Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 25703 - pubb. 22/07/2021

Revocatoria dei pagamenti nei ‘termini d’uso’ ex art. 67 l.f.

Cassazione civile, sez. I, 07 Luglio 2021, n. 19373. Pres. Genovese. Est. Mercolino.


Revocatoria fallimentare – Esenzione – Termini d’uso – Interpretazione



In tema di revocatoria fallimentare, ai fini dell’operatività dell’esenzione prevista dall’art. 67, comma 3, lett. a) della L. Fall., l’espressione "termini d’uso", utilizzata per individuare i pagamenti di beni e servizi non soggetti all’azione revocatoria, non si riferisce alle forniture che costituiscono oggetto del pagamento, ma ai pagamenti stessi, i quali risultano quindi opponibili alla massa dei creditori, anche se eseguiti ed accettati difformemente dalle previsioni contrattuali, purché siano stati effettuati secondo tempi e modalità corrispondenti a quelli che hanno caratterizzato il rapporto tra le parti nel suo concreto svolgimento. (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)


Massimario Ragionato



 


Fatto

1. La C. Chimica S.r.l. in liquidazione in amministrazione straordinaria convenne in giudizio la S. Produzione Idrogeno Ossigeno S.r.l., per sentir dichiarare, ai sensi del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 67, comma 2, l’inefficacia dei pagamenti anticipati per forniture eseguiti tra il mese di aprile ed il mese di maggio 2009 in favore della convenuta, con la condanna della stessa alla restituzione dell’importo di Euro 79.296,00.

Si costituì la S., ed eccepì l’operatività dell’esenzione prevista dall’art. 67, comma 3, lett. a), della L. Fall., assumendo che le forniture erano state effettuate su richiesta del liquidatore della società attrice, in quanto ritenute indispensabili per la preservazione del patrimonio aziendale, nella prospettiva di una soluzione non concorsuale della crisi d’impresa.

1.1. Con sentenza del 10 aprile 2014, il Tribunale di Udine accolse la domanda, rilevando che i pagamenti impugnati, preceduti da pagamenti parziali eseguiti con notevole ritardo, erano stati effettuati con modalità difformi da quelle abitualmente praticate nei rapporti tra le parti, e ritenendo ininfluenti, in quanto riflettenti opinioni meramente personali, le assicurazioni fornite in proposito dal liquidatore.

2. L’impugnazione proposta dalla S. è stata rigettata dalla Corte d’appello di Trieste con sentenza del 15 settembre 2015.

A fondamento della decisione, la Corte ha ritenuto che l’esistenza di insoluti per complessivi Euro 345.000,00 non consentisse di presumere la totale assenza di pagamenti nel corso del rapporto, rilevando che dalla documentazione prodotta risultava l’avvenuta pattuizione di pagamenti posticipati di sessanta giorni e l’effettuazione di pagamenti parziali. Ha precisato che, mentre prima del mese di maggio 2009 erano previsti pagamenti posticipati, i pagamenti effettuati nel periodo aprile-maggio 2009 erano anticipati rispetto alle forniture, con conseguente alterazione dei termini d’uso. Ha escluso che tale modifica fosse stata determinata dalla stipulazione di un nuovo accordo in sostituzione di quello precedente, ormai risolto, osservando che con lettera del 23 febbraio 2009 la fornitrice, proprio per confermare la validità dei contratti esistenti, aveva invitato la controparte a comunicarle formalmente la continuità di esercizio durante la fase di liquidazione, mentre con lettera del 25 febbraio 2009 il liquidatore aveva richiesto la continuazione del rapporto con diverse modalità di pagamento. Ha rilevato che tale missiva era stata riscontrata con altra mail, con cui era stata confermata la disponibilità a proseguire la fornitura alle condizioni richieste per il solo mese di febbraio, comunicandosi che per il mese di marzo le fatture accompagnatorie sarebbero state settimanali. Ha aggiunto che nel mese di aprile la creditrice aveva espressamente condizionato le future consegne al pagamento anticipato di quote settimanali, concludendo che, anche a voler scindere il rapporto contrattuale in due fasi, la modifica dei termini d’uso dei pagamenti era avvenuta anche durante la gestione liquidatoria. Ha ritenuto quindi irrilevante l’opinione espressa dal liquidatore nella lettera citata, secondo cui i pagamenti sarebbero stati esenti dalla revocatoria, in quanto indispensabili per la prosecuzione dell’impresa, ritenendola non vincolante e comunque errata, dal momento che non teneva conto dell’intervenuto stravolgimento dei termini d’uso dei pagamenti.

