Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 476 - pubb. 01/07/2007

Dichiarazione di fallimento, presupposti

Tribunale Piacenza, 22 Gennaio 2007. Est. Bersani.


Art. 1 legge fallimentare - Disciplina transitoria - Criteri dimensionali -  Criteri di individuazione - Onere della prova.



 



Il Tribunale di Piacenza riunito in Camera di Consiglio nelle persone dei Magistrati:

Dott. Domenico A. Tucci - Presidente
Dott. Giovanni Picciau - Giudice
Dott. Giuseppe Bersani - Giudice rel.

visti i ricorsi 112/06, 94/06, 102/06, 104/06 con cui viene proposta istanza di fallimento nei confronti di  M. snc di G. F. & C. s.n.c. con sede in X, via C. N. 44;
sentite le parti;udito il giudice relatore;
Rilevato che

Le domanda di fallimento sono  state depositate alcune in data  all’entrata in vigore delle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 5/2006 (il ricorso n. 83/06) ed alcune in data successiva (i ricorsi 112/06, 102/06 e 104/06);
dato atto che i vari ricorsi sono stati riuniti e pertanto deve essere  assunta una decisione unitaria; Considerato che per questa ragione debba essere esaminata la disciplina transitoria posta in calce al citato decreto legislativo n. 5/2006 negli articoli 150 e seguenti;ricordato che l’art. 150 del decreto legislativo dispone che:  I ricorsi per dichiarazione di fallimento e le domande di concordato fallimentare depositate prima dell'entrata in vigore del presente decreto, nonché le procedure di fallimento e di concordato fallimentare pendenti alla stessa data, sono definiti secondo la legge anteriore.”;rilevato che, ai fini che ci occupa, l’art. 150 del D. Lgv.  disciplina la materia processuale indicando la disciplina da applicare ai ricorsi prefallimentari ed alle procedure pendenti;considerato che, con ogni evidenza e come già ricordato, dal primo comando derivi esplicitamente che i ricorsi prefallimentari definiti prima del 16 luglio 2006 abbiano dato luogo a procedure che resteranno disciplinate dalla previgente normativa (perché all’epoca già pendente) e che, parimenti, non essendovi alcuna deroga per essi nell’art. 150, i ricorsi depositati dopo l’entrata in vigore delle nuove norme diano luogo, ovviamente, a procedure fallimentari regolate dalla nuova normativa in diretta applicazione della regola generale (fissata dall’art. 153 del D. Lgv. n 5/06); rilevato che con riferimento al problema della disciplina da applicare a casi analoghi a quello concreto sono sorti diversi orientamenti giurisprudenziali;rilevato, infatti, che secondo un primo orientamento giurisprudenziale  che viene condiviso dal Tribunale appare difforme alla chiara  lettera dell’articolo 150 d. lgv. n. 5/06 applicare la disciplina “procedimentale” previgente (stato passivo, insinuazioni tardive, modalità di liquidazione dell'attivo ecc.) ad una procedura fallimentare che non fosse già pendente alla data del 16 luglio 2006, rilevato che la sentenza dichiarativa di fallimento o il decreto di rigetto  integrano  l’atto che definisce il procedimento instaurato ex art. 6 l.f. mentre  la successiva procedura fallimentare costituisce  sono  un effetto della eventuale dichiarazione di fallimento. che – pertanto – alla luce del chiaro disposto dell’art. 150 cit. per quanto riguarda i ricorsi presentati prima del 16 luglio 2006  gli stessi dovranno  essere decisi  applicando i presupposti del r.d. 267/42 mentre la fase successiva  sarà disciplinata dalla nuova disciplina (D. Lgs. n. 5/06)  in quanto l’art. 150 cit. parla di “definizione del ricorso”  e quindi  l’applicazione del R.D. 267/42 dovrà essere limitata solo alla fase prefallimentare;ricordato – vedasi Tribunale di Pescara sentenze inedite n 45/06 e 46/06 – che secondo questo orientamento interpretativo “con riferimento ai ricorsi per dichiarazione di fallimento depositati prima del 16/7/06 e definiti in epoca successiva …  l’unica interpretazione della norma transitoria compatibile con il tenore letterale della stessa (cui nulla aggiunge la relazione di accompagnamento del decreto legislativo, la quale si limita a rappresentare che la disciplina transitoria è finalizzata ad ) è quella secondo cui i ricorsi devono essere decisi facendo applicazione della disciplina processuale e sostanziale previgente, mentre i fallimenti eventualmente dichiarati in accoglimento di tali ricorsi dovranno essere disciplinati dalla nuova normativa; considerato che, pertanto, nei casi suddetti (tra i quali il presente) la dichiarazione di fallimento -in quanto atto che decide il ricorso- potrà essere pronunciata, all’esito del procedimento prefallimentare svoltosi conformemente alle prescrizioni del previgente art. 15 l.f., se ricorrono i presupposti previsti dagli artt. 1 e 5 della l.f. previgente, ma la relativa sentenza -in quanto atto di apertura della procedura di fallimento- dovrà contenere le indicazioni prescritte dall’attuale art. 16 l.f. e sarà soggetta al regime pubblicitario previsto dall’attuale art. 17 l.f.;”rilevato che a questa prima interpretazione si contrappone quella  secondo la quale “la procedura fallimentare va intesa come un unicum che inizia con l’istanza di fallimento” (cfr ad esempio Tribunale di Ravenna 2679/34 RG depositata il 24 luglio 2006; in giurisprudenza cfr anche  Trib. Terni 29.09.06, inedita, ove si è affermato che il definire con il vecchio rito le procedure instaurate prima del 16 luglio 2006 eviterebbe di “far dipendere l’applicazione dell’una o dell’altra disciplina dai tempi del giudizio (si pensi a riserve assunte prima del 16.7.06 e sciolte dopo) ovvero