ilcaso.it
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 62 - pubb. 01/07/2007.

Operazioni su derivati, conoscenza del mercato e obbligo di informazione


Tribunale di Mantova, 03 Febbraio 2005. Est. Bernardi.

Intermediazione finanziaria – Violazione degli obblighi di informazione – Onere di allegazione – Contratto di investimento – Obbligo di risultato – Insussistenza.

Esperienza in mercati finanziari – Frequenza e natura speculativa delle operazioni – Sussistenza.

Intermediazione finanziaria – Operazioni in conflitto di interessi – Contropartita diretta – Mera esecuzione dell’ordine di negoziazione.


La norma di cui all’art. 23 t.u.l.f. non esonera l’investitore dall’onere di allegare il comportamento dell’intermediario posto in essere in violazione degli obblighi ad esso facenti capo, non potendosi desumere l’inosservanza delle regole di condotta semplicemente in presenza della diminuzione del valore dei titoli atteso che con il “contratto di investimento” l’intermediario non si impegna a garantire un determinato risultato finanziario.

Le documentate speculazioni sui corsi dei B.T.P. decennali e trentennali nonché sui derivati quali il “Fib 30”, la loro frequenza anche infragiornaliera e la diversa tipologia degli ordini di borsa impartiti costituiscono concordanti elementi dai quali è possibile desumere la profonda conoscenza da parte dell’investitore delle regole del mercato borsistico e siffatto elemento unitamente alla estrema diversificazione degli investimenti (titoli di stato, derivati, titoli azionari di diversi comparti, specialmente di quello bancario, assicurativo e industriale), all’ammontare del patrimonio mobiliare e immobiliare posseduto, agli affidamenti goduti, alle numerosissime operazioni per quantitativi spesso minimi, inducono a ritenere che la banca non abbia violato il precetto di cui all’art. 29 reg. Consob n. 11522/98.

Non costituisce operazione in conflitto di interessi la cessione (non sollecitata dall'intermediario autorizzato) a risparmiatori di titoli azionari di società di cui la banca detenga indirettamente delle partecipazioni ove essa non abbia operato in contropartita diretta ma si sia limitata ad acquistare le azioni in conformità degli ordini ricevuti dal cliente per conto dello stesso, non avendo perseguito un interesse proprio ed ulteriore in conflitto con quello di quest’ultimo. (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)

 

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato in data 4-2-2002 l’attore, coniugato con E. C. e padre di A. B., assumendo di avere 70 anni, di essere coltivatore diretto in pensione e di avere conseguito il diploma di licenza media inferiore affermava, nell’ambito del procedimento rubricato al n. 416/02, 1) di avere operato da lunghissimo tempo con la Banca Agricola Mantovana - agenzia di S. presso la quale aveva depositato i risparmi della famiglia investiti e reinvestiti in B.T.P.; 2) che il 23 novembre 1994, al fine di rendere più agevoli le operazioni di investimento in precedenza effettuate utilizzando libretti di risparmio, aveva aperto il conto di corrispondenza n. 43001/6 il cui modulo contrattuale specificava che il correntista agiva come consumatore; 3) che, successivamente all’apertura del conto, la banca avrebbe iniziato a diversificare gli investimenti effettuando oltre ad acquisti di B.T.P. ed operazioni in pronti contro termine anche investimenti azionari che vennero ad assumere una consistenza sempre maggiore; 4) che, originandosi per effetto delle operazioni di compravendita dei titoli notevoli scoperti di conto, era stata concessa all’esponente una apertura di credito di £ 3.000.000.000 poi ampliata a £ 4.500.000.000 il 31-12-1998; 5) che, alla fine di febbraio del 2000, egli possedeva titoli (prevalentemente B.T.P.) per £ 5.581.000.000 mentre il conto corrente presentava il saldo di £ 18.800.525; 6) che fra i titoli azionari acquistati dalla banca vi erano, oltre a derivati, quantitativi sempre più consistenti di azioni del gruppo Telecom (e cioè Telecom, Tim, Seat Pagine Gialle, Olivetti) e che a far tempo dal marzo-aprile 2000, contestualmente alla lunga discesa del valore dei titoli del predetto “gruppo” la banca avrebbe suggerito di mediare l’iniziale prezzo di acquisto mediante l’acquisto di altri titoli dei medesimi emittenti con il risultato che il conto corrente nell’ottobre del 2001 presentava un saldo passivo di oltre 4.500.000.000 e che l’originario rilevante patrimonio mobiliare era stato quasi azzerato.

