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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 25896 - pubb. 17/09/2021.

Il contratto di mutuo indicizzato è assimilabile ad un prodotto finanziario?


Cassazione civile, sez. I, 31 Agosto 2021. Pres. De Chiara. Est. Scotti.

Contratto di mutuo – Indicizzazione di natura aleatoria – Assimilazione a prodotto finanziario – Esclusione


Non è possibile assimilare il contratto di mutuo, ancorché indicizzato e per questa via sottoposto all'operatività di clausole di carattere aleatorio, influenzate dalla variabilità di tassi e cambi, ad uno strumento finanziario per la semplice ed assorbente ragione che manca nella struttura contrattuale l'operazione di investimento di risorse da parte del mutuatario, che non acquista uno strumento finanziario, ma viene invece finanziato.

Il contratto di mutuo indicizzato non da luogo ad un titolo idoneo alla circolazione, in quanto, come si è già detto con riferimento al contratto di leasing, la clausola di indicizzazione (in quel caso al cambio di valuta straniera) non è uno strumento finanziario derivato, poiché è assimilabile solo finanziariamente, ma non giuridicamente, al domestic currency swap, costituendo esclusivamente un meccanismo di adeguamento della prestazione pecuniaria, privo di autonomia causale rispetto al negozio cui accede e non idoneo a circolare liberamente sul mercato. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)

 

Fatto

1. In seguito a dichiarazione di incompetenza del Tribunale di Milano gli attori X.M. e P.G. hanno riassunto il giudizio dinanzi al Tribunale di Busto Arsizio nei confronti di B.B.P., con la quale avevano stipulato due distinti contratti di mutuo, e hanno dedotto sotto diversi profili l'invalidità delle clausole contrattuali concernenti il meccanismo di indicizzazione dei contratti e di estinzione anticipata per contrarietà al Testo unico finanziario e al Testo unico bancario, anche con riferimento alle norme di tutela contro le clausole vessatorie e alla nullità per difetto di causa. Gli attori hanno chiesto il risarcimento del danno e la restituzione degli importi pagati in forza di clausole invalide. In particolare, X.M. ha chiesto la condanna della Banca convenuta alla restituzione dell'importo di Euro 14.110,66, oltre interessi, da lui pagata a titolo di indicizzazione valutaria del capitale, non dovuta, in occasione dell'estinzione anticipata del mutuo; P.G. ha sostenuto di aver diritto ad estinguere il mutuo con il pagamento del solo importo capitale senza indicizzazione valutaria. Barclays Bank si è costituita, chiedendo il rigetto delle avversarie domande e sostenendo che il contenuto del contratto di "mutuo in Euro indicizzato al franco svizzero" stipulato con gli attori era chiaro e comprensibile, relativamente alla sua indicizzazione non solo quanto agli interessi, ma anche quanto al capitale. Il Tribunale di Busto Arsizio con sentenza dell'8/3/2017 ha qualificato i contratti in questione come contratti di mutuo in Euro indicizzati al franco svizzero solo quanto agli interessi e non anche al capitale, ha condannato Barclays Bank a restituire a X.M. la somma di Euro 14.110,66 corrisposta a titolo di indicizzazione valutaria del capitale, ha rigettato la domanda di P.G. e ha compensato le spese di lite. 2. Avverso la predetta sentenza di primo grado ha proposto appello in via principale Barclays Bank, a cui hanno resistito gli appellati, che hanno a loro volta proposto gravame incidentale. La Corte di appello di Milano con sentenza del 1/2/2019 ha accolto l'appello principale e ha rigettato l'appello incidentale, ha condannato il X. alla restituzione dell'importo percepito in forza della sentenza di primo grado e ha gravato i due appellati delle spese dei due gradi di giudizio. La Corte milanese ha ritenuto che l'analisi delle clausole contrattuali rendesse evidente l'indicizzazione in franchi svizzeri del mutuo anche con riferimento al capitale mutuato; ha affermato che la deduzione di causa illecita dei contratti come "derivati impliciti" configurava una domanda nuova degli appellanti X.- P.; ha osservato che l'eventuale scarsa chiarezza delle clausole contrattuali non poteva comunque determinare la richiesta declaratoria di nullità, al pari dell'eventuale natura di "derivati impliciti" dei contratti proposta dai signori X. e P.. 3. Avverso la predetta sentenza, notificata in data 12/2/2019, con atto notificato il 15/4/2019 (lunedì e quindi tempestivamente ex art. 155 c.p.c., commi 4 e 5) hanno proposto ricorso per cassazione X.M. e P.G. svolgendo quattro motivi. Con atto notificato il 24/5/2019 Barclays Bank LTD ha proposto controricorso, chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto dell'avversaria impugnazione. E' stata quindi fissata la pubblica udienza del 5/5/2021 celebrata con il metodo di trattazione scritta disciplinato dal D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis. Le parti hanno depositato memoria illustrativa. Il Procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso.

 

Motivi

1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione all'art. 1421 c.c., art. 36 codice del consumo, art. 117 TUB, artt. 112 e 345 c.p.c. 1.1. I ricorrenti assumono che le nullità, anche di protezione, sono rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado, anche a prescindere da una domanda o da una eccezione di parte, e si dolgono dell'affermazione della Corte di appello secondo la quale le ragioni di nullità dedotte dagli appellanti incidentali integravano per alcuni profili una domanda nuova.

1.2. Il motivo appare inammissibile per difetto di pertinenza rispetto al decisum. La Corte milanese effettivamente a pagina 11, terzo capoverso della sentenza impugnata, riepilogando preliminarmente i termini delle eccezioni di nullità sollevate dagli attori appellati, ha affermato che essi avevano formulato "una prospettazione della domanda nuova rispetto ai profili di nullità delineati in primo grado, quanto meno per quanto attiene alla prospettazione della illiceità della causa dei contrati de quo in quanto derivati impliciti".

1.3. E' anche indubbio che secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte la rilevabilità officiosa delle nullità negoziali deve estendersi anche a quelle cosiddette "di protezione", da configurarsi, alla stregua delle indicazioni provenienti dalla Corte di giustizia dell'Unione, come una species del più ampio genus rappresentato dalle prime, poiché sono volte a tutelare interessi e valori fondamentali - quali il corretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost.) e l'uguaglianza almeno formale tra contraenti forti e deboli (art. 3 Cost.) - che trascendono quelli del singolo; inoltre nel giudizio di appello ed in quello di cassazione, il giudice, in caso di mancata rilevazione officiosa, in primo grado, di una nullità contrattuale, ha sempre facoltà di procedere ad un siffatto rilievo (Sez. U, n. 26242 e 26243 del 12/12/2014). Il principio è stato ulteriormente riaffermato dalle Sezioni unite con la sentenza n. 7294 del:22/03/2017, secondo la quale il potere di rilievo officioso della nullità del contratto spetta anche al giudice investito del gravame relativo ad una controversia sul riconoscimento di pretesa che suppone la validità ed efficacia del rapporto contrattuale oggetto di allegazione - e che sia stata decisa dal giudice di primo grado senza che questi abbia prospettato ed esaminato, né le parti abbiano discusso, di tali validità ed efficacia trattandosi di questione afferente ai fatti costitutivi della domanda ed integrante, perciò, un'eccezione in senso lato, rilevabile d'ufficio anche in appello, ex art. 345 c.p.c. Alla rilevabilità officiosa dell'eccezione in senso lato consegue linearmente la possibilità della formulazione dell'eccezione in appello ai sensi dell'art. 345 c.p.c., comma 2: il giudice di appello è infatti tenuto a procedere al rilievo officioso di una nullità contrattuale nonostante sia mancata la rilevazione in primo grado e l'eccezione di nullità sia stata sollevata in sede di gravame, venendo in rilievo un'eccezione in senso lato, come tale proponibile in appello in forza della norma ricordata (Sez. 6 - 1, n. 19161 del 15/09/2020, Rv. 658837 - 01; Sez. 1, n. 31930 del 06/12/2019, Rv. 656497 01; Sez. 2, n. 26495 del 17/10/2019"Rv. 655652 - 01).