dall’esito della “definizione” (nel senso che solo il decreto di rigetto sarebbe da assoggettare in via esclusiva alla vecchia disciplina, mentre la sentenza di fallimento verrebbe scissa nella parte più strettamente “decisoria”, di chiusura del procedimento prefallimentare, che resterebbe disciplinata dalle vecchie norme -si pensi, appunto, ai presupposti della fallibilità- e nella parte “organizzatoria”, di apertura della procedura fallimentare -che verrebbe assoggettata invece alle nuove),” e, in ultima analisi eliminerebbe “quei profili di confusione ed incertezza (p.es. quanto ad effetti e regime di impugnazione della sentenza, modalità e termini di decadenza per l’insinuazione, poteri degli organi, ecc.) che -come si è visto nella relazione governativa- la menzionata disciplina transitoria voleva evitare (non può sfuggire la maggiore semplicità delle disposizioni transitorie in discussione rispetto a quelle, assai più articolate e dettagliate, dettate all’epoca dal r.d. 267/1942: v. art. 242 e ss., che prevedevano espressamente un complesso intersecarsi di effetti e forme tra vecchie e nuove previsioni normative, dettando al riguardo, però, regole ben precise);”rilevato come tale ultima soluzione potrebbe essere ritenuta condivisibile  in assenza di una chiara disposizione legislativa (il citato art. 150 D. Lgs. 5/06) che come tale vincola il Giudice impedendogli ogni  forma di interpretazione;ritenuto che nel caso di specie dovendosi esaminare la posizione del debitore con riferimento a ricorsi presentati prima dell’entranta in vigore della D. Lgs. n. 5/06  e dopo l’entrata in vigore di tale nuova disciplina, appare opportuno applicare – anche alla luce delle considerazioni sopra espresse – l’intera disciplina, sia con riferimento ai presupposti di fallibilità che con riferimento all’importo minimo dei debiti;dato atto che l’importo dei debiti è sicuramente superiore ad euro 25.000,00;Ritenuto che il numero e l’entità dei crediti fatti valere atteso il loro rilevante importo complessivo, inducono a ritenere certo la sussistenza dello stato di insolvenza;rilevato che il  nuovo art. 1, comma 2, legge fall. prevede, ai fini dell’assoggettamento a fallimento, che “non sono piccoli imprenditori gli esercenti un’attività commerciale in forma individuale o collettiva che, anche alternativamente: a) hanno effettuato investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore a euro trecentomila; b) hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività, se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a euro duecentomila”.Rilevato che in tal modo è venuta meno la presunzione di “non piccolezza” delle società commerciali, la posizione di particolare favore riservata alle società artigiane e la dicotomia esistente fra impresa individuale e collettiva. Peraltro, il generico riferimento agli “esercenti un attività commerciale in forma…collettiva” comporta l’assoggettamento al medesimo regime anche delle imprese collettive non societarie, formula con la quale si è soliti indicare ogni ipotesi di impresa collettiva non organizzata in forma di società (come associazioni, fondazioni e consorzi fra imprenditori con attività esterna).  Rilevato che con la nuova formulazione il legislatore  ha fornito  una definizione in negativo del piccolo imprenditore[1], sostituendo al criterio qualitativo della “prevalenza del lavoro proprio e dei componenti della famiglia” i due criteri quantitativi degli “investimenti effettuati” e dei “ricavi lordi”: come è espressamente precisato dalla norma,  si tratta di criteri alternativi, nel senso che è sufficiente che ricorra anche uno solo dei due requisiti dimensionali perché il debitore venga qualificato imprenditore commerciale non piccolo; peraltro, i due criteri sono tra loro complementari, nel senso che ove non risulti applicabile l’uno, potrà farsi riferimento all’altro: in particolare, secondo la relazione illustrativa, mentre il primo si adatta maggiormente alla fase iniziale dell’attività d’impresa, quando non sono stati realizzati ancora ricavi di rilievo, il secondo si attaglia meglio ad un’attività d’impresa dove gli investimenti risalgano ad un tempo più lontano.Ritenuto che, alla luce di quanto sopra, occorre verificare la sussistenza del   presupposto  degli investimenti effettuati ed il criterio alla luce del quale giungere alla sua determinazione.Rilevato che il  criterio degli “investimenti effettuati”   richiama quello delle novecentomila lire di capitale investito, per cui in prima battuta può essere utile citare la giurisprudenza formatasi durante la vigenza dell’originario art. 1 cpv della legge fall., ove si riteneva che per capitale investito dovesse intendersi “ogni investimento, anche se frutto del c.d. autofinanziamento, effettuato dall’imprenditore per l’acquisto di macchinari e di merci, per l’allestimento di negozi ed impianti, ed in definitiva la quantità di ricchezza immessa nell’attività commerciale”[2], sicché venivano ricompresi tutti i beni collegati all’impresa da uno stabile vincolo di destinazione, sia quelli già di proprietà dell’imprenditore (computandosi l’utilitas che l’imprenditore avrebbe potuto ricavarne con una diversa destinazione[3]), sia quelli acquistati con denaro proprio o di terzi (essendo irrilevante la fonte di finanziamento utilizzata per acquisire gli assets), tanto le attività immobilizzate, quanto quelle circolanti, compresi i beni acquistati con patto di riservato dominio. Sebbene il legislatore (dichiarando fallibili coloro che “hanno effettuato investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore a euro trecentomila”) abbia usato un’espressione in parte diversa da quella previgente (che faceva riferimento a “gli imprenditori esercenti un’attività commerciale nella cui azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore a lire novecentomila”), la dottrina è  orientata a ritenere che nell’uno e nell’altro caso si sia fatto riferimento al “capitale investito”, inteso, sulla scorta delle interpretazioni della letteratura aziendalistica, come totale dell’attivo dello stato patrimoniale, comprendente tutte le voci di cui all’art. 2324 c.c. (o almeno quelle da inserire nel bilancio in forma abbreviata di cui all’art. 2435 bis c.c.), ovvero le immobilizzazioni (immateriali, materiali e finanziarie), l’attivo circolante (rimanenze, crediti, attività finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni, disponibilità liquide), i ratei e risconti nonché, nelle società, i crediti verso i soci per versamenti ancora dovuti.In tale prospettiva – come osservato in dottrina -  il volume d’affari non sarà – sotto questo limitato aspetto -  rilevante, perché non integra il concetto di capitale; non potranno neppure  calcolarsi i debiti, perché anch’essi non integrano il concetto di  capitale:  le somme oggetto di mutuo andranno conteggiate solo se siano state investite nell’attività di impresa.In tale prospettiva interpretaiva  non dovranno computarsi le spese che non si concretano in un investimento, come quelle per il personale o  per i  servizi; analogamente; inoltre   non dovranno  valutarsi le spese sostenute per il godimento di beni di terzi, salvo che non siano stati acquisiti medianti contratti sostanzialmente traslativi, come la vendita con patto di riservato dominio o il leasing traslativo.Pertanto, quando – come nel caso di specie -  gli investimenti siano al di sotto della soglia legislativa, è da escludersi il fallimento, anche quando i debiti siano di importo notevole, avendo il legislatore del 2006 (diversamente da quanto avveniva nella previgente disciplina) subordinato l’apertura di una procedura complessa e costosa come quella fallimentare alla presenza di beni da liquidare.La dottrina ha esaminato anche il problema  dell’individuazione dei  criteri di valutazione da utilizzare in concreto, se cioè la valutazione debba effettuarsi secondo criteri di funzionamento (seguiti nella predisposizione del bilancio ai sensi dell’art. 2423 bis n. 1 c.c.) ovvero secondo criteri di liquidazione: in generale, infatti, l’adozione di criteri di liquidazione comporta una svalutazione del capitale investito, anche se nel caso d’immobili iscritti in bilancio al costo storico, è possibile che il valore di mercato sia di gran lunga superiore.Alla luce del silenzio legislativo, ritiene il Tribunale  che  il riferimento ai dati di bilancio  sia da preferire, in maggiormente rappresentativo  della situazione aziendale; a tale conclusione si giunge poiché – come evidenziato in dottrina -  quando vi sia incertezza sulla sussistenza o meno dei limiti dimensionali fissati dalla legge, è doveroso porsi il problema dell’adeguatezza del criterio prudenziale seguito nella redazione del bilancio e procedere alle eventuali operazioni di assestamento necessarie per adeguare tali valori ai prezzi di mercato, ad esempio tenendo conto della rivalutazione subita da taluni immobili o computando talune immobilizzazioni al lordo dei fondi di ammortamento.***L’art. 1 della L.F. non specifica quale sia l’ambito temporale da prendere in considerazione per il calcolo del capitale investito secondo i criteri sopra individuati: al riguardo sia in giurisprudenza che in dottrina, è stato osservato che non appare opportuno riferirsi al momento iniziale dell’impresa, che potrebbe essere così lontano da non avere alcun rilievo logico, quando magari dopo anni -  l’insolvenza ha cominciato a manifestarsi; da parte di altri autori si è rilevato che il dato letterale  costituito dall’uso dell’espressione “hanno effettuato investimenti nell’azienda”, indurrebbe a fare riferimento al capitale che complessivamente, a partire dall’origine, è stato investito nell’azienda e quindi a considerare il totale  investimenti effettuati nel corso degli anni; l’adozione di tale criterio porterebbe con sè la conseguenza  aberrante di ritenere che anche un imprenditore che abbia effettuato investimenti di volta in volta modesti, ma reiterati, si troverebbe a varcare la soglia della piccola impresa; da parte di altri ancora  si è affermato che deve essere ritenuto imprenditore “non piccolo” soltanto chi abbia fatto investimenti tali da portare il capitale della sua impresa in un determinato momento storico (non risalente) a superare la soglia dei trecentomila euro e che, viceversa, deve escludersi la fallibilità quando, indipendentemente dall’ammontare complessivo degli investimenti, il valore del capitale non abbia mai raggiunto tale “picco massimo”; in altra prospettiva interpretiva si ritiene di considerare gli investimenti presenti al momento della dichiarazione di fallimento e quelli eventualmente dismessi nel periodo sospetto.Ipur nella consapevolezza di  soluzioni opinabili  - ed in presenza di un dato normativo  di difficile intepretazione, il Tribunale ritiene di aderire all’orientamento giurisprudenziale[4]  che, dopo aver osservato che  triennale è l’aggiornamento dei valori soglia e che il novellato art. 14, nel disporre gli obblighi dell’imprenditore che chiede il proprio fallimento, prescrive che vengano depositate le scritture contabili e fiscali concernenti i tre esercizi precedenti,  afferma che  appare “non arbitrario fare riferimento anche ai fini della determinazione del capitale investito alla media nel triennio precedente l’istanza di fallimento”.Appare, pertanto, preferibile l’interpretazione di tipo teleologico e funzionale  che porta a ritenere non fallibile l’imprenditore che   abbia   investito nell’azienda  (negli ultimi tre anni) un capitale (medio) inferiore alla soglia prevista dalla legge, anche quando in passato abbia effettuato investimenti ingenti e la sua esposizione debitoria permanga gravissima.