La Corte ha escluso poi la novità della richiesta, formulata con il secondo motivo di gravame, di espunzione dai pagamenti revocati di quello effettuato per ultimo, in quanto posteriore alla dichiarazione dello stato d’insolvenza, osservando che la contestazione dell’estensione del periodo sospetto costituiva una mera difesa, non contrastante con l’art. 345 c.p.c.; ne ha dichiarato tuttavia l’inammissibilità, rilevando che nell’atto di appello non era stato precisato in quale scritto fosse stata sollevata la relativa questione, non trattata nella sentenza impugnata, nè da quali atti avrebbe potuto essere desunta la predetta circostanza. Ha precisato comunque che tali indicazioni, non risultanti da alcuno scritto depositato in primo grado, erano state tardivamente riportate soltanto in comparsa conclusionale, concludendo quindi anche per l’inadeguatezza della censura riflettente l’omesso rilievo d’ufficio della questione.

3. Avverso la predetta sentenza la S. ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un solo motivo. La C. ha resistito con controricorso.

 

Ragioni della decisione

1. Con l’unico motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 67, comma 3, lett. a), della L. Fall. e dell’art. 12 preleggi, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto che l’esenzione dalla revocatoria fallimentare operi soltanto per i pagamenti effettuati negli stessi termini precedentemente vigenti tra le parti. Premesso infatti che la norma che disciplina l’esenzione si caratterizza per una formulazione ambigua, essendo la locuzione "termini d’uso" riferibile tanto ai pagamenti quanto alle forniture di beni e servizi, osserva che nell’interpretazione della stessa occorre tener conto della ratio legis, consistente nel favorire la continuazione dell’esercizio dell’impresa, in funzione della conservazione dell’azienda, incentivando l’effettuazione di forniture di beni e servizi in favore dell’imprenditore in crisi, mediante l’assicurazione al fornitore che i relativi pagamenti non saranno assoggettabili a revocatoria. Afferma pertanto che tutti i pagamenti effettuati per la fornitura di beni e servizi necessari alla prosecuzione dell’attività produttiva, o anche soltanto per il mantenimento della struttura produttiva, devono considerarsi esenti da revocatoria, ove risulti accertato che le forniture richieste dall’imprenditore in crisi rispondono all’ordinario fabbisogno dell’impresa. Aggiunge che, nel ritenere che la modificazione dei termini di pagamento costituisse un sintomo della conoscenza dello stato d’insolvenza, tale da escludere l’operatività dell’esenzione, la sentenza impugnata non ha considerato che quest’ultima presuppone l’esistenza della scientia decoctionis, in tanto potendo avere senso, in quanto in mancanza della sua previsione l’atto sia revocabile. Sottolinea infine che, se la debitrice avesse dovuto continuare ad effettuare i pagamenti nei termini originari, le relative scadenze si sarebbero verificate dopo la dichiarazione di fallimento o comunque nel periodo sospetto, con la conseguenza che essa ricorrente non avrebbe avuto interesse all’effettuazione delle forniture, essendo a conoscenza dello stato d’insolvenza.