Alla luce dei fatti come sopra narrati l’attore, pur dando atto di avere ricevuto gli estratti del conto, innanzitutto chiedeva a) che la banca presentasse il rendiconto del proprio operato atteso che la vaghezza delle causali riportate sugli stessi non avrebbe consentito di individuare con precisione le singole operazioni effettuate e sosteneva poi che l’istituto di credito, in relazione alle operazioni di acquisto di titoli azionari, si sarebbe reso responsabile della violazione di molteplici violazioni di legge.

In particolare l’istante assumeva che la banca b) aveva omesso di stipulare il contratto per iscritto di moltissime operazioni; c) non aveva consegnato il contratto quadro di cui all’art. 30 del regolamento Consob n. 11522/98; d) non aveva né consegnato il documento sui rischi degli investimenti né richiesto le informazioni previste dall’art. 28 del citato regolamento; e) non aveva fornito adeguate informazioni sui rischi delle singole operazioni soprattutto per ciò che riguarda i derivati; f) non aveva tempestivamente informato per iscritto circa le perdite derivate dagli investimenti in warrant o in derivati; g) non aveva comunicato all’inizio del 2001 le perdite generali sul patrimonio investito come prescritto dall’art. 28 co. IV del regolamento Consob; h) non si era astenuta dall’effettuare operazioni inadeguate; i) non aveva richiesto alcuna autorizzazione scritta in relazione a ciascuna operazione non adeguata; l) aveva impegnato l’esponente ben oltre il patrimonio investito in violazione dell’art. 24 co. I lett. c reg. Consob (rectius art. 24 co. I lett. c del d. lgs. 58/98); m) aveva operato, in relazione alle operazioni di acquisto di titoli del “gruppo” Telecom e senza averlo segnalato, in conflitto di interessi atteso che la B.A.M., in un primo tempo direttamente e, poi, indirettamente tramite la Finanziaria B.A.M. s.p.a. (il cui capitale era al 100% di proprietà della B.A.M.), deteneva partecipazioni nella Hopa s.p.a. la quale, a sua volta, avrebbe posseduto rilevanti quantitativi di azioni delle società del “gruppo” Telecom: di qui l’interesse dell’istituto di credito a vendere i titoli in questione al fine di sostenerne i corsi, interesse percepibile anche per la presenza di alcuni nominativi in tutti i consigli di amministrazione delle società in questione.

In relazione al contratto di apertura di conto corrente l’istante svolgeva autonome censure e in particolare sosteneva n) che il contratto di apertura di credito era nullo per inosservanza dell’obbligo di forma scritta della sua stipulazione nonché per mancata osservanza delle prescrizioni di cui all’art. 126 t.u.l.b. e che parimenti viziato doveva ritenersi il contratto di conto corrente per mancata sottoscrizione da parte della banca; o) che la convenuta aveva illegittimamente effettuato variazioni sfavorevoli delle condizioni inizialmente pattuite; p) che la banca aveva illegittimamente capitalizzato trimestralmente interessi anatocistici: in considerazione della complessa esposizione sopra riportata chiedeva la condanna della banca a presentare il rendiconto del proprio operato, il risarcimento dei danni, la declaratoria di nullità dei contratti di conto corrente e di apertura di conto corrente con il conseguente accertamento dell’insussistenza di debiti in relazione a tali contratti ed in subordine la determinazione del saldo del conto tenendo conto degli illegittimi addebiti operati ed infine la condanna della banca a porre nella disponibilità dell’attore ogni titolo al medesimo intestato e attualmente depositato presso di essa. 

La Banca Agricola Mantovana si costituiva chiedendo il rigetto della domanda affermando che il B., aiutato anche dalla moglie e dal figlio, da anni effettuava con notevole frequenza (divenuta poi giornaliera) operazioni altamente speculative, consistite inizialmente nell’acquisto e vendita di B.T.P. di lunga durata al fine di profittare dell’andamento dei corsi dei titoli in relazione al mercato dei tassi e che, proprio per facilitare ed ampliare tale sua attività, egli aveva ottenuto una apertura di credito con un fido più volte aumentato nel corso del tempo: precisava in proposito che, nel novembre del 1994, il saldo in dare del conto corrente n. 20504 (affidato fino ad allora sino a £ 1.150.000.000), pari a £ 1.075.333.000, era stato girato sul nuovo conto n. 43001 sul quale era stato riconosciuto un fido di £ 1.200.000.000 (portato poi nel corso del 1997 a £ 4.500.000.000) e che, a partire del 1997, l’attore aveva iniziato a diversificare i propri investimenti mediante l’acquisto di azioni e di strumenti finanziari derivati, dopo avere sottoscritto i moduli contrattuali previsti dalla normativa di settore.

La convenuta specificava ulteriormente che il B. si era rifiutato di fornire le informazioni sulla situazione patrimoniale e gli obiettivi di investimento ed inoltre che lo stesso aveva richiesto che la banca trattenesse presso di sé la corrispondenza: evidenziava altresì di avere sempre inviato gli estratti del conto e le note informative concernenti l’esecuzione degli ordini di borsa conferiti ritenendo così di avere pienamente assolto all’obbligo di rendiconto.