***Con riferimento al secondo criterio  alternativo dimensionale costituito dal volume di affari, si è già sopra osservato che  la norma esclude dal fallimento coloro che “hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a euro duecentomila”.La dottrina è generalmente orientata a ritenere che i “ricavi realizzati” siano quelli di cui alle voci A1 e A5 del conto economico e, quindi, non soltanto i ricavi acquisiti mediante trasferimento del prodotto o servizio finale a terzi, ma anche qualsiasi altra componente positiva, sempre che siano stati generati dall’attività d’impresa.Come opportunamente osservato in dottrina, con riferimento al caso  di imprese in contabilità semplificata, che tengano soltanto i registri contabili agli effetti dell’IVA, si renderà necessario  prescindere dal bilancio civilistico per riferirsi alla dichiarazione dei redditi e alla nozione di ricavi di cui all’art. 85 t.u.i.r..La dottrina ha evidenziato che i ricavi dovranno  essere “lordi”, e ciò secondo i primi commntatori,  che non può significare che i ricavi non debbano essere assunti al netto di resi, sconti, abbuoni, premi e imposte direttamente connesse con la vendita di prodotti e servizi, come è invece prescritto dall’art. 2425 bis c.c., ma,  piuttosto, nel senso che non devono essere detratti gli altri costi di diretta imputazione (spese di trasporto, assicurazioni, provvigioni), che potrebbero astrattamente essere dedotti o compensati (saldo tra interessi o  canoni di segno opposto).****Anche con riferimento al criterio dei “ricavi” si pone il problema dell’individuazione del periodo da analizzare.In particolare ci si è domandati: a) se il computo del triennio per la determinazione della media dei ricavi di cui all’art. 1 lettera a) l.f. deve svolgersi con riferimento all’ultimo triennio (più correttamente, agli ultimi tre esercizi precedenti la data dell’istanza di fallimento); b)  se nel caso di società in liquidazione   debba essere preso in considerazione l’ultimo triennio antecedente alla messa in liquidazione, c)  se nel caso di società che sia stata per un periodo  di fatto inattiva ma non in liquidazione (come nel caso di specie), debba essere analizzato l’ultimo triennio nel quale abbia svolto attività in modo effettivo.Al fine di risolvere tale ulteriore quesito, il Tribunale  ritiene opportuno richiamare  quanto già osservato con riferimento all’individuazione del creterio del “capitale investito”.Pertanto si ritiene che la verifica del superamento della soglia dei ricavi lordi  debba essere compiuta con riferimento agli ultimi tre esercizi antecedenti il deposito dell’istanza di fallimento. A tale conclusione si giunge in considerazione del tenore letterale dell’art. 1 l.f., ove si fa riferimento agli “ultimi tre anni”: come appare evidente,  la norma citata,  richiama  il periodo immediatamente precedente il deposito dell’istanza di fallimento,  e – quindi -   nulla autorizza, sul piano formale, a segmentare l’attività della società in fase di attività, fase di inattività e fase di liquidazione e, quindi, ad individuare  solo nella conclusione del  primo o del secondo periodo il dies a quo dal quale calcolare a ritroso il triennio ed i ricavi medi in esso conseguiti.Aderendo ad una diversa tesi, si finirebbe col dichiarare il fallimento di realtà economiche marginali, se non addirittura – sul piano economico – inesistenti così contraddicendo palesemente la volontà del legislatore  della riforma del 2006. il quale ha accentuato, rispetto al passato l’aspetto liquidatorio della procedura fallimentare.Pertanto – come osservato in giurisprudenza - risulterebbe non congrua e non razionale una interpretazione della norma in forza della quale si ritenga  che con essa si sia voluto, da un lato   consentire l’esonero dal fallimento dell’impresa ancora  attiva che nell’ultimo triennio abbia avuto ricavi per una media, ad esempio, di centottantamila euro, ma dall’altro sottoporre alla procedura concorsuale altra impresa che - come nella specie – negli anni  antecedenti all’istanza di fallimento sia stata del tutto assente dal mercato  (e dunque la cui scomparsa sarebbe incapace di generare  allarme sociale o preoccupazione nel mercato medesimo o, comunque, susciterebbe un livello di apprensione certo inferiore a quella dell’insolvenza dell’impresa ancora in attività), solo perché in  passato, prima di cessare di fatto l’attività o di entrare in liquidazione,   abbia avuto un fatturato superiore alla soglia di legge.