1.1. Il motivo è infondato.

La questione sollevata dalla ricorrente è stata già esaminata da questa Corte, in epoca immediatamente successiva alla pronuncia della sentenza impugnata, ed è stata risolta mediante l’affermazione secondo cui, nell’ambito della formulazione letterale dell’art. 67, comma 3, lett. a) della L. Fall., l’espressione "termini d’uso", adottata dal legislatore per individuare i pagamenti di beni e servizi non soggetti all’azione revocatoria, non si riferisce alle forniture che costituiscono oggetto del pagamento, ma ai pagamenti stessi, i quali risultano quindi opponibili alla massa dei creditori, anche se eseguiti ed accettati difformemente dalle previsioni contrattuali, purché siano stati effettuati secondo tempi e modalità corrispondenti a quelli che hanno caratterizzato il rapporto tra le parti nel suo concreto svolgimento (cfr. Cass., Sez. I, 7/12/2016, n. 25162). A sostegno di tale affermazione, pur dandosi atto della scarsa chiarezza della dizione normativa, è stata richiamata la ratio della disposizione in esame, come individuata dall’opinione maggioritaria della dottrina, secondo cui la stessa è intesa a favorire la conservazione dell’impresa nell’ottica di uscita dalla crisi, in contrapposizione alla precedente disciplina, la quale, assoggettando indifferenziatamente alla revocatoria i pagamenti eseguiti nel periodo sospetto, in presenza delle condizioni indicate dai primi due commi, veniva considerata di serio ostacolo alle prospettive di risanamento dell’impresa. In quell’occasione, tuttavia, la materia del contendere era costituita non tanto dall’individuazione dei pagamenti sottratti alla revocatoria, quanto dall’identificazione del parametro di riferimento da adottare ai fini della valutazione di conformità cui è subordinata l’operatività dell’esenzione: sicché questa Corte ha potuto limitarsi ad osservare che la tesi secondo cui l’espressione "termini d’uso" si riferisce alle forniture di beni e servizi risulta contraria al disposto di legge, il quale non consente di riferire i termini alle prestazioni, ma necessariamente ai pagamenti effettuati, ed ha concentrato la propria attenzione sull’individuazione del predetto parametro, affermando che, a fronte del ventaglio di soluzioni prospettate in dottrina, la soluzione più appagante deve considerarsi quella che privilegia il rapporto diretto tra le parti, conferendo rilievo al mutamento dei termini, da intendersi non solo come tempi, ma anche come complessive modalità di pagamento.

Tale principio, che escludeva tra l’altro la possibilità di tener conto della prassi diffusa nel settore economico di riferimento, ha trovato conferma in una pronuncia successiva, la quale, pur senza fare alcun cenno alla riferibilità dell’espressione "termini d’uso" ai pagamenti, anziché alle forniture di beni e servizi, l’ha implicitamente ribadita, affermando che il "mutamento dei termini" dev’essere inteso come "modifica delle modalità di pagamento invalse tra le parti", dal momento che l’esenzione prevista dall’art. 67, comma 3, lett. a) della L. Fall. non attiene al contenuto del contratto, ma all’ambito "fattuale" dell’andamento del rapporto e dell’esecuzione del negozio, avuto riguardo alle concrete modalità di adempimento della prestazione, piuttosto che al contenuto delle clausole negoziali (cfr. Cass., Sez. I, 18/03/2019, n. 7580). In termini non diversi si è espressa una pronuncia più recente, la quale, affrontando di nuovo la questione riguardante l’individuazione del parametro di riferimento per la valutazione della conformità ai termini d’uso, ha affermato che non sono revocabili quei pagamenti che, pur essendo avvenuti oltre i tempi contrattualmente prescritti, siano stati di fatto eseguiti ed accettati in termini diversi, nell’ambito di plurimi adempimenti con le nuove caratteristiche, evidenziatesi già in epoca anteriore a quelli de quibus, tanto da non poter più, a quel punto, essere considerati pagamenti eseguiti "in ritardo", ossia inesatti pagamenti, essendo divenuti per prassi, proprio al contrario, esatti adempimenti (cfr. Cass., Sez. I, 7/12/2020, n. 27939). Premesso infatti che, se la regola è che sono revocati (con presunzione, oltretutto, della scientia decoctionis) gli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con mezzi normali di pagamento compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, ciò è proprio in quanto l’accettazione di un mezzo inusuale di pagamento lascia presumere juris et de jure la violazione della par condicio, si è osservato che l’eccezione prevista dalla norma in esame è necessariamente nel senso che, pur quando le modalità di pagamento siano estranee alla previsione della relativa clausola contrattuale, il pagamento resta fermo ed efficace tutte le volte che fra le parti si sia instaurata una prassi anteriore (adeguatamente consolidata e stabile, così da potersi definire tale) volta a derogare a quella clausola e ad introdurre, come nuova regola inter partes, il pagamento in termini diversi e più lunghi.