La banca a fronte dei rilievi mossi dalla controparte oltre alla genericità degli assunti evidenziava di non avere svolto attività di consulenza nei confronti del B. essendosi limitata ad eseguire i numerosissimi ordini dal medesimo impartiti per iscritto ovvero registrati su supporto magnetico, che molte delle norme della cui mancata applicazione l’avversario si doleva riguardavano la disciplina, manifestamente inapplicabile alla fattispecie in questione, della gestione patrimoniale e che l’attore era comunque decaduto da ogni diritto di sollevare contestazioni in ordine alla regolarità delle singole appostazioni.

Quanto alla critica di avere posto in essere operazioni inadeguate la B.A.M. rilevava ancora una volta la genericità dell’assunto non essendo specificato a quali operazioni l’attore intendesse riferirsi e che, comunque, essendo il B. titolare di un cospicuo patrimonio ed avendo dimostrato notevole dimestichezza nelle operazioni finanziarie, essa aveva ritenuto sostanzialmente adeguate al profilo del cliente le operazioni di investimento e disinvestimento dallo stesso disposte e che, peraltro, varie volte gli operatori avevano segnalato l’inadeguatezza dell’operazione ma che l’istante aveva confermato l’ordine per iscritto.

In relazione all’assunto di avere operato, nella intermediazione di titoli del “gruppo” Telecom in conflitto di interessi, la convenuta negava che la propria ridottissima partecipazione in Hopa potesse configurare un rapporto di controllo o di collegamento rilevante ai sensi dell’art. 2359 c.c., unico dato normativo utilizzabile al fine di verificare la sussistenza di un conflitto di interessi ed aggiungeva che, in concreto, il denunciato conflitto non poteva esistere poiché le singole operazioni sulle società del “gruppo” Telecom erano state liberamente ordinate dal cliente senza l’ausilio della sua consulenza.

Quanto poi ai rilievi sopra descritti ai punti n), o), e p) la convenuta sosteneva che i contratti bancari erano stati sottoscritti dal B., che la modificazione del tasso era avvenuta in applicazione delle norme contrattuali e che la capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici doveva considerarsi legittima.

A questo punto va detto che, con atto di citazione notificato il 22-5-2002, B. P. e C. E. proponevano tempestiva opposizione avverso il decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo n. 267/02 emesso il 9-3-2002 dal Tribunale di Mantova con il quale era stato loro ingiunto di pagare (nella veste di obbligato principale il primo e garante la seconda) rispettivamente l’importo di euro 798.632,52 e di euro 516.456,89 quale saldo debitore del conto corrente n. 43001/61.

Gli opponenti sostenevano l’illegittimità del decreto in quanto fondato su di un mero saldaconto ed eccepivano q) che la banca non aveva fornito il rendiconto delle operazioni effettuate; r) la nullità dei contratti di conto corrente e di apertura di credito per difetto di forma scritta ex artt. 117 e 126 t.u.l.b.; s) che, non essendo decaduti dal diritto di contestare le risultanze contabili, il saldo passivo iniziale del conto n. 43001 non era dovuto evidenziando che il saldo finale dei conti 20504 e 43001 si era formato mediante illegittimi addebiti di interessi sia in quanto non validamente pattuiti, posto che per la loro misura era stato fatto riferimento all’uso sulla piazza, sia per l’illegittima applicazione della capitalizzazione trimestrale; t) che la banca aveva arbitrariamente variato in senso sfavorevole il tasso degli interessi debitori; u) che l’eventuale credito della banca doveva compensarsi con il maggior credito vantato per i danni cagionati dal comportamento della banca nell’ambito delle operazioni di  intermediazione mobiliare.

C. E. chiedeva inoltre oltre alla condanna della controparte ex art. 96 c.p.c., in caso di resistenza in giudizio, l’immediata riduzione dell’ipoteca iscritta contro di lei anche solo in considerazione della notevole differenza fra l’importo iscritto (euro 798.632,52) ed il capitale dovuto.

La banca, costituitasi, eccepiva la nullità della citazione per inosservanza del termine a comparire atteso che gli opponenti si erano avvalsi del termine ridotto di cui all’art. 645 u.c. c.p.c., fissando la prima udienza in data 25-6-2002 e notificando l’atto in data 22-5-2002 e, nel merito, chiedeva il rigetto dell’opposizione richiamando i contenuti della comparsa di costituzione depositata nell’ambito del giudizio n. 416/02.