[5]Merita inoltre di essere evidenziato, ad ulteriore conforto della tesi cui si ritiene di aderire, che l’art. 14 l.f. in tema di obblighi dell’imprenditore che chiede il proprio fallimento prevede che l’imprenditore deve “depositare..le scritture contabili e fiscali obbligatorie concernenti i tre esercizi  precedenti, ovvero l’intera esistenza dell’azienda, se questa ha avuto una minore durata”; non pare dubbio che “i tre esercizi precedenti” non possano che essere quelli che precedono il deposito dell’istanza di fallimento, e dunque che non sia necessario per alcuna ragione risalire ad un periodo antecedente; pertanto, anche i ricavi lordi – così come già osservato con riferimento all’individuazione del  criterio del “capitale investito” - dovranno essere “calcolati sulla media degli ultimi tre anni”, da intendersi come  gli ultimi tre esercizi immediatamente antecedenti alla dichiarazione di fallimento. Naturalmente,  se l’impresa ha avuto minore durata, si renderà necessario calcolare tutti i ricavi realizzati dall’inizio dell’attività e, all’esito, rapportare proporzionalmente i ricavi realizzati in un periodo inferiore a 12 mesi a quelli che sarebbero stati realizzati se il periodo fosse stato di 12 mesi.Deve, pertanto ritenersi che anche per le imprese che abbiano cessato l’attività o siano in liquidazione da   tempo – come appare sia avvenuto con riferimento caso concreto - i tre anni vadano computati a ritroso dalla data dell’istanza di fallimento e non dal precedente momento di cessazione (anche di fatto) dell’attività imprenditoriale.Tale soluzione appare assolutamente da preferire; è ben vero che a tale criterio si è obiettato che    in tal modo lo stesso diverrà il più delle volte inutilizzabile quando l’impresa sia inattiva o in liquidazione al momento dell’istanza di fallimento, tuttavia, la lettera della legge non autorizza a segmentare l’attività della società in fase di attività e fase d’inattività o liquidazione ed individuare solo nella conclusione del  primo periodo il dies a quo dal quale calcolare a ritroso il triennio ed i ricavi medi in esso conseguiti.A ciò si aggunga che, aderendo alla diversa tesi, si finirebbe col dichiarare il fallimento di realtà economiche marginali, in cui il più delle volte non vi sono aziende riconvertibili nell’interesse dei creditori; infine, appare ad avviso del Tribunale – così come già osservato in altre pronunce sul punto -  non razionale un’interpretazione della norma che  consenta l’esonero dal fallimento dell’impresa ancora  attiva nell’ultimo triennio ma con ricavi mediamente inferiori, sia pure di poco, alla soglia dei duecentomila euro e, dall’altro, assoggetti a fallimento altra impresa che negli anni immediatamente antecedenti all’istanza di fallimento sia stata del tutto assente dal mercato.[6]In altre parole, se il legislatore ha ritenuto di escludere dal fallimento imprese in attività il cui stato di crisi,  che per le dimensioni che verrebbe ad assumere,  potrebbe ripercuotersi  solo in un ambito ristretto di soggetti e con modalità tali da non suscitare un allarme sociale rilevante,  a maggior ragione dovrebbe aver voluto esentare dal fallimento imprese il cui dissesto non è più in grado di generare alcun tipo di allarme per avere, dette imprese, da anni di fatto cessato l’attività spogliandosi dei propri beni.Si è inoltre osservato in giurisprudenza[7] come una diversa interpretazione   non sarebbe coerente con l’impianto dell’art. 1 l.f. perchè determinerebbe criteri identificativi delle imprese fallibili illogicamente  disomogenei: da un lato, difatti, vi sarebbe un criterio calibrato sulla  soglia di fatturato da calcolarsi sui dati ritraibili dagli ultimi tre esercizi sociali antecedenti l’istanza di fallimento; dall’altro una soglia di capitale rispetto alla quale l’entità dell’attivo patrimoniale  nel periodo prossimo al deposito della domanda di fallimento potrebbe essere,  al contrario, del tutto irrilevante, rivestendo invece rilievo decisivo quanto accaduto in un passato anche assai remoto quando l’impresa era munita, ad esempio,  di una sede in proprietà o di macchinari nel tempo dismessi. Pertanto, con riferimento all’ambito temporale cui fare riferimento relativamente al volume di affari conseguito,  ritiene il Collegio  corretto individuare  gli ultimi esercizio  antecendenti la data di presentazione del ricorso.Il criterio dell’ultimo  triennio di vita dell’impresa, inoltre, sembra  dunque rivestire una portata generale sia intema di capitale investito che di ricavi ottenuti,  anche alla luce del più volte citato art. 14 l.f., in tema di fallimento in proprio, che impone il deposito di bilanci e documenti fiscali con riferimento proprio ai tre anni precedenti l’istanza di fallimento.***Il caso specifico consente al Tribunale di prendere posizione  - seppure in via incidentale - anche con riferimento al problema dell’onere l’onere della prova in ordine alla sussistenza o meno dei requisiti dimensionali fissati dalla legge di riforma.Nel caso di specie  osserva il Tribunale e con comunicazione depositata in cancelleria in data 13 dicembre 2006 i soci della società debitrice hanno affermato di non essere in possesso delle scritture contabili, attualmente depositate presso il ragioniere Cardini (confronta dichiarazione in atti);  nessuna indicazione in ordine al capitale investito ed al volume di affari è stata fornita da parte dei ricorrenti; da parte del Giudice delegato si è pertanto proceduto ad acquisire informazioni presso la sezione di Polizia giudiziaria, ed è emerso che la società debitrice presentava un volume di affari pari ad € 121.000 dell’anno 2002 e di € 117.000 per l’anno 2003; dalle informazioni acquisite risulta altresì che la società risulta al momento inin unattiva; dalle medesime informazioni risulta che il capitale impiegato nello svolgimento dell’attività sociale ammonta circa € 50.000 con un valore residuo di circa € 5.000 per arredamenti; risulta altresì che nell’attività sociale