1.2. La focalizzazione dell’interesse sulla definizione del concetto di "termini d’uso", adottato dal legislatore quale parametro di riferimento per l’individuazione dei pagamenti sottratti alla revocatoria, pur presupponendo evidentemente la riferibilità di tale espressione ai pagamenti, anziché alla fornitura dei beni e servizi dei quali costituiscono il corrispettivo, ha impedito finora un adeguato approfondimento del profilo della questione riguardante le condizioni necessarie per l’operatività dell’esenzione, che è proprio quello investito dalle censure proposte dalla ricorrente.

A sostegno dell’impugnazione, quest’ultima richiama l’opinione, manifestata da una parte della dottrina in epoca immediatamente successiva all’entrata in vigore del D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 2, lett. a), convertito con modificazioni dalla L. 14 maggio 2005, n. 80, che riformulò l’art. 67 della L. Fall., introducendo l’esenzione in parola, secondo cui l’espressione "termini d’uso" non costituisce un predicato del pagamento o delle forniture, ma dell’attività imprenditoriale, nel senso che il pagamento, per fruire dell’esenzione dalla revocatoria, deve riguardare forniture attinenti alla conduzione corrente dell’azienda. Muovendo dalla considerazione, comune ai precedenti citati ed alla dottrina maggioritaria, secondo cui la ratio della norma in esame consiste nel favorire il superamento dello stato di difficoltà in cui versa l’impresa, scongiurando il pericolo che i fornitori, nel timore di azioni revocatorie, rifiutino di fornire all’imprenditore i beni e i servizi ordinariamente necessari per lo svolgimento dell’attività, e garantendo quindi la prosecuzione di quest’ultima e la conservazione dell’azienda, tale orientamento sostiene che tutti i pagamenti effettuati per le forniture di beni e servizi necessari per la continuazione della gestione devono ritenersi esonerati dalla revocatoria, a condizione che le forniture siano ricollegabili non già ad un generico esercizio imprenditoriale, ma ad un esercizio definibile in termini di normalità, in quanto finalizzato alla prosecuzione dell’attività secondo gli standards usualmente praticati fino a quel momento o, in ogni caso, rispondenti alle ordinarie necessità di un’impresa operante in quella determinata fascia ed in quel determinato settore. A conforto di tale assunto, si osserva che il riferimento all’inusualità dei termini di pagamento (da intendersi sia come tempi che come modalità) tradisce un’evidente difficoltà di allontanarsi dallo schema concettuale tradizionale, che collega la revocabilità del pagamento all’anomalia del mezzo solutorio utilizzato, ritenuta sintomatica della conoscenza dello stato d’insolvenza da parte del creditore: tale problematica viene ritenuta invece del tutto estranea al modo di operare dell’esenzione, la quale in tanto può assumere un significato in quanto si dia per scontato che, in assenza della norma in esame, l’atto sia revocabile, dal momento che, ove il fornitore abbia ricevuto il pagamento in un momento e con modalità tali da non destare alcun sospetto, la revocabilità dovrebbe già essere esclusa in conformità della regola generale, per difetto della scientia decoctionis. Si aggiunge che, considerando esenti dalla revocatoria i pagamenti effettuati nei termini d’uso, ed identificando questi ultimi sulla base della prassi adottata dalle parti, resterebbero esclusi dall’ambito di operatività dell’esenzione i casi in cui una prassi non sia individuabile, a causa dell’unicità della fornitura alla quale il pagamento si riferisce o della diversità dei tempi e delle modalità concordati o praticati per precedenti forniture. Si rileva infine che, riferendo l’espressione in esame alle forniture, anziché ai pagamenti, si evita il rischio di rimettere l’operatività dell’esenzione alla discrezionalità del debitore, il quale, attenendosi alle modalità ed ai tempi previsti per l’adempimento o discostandosene, potrebbe diventare arbitro della sorte dei pagamenti nel futuro fallimento: l’ancoraggio dell’esenzione al collegamento tra la fornitura e la normale gestione dell’azienda costituisce invece una garanzia per i fornitori, i quali sono posti in grado di valutare fin dal momento dell’esecuzione della fornitura, con un certo grado di ragionevolezza, il rischio della revocabilità del pagamento, in relazione allo stato di difficoltà in cui versa l’impresa.