1.4. Tuttavia nel caso concreto la Corte milanese non ha fatto seguire all'affermazione iniziale circa la "novità" della domanda alcuna statuizione di inammissibilità ed anzi alla pagina 12, penultimo capoverso, ha motivato espressamente in ordine all'esclusione della predicata natura di "derivati impliciti" dei contratti in questione, rigettando nel merito la tesi dei signori X. e P..

1.5. Ben vero, qualora il giudice, dopo una statuizione di inammissibilità (o declinatoria di giurisdizione o di competenza), con la quale si è spogliato della potestas iudicandi in relazione al merito della controversia, abbia impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, la parte soccombente non ha l'onere né l'interesse ad impugnare; conseguentemente è ammissibile l'impugnazione che si rivolga alla sola statuizione pregiudiziale ed è viceversa inammissibile, per difetto di interesse, l'impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta ad abundantiam nella sentenza gravata (Sez. U, n. 3840 del 20/02/2007, Rv. 595555 - 01). Infatti le affermazioni contenute nella motivazione della sentenza di appello impugnata con ricorso per cassazione, relative al merito della domanda azionata, devono ritenersi - qualora effettuate nella riconosciuta carenza di potere giurisdizionale estranee all'unica ratio decidendi della sentenza, e, perciò, svolte ad abundantiam, con argomentazioni meramente ipotetiche e virtuali, che la parte soccombente non ha l'onere né l'interesse ad impugnare in sede di legittimità, con la conseguenza che gli eventuali motivi proposti al riguardo devono essere dichiarati inammissibili (Sez. U, n. 8087 del 02/04/2007, Rv. 595928 - 01; Sez. 2, n. 19754 del 27/09/2011, Rv. 619326 - 01; Sez. 1, n. 3927 del 12/03/2012, Rv. 621978 - 01; Sez. Un. 24469 del 30/10/2013, Rv. 627991 - 01; Sez. 2, n. 2736 del 05/02/2013, Rv. 625070 - 01; Sez. 5, n. 27049 del 19/12/2014, Rv. 633881 - 01, Sez. L, n. 22380 del 22/10/2014, Rv. 633495 - 01, Sez. 5, n. 7838 del 17/04/2015, Rv. 635230 - 01; Sez. 2, n. 101 del 04/01/2017, Rv. 642185 - 01; Sez. 6 - 5, n. 30393 del 19/12/2017, Rv. 646988 - 01; Sez.un. 31024 del 27/11/2019, Rv. 656074 - 01). Diverso è il caso in cui la sentenza del giudice di merito, la quale, dopo aver aderito ad una prima ragione di decisione, esamini ed accolga anche una seconda ragione, al fine di sostenere la decisione anche nel caso in cui la prima possa risultare erronea; tale pronuncia non incorre nel vizio di contraddittorietà della motivazione, che sussiste nel diverso(caso di contrasto di argomenti confluenti nella stessa ratio decidendi, né contiene, quanto alla causa petendi alternativa o subordinata, un mero obiter dictum insuscettibile di trasformarsi nel giudicato. Detta sentenza, invece, configura una pronuncia basata su due distinte rationes decidendi, ciascuna di per sé sufficiente a sorreggere la soluzione adottata, con il conseguente onere del ricorrente di impugnarle entrambe, a pena di inammissibilità del ricorso (Sez. 3, n. 10815 del 18/04/2019, Rv. 653585 - 01; conforme Sez. 3, n. 21490 del 07/11/2005, Rv. 586047 - 01). 1.6. Tuttavia nella fattispecie la Corte di appello non ha affatto dichiarato l'inammissibilità dell'eccezione ritenuta nuova degli appellati per poi, ultroneamente, dichiararla anche infondata nel merito, ma si è limitata a censirne la novità (caratteristica peraltro ut supra non ostativa al rilievo officioso e all'introduzione in appello) per poi esaminarla e rigettarla nel merito. 1.7. Il motivo risulta quindi inammissibile perché non corrispondente al contenuto della sentenza impugnata.

2. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione all'art. 112 c.p.c., art. 1421 c.c., artt. 33 e ss. codice del consumo, artt. 3, 4, 5, 6 della Direttiva 1993/13/CEE, art. 1175 c.c., art. 1176 c.c., comma 2, artt. 1322,1325,1337,1343,1375 e 1418 c.c., art. 117 TUB e connesse istruzioni di vigilanza della Banca d'Italia.

2.1. I ricorrenti lamentano il mancato rilievo ex officio della nullità delle clausole 4 e 4 bis, 7 e 7 bis dei contratti di mutuo "prima casa" stipulati con mutuatari consumatori, per difetto di chiarezza e comprensibilità, per vessatorietà ed eccessivo squilibrio, in ossequio alle norme e alla costante giurisprudenza della Corte di Giustizia UE. Essi lamentano altresì la violazione degli obblighi di diligenza professionale, buona fede, correttezza, trasparenza e chiarezza e del connesso divieto di abuso nei contratti e nei rapporti tra professionisti e consumatori. Sostengono infine la nullità delle clausole per difetto di meritevolezza e di causa in concreto e per illiceità con la conseguente necessità di ricalcolare gli interessi sulla somma concessa a mutuo e gli importi per anticipata estinzione del mutuo, rispettivamente previsti dagli artt. 4 e 7 del contratto, espungendo dal sistema di calcolo il differenziale di cambio fra franco svizzero ed Euro e rideterminando il piano di ammortamento e/o gli importi dovuti in sede di estinzione del mutuo in base al tasso BOT di cui all'art. 117 TUB, con restituzione e/o riaccredito degli importi addebitati illegittimamente e il risarcimento dei danni patiti.