Riuniti i giudizi per l’evidente connessione oggettiva e soggettiva e disposta, ex art. 649 c.p.c., la sospensione della provvisoria esecuzione, la causa veniva dichiarata interrotta a seguito della fusione per incorporazione della Banca Agricola Mantovana nel Monte dei Paschi di Siena.

Riassunto il giudizio a seguito della notifica del ricorso avvenuta il 18-6-2003, l’incorporante rimaneva contumace mentre si costituiva volontariamente la Banca Agricola Mantovana s.p.a. già Nuova Banca Agricola Mantovana: rigettata l’istanza di ammissione di prove orali formulata dalla banca e disposta c.t.u., affidata al rag. Fabio Bovi, la causa veniva trattenuta in decisione sulle conclusioni delle parti in epigrafe riportate.

Motivi

La domanda svolta dai coniugi B. è solo parzialmente fondata e va accolta nei limiti che seguono.

Preliminarmente va peraltro chiarito quale sia l’istituto di credito a favore del quale deve essere pronunciata la condanna al pagamento in conseguenza del verificarsi della vicenda successoria sopra delineata.

Premesso che, avvenuta la fusione per incorporazione della B.A.M. s.p.a. in Monte dei Paschi di Siena s.p.a. (v. atto n. 19951 rep. e n. 7123 racc. notaio dott. Mario Zanchi del 25-3-2003) quest’ultima ha poi ceduto un ramo della propria azienda alla Nuova B.A.M. s.p.a. che contestualmente ha preso il nome di B.A.M. s.p.a., nella prima operazione va ravvisata una successione a titolo universale ex art. 110 c.p.c. (stante l’estinzione dell’ente originario: cfr. Cass. 16-1-2004 n. 554; Cass. 11-4-2003 n. 5716; Cass. 28-6-2002 n. 9504; Cass. 2-4-2002 n n. 4679) mentre, nella seconda, si è verificata una successione a titolo particolare ex art. 111 c.p.c..

Il processo è quindi legittimamente proseguito nei confronti dell’incorporante e tuttavia, dopo la riassunzione mentre essa è rimasta contumace (v. art. 303 IV co. c.p.c.), la (nuova) B.A.M. s.p.a. è volontariamente intervenuta nel processo ex art. 111 III co. 3 c.p.c., quale cessionaria di un ramo d’azienda, facendo proprie le difese originariamente svolte dalla B.A.M. poi estintasi per incorporazione: dalla contumacia della parte non costituita in tale fase non può peraltro inferirsi che le domande o le difese a suo tempo proposte debbano ritenersi rinunciate o abbandonate in quanto esse attengono ad un giudizio che prosegue e conserva tutti gli effetti processuali e sostanziali dell’originario rapporto (in tal senso vedasi Cass. 30-7-1996 n. 6867; Cass. 4-2-1967 n. 329; Cass. 4-4-1962 n. 704).

Con l’atto di intervento la (nuova) B.A.M. s.p.a. ha prodotto copia dell’estratto dell’atto notarile (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale) in cui si dà atto essere avvenuta la cessione del ramo d’azienda (autorizzata dalla Banca d’Italia) fra le due banche avente ad oggetto fra l’altro “diritti, rapporti contrattuali, crediti e debiti, azioni e ragioni, cause relative a giudizi attivi e passivi (azioni giudiziali ed azioni revocatorie ed altre passività) inerenti e correlati all’esercizio delle attività proprie del ramo aziendale conferito” sicché deve ritenersi che il rapporto oggetto della presente controversia sia stato trasferito a titolo particolare alla (nuova) B.A.M., successione avvenuta in conformità delle disposizioni contenute nell’art. 58 del d. lgs. 385/93 che consente, alle condizioni indicate dalla Banca d’Italia, la cessione di rami d’azienda, di beni e rapporti giuridici individuali in blocco.

Ciò premesso va osservato che, alla stregua dei commi I e III dell’art. 111 c.p.c., il processo prosegue fra le parti originarie (e cioè fra gli opponenti e la Banca Monte dei Paschi) salva la facoltà da parte del successore a titolo particolare di intervenire volontariamente come accaduto nella fattispecie in esame: è tuttavia possibile pronunciare la condanna dei convenuti all’adempimento direttamente in favore della cessionaria (nuova) B.A.M. s.p.a. atteso che l’atto di cessione di azienda bancaria e la contumacia dell’istituto di credito cedente, non estromesso, fanno inequivocabilmente ritenere che sussista l’adesione di quest’ultima e non essendo stato sollevato rilievo alcuno in ordine al verificarsi della cessione (in tal senso vedasi Cass. 17-1-1998 n. 379; Cass. S.U. 3-11-1986 n. 6418).