non venivano utilizzati dipendenti.Alla luce di tali dati emerge con evidenza che il riferimento normativo al “capitale investito” non è di facile individuazione, anche in considerazione del numero elevato di imprese che fanno ricorso alla c.d. contabilità semplificata, che non consente di accertare con esattezza l’ammontare degli investimenti effettuati. La legge di riforma riconosce ampi poteri istruttori all’Autorità Giudiziaria, prevedendo, da un lato, che, appena ricevuta l’istanza di fallimento, “in ogni caso, il tribunale dispone, con gli accertamenti necessari, che l’imprenditore depositi una situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata” (art. 15, comma 4) e, dall’altro, che nel corso del procedimento il giudice può, nel rispetto del contraddittorio, disporre d’ufficio, anche in appello, i mezzi di prova necessari ai fini della decisione (artt. 15 e 18).Va tuttavia evidenziato che  l’inquisitorietà del rito non fornisce alcuna garanzia che si faccia effettivamente chiarezza sui presupposti soggettivi del fallimento ed anzi il rischio che non si accerti né il capitale investito né i ricavi lordi dell’ultimo triennio è assai concreto tutte le volte – come nel caso di specie (cfr. dichiarazione dei soci della società debitrice citata in esordio) in cui il debitore non collabori,  mettendo a disposizione le sue scritture contabili.In tale contesto il problema dell’onere della prova si pone in modo assai più rilevante di quanto avvenisse nel regime previgente, nel quale il giudizio sulla prevalenza del lavoro proprio e dei componenti della famiglia poteva essere agevolmente espresso anche sulla base dei pochi dati emergenti dall’istruttoria prefallimentare.Diventa perciò rilevante stabilire se il raggiungimento dei limiti dimensionali previsti dalla legge di riforma costituisca un presupposto della dichiarazione di fallimento che è interesse del creditore dimostrare ovvero se il mancato raggiungimento di tali limiti integri un fatto impeditivo alla pronuncia di fallimento, che è interesse del debitore provare.Come è noto, nel regime previgente i giudici di legittimità non avevano sul punto un orientamento uniforme: così, ad es., mentre Cass. 3 febbraio 1990, n. 740[8] affermava che “non esiste la presunzione che l’imprenditore soggetto passivo della istanza di fallimento sia imprenditore commerciale non piccolo”,  Cass. 4 aprile 2003, n. 5249[9] sosteneva che “in sede di ricorso di fallimento, dedotta la natura commerciale dell’impresa, spetta a chi intende avvalersene dimostrare il carattere artigianale dell’attività esercitata”.Anche su tale punto le posizoni in dottrina sono varie:  da parte di alcuni si è sostenuto, sia pure in forma dubitativa, che “la piccolezza” dell’imprenditore costituisce una condizione esonerativa, per cui spetta al debitore provarla[10]; dall’altro, si è affermato che spetta a chi invoca l’applicazione della procedura concorsuale l’onere di dimostrare la sussistenza di tutti i presupposti oggettivi e soggettivi del fallimento, ivi compreso il carattere non piccolo dell’impresa esercitata.La lettera della legge non autorizza alcuna conclusione sicura: in particolare, la circostanza che si sia passati da una definizione positiva del piccolo imprenditore ad una definizione in negativo non costituisce argomento sufficiente a far ritenere che l’imprenditore nei cui confronti sia stata proposta l’istanza di fallimento si presume piccolo e che spetti conseguentemente all’istante fornire la prova contraria dell’avvenuto superamento dei valori-soglia. In tal senso deve essere letta la recente circolare del Tribunale di Milano[11] che impone – con riferimento alle società di capitali[12] - al creditore di produrre, allegandoli al ricorso, i bilanci  del debitore di cui chiede il fallimento.Viceversa, i principi di riferibilità e vicinanza della prova ed il principio generale di cui all’art. 2697 c.c.  – ormai comunemente recepiti dalla giurisprudenza, anche di legittimità[13] – sembrerebbero   a favore della tesi che pone a carico del debitore l’onere di dimostrare il possesso di requisiti dimensionali inferiori a quelli richiesti per il fallimento: infatti, il creditore istante, non avendo accesso alle scritture contabili del debitore, si trova nella materiale impossibilità di provare sia il requisito del capitale investito che quello dei ricavi lordi.In dottrina si è tuttavia sottolineato come  ponendo tale onere a carico del debitore  vi è il rischio di dichiarare falliti tutti coloro che – e sono tanti – per le più svariate ragioni rinunciano a difendersi e a comparire all’udienza di ascolto.Alla luce di tali rilievi, in  dottrina si è  sottolineato che  le nuove soglie di fallibilità stabilite dalla legge di riforma sono tali che ben difficilmente un imprenditore non piccolo in base a tale legge potrà essere ricompreso nell’area previsionale di cui all’art. 2083 c.c., che in verità tratteggia una figura d’imprenditore alquanto anacronistica; è invece assai più probabile l’ipotesi contraria e cioè che un imprenditore, pur non raggiungendo le soglie quantitative indicate dalla legge fallimentare, sia comunque non piccolo in base al codice civile, essendo l’organizzazione aziendale fondata sul capitale e il lavoro altrui, piuttosto che sul lavoro personale dell’imprenditore e dei suoi familiari.Da parte di alcuni si è auspicato il ritorno ai principi che governavano l’applicazione dell’art. 2083 c.c. ancorché in una prospettiva rovesciata rispetto al passato: non già per affrancare dal fallimento gli imprenditori