2.2. La Corte di appello ha sostenuto, in punto di diritto (pag.11), che quand'anche il meccanismo contrattuale di indicizzazione non fosse chiaro e intelligibile per oscurità delle clausole i mutuatari non avrebbero potuto chiedere al giudice di dichiarare la nullità delle clausole contrattuali. Di qui lo sfogo critico proposto dai ricorrenti (in particolare nelle pagine da 45 a 57 dell ricorso) avverso tale prima considerazione in diritto, ampiamente censurata con riferimento alla disciplina Europea e nazionale e alla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE. Vi è però da aggiungere che a pagina 12, riprendendo espressamente il contenuto dell'analisi del testo contrattuale esposta alle pagine 7-9 con riferimento all'appello principale, la Corte territoriale ha escluso nel merito l'oscurità del meccanismo di regolazione dell'indicizzazione del mutuo, affermando che esso era "sufficientemente chiaro all'interno del complessivo impianto contrattuale, alla luce del quale devono essere interpretate anche le singole clausole, il cui contenuto letterale, di per sé considerato, potrebbe dar luogo ad equivoci". A pagina 7 la Corte ha affermato che era "evidente" "che le variabili previste in tali mutui sono costituite sia dalla fluttuazione dei tassi di interessi che dalla variazione dei tassi di cambio fra valute"; che tale meccanismo "era chiaro nella sua formulazione letterale"; che "si evince(va) chiaramente" che il meccanismo di indicizzazione riguardasse anche il capitale alla luce di "un'analisi sistematica delle clausole contrattuali". Ed ancora, dopo l'analisi delle varie clausole condotta nel terzo e quarto capoverso di pagina 7 e nei primi tre paragrafi di pagina 8, la Corte ambrosiana ha conclusivamente affermato che "ciò significa che si parla di Euro in quanto le parti si sono impegnate, tra di loro, a regolare il dare e l'avere secondo la valuta Euro, ma il parametro di riferimento è all'evidenza quello della diversa valuta" (sentenza impugnata, pag. 9). La Corte di appello ha quindi escluso, esprimendo una valutazione di merito, che le clausole contrattuali complessivamente interpretate dessero corpo a un regolamento contrattuale oscuro, poco trasparente e non intellegibile, sia expressis verbis, sia implicitamente - ma inequivocabilmente - con il ricorso ripetuto a espressioni relative alla chiarezza e all'evidenza delle conclusioni raggiunte.

2.3. La controricorrente Barclays ha eccepito preliminarmente l'inammissibilità del motivo, nella parte in cui si riferisce non solo alla eccepita nullità degli artt. 4 e 7 del testo contrattuale, ma anche alla nullità degli artt. 4 bis e 7 bis, avverso i quali i ricorrenti, diversamente da quanto da essi sostenuto, non avevano proposto alcuna censura con il loro primo motivo di appello incidentale, rivolto ai soli artt. 4 e 7. I due articoli in questione (4 bis e 7 bis), secondo Barclays, sono stati oggetto di censura solo con il ricorso per cassazione, il che comporterebbe l'inammissibilità del ricorso fondato sul mancato rilievo d'ufficio da parte del Giudice di appello di una presunta nullità mai eccepita nel processo dinanzi a lui (controricorso, pag. 21, memoria, pag. 10). L'eccezione è infondata, anche a prescindere dal fatto che i ricorrenti avevano invocato a loro sostegno il provvedimento dell'Autorità Garante per la concorrenza e il mercato, che si riferiva anche ai due artt. 4 bis e 7 bis, e che la Corte di appello si è riferita in motivazione anche alle disposizioni dei due predetti articoli per fondare la propria decisione. Secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite (vedi supra p. 1.3.), nel giudizio di appello ed in quello di cassazione, il giudice, in caso di mancata rilevazione officiosa, in primo grado, di una nullità contrattuale, ha sempre facoltà di procedere ad un siffatto rilievo (Sez. U, n. 26242 del 12/12/2014, Rv. 633509 - 01; conformi n. 26243 del 12/12/2014; Sez. U, n. 7294 del 22/03/2017). Infatti in caso di omessa proposizione in appello di un'eccezione di nullità contrattuale,, il mancato rilievo d'ufficio da parte del giudice non integra il vizio di omessa pronuncia, ma è denunciabile in cassazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per violazione delle norme che prevedono la rilevabilità d'ufficio della questione, giacché il vizio di omessa pronuncia postula che la questione, ancorché rilevabile d'ufficio, abbia formato oggetto di una specifica domanda od eccezione e che il giudice non abbia statuito sulla stessa (Sez. 3, n. 12259 del 09/05/2019, Rv. 653780 - 01; Sez. 3, n. 25298 del 11/11/2020, Rv. 659780 - 01).

2.4. In primo luogo e quanto alla statuizione in diritto sopra ricordata, la Corte di appello ha rigettato l'appello incidentale sostenendo (pag. 11-12) che solo le clausole vessatorie - e non quelle solamente "ambigue" - sono affette da nullità e che la tutela del consumatore nei confronti dell'ambiguità del testo contrattuale sarebbe limitata, da un lato, all'obbligo del professionista di redigere per il futuro le clausole in modo più chiaro, e, dall'altro, all'ammissibilità dell'interpretazione della clausola nel senso più favorevole al consumatore. Tale assunto, puntualmente criticato dai ricorrenti, non è corretto.

2.4.1. La Direttiva 5/4/1993n. 13 - 1993/13/CEE, Direttiva del Consiglio concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, all'art. 3, par. 1, prevede che una clausola contrattuale, che non è stata oggetto di negoziato individuale, si considera abusiva se, malgrado il requisito della buona fede, determina, a danno del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto. Il successivo art. 4 impone di valutare il carattere abusivo di una clausola contrattuale, tenendo conto della natura dei beni o servizi oggetto del contratto e facendo riferimento a tutte le circostanze che accompagnano la conclusione del contratto e a tutte le altre clausole del contratto o di un altro contratto collegato. L'art. 4, par. 2, precisa tuttavia che la valutazione del carattere abusivo delle clausole non verte né sulla definizione dell'oggetto principale del contratto, né sulla perequazione tra il prezzo e la remunerazione, da un lato, e i servizi o i beni che devono essere forniti in cambio, dall'altro, purché - beninteso - tali clausole siano formulate in modo chiaro e comprensibile. L'art. 5 esige che le clausole proposte al consumatore per iscritto debbano essere sempre redatte in modo chiaro e comprensibile e prevede che in caso di dubbio sul senso di una clausola, prevale l'interpretazione più favorevole al consumatore. L'art. 6, par. 1, impone agli Stati membri di prevedere che le clausole abusive contenute in un contratto stipulato fra un consumatore ed un professionista non vincolino il consumatore, alle condizioni stabilite dalle loro legislazioni nazionali, e che il contratto resti vincolante per le parti secondo i medesimi termini, sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive.