1.3. In contrario, occorre tuttavia rilevare che, nonostante la discutibilità della morfologia, il tenore letterale della norma in esame risulta tutt’altro che ambiguo, dal momento che a) nell’ambito della proposizione dettata dal legislatore, il soggetto non è rappresentato dalle "forniture" (sostantivo, anzi, del tutto assente), bensì dai "pagamenti", b) il participio passato "effettuati" svolge la funzione di predicato, normalmente riferibile al soggetto, c) i beni e i servizi svolgono invece la funzione di complemento partitivo, destinato ad individuare i pagamenti esenti da revocatoria tra tutti quelli eseguiti dall’imprenditore nel periodo sospetto, d) da punto di vista lessicale, inoltre, il verbo "effettuare" si addice certamente ai servizi, ma non è in alcun modo riferibile ai beni, i quali non si "effettuano", ma si "forniscono", "cedono", "vendono", etc., e) in quanto collegata al predicato "effettuati", a sua volta riferibile ai "pagamenti", la locuzione "nei termini d’uso" non può dunque avere riguardo che a questi ultimi, e non già ai "beni e servizi". Non può quindi condividersi l’affermazione della difesa della ricorrente secondo cui nell’interpretazione della norma in esame dovrebbe attribuirsi la prevalenza al criterio teleologico rispetto a quello letterale, conformemente all’orientamento della giurisprudenza di legittimità che, pur attribuendo alla ricerca della mens legis un ruolo meramente sussidiario, e ritenendone quindi consentita l’utilizzazione soltanto nel caso in cui il dato testuale non risulti sufficiente ad individuare, in modo chiaro ed univoco, il significato e la portata precettiva della norma da interpretare, precisa che tale criterio può svolgere un ruolo paritetico e comprimario a quello letterale quando, nonostante l’impiego di ciascuno dei due criteri singolarmente considerati, la lettera della norma rimanga ambigua, e può assumere un rilievo perfino prevalente nell’ipotesi eccezionale in cui l’effetto giuridico risultante dalla formulazione della norma risulti incompatibile con il sistema normativo (cfr. Cass., Sez. III, 4/10/2018, n. 24165; Cass., Sez. I, 6/04/2001, n. 5128). Nella specie, d’altronde, anche a voler ritenere inappagante il risultato dell’interpretazione letterale, il ricorso al criterio teleologico non rivestirebbe una portata decisiva, tenuto conto della coincidenza della ratio legis individuata dall’opinione in esame con quella individuata dalla dottrina maggioritaria e dalla giurisprudenza citata: sicché non rimarrebbe altra scelta che affidarsi all’interpretazione logica, la quale suggerisce che conferire rilievo all’attinenza delle forniture alla normale gestione dell’impresa, quale elemento identificativo dei pagamenti esenti dalla revocatoria, significherebbe rendere sostanzialmente superfluo il riferimento testuale della norma in esame ai pagamenti effettuati "nell’esercizio dell’impresa".