che, pur avendo investito nell’azienda un capitale superiore a novecentomila lire, avessero le caratteristiche dimensionali previste dalla norma codicistica, ma per assoggettare alla procedura concorsuale quei soggetti che, pur al di sotto dei parametri, gestiscano una vera e propria organizzazione industriale.Va peraltro ricordato come in giurisprudenza si  sia affermato  che “il principio dettato dalla norma che apparentemente pone la fallibilità quale regola e l'esenzione dal fallimento quale eccezione, non esprime, tuttavia, lo stesso rapporto che l'articolo 2697 del codice civile instaura tra i fatti che devono essere provati da chi agisce in giudizio e quelli che devono essere provati da chi resiste all'azione giudiziale di controparte.Non si e' infatti in presenza di un giudizio contenzioso ordinario instaurato tra  parti private, ma di un procedimento che, se pur oggi necessita di una iniziativa di parte (che significativamente, a sottolineare la specialità del procedimento, può anche essere pubblica), non ha, perciò solo, perso le sue peculiari connotazioni pubblicistiche”.[14]In tale prospettiva si è giunti ad affermare che “l'attuale disciplina del procedimento volto all’'accertamento dei requisiti per la dichiarazione di fallimento di un soggetto, non appare dunque  aver mutuato in toto le regole del processo contenzioso ordinario ed in particolare quella, fondamentale, di cui all'articolo 2697 del codice civile, e ciò, anche perché, l'articolo 15 attribuisce al tribunale poteri istruttori e quindi sicuramente la possibilità di acquisire d'ufficio documentazione relativa alle caratteristiche dimensionali dell'impresa”.Ad avviso del Tribunale –prendendo atto della differenti opinioni sopra sinteticamente riportate - non può ritenersi, in via generale, che l'onere della prova in ordine ai requisiti di fallibilità incomba sul creditore istante, potendo tali requisiti essere accertati, nella normalità dei casi, anche attraverso le acquisizioni documentali disposte d'ufficio dal tribunale; non appare peraltro  neppure sostenibile che vi sia a carico del fallendo un preciso onere probatorio relativamente alla qualità di piccolo imprenditore, quale causa impeditiva dell'accoglimento della domanda proposta dal creditore istante.Ed invero, tale prospettazione finirebbe – paradossalmente - per attribuire carattere confessorio alla mancata comparizione del debitore o comunque per gravare quest'ultimo di un onere di contestazione, in contrasto con quanto ad esempio previsto dall'articolo 15 ultimo comma, secondo il quale, il tribunale deve respingere la domanda di fallimento se l'ammontare dei debiti risultanti dagli atti sia inferiore ad € 25.000, e ciò dunque anche nell'ipotesi in cui il debitore non compaia e non fornisca alcuna situazione patrimoniale che consenta di individuare la complessiva esposizione dell'impresa.Ritiene – dunque – il Tribunale – che l'articolo 1 della nuova legge fallimentare  sembra aver previsto, assieme al più specifico limite   di cui all'articolo 15 ultimo comma, un piu' generale limite alla fallibilità qualora non si accerti (in qualunche modo) che il fallendo sia imprenditore commerciale non piccolo ai sensi dell'articolo 1 secondo comma.Tale interpretazone   della disciplina normativa è, del resto l'unica in grado di salvaguardare la ratio della nuova legge fallimentare che è quella di riservare la procedura fallimentare, per i costi economici e sociali che essa comporta, agli "inadempimenti" imprenditoriali di maggiore rilevanza.Diversamente ragionando e, quindi,  ricostruire le regole di acquisizione della prova in termini strettamente processual-civilistici  significa da un lato  escludere la fallibilità del debitore qualora il creditore non provi il superamento dei limiti dimensionali,  rendendo irrilevanti, le acquisizioni d'ufficio di tale elemento,  ed in definitiva, gravando, pertanto, il debitore di un onere di contestazione della circostanza, che renderebbe inevitabilmente fallibili imprese di dimensioni assai modeste, i cui titolari abbiano avuto il solo torto di non comparire in sede di istruttoria fallimentare.Appare dunque condivisibile l’opione secondo cui, sotto  tale profilo,   l'istruttoria prefallimentare  è un’ istruttoria che, pur nello sforzo apprezzabile di tipizzazione operato dal legislatore in chiave di rispetto del principio del contraddittorio, presenta comunque profili del tutto peculiari, ed il principale di questi è proprio la necessità di acquisire, comunque, al di fuori della rigida ripartizione dell'onere probatorio di cui all'articolo 2697 del codice civile, la prova che il soggetto nei cui confronti è presentata istanza di fallimento, sia un soggetto che il legislatore ritiene “fallibile” e che dunque superi i limiti dimensionali previsti dalla normativa.Tale prova potrà essere acquisita – indifferentemente - per il tramite delle allegazioni del creditore istante, per il tramite delle acquisizioni documentali disposte d'ufficio dal Tribunale o per il tramite delle dichiarazioni o dei riscontri documentali riconducibili al debitore.Diversamente opinando, non si giustificherebbe l'attribuzione al Tribunale di significativi poteri istruttori, che non può non presupporre la volontà da parte del legislatore di vincolare la dichiarazione di fallimento  al positivo riscontro della effettiva ricorrenza dei presupposti dimensionali, e non piuttosto ad una regola legale, quale quella che discende dalla rigida applicazione del principio di ripartizione dell'onere della prova.[15]