2.4.2. Le disposizioni della Direttiva sono state puntualmente trasposte nell'ordinamento italiano, dapprima con la normativa inserita nel codice civile e dedicata ai contratti del consumatore sub artt. 1469 bis c.c. e ss., e poi con la disciplina attualmente contenuta nel D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, artt. 33 e ss. recante il Codice del consumo. L'art. 33, riprendendo l'art. 3 della Direttiva, prevede che nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. L'art. 34 si aggancia all'art. 4 della Direttiva e, fra l'altro, al comma 2, esclude che la valutazione del carattere vessatorio attenga alla determinazione dell'oggetto del contratto o all'adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile. L'art. 35 propone disposizioni conformi all'art. 5 della Direttiva laddove dispone che le clausole proposte al consumatore per iscritto debbano sempre essere redatte in modo chiaro e comprensibile e in caso di dubbio sul senso di una clausola prevalga l'interpretazione più favorevole al consumatore. L'art. 36, infine, applica la sanzione di nullità alle clausole considerate vessatorie ai sensi degli artt. 33 e 34, salva la validità per il contratto per il resto.

2.4.3. Ai sensi del combinato disposto di tali norme, e segnatamente per quanto riguarda l'ordinamento nazionale degli art. 33 e art. 36, comma 1, art. 35, comma 1, art. 34, comma 2, e per quanto riguarda l'ordinamento Europeo degli artt. 3, 6, art. 5, comma 1 e art. 4, comma 2, della Direttiva 1993/13/CEE, le clausole contrattuali di un contratto fra professionista e consumatore, redatte in modo non chiaro e comprensibile, possono essere qualificate vessatorie (nella terminologia italiana) o abusive (nella terminologia Europea), se determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto e ciò anche ove esse concernano la stessa determinazione dell'oggetto del contratto o l'adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, se tali elementi non sono individuati in modo chiaro e comprensibile.

2.4.4. In tal senso si è espressa chiaramente la Corte di Giustizia UE (sentenze 30/5/2013, in causa C-488/11; 14/6/2012, in causa C-618/10, 21/2/2013, in causa C-472/11; 30/4/2014, in causa C-26/13, 26/2/2015, in causa C-143/13; 20/9/2017, in causa C-186/16) affermando che il sistema di tutela del consumatore in materia di clausole contrattuali istituito dalla direttiva 93/13/CEE è fondato sul presupposto che il consumatore si trovi in una situazione di inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda il potere nelle trattative e il livello di informazione, situazione questa che lo induce ad aderire alle condizioni predisposte senza poter incidere sul loro contenuto. Inoltre il criterio di chiarezza, trasparenza e comprensibilità a cui necessariamente deve essere informata la redazione delle clausole contrattuali deve essere inteso in maniera estensiva, tale, cioè, da non agire solo sul piano meramente formale e lessicale ma anche sul piano informativo; in questo modo le clausole, in correlazione tra loro, devono consentire al consumatore di comprendere e valutare, sulla base di criteri precisi ed intelligibili, le conseguenze che scaturiscono nei suoi confronti dall'adesione al contratto, anche sul piano economico; più in particolare ciò presuppone che, nel caso dei contratti di credito, essi debbano essere formulati in maniera sufficientemente chiara da consentire ai mutuatari di assumere le proprie decisioni con prudenza e in piena cognizione di causa. In particolare, nella citata sentenza 20/9/2017, in causa C186/16 si legge "L'art. 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che il requisito secondo cui una clausola contrattuale deve essere formulata in modo chiaro e comprensibile presuppone che, nel caso dei contratti di credito, gli istituti finanziari debbano fornire ai mutuatari informazioni sufficienti a consentire a questi ultimi di assumere le proprie decisioni con prudenza e in piena cognizione di causa. A tal proposito, tale requisito implica che una clausola, in base alla quale il mutuo deve essere rimborsato nella medesima valuta estera nella quale è stato contratto, sia compresa dal consumatore non solo sul piano formale e grammaticale, ma altresì in relazione alla sua portata concreta, nel senso che un consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, possa non solo essere a conoscenza della possibilità di apprezzamento o deprezzamento della valuta estera nella quale il prestito è stato contratto, ma anche valutare le conseguenze economiche, potenzialmente significative, di una tale clausola sui suoi obblighi finanziari.". Tali principi sono stati ancora recentemente ribaditi dalla Corte di Giustizia, con sentenza del 3/3/2020, C.125/18, ove è stato osservato che "l'obbligo di trasparenza delle clausole contrattuali, quale risulta dall'art. 4, paragrafo 2, e dall'art. 5 della direttiva 93/13, non può essere limitato unicamente al carattere comprensibile sui piani formale e grammaticale di queste ultime. Poiché il sistema di tutela istituito da detta direttiva si fonda sull'idea che il consumatore si trovi in una situazione di inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda, in particolare, il livello di informazione, tale obbligo di redazione chiara e comprensibile delle clausole contrattuali e, pertanto, di trasparenza, imposto dalla medesima direttiva, deve essere inteso estensivamente... Nel caso di una clausola che preveda, nell'ambito di un contratto di mutuo ipotecario, una remunerazione di tale mutuo mediante interessi calcolati sulla base di un tasso variabile, tale requisito deve quindi essere inteso nel senso che impone non solo che la clausola di cui trattasi sia intelligibile per il consumatore sui piani formale e grammaticale, ma anche che un consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, sia posto in grado di comprendere il funzionamento concreto della modalità di calcolo di tale tasso e di valutare in tal modo, sul fondamento di criteri precisi e intelligibili, le conseguenze economiche, potenzialmente significative, di una tale clausola sulle sue obbligazioni finanziarie".

2.4.5. L'affermazione in diritto pronunciata dalla Corte milanese è quindi viziata per contrasto con il diritto Europeo e il diritto nazionale che lo puntualmente recepito. A tal riguardo occorre esprimere il seguente principio di diritto: "In tema di contratti conclusi fra professionista e consumatore, le clausole redatte in modo non chiaro e comprensibile possono essere qualificate vessatorie o abusive e pertanto affette da nullità, se determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto e ciò anche ove esse concernano la stessa determinazione dell'oggetto del contratto o l'adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, se tali elementi non sono individuati in modo chiaro e comprensibile".

2.4.6. Ovviamente l'eventuale giudizio di nullità delle singole clausole non comporta necessariamente la nullità dell'intero contratto, secondo il principio generale di cui all'art. 1419 c.c., secondo il quale la nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell'intero contratto solo se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza la parte del suo contenuto colpita dalla nullità. Tale principio è puntualmente e specificamente attuato in subiecta materia dall'art. 36 Codice del consumo, conforme all'art. 6 della Direttiva 1993/13/CEE, secondo il quale le clausole considerate vessatorie sono nulle mentre il contratto rimane valido per il resto.

2.5. La Corte deve ora porsi il problema delle censure riservate dai ricorrenti alla valutazione pure espressa dalla Corte ambrosiana circa la chiarezza e comprensibilità delle clausole del contratto di mutuo intercorso fra le parti, delle quali la controricorrente eccepisce l'inammissibilità perché miranti a coinvolgere indebitamente la Corte di cassazione nell'esame di una questione di merito.