Sotto un diverso profilo, non coglie nel segno l’obiezione mossa all’orientamento maggioritario, secondo cui il riferimento alla "normalità" dei pagamenti, pur eseguiti nel periodo sospetto, farebbe rivivere l’elemento soggettivo della revocatoria, del quale il legislatore avrebbe inteso escludere la rilevanza, in favore di una prospettiva squisitamente oggettiva: come già precisato da questa Corte in uno dei precedenti richiamati, l’esenzione prevista dall’art. 67, comma 3, lett. a) della L. Fall. si configura come una eccezione alla regola secondo cui sono revocabili gli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con mezzi normali nel periodo sospetto, ed ha come effetto l’esclusione della revocabilità di quelli eseguiti in tempi e con modalità diversi da quelli contrattualmente previsti, ma corrispondenti a pratiche commerciali precedentemente invalse tra le medesime parti (cfr. Cass., Sez. I, 7/12/2020, n. 27939, cit.). Qualora poi tali pratiche non siano individuabili, in quanto il pagamento afferisce a forniture effettuate per la prima volta o regolate in modo diverso da quanto accaduto in precedenza, è ovvio che il parametro di riferimento ai fini della valutazione non potrà che essere costituito dalle condizioni contrattualmente pattuite, a meno che nello svolgimento concreto del rapporto le parti abbiano adottato comportamenti difformi da quelli previsti. In proposito, è stato correttamente rilevato che, se in linea generale l’introduzione dell’esenzione risponde alla finalità di assicurare la soddisfazione di crediti derivanti da forniture di beni e servizi che s’inseriscano nel ciclo produttivo dell’impresa, in modo tale da evitare che il timore della revocatoria possa comportare l’interruzione dell’attività e la conseguente disgregazione dell’azienda, il riferimento ai termini d’uso svolge la funzione di escludere dalla tutela tutti quei casi in cui il mancato rispetto della prassi commerciale precedentemente adottata risulta idonea ad evidenziare il venir meno della correttezza di rapporti ed il possibile approfittamento della situazione di difficoltà del debitore. In quest’ottica, essendo l’operatività dell’esenzione legata al confronto con un parametro predeterminato e verificabile in modo oggettivo, risulta scongiurato anche il rischio, paventato dall’opinione minoritaria, che il debitore possa influire con il proprio comportamento sulla sorte dei pagamenti effettuati in favore dei propri fornitori.

In conclusione, la questione sollevata dal ricorrente può essere risolta mediante la conferma del principio di diritto già enunciato da questa Corte, secondo cui, in tema di revocatoria fallimentare, ai fini dell’operatività dell’esenzione prevista dall’art. 67, comma 3, lett. a) della L. Fall., l’espressione "termini d’uso", utilizzata per individuare i pagamenti di beni e servizi non soggetti all’azione revocatoria, non si riferisce alle forniture che costituiscono oggetto del pagamento, ma ai pagamenti stessi, i quali risultano quindi opponibili alla massa dei creditori, anche se eseguiti ed accettati difformemente dalle previsioni contrattuali, purché siano stati effettuati secondo tempi e modalità corrispondenti a quelli che hanno caratterizzato il rapporto tra le parti nel suo concreto svolgimento.

1.4. In applicazione del predetto principio, non merita censura la sentenza impugnata, per aver ritenuto che i pagamenti effettuati dalla C. in favore della S. nel periodo immediatamente precedente alla dichiarazione dello stato d’insolvenza non potessero considerarsi esenti dalla revocatoria, in quanto eseguiti in difformità sia dalle condizioni originariamente concordate tra le parti, sia da quelle successivamente convenute a modifica delle stesse: premesso infatti che il contratto di fornitura prevedeva originariamente il pagamento della merce a sessanta giorni dalla consegna, e rilevato che, per consentire la prosecuzione della fornitura anche a seguito della messa in liquidazione della C., era stato concordato che il pagamento delle fatture avesse luogo a vista, la Corte d’appello ha accertato che tale prassi era stata stravolta dal comportamento successivo delle parti, in quanto dal mese di aprile 2009 la S. aveva espressamente condizionato le consegne al pagamento anticipato di quote settimanali, ed ha quindi concluso correttamente per la revocabilità dei pagamenti, reputando altrettanto condivisibilmente irrilevante la dichiarazione del liquidatore della società debitrice, secondo cui le forniture risultavano indispensabili per la prosecuzione dell’attività produttiva.

2. Il ricorso va dunque rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

 

P.Q.M.

rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dal comma 1-bis dello stesso art. 13.

Dep. 7 luglio 2021.