Quanto al merito di tale complessa vertenza va subito chiarito che non risulta in alcun modo provato che la banca abbia provveduto a gestire il patrimonio degli istanti (né alcuna istanza istruttoria è stata sul punto dedotta) essendosi essa limitata a dare esecuzione ai singoli ordini di borsa (dovendosi sin d’ora precisare che si tratta di alcune migliaia di operazioni spesso infragiornaliere) sicché alla fattispecie trovano applicazione le norme disciplinanti la negoziazione di titoli e non quelle concernenti il diverso tipo contrattuale della gestione patrimoniale, né è emerso che l’istituto di credito avesse svolto attività di consulenza ex art. 1 co. 6 lett. f) t.u.l.f., essendosi unicamente limitato a dare esecuzione agli ordini ricevuti.

Va poi aggiunto che la difesa del B., per la prima volta in comparsa conclusionale, ha sostenuto la nullità dei contratti di apertura di credito per violazione del disposto di cui all’art. 47 reg. Consob n. 11522/98: siffatta prospettazione deve ritenersi, per un verso, inammissibile in quanto introduce questioni di fatto del tutto nuove laddove gli scritti conclusionali hanno unicamente la funzione di illustrare domande e difese già proposte (cfr. Cass. 1-2-2000 n. 1074; Cass. 3-4-1987 n. 3234) e, per un altro, infondata atteso che il risparmiatore aveva sottoscritto ordinari contratti di apertura di credito senza che in essi fosse stata esplicitata (come necessario atteso che la figura di cui all’art. 47 reg. cit. corrisponde ad un tipo negoziale  autonomamente regolato) la volontà di ricorrere alla concessione di finanziamenti per effettuare operazioni su strumenti finanziari né l'apertura di credito era comunque vincolata allo svolgimento di siffatte operazioni.

In ordine al rilievo di cui al punto sub a) va osservato che il B., in citazione, aveva ammesso di avere ricevuto gli estratti conto della banca la quale, nel corso del giudizio, ha depositato la copiosa documentazione scritta attestante le singole operazioni effettuate o, comunque, le registrazioni su supporto magnetico degli ordini telefonici in conformità di quanto prescritto dall’art. 60 reg. Consob n. 11522/98 (registrazioni agevolmente consultabili e chiaramente distinguibili nel loro contenuto ed in relazione alle quali, occorre precisare, nessuna difficoltà d’esame né specifica istanza era stata formulata dagli opponenti durante l’istruttoria), dovendosi evidenziare che ai clienti erano state inviate anche le ulteriori comunicazioni previste dalla normativa regolamentare (v. artt. 61 e 62 reg. cit.) sulla esecuzione dei singoli ordini di borsa: va poi aggiunto che la difesa della banca aveva prodotto le registrazioni in questione unitamente alla memoria ex art. 184 c.p.c. e che nessuna contestazione era stata sollevata dalle controparti nella memoria di deduzione di prova contraria sicché, non essendo state tempestivamente disconosciute né ex art. 2712 c.c. né ex art. 2719 c.c., ad esse va riconosciuta piena efficacia probatoria (cfr. art. 215 c.p.c.).

E’ inoltre fondata l’eccezione della banca circa la decadenza dal diritto di contestare l’avvenuta esecuzione degli ordini ex art. 1832 c.c. stante il decorso del termine normativamente e contrattualmente previsto (quanto agli ordini il cui conferimento è stato contestato per la prima volta dagli attori solo all’udienza del 16-3-2004, dopo il decorso dei termini di cui all’art. 184 c.p.c., va comunque rilevato che l’istituto di credito ha dimesso documentazione scritta del conferimento degli stessi da parte del B., desumendosi dal tenore degli scritti depositati che S. e M. non erano terzi che avrebbero impartito ordini di borsa come sostenuto dalla difesa degli opponenti bensì i funzionari di banca addetti al c.d. borsino della medesima): la censura di cui al punto b) dell’esposizione attorea non trova riscontro negli atti di causa ed appare, comunque, del tutto generica.

Da ultimo va rimarcato che le sintetiche descrizioni contenute nella documentazione contabile sopra richiamata (indicanti la data contabile e di valuta, l’importo ed il tipo di operazione annotata) erano comunque tali da consentire al cliente l’immediata individuazione delle singole poste annotate in conto, né può andare sottaciuto che nessuna richiesta di chiarimenti era mai stata inoltrata dal correntista nonostante la lunga durata del rapporto: ne consegue che la domanda attorea di rendiconto va rigettata.

Relativamente ai rilievi all’operato della banca di cui ai punti c) e d) va osservato che l’assunto attoreo risulta smentito dalle produzioni documentali sub 4-5 (faldone blu) e 9-12 (faldone giallo) di parte convenuta/opposta rimarcandosi altresì che l’istituto di credito aveva sottoposto ai clienti (in data 8-10-1993, 27-3-1997 e 11-9-1998) il modulo concernente la richiesta di informazioni sulla situazione patrimoniale e gli obiettivi di investimento e che essi, avvalendosi della facoltà prevista dalla normativa regolamentare al tempo vigente, non avevano invece inteso fornire alcuna indicazione in proposito.