2.5.1. Indubbiamente, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l'opera dell'interprete mira a determinare una realtà storica ed obiettiva, ossia la volontà delle parti espressa nel contratto, e pertanto costituisce accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali d'ermeneutica contrattuale posti dagli artt. 1362 c.c. e segg., oltre che per vizi di motivazione nella loro applicazione. Perciò, per far valere la violazione di legge, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d'interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate e dei principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali asseritamente violati; di conseguenza, ai fini dell'ammissibilità del motivo di ricorso, non è idonea la mera critica del convincimento espresso nella sentenza impugnata mediante la mera contrapposizione d'una difforme interpretazione, trattandosi d'argomentazioni che riportano semplicemente al merito della controversia, il cui riesame non è consentito in sede di legittimità (ex multis, Sez. 3, n. 13603 del 21/05/2019, Rv. 653922 - 01; Sez. 3, n. 11254 del 10/05/2018, Rv. 648602 - 01; Sez. 1, n. 29111 del 05/12/2017, Rv. 646340 - 01; Sez. 3, n. 28319 del 28/11/2017, Rv. 646649 - 01; Sez. 1, n. 27136 del 15/11/2017, Rv. 646063 - 02; Sez. 2, n. 18587, 29/10/2012; Sez. 6-3, n. 2988, 7/2/2013). La denunzia della violazione dei canoni legali in materia d'interpretazione del contratto non può quindi costituire lo schermo, attraverso il quale sottoporre impropriamente al giudizio di legittimità valutazioni che appartengono in via esclusiva al giudizio di merito; non è poi sufficiente la mera enunciazione della pretesa violazione di legge, volta a rivendicare il risultato interpretativo favorevole, disatteso dal giudice del merito, ma è necessario, per contro, individuare puntualmente e specificamente il canone ermeneutico violato, correlato al materiale probatorio acquisito.

2.5.2. Ai fini della ricostruzione dell'accordo negoziale, l'attività del giudice del merito si articola in due fasi. La prima è diretta ad interpretare la volontà delle parti, ossia a individuare gli effetti da esse avuti di mira, che consiste in un accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo della motivazione. La seconda è volta a qualificare il negozio mediante l'attribuzione di un nomen iuris, riconducendo quell'accordo negoziale ad un tipo legale o assumendo che sia atipico, fase sindacabile in cassazione per violazione di legge (Sez. 6 - 3, n. 3590 del 11/02/2021, Rv. 660549 - 01; Sez. L, n. 3115 del 09/02/2021, Rv. 660347 - 01). Nel giudizio di cassazione, la censura svolta dal ricorrente che lamenti la mancata applicazione del criterio di interpretazione letterale, per non risultare inammissibile deve essere specifica, dovendo indicare quale sia l'elemento semantico del contratto che avrebbe precluso l'interpretazione letterale seguita dai giudici di merito e, al contrario, imposto una interpretazione in senso diverso; nel giudizio di legittimità, infatti, le censure relative all'interpretazione del contratto offerta dal giudice di merito possono essere prospettate solo in relazione al profilo della mancata osservanza dei criteri legali di ermeneutica contrattuale o della radicale inadeguatezza della motivazione, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, mentre la mera contrapposizione fra l'interpretazione proposta dal ricorrente e quella accolta dai giudici di merito non riveste alcuna utilità ai fini dell'annullamento della sentenza impugnata (Sez. 1, n. 995 del 20/01/2021,Rv. 660378 - 01).

2.5.3. In sé e per sé considerate, non possono quindi trovare ingresso in questa sede di legittimità le pur articolate argomentazioni critiche profuse dai ricorrenti che si fondano su di un presupposto, e cioè la mancanza di chiarezza, trasparenza e comprensibilità del contenuto della regolamentazione contrattuale, escluso dal giudice di merito con accertamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità.

2.6. A diverse conclusioni occorre invece pervenire alla stregua del provvedimento emesso dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) n. 27214 del 2018, richiamato dai ricorrenti (fra l'altro e in particolare alle pagine 54 e 55 del ricorso) e specificamente citato pure in sentenza (pag. 10).

2.6.1. Con il provvedimento citato l'AGCM, nell'esercizio dei suoi poteri di public enforcement, ha ritenuto che alcune clausole dei contratti di mutuo in Euro indicizzati in valuta estera della Barclays (artt. 4, 4 bis, 7, 7 bis) fossero affette da "difetto di chiarezza e trasparenza" e contrarie ai principi della direttiva 1993/13/CEE come elaborati dalla Corte di Giustizia e agli artt. 33 e ss. Codice del consumo perché "non espongono in modo trasparente il funzionamento concreto dei citati meccanismi della doppia indicizzazione, finanziaria e valutaria, del deposito fruttifero e di rivalutazione monetaria caratterizzanti il prodotto....". L'AGCOM ha affermato che le clausole apparivano in sé, in collegamento tra loro nonché nel contesto dell'intero contratto, contrarie all'art. 35, comma 1 Codice del consumo per la loro formulazione non chiara e trasparente, tenuto conto del fatto che risultavano scarsamente intellegibili per il consumatore sia su un piano strettamente lessicale e grammaticale in merito al loro singolo contenuto, sia alla luce del contesto complessivo del contratto nel quale erano inserite.

2.6.2. Secondo Barclays, che si diffonde in argomento in particolare nella memoria del 30/4/2021 alle pagine 16-17, le valutazioni contenute nel provvedimento dell'AGCOM (che peraltro sarebbe sub judice dinanzi al Tribunale amministrativo del Lazio, dato questo non risultante dagli atti e comunque non documentato) non fanno stato nel giudizio civile in tema di nullità delle clausole contrattuali e di risarcimento del danno, e si risolve in una valutazione giuridica non vincolante per il giudice del merito. Secondo la controricorrente, il provvedimento de quo costituirebbe una "chiara ingerenza da parte dell'Autorità Amministrativa nei poteri giurisdizionali del Giudice Ordinario in materia di clausole vessatorie", non proclamerebbe la vessatorietà della clausole, poggerebbe sull'unico argomento della mancata esplicazione delle clausole con le relative formule matematiche, sarebbe sconfessato da copiosa giurisprudenza di merito e lascerebbe totale libertà al giudice ordinario di pronunciarsi sulla validità della clausole di un contratto già concluso ai sensi dell'art. 37 bis del Codice del consumo.

2.6.3. L'art. 37 bis Codice del consumo (aggiunto dal D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 5, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 marzo 2012, n. 27) attribuisce all'Autorità garante della concorrenza e del mercato, sentite le associazioni di categoria rappresentative a livello nazionale, d'ufficio o su denuncia, peraltro ai soli fini di cui ai commi successivi, il potere di dichiarare la vessatorietà delle clausole inserite nei contratti tra professionisti e consumatori che si concludono mediante adesione a condizioni generali di contratto o con la sottoscrizione di moduli, modelli o formulari. La norma prevede inoltre l'applicabilità delle disposizioni previste dalla L. 10 ottobre 1990, n. 287, art. 14, commi 2, 3 e 4, e sanzioni amministrative pecuniarie per l'inottemperanza. Il comma 4 cit. articolo fa però espressamente salva la giurisdizione del giudice ordinario sulla validità delle clausole vessatorie e sul risarcimento del danno.

