tale va disatteso. La Corte territoriale ha affermato, in conformità alla confermata decisione del giudice di primo grado, di ritenere "che l'appello sia... infondato, essendo emersi... elementi univoci e concordanti dai quali è lecito trarre il convincimento che il P. era socio occulto o quanto meno socio apparente della FILPER s.a.s."; e a tale affermazione ha dato fondamento logico-giuridico con argomentazioni che si sottraggono alla formulata polivalente censura di insufficienza e contraddittorietà di motivazione e di violazione di legge.

Vero è che la problematica relativa al rapporto sociale apparente non va confusa con quella relativa al rapporto sociale occulto e nemmeno con quella relativa alla società di fatto: società apparente è quella che appare esistente di fronte ai terzi, pur non sussistendo nella realtà giuridica alcun rapporto sociale, mentre società di fatto è quella in cui il contratto sociale risulta non da un documento ma da "facta concludentia"; nell'ipotesi di società apparente, è necessaria e sufficiente - in applicazione del principio dell'apparenza del diritto che trova fondamento nell'esigenza della tutela dell'affidamento - l'esteriorizzazione del vincolo sociale, in manifestazioni tali da ingenerare nei terzi il ragionevole convincimento dell'esistenza del rapporto, per il prodursi dell'effetto giuridico dell'estensione, al soggetto che agisca come socio, della responsabilità per le obbligazioni sociali (v. ex pluribus: Cass. 17 ottobre 1986 n. 6087); l'apparenza esterna e la reale esistenza sono fenomeni giuridici distinti, che non si presuppongono reciprocamente, e che danno luogo a diverse esigenze probatorie; mentre nei rapporti interni fra i soci si richiede e si ricerca la presenza dei contenuti essenziali del rapporto sociale, ai fini della responsabilità verso i terzi per le obbligazioni sociali - e quindi dell'assoggettabilità al fallimento personale conseguenziale al fallimento della società, ammissibile anche nei riguardi di una società meramente apparente pur se inesistente nei rapporti interni (Cass. 28 marzo 1990 n. 2359) - non occorre la dimostrazione della stipulazione e dell'operatività di un patto sociale ma basta la "prova" di un comportamento del socio tale da integrare la esteriorizzazione del rapporto nel senso suindicato, a tutela dei terzi che su quell'apparenza abbiano fatto affidamento.

Peraltro, pur risultando in se stesse non rilevanti, in base ai concetti suesposti, le considerazioni svolte dal Tribunale e condivise dalla Corte d'Appello circa l'attribuzione al P. della veste di socio occulto del F. alla luce di comportamenti ritenuti indicativi della esistenza di una "affectio societatis", non ne risulta indebolita la motivazione della Corte nella quale viene posta in decisiva evidenza la sussistenza degli estremi dell'apparenza: di una apparenza qualificata nel senso della riconducibilità dei comportamenti del P. non alla posizione di un qualsivoglia socio di una accomandita semplice ma a quella di un socio esercente in concreto attività di gestione della società stessa con la conseguente assunzione della responsabilità illimitata che in tale tipo di struttura societaria grava sugli accomandatari a cui per legge è riservato il potere di amministrazione e sugli accomandanti che travalicando i limiti inerenti alla loro veste formale abbiano a ingerirsi nell'amministrazione ad essi in linea di principio inibita. Gli elementi in base ai quali il giudice del merito è pervenuto alla suesposta conclusione - esercizio di potere direttivo nei confronti dei dipendenti; spendita del nome della società nelle trattative per l'acquisizione di beni aziendali di rilevante valore; dichiarazioni espressamente rese dal P. a terzi contraenti nel senso che egli solo dirigeva l'impresa e ne rispondeva - sono indubbiamente idonee in se stesse ad assumere la rilevanza probatoria che ad esse è stata attribuita, anche perché, come si osserva nella motivazione censurata, non contraddetti da risultanze, di segno contrario; la valutazione che in concreto ne è stata fatta, in termini razionalmente coerenti ed esaurienti, non è censurabile nel suo contenuto di apprezzamento di fatto.

La reiezione del ricorso comporta la condanna del ricorrente soccombente al rimborso delle spese del presente giudizio, nella misura di cui al dispositivo.

 

p.q.m.

la Corte respinge il ricorso: condanna il ricorrente P. B. al rimborso in favore della Curatela del fallimento del medesimo P. B. delle spese del presente giudizio che liquida in lire 174.850 oltre lire 3.000.000 per onorari.

Roma, 29 marzo 1996.

Sentenza n. 8168 del 09/09/1996.