Quanto alla supposta violazione dell’obbligo di fornire adeguate informazioni al cliente (punto -e dell’esposizione attorea) con  riguardo in particolare alle operazioni su derivati, va detto che il rilievo appare generico non essendo stata specificata quale rilevante informazione in vista dell’effettuazione degli investimenti in questione sarebbe stata omessa dalla banca (la negoziazione per vari mesi di oltre cento contratti concernenti il FIB 30 sta peraltro ad indicare la conoscenza dello strumento finanziario denominato future), non potendo peraltro andare sottaciuto che non è stata fornita dai risparmiatori la prova (su di essi incombente ex art. 23 t.u.l.f.) di avere subito un pregiudizio dalla loro esecuzione né mai gli istanti, prima del giudizio, ebbero a sollevare rilievo alcuno nonostante le numerose operazioni poste in essere. Analoghe considerazioni vanno svolte con riguardo ai titoli azionari (doglianza peraltro estesa a tali valori solo con la comparsa conclusionale) dovendosi precisare che la norma di cui all’art. 23 t.u.l.f. non esonera l’investitore dall’onere di allegare il comportamento dell’intermediario posto in essere in violazione degli obblighi ad esso facenti capo e non potendosi desumere l’inosservanza delle regole di condotta semplicemente in presenza della diminuzione del valore dei titoli atteso che con il “contratto di investimento” l’intermediario non si impegna a garantire un determinato risultato finanziario: va peraltro rimarcato che, secondo la stessa esposizione attorea, le perdite cominciarono a verificarsi nel corso del 2000 quando già da anni il B. operava (con successo fino a quel momento) nel mercato azionario.

In ordine alla censura di cui al punto f) va osservato che gli istanti non hanno fornito alcun elemento a supporto dell’assunto secondo cui le operazioni in strumenti derivati avrebbero generato una perdita superiore al limite previsto dalla norma di cui all’art. 28 co. IV reg. Consob e, in ogni caso, la banca ha prodotto un documento datato 22-12-2000 contenente siffatta informazione (v. doc. 12 faldone blu) in ordine al quale nessuna contestazione, dopo la sua produzione, è stata sollevata.

Quanto ai punti sub g) e l) va detto che le norme di cui si assume  la violazione (artt. 28 co. IV reg. Consob e 24 co I lett. c del d. lgs. 58/98) riguardano il contratto di gestione patrimoniale non applicabili al diverso tipo negoziale ricorrente invece, come sopra chiarito, nella fattispecie in esame.

Relativamente alle censure sub h) e i) concernenti il compimento di operazioni inadeguate va osservato che siffatti rilievi sono destituiti di fondamento. Premesso che la difesa degli istanti nell’atto introduttivo si era limitata ad affermare che la violazione dell’art. 28 reg. Consob 11522/98 avrebbe riguardato i contratti su derivati, l’assoluta mancanza di indicazione di quali singole operazioni abbiano provocato perdite (va nuovamente ricordato che non si è in presenza di una gestione patrimoniale in relazione alla quale verificare il complessivo risultato di gestione bensì di migliaia di operazioni susseguitesi con esiti alterni nel corso degli anni), le documentate speculazioni sui corsi dei B.T.P. decennali e trentennali (oltre un centinaio di operazioni fra il 1996 ed il 1997: v. documenti raccolti sub 10 del faldone giallo), la loro frequenza anche infragiornaliera, la diversa tipologia degli ordini di borsa impartiti (come si desume in particolare dalle registrazioni contenute nei tre CD ROM allegati dalla difesa della banca nelle quali il cliente specifica sempre il prezzo di vendita e di acquisto dei titoli nonché, frequentemente, il momento preciso in cui l’ordine deve essere eseguito), costituiscono concordanti elementi dai quali è possibile desumere la profonda conoscenza da parte dei risparmiatori delle regole del mercato borsistico e siffatto elemento unitamente alla estrema diversificazione degli investimenti (titoli di stato, derivati, titoli azionari di diversi comparti, specialmente di quello bancario, assicurativo e industriale e non del solo gruppo “Telecom”), all’ammontare del patrimonio mobiliare e immobiliare posseduto, agli affidamenti goduti, alle numerosissime operazioni per quantitativi spesso minimi (sicché, stante la continua variazione della composizione del patrimonio, non appare possibile isolare singole operazioni inadeguate), inducono a ritenere che la banca non abbia violato il precetto di cui all’art. 29 reg. Consob n. 11522/98.    