2.6.4. Ai fini della valutazione di queste obiezioni occorre stabilire se e in quali termini la tutela amministrativa erogata attraverso il cosiddetto public enforcement interferisca con la tutela del singolo attraverso l'azione giurisdizionale dinanzi al giudice civile (private enforcement). Secondo il Consiglio di Stato public enforcement e private enforcement non vanno sovrapposti, essendone diverse sia la natura, sia la finalità perseguita. Gli strumenti di public enforcement svolgono una funzione tipicamente "punitiva" ed " afflittiva " e sono finalizzati primariamente a garantire l'interesse pubblico ad un assetto concorrenziale dei mercati. La pretesa del privato al corretto esercizio di tale funzione "punitiva", per quanto costituisca un interesse giuridicamente rilevante, non ha, tuttavia, la consistenza e la pienezza del diritto soggettivo che il privato vittima di specifiche condotte anticoncorrenziali può far valere, con l'azione di risarcimento del danno, dinanzi al giudice civile, attivando, appunto, gli strumenti di private enforcement. Si tratta di due strumenti di tutela che certamente conoscono momenti di interferenza, ma che operano, comunque, su piani autonomi e distinti (Consiglio di Stato, sez. VI, 22/09/2014, n. 4773).

2.6.5. Secondo un cospicuo orientamento giurisprudenziale di questa Corte, formatosi in prevalenza con riferimento alle intese restrittive del corretto gioco della concorrenza e ai "cartelli" fra imprese in rapporto ai contratti "a valle" conclusi fra imprese e consumatori, gli accertamenti compiuti dall'Autorità garante godono di una efficacia probatoria rafforzata nei giudizi civili ordinari, instaurati ai sensi della L. n. 287 del 1990, art. 33, comma 2, per il risarcimento dei danni derivanti da illeciti anticoncorrenziali; in tal caso i provvedimenti assunti dall'Autorità Garante per la concorrenza e il mercato e le decisioni del giudice amministrativo, che eventualmente abbiano confermato o riformato quei provvedimenti, costituiscono prova privilegiata in relazione alla sussistenza del comportamento accertato o della posizione rivestita sul mercato e del suo eventuale abuso (Sez. 1, n. 18176 del 05/07/2019, Rv. 654545 - 02; Sez. 1, n. 13846 del 22/05/2019, Rv. 654261 - 01; Sez. 1, n. 11904 del 28/05/2014, Rv. 631486 - 01; Sez. 1, n. 12551 del 22/05/2013, Rv. 626623 - 01; Sez. 3, n. 7039 del 09/05/2012, Rv. 622371 - 01; Sez. 3, n. 17362 del 18/08/2011, Rv. 619110 - 01; Sez. 3, n. 2305 del 02/02/2007, Rv. 595539 - 01). E' pur vero che quest'orientamento fa riferimento all'accertamento di fatti storici rilevanti ai fini del private enforcement e non solo alla loro valutazione di antigiuridicità, mentre il giudizio sulla chiarezza e comprensibilità delle clausole di un testo contrattuale non attiene propriamente a un preciso fatto storico accertato dall'Autorità Garante, neppure nella variante costituita da un accordo di volontà raggiunto dai contraenti, e si risolve piuttosto in un giudizio di fatto espresso sul tenore di un documento contrattuale, valutato a monte nella sua potenzialità di adeguata capacità esplicativa per un comune contraente, versante in posizione di debolezza e di asimmetria informativa, al fine di porlo in condizione, ciononostante, di assumere le proprie decisioni con prudenza e in piena cognizione di causa e operare così scelte consapevoli e corrette.

2.6.6. Il Collegio ritiene tuttavia che ricorrano anche in questa specifica ipotesi le ragioni che hanno indotto all'attribuzione di un valore privilegiato e presuntivo agli accertamenti del Garante. Una lucida esposizione di queste ragioni è contenuta nella sentenza n. 11904 del 2014. In quell'occasione, affrontando ex professo il tema del rapporto tra le decisioni del Garante e quelle della Corte di appello e più in generale fra tutela pubblica e tutela privata, la Corte affermò che nel nostro ordinamento il meccanismo di attuazione delle norme poste a tutela della concorrenza ha una struttura duplice, pubblica e privata; l'Autorità garante della concorrenza e del mercato opera su un piano pubblicistico, essendo ad essa istituzionalmente affidata dalla legge la funzione di autorità nazionale competente per la tutela della concorrenza ed agisce anche d'ufficio, nell'interesse pubblico ed in posizione di indipendenza, per dare attuazione alle norme che vietano intese ed abusi di posizione dominante; l'Autorità ha, tra l'altro, poteri di accertamento degli illeciti anti-trust e poteri sanzionatori di natura amministrativa che svolgono una funzione deterrente; in sede civile, invece, operano i giudici ordinari i quali, su domanda di singoli interessati (concorrenti o consumatori), garantiscono la tutela delle posizioni giuridiche soggettive che siano state lese da condotte d'impresa in violazione delle norme anti-trust, nazionali e comunitarie; la posizione giuridica del consumatore, oggetto di tutela, è rappresentata dal diritto a godere dei benefici della competizione commerciale, costituenti la colonna portante del meccanismo negoziale e della legge della domanda e dell'offerta; che la distinzione tra tutela pubblica (public enforcement) e tutela privata (private enforcement) si fonda sulla diversità dei presupposti della tutela pubblica che soddisfa un'esigenza diversa da quella concessa dal giudice ordinario, laddove quest'ultimo si pronuncia soltanto su ricorso di parte (in genere, imprese concorrenti) per la tutela di un interesse privato, mentre l'Autorità agisce di sua iniziativa per tutelare l'interesse pubblico primario di rilevanza comunitaria e costituzionale, alla salvaguardia di un mercato concorrenziale; nel nostro ordinamento, pertanto, a differenza di quanto accade in altri (Germania e Regno Unito), l'azione davanti al giudice civile non è subordinata ad una previa pronuncia dell'Autorità, in virtù dell'autonomia dei rapporti tra azione amministrativa e giudiziaria, ed il provvedimento assunto dal Garante non è vincolante per il giudice ordinario neppure nel caso in cui abbia superato con successo il vaglio del giudice amministrativo; ciò non solo perché il privato consumatore è normalmente estraneo al giudizio amministrativo, ma anche perché il giudicato amministrativo si forma soltanto sulla legittimità dell'atto assunto dall'Autorità garante; il controllo del giudice amministrativo anche quando si sostanzia in una verifica dei fatti volta ad accertare che il processo valutativo seguito dall'Autorità e la ricostruzione da essa operata siano immuni da travisamenti e vizi logici, ed a valutare che le norme giuridiche siano state correttamente individuate, interpretate ed applicate (non comporta mai una traslazione di poteri dall'Autorità al giudice - Sez. un. 17/3/2008, n. 7063); inoltre, il giudicato amministrativo non concerne il rapporto tra l'impresa sanzionata ed il singolo consumatore; d'altro canto, le due tutele sono tra loro complementari e sinergiche; che il principio di effettività e di unitarietà dell'ordinamento non consente di ritenere irrilevante il provvedimento del Garante nel giudizio civile, considerato anche che le due tutele sono previste nell'ambito dello stesso testo normativo e nell'ambito di un'unitaria finalità; in tale prospettiva assume rilievo anche l'evidente asimmetria informativa tra l'impresa partecipe dell'intesa anticoncorrenziale ed il singolo consumatore; sia pure con esclusivo riferimento all'azione di classe, l'art. 140 bis, comma 6 Codice del consumo (D.Lgs. n. 206 del 2005) prevede che il tribunale, nella fase di valutazione di ammissibilità della domanda, possa sospendere il giudizio quando sui fatti rilevanti ai fini del decidere è in corso un'istruttoria davanti a un'autorità indipendente ovvero un giudizio davanti al giudice amministrativo; tutti tali elementi, non potendosi ritenere che l'attribuzione ai singoli consumatori dell'azione a loro privata tutela si risolva in una mera affermazione di principio, convergono verso la conclusione che nel giudizio civile il provvedimento del Garante abbia una elevata attitudine probatoria tanto con riferimento all'accertamento della condotta quanto con riferimento alla idoneità a procurare un danno ai consumatori; pur non esistendo nel nostro ordinamento della categoria della prova privilegiata, distinta da quella della prova legale, non si può discutere l'elevata attitudine probatoria dell'accertamento compiuto dall'Autorità alla quale è istituzionalmente affidata dalla legge la funzione di controllo.