Utilizzando i criteri  sopra esplicitati al caso concreto,  ritiene il Collegio che sia l’analisi dei ricavi lordi che quella del capitale investito  debba essere svolta, al fine di stabilire se una impresa sia o meno assoggettabile al fallimento, avuto riguardo ai risultati degli ultimi tre esercizi antecedenti; le informazioni assunte d’ufficio  mediante la Sezione di Polizia Giudiziaria della locale Procura della Repubblica consentono di ritenere  non provato che la società debitrice avesse un capitale investito ed un volume di affari tali da integrare i presupposti di fallibilità di cui all’art. 1 della legge fallimentatre  con conseguente rifetto delle proposte istanze di fallimento.


P . Q . M .

rigetta il ricorso  n. 83/06 e quelli ad esso riunti., autorizzando il ritiro dei titoli e dei documenti prodotti dai ricorrenti.Manda alla cancelleria per la comunicazione al ricorrente.

Piacenza, 22 gennaio 2007
                        
Il Presidente
: Dott. Domenico A. Tucci      
Il Giudice relatore estensore:
Dott. G. Bersani  



[1] Cfr. Tribunale di Torino,  27 dicembre 2006, Pres. Ed est. Griffey.

 

[2] Cass. 12 luglio 1983, n. 4733, in Fallimento, 1984, 271.

[3] Cfr. Cass. 1 dicembre 1978, n. 5683, in Foro it., Rep. 1978, voce Fallimento, n. 117.

[4] Trib. Roma, pronunciando sul ricorso n. 2543/06 proposto dalla soc. Flaminia Appalti.

[5] Cfr. Trib. Roma cit.

[6] Così Trib. Roma, cit..

[7] Cfr. Tribunale di Roma cit.

[8] In Fallimento, 1990, 687.

[9] In Fallimento, 2004, 505, con nota adesiva di DE MATTEIS, Natura artigianale dell’impresa e onere della prova.

[10] In tal senso appare orientato con ampia argomentazione Tribunale di Torino, 27 dicembre 2006 cit., ove si conclude, affermando   l’assenza della qualità di piccolo imprenditore integra una elemento eccezionale, da “dimostrare a cura della parte interessata” (cfr. pag. 7 sent. Cit.).

 

[11] Cfr. circolare  Tribunale di Milano,  sezione II civile, del 21. dicembre 2006.

 

[12] Cfr. pag. 11 circolare cit.

 

[13] V. Cass., Sez. Unite, 30 ottobre 2001, n. 13533, in Foro it., 2002, I, 769.

[14] Cfr. Tribunale di Varese, 15.12.2006

[15] Cfr. Tribunale di Varese, cit.