Parimenti infondato è il rilievo sub m) concernente l’effettuazione da parte della banca di acquisti di titoli azionari di società facenti parte del “gruppo Telecom”: in proposito occorre infatti rilevare che, nelle operazioni in questione (non consigliate dalla banca), l’istituto di credito non ha agito in contropartita diretta ma si è limitato ad acquistare i titoli in conformità degli ordini ricevuti dal cliente, per conto dello stesso, senza quindi perseguire un interesse proprio ed ulteriore in conflitto con quello di quest’ultimo, agendo quindi nel mercato come avrebbe fatto qualunque altro intermediario.

Va inoltre rigettata la domanda di condanna della banca alla restituzione dei titoli da essa detenuti per la mancata specificazione del fondamento in fatto ed in diritto di siffatta  richiesta.

Quanto alla dedotta nullità del contratto di conto corrente, va osservato che il modulo reca una doppia sottoscrizione del B. e che la (parimenti doppia) firma di un funzionario della banca lungi dal rappresentare (come affermato dalla difesa attorea) mera convalida della firma del cliente, costituisce invece inequivoca esternazione della volontà negoziale dell’istituto.

Quanto alla dedotta nullità del contratto di apertura di credito concessa sul c/c n. 43001/6 sotto il profilo che la semplice richiesta di concessione di fido sottoscritta dal cliente ed indirizzata alla banca non sarebbe idonea a soddisfare il requisito della forma scritta (cfr. art. 3 l. 154/92) non essendo ravvisabile in tale documento un contratto, difettando l’accettazione scritta da parte della banca,  deve ritenersi che la nullità non ricorra ove la volontà di accettare risulti inequivocabilmente dalle comunicazioni inviate ex art. 119 t.u.l.b. da cui sia dato desumere l’intervenuta concessione di fido (per l’affermazione di tale principio in termini generali vedasi Cass. 10-5-1996 n. 4400 e Cass. 27-3-1996 n. 2712): orbene nel caso di specie è stata la stessa difesa del B. ad ammettere che l’affidamento era stato concesso e d’altro canto ciò risulta dagli estratti conto prodotti in giudizio che documentano l’avvenuta esecuzione delle operazioni poste in essere in attuazione dell’apertura di credito.

Va altresì aggiunto che l’art. 6 del contratto di conto corrente contemplava già la possibilità di concessione di aperture di credito regolandone anche la disciplina di massima sicché la dedotta nullità non sussiste.

Inoltre il decreto emesso in attuazione del disposto di cui all’art. 117 co. II t.u.l.b. ha demandato alla Banca d’Italia la possibilità di prevedere, per motivate ragioni tecniche, modalità diverse per la forma dei contratti e tale ente, nelle istruzioni applicative (v. 127° aggiornamento del 20-5-1996 alla circolare n. 4 del 29-3-1988), ha disposto che “la forma scritta non è obbligatoria per operazioni e servizi già previsti in contratti redatti per iscritto (ad esempio conto corrente di corrispondenza)”.

Né può accogliersi la tesi difensiva secondo cui la nullità dell’apertura di credito deriverebbe dal mancato rispetto dei requisiti formali previsti dall’art. 126 t.u.l.b.: tale norma non è applicabile al caso di specie atteso che il credito al consumo costituisce un tipo contrattuale distinto dall’ordinaria apertura di credito ricorrente invece nel caso di specie e, peraltro, va evidenziato che, ai sensi dell’art. 18 della legge 19-2-1992 n. 142, il prestito in questione è limitato all’importo compreso fra euro 154,94 ed euro 39.269,26, mentre al B. le aperture di credito erano state concesse per cifre ben al di  sopra del miliardo di lire.

In ordine alla questione dell’anatocismo merita condivisione l’orientamento da tempo espresso dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui la clausola di un contratto bancario che preveda la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente è invalida in quanto basata su di un uso negoziale - e non su un uso normativo (difettando il requisito soggettivo dell’opinio iuris che non può formarsi in capo ad una sola parte dei consociati e cioè dei banchieri) come invece esige l’art. 1283 c.c. - nullo in quanto anteriore alla scadenza degli interessi (cfr. Cass. S.U. 4-11-2004 n. 21095; Cass. 18-9-2003 n. 13739; Cass. 20-8-2003 n. 12222; Cass. 20-2-2003 n. 2593; Cass. 13-6-2002 n. 8442; Cass. 28-3-2002 n. 4498; Cass. 28-3-2002 n. 4490; Cass. 1-2-2002 n. 1281; Cass. 4-5-2001 n. 6263; Cass. 11-11-1999 n. 12507; Cass. 30-3-1999 n. 3096; Cass. 16-3-1999 n. 2374).