2.6.7. Gli stessi principi così enunciati con riferimento agli illeciti anti-trust, mutatis mutandis, valgono anche in materia di clausole vessatorie o abusive e dei relativi accertamenti e valutazioni da parte dell'Autorità Garante, tenuto conto delle ragioni ispiratrici che prendono le mosse dalla funzione stessa assolta nel sistema dalla pubblica tutela erogata attraverso gli strumenti di public enforcement, tanto più che a fronte dell'attività amministrativa dell'Autorità Garante l'imprenditore gode del diritto alla difesa al contraddittorio e all'impugnazione in sede giurisdizionale. Alla valutazione di non chiarezza e comprensibilità della clausole del testo contrattuale emessa dal Garante deve perciò essere attribuito un valore privilegiato nel giudizio civile fra il privato e il professionista relativo alle stesse clausole; tale valutazione, cioè, deve essere ritenuta presuntivamente corretta nel giudizio civile, in difetto di una specifica confutazione da parte del giudice, tanto più necessaria ove - come in questa fattispecie a giudizio - il dissenso sulla chiarezza e comprensibilità attenga proprio al contenuto del testo documentale valutato dall'AGCOM e non si fondi invece su elementi di fatto ulteriori attinenti allo specifico rapporto fra professionista e consumatore. Si tratta di una presunzione legale, pur suscettibile di prova contraria, non sancita espressamente dalla legge ma desunta dal sistema e in particolare dalla funzione stessa nel nostro ordinamento assegnata agli strumenti di public enforcement, analoga nella sua matrice a quella ravvisata dalla più recente giurisprudenza di questa Corte in tema di nesso causale fra inadempimento informativo dell'intermediario finanziario e pregiudizio subito dall'investitore. (Sez. 1, n. 16126 del 28/07/2020, Rv. 658562 - 01; Sez. 1, n. 9460 del 22/05/2020, Rv. 657682 - 01).

2.6.8. La citata presunzione genera un dovere di motivazione rafforzata e di specifica confutazione in capo al giudice ordinario adito ai sensi dell'art. 37 bis, comma 4 Codice del consumo e chiamato ad occuparsi dello stesso tessuto contrattuale colpito dal provvedimento amministrativo; dovere questo che nella fattispecie non è stato assolto, né punto, né poco, dalla Corte ambrosiana, che, pur perfettamente consapevole del provvedimento dell'AGCOM, al puto da richiamarlo e da citarne un brano assolutamente inequivocabile, si è ritenuta erroneamente libera di esporre in modo del tutto autonomo le ragioni della propria diversa valutazione in termini di chiarezza e comprensibilità. La Corte a tale proposito enuncia il seguente principio di diritto: "In tema di contratti fra professionista e consumatore, allorché si contro verta in sede civile sulla chiarezza e comprensibilità delle clausole contrattuali, anche nella prospettiva dell'accertamento di un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto determinano a carico del consumatore, opera una presunzione legale, suscettibile di prova contraria, non sancita espressamente dalla legge e scaturente dalla funzione sistematica assegnata agli strumenti di public enforcement, che genera un dovere di motivazione e di specifica confutazione in capo al giudice ordinario adito ai sensi dell'art. 37 bis, comma 4 Codice del consumo e chiamato ad occuparsi dello stesso regolamento contrattuale oggetto dal provvedimento amministrativo e giudicato non chiaro e comprensibile dall'Autorità Garante per la concorrenza e il mercato". 2.6.9. Il provvedimento dell'AGCOM esigeva quindi una specifica confutazione circa il difetto ivi accertato di chiarezza e comprensibilità, con riferimento a tutte le ragioni addotte dal Garante; quanto all'abusività e vessatorietà delle clausole, sarebbe spettato alla Corte di appello procedere all'ulteriore valutazione se esse determinassero a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, valutazione omessa per effetto del giudizio di chiarezza espresso nella sentenza impugnata.

2.7. La controricorrente, alle pagine 27-31 del controricorso, argomenta diffusamente circa la capacità dei fogli informativi consegnati ai ricorrenti a spiegare chiaramente ai clienti il funzionamento del mutuo in questione e il meccanismo di indicizzazione. Barclays si era difesa già dinanzi al Garante affermando che i profili di vessatorietà delle clausole de quibus sarebbero insussistenti in quanto veniva svolta un'attività informativa sul prodotto de quo sia in sede precontrattuale con i fogli informativi sia in sede contrattuale con il documento di sintesi e per il tramite del notaio, sul quale incombe l'obbligo ex lege di leggere e spiegare alle parti il contenuto del contratto, garantendo che le stesse lo abbiano ben compreso. Tali questioni, rimaste assorbite, dovranno essere valutate dal giudice del rinvio.

3. Con il terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione all'art. 112 c.p.c., art. 132 c.p.c., n. 4, artt. 61 e 191 c.p.c., art. 1421 c.c., art. 33 e ss. codice del consumo, artt. 3, 4, 5, 6 della Direttiva 1993/13/CEE, art. 1175 c.c., art. 1176 c.c., comma 2, artt. 1322,1325,1337,1343,1375 e 1418 c.c., artt. 23 e 30 TUF e pertinenti regolamenti Consob.

3.1. I ricorrenti assumono che il mutuo fondiario prima casa della Barclays conteneva un "derivato finanziario implicito" e conseguentemente ne sostengono la nullità per difetto o illiceità della causa e per violazione delle norme Europee, civilistiche e consumeristiche e del TUF poste a tutela del consumatore mutuatario in materia di correttezza, trasparenza e completezza, diligenza e accuratezza dell'informazione nell'attività di intermediazione finanziaria. I ricorrenti a tal fine prendono le mosse dalla nozione di "derivato" come contratto finanziario che ha per oggetto altre attività finanziarie rischiose perché soggette ad oscillazioni nel tempo (tassi di interesse o di cambio, titoli azionari...) e legate ad una attività "sottostante" che ne influenza, appunto in via derivata, il valore.

3.2. Il motivo è ammissibile, ma infondato. E' pur vero, infatti, come sopra ricordato che l'attività del giudice del merito in sede di ricostruzione dell'accordo negoziale si articola in due fasi, la prima diretta ad interpretare la volontà delle parti, che si risolve in un accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo della motivazione, la seconda volta a qualificare il negozio mediante l'attribuzione del corretto nomen iuris e a ricondurre quell'accordo negoziale alla corretta tipologia legale, sindacabile in cassazione per violazione o falsa applicazione di legge.

3.3. Tuttavia correttamente la Corte milanese ha escluso, a pagina 12, penultimo capoverso, la configurazione propugnata dai ricorrenti ponendo in evidenza sia la mancanza nella fattispecie "di una componente variabile per la parte relativa alla restituzione del capitale", sia l'immediata messa a disposizione del capitale al mutuatario a differenza degli strumenti derivati, sia il difetto di uno scambio di flussi finanziari, di volta in volta regolati inter partes. Non è infatti possibile assimilare il contratto di mutuo, ancorché indicizzato e per questa via sottoposto all'operatività di clausole di carattere aleatorio, influenzate dalla variabilità di tassi e cambi, ad uno strumento finanziario per la semplice ed assorbente ragione che manca nella struttura contrattuale l'operazione di investimento di risorse da parte del mutuatario, che non acquista uno strumento finanziario, ma viene invece finanziato. Non a caso infatti è il mutuatario a ricevere l'apporto che si impegna a restituire. Del tutto disomogenee rispetto alla fattispecie appaiono quindi la nozione di "valori mobiliari" (art. 2, comma 1 bis TUF) quale "categorie di valori che possono essere negoziati nel mercato dei capitali", sia quella di "strumento finanziario" quale riportata nella Sezione C dell'Allegato I TUF, sia la specifica nozione di "strumento derivato", quale definita, sia pur genericamente e per tipologie, dai n. 4-10 del predetto Allegato. Infine il contratto di mutuo indicizzato in questione non genera alcun titolo idoneo alla circolazione. Non a caso, la giurisprudenza di questa Corte in un caso analogo, ha affermato recentemente che la clausola di indicizzazione al cambio di valuta straniera, inserita in un contratto di "leasing in costruendo", non è uno strumento finanziario derivato, poiché è assimilabile solo finanziariamente, ma non giuridicamente, al domestic currency swap, costituendo esclusivamente un meccanismo di adeguamento della prestazione pecuniaria, privo di autonomia causale rispetto al negozio cui accede e non idoneo a circolare liberamente sul mercato (Sez. 3, n. 4659 del 22/02/2021, Rv. 660602 - 01). Diversamente ragionando, si finirebbe con l'assimilare a uno strumento finanziario derivato qualsiasi contratto di scambio caratterizzato da clausole di carattere aleatorio intrinsecamente rischiose.

4. Con il quarto motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, n. 4 e n. 5, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 1362,1363,1366,1370,1372 c.c., art. 35 codice del consumo, art. 115 c.p.c., nonché omesso esame di fatto decisivo e controverso.

4.1. I ricorrenti sostengono che l'estinzione anticipata del mutuo del sig. X. era disciplinata solo dall'art. 7 del contratto, come rilevato dal consulente tecnico, mentre la Corte aveva fatto riferimento all'art. 7 bis che disciplinava la diversa facoltà del mutuatario di chiedere la conversione del tasso di riferimento dal LIBOR CHF all'EURIBOR, proseguendo nel rapporto di mutuo. Di qui error in iudicando e errore percettivo su fatto decisivo e controverso e l'omesso esame dell'art. 7 del contratto di mutuo.

4.2. E' da escludersi innanzitutto il lamentato omesso esame di fatto decisivo. La Corte di appello non ha affatto omesso di valutare il contenuto dell'art. 7 del contratto ma ha proceduto a una considerazione complessiva e sistematica delle clausole contrattuali, in seno alla quale è stato valorizzato, in via interpretativa, anche il portato dell'art. 7 bis, articolo pur riferito ad altra ipotesi (conversione del mutuo in Euro), dando espressamente conto della sua rilevanza "in quanto ad essa si fa riferimento nell'ipotesi di estinzione anticipata del mutuo" (pag..8, ultimo capoverso). In ultima analisi i ricorrenti richiedono anche in questo caso alla Corte di legittimità di accedere alla loro interpretazione del contratto sostituendola a quella accolta dal giudice di merito.

4.3. Anche per altro verso, con la doglianza di violazione di legge i ricorrenti con le loro argomentazioni in parte ripropongono le censure sulla interpretazione del contratto accolta dal giudice del merito, giudicate ut supra di per sé inammissibili. La Corte di appello ha inteso far applicazione dei criteri di interpretazione letterale (art. 1362 c.c.) e sistematica (art. 1363 c.c.) ed ha implicitamente escluso che ci fosse uno spazio per l'interpretazione contra stipulatorem di cui all'art. 1370 c.c. e all'art. 35 Codice del consumo, affermando che una volta dato corso ad una interpretazione complessiva e sistematica il testo del contratto era sufficientemente chiaro, sì da superare l'equivocità di singole clausole unitariamente considerate (pag.12, capoverso).

4.4. Tuttavia l'accoglimento del secondo motivo, ut supra, comporta però anche l'accoglimento del quarto, nella parte evidentemente subordinata - in cui i ricorrenti (pag.73, capoverso) sollecitano l'interpretazione delle clausole contra stipulatorem. Infatti, se nel giudizio di rinvio le clausole contrattuali, in esito al rinnovato vaglio di chiarezza e comprensibilità e di validità, imposto dall'accoglimento del secondo motivo, dovessero essere ritenute non solo non chiare e comprensibili ma anche ambigue, seppur non produttive di un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti, si porrebbe la necessità residuale di una loro interpretazione orientata a favore del consumatore non predisponente ai sensi dell'art. 35 Codice del consumo, secondo il quale "in caso di dubbio sul senso di una clausola, prevale l'interpretazione più favorevole al consumatore" e dell'art. 1370 c.c., secondo il quale "le clausole inserite nelle condizioni generali di contratto o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti s'interpretano, nel dubbio, a favore dell'altro".

5. In conclusione devono essere accolti il secondo e il quarto motivo di ricorso, nei sensi di cui in motivazione, inammissibile il primo e rigettato il terzo motivo di ricorso; la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione ai motivi accolti e la causa deve essere rinviata alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

LA CORTE accoglie il secondo e il quarto motivo di ricorso, nei sensi di cui in motivazione, dichiara inammissibile il primo e rigetta il terzo motivo di ricorso, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

Dep. 31 agosto 2021.