Affermata la nullità della clausola regolante la capitalizzazione trimestrale ne deriva che non vi è possibilità di inserzione automatica di clausole prevedenti capitalizzazioni di diversa periodicità in quanto l’anatocismo è permesso dalla legge ma soltanto a determinate condizioni e, in mancanza di valida pattuizione fra le parti, esso rimane non pattuito fra le medesime (in tali termini vedasi Trib. Mantova, 10-9-2004 in www. ilcaso.it; App. Milano 4-4-2003 n. 1142; App. Torino 21-1-2002 n. 64 in www.adusbef.it; Trib. Brindisi 13-5-2002 in Foro It.,2002,I,1887; cfr. anche Cass. S.U. 17-7-2001 n. 9653 in motivazione): in proposito va specificato che non può farsi applicazione né dell’art. 1284 c.c. che prevede l’anno solo come elemento per la determinazione della misura del saggio degli interessi legali e, dunque, per tutt’altra finalità, senza incidere sulla loro capitalizzazione né dell’art. 1831 c.c. in quanto non richiamato dall’art. 1857 c.c. laddove il mancato richiamo costituisce una consapevole scelta del legislatore effettuata in considerazione della diversa struttura del contratto di conto corrente ordinario rispetto a quella delle operazioni bancarie in conto corrente.

Viene inoltre ribadito in questa sede il rigetto dell’istanza, già formulata nel corso dell’istruttoria, volta ad ottenere la riliquidazione del saldo del conto n. 20504 formatosi, secondo la prospettazione dei risparmiatori, mediante addebito di interessi illegittimamente calcolati perché determinati con riferimento all’uso di piazza e con l’applicazione dell’anatocismo trimestrale, saldo poi trasferito come prima posta del conto n. 43001/6 per effetto dell’operazione di giroconto impartita con ordine sottoscritto dal B. in data 5-12-1994 (v. doc. 13 faldone giallo): in proposito occorre infatti osservare che incombeva sugli opponenti l’onere, dagli stessi non assolto, di provare il proprio assunto dovendosi rilevare che non sono stati depositati gli estratti periodici di siffatto conto rendendo così impossibile ogni conteggio.

Deve altresì aggiungersi che l’ordine di giroconto impartito dal B. costituisce la prima partita del nuovo conto in ordine alla quale nessuna contestazione era stata sollevata sicché, in proposito, è comunque intervenuta la decadenza di cui all’art. 1832 c.c. puntualmente eccepita dalla difesa della banca.

Non merita inoltre condivisione l’assunto attoreo secondo cui la banca avrebbe illegittimamente variato, in senso sfavorevole al correntista, i tassi di interesse: premesso che tale dato, non contestato nella sua materialità dalla difesa della banca, è agevolmente evincibile dalla lettura degli estratti conto, va però rilevato che l’art. 14 I co. del contratto di conto corrente prevedeva espressamente la facoltà da parte della banca di modificare le condizioni economiche applicate, clausola questa che ricalca alla lettera il contenuto di cui all’art. 118 t.u.l.b. mentre non può trovare applicazione in favore del B. (espressamente qualificato consumatore nei contratti bancari oggetto del presente giudizio) l’art. 1469 bis co. V c.c.  in quanto, per espressa previsione della direttiva 93/13/CEE, la disciplina sulla tutela del consumatore si applica ai contratti stipulati in data successiva al 31-1-1994 e vigendo d'altro canto il principio di irretroattività della legge (cfr. Cass. 17-7-2003 n. 11200; Cass. 29-11-1999 n. 13339).

Alla luce delle conclusioni sopra raggiunte e dei conteggi effettuati dal c.t.u.  (non oggetto in quanto tali di alcuna contestazione) il credito dell’ingiungente nei confronti del B. viene determinato nella somma di euro 622.870,96 cui debbono aggiungersi gli interessi convenzionali nella misura del 7% a far data dal 26-2-2002 sino al saldo effettivo: C. E. va invece condannata a pagare la somma di euro 516.456,89 - pari al massimale garantito con la fideiussione - oltre agli interessi al tasso legale dal 20-2-2002 sino al saldo effettivo.

All’accoglimento, sia pure parziale dell’opposizione, consegue che il decreto ingiuntivo deve essere revocato dovendo peraltro essere chiarito che non può trovare accoglimento la domanda di cancellazione dell’ipoteca giudiziale iscritta in base al predetto titolo.

Se correttamente la difesa di C. E. ha in proposito richiamato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’art. 653 co. II c.p.c. non è applicabile nell’ipotesi in cui fin dall’origine non vi erano i presupposti per l’emissione del decreto ingiuntivo, nondimeno nel caso di specie occorre rilevare che la B.A.M. aveva allegato al ricorso per ingiunzione oltre al contratto di conto corrente anche l’estratto del conto dell’ultimo trimestre (trattasi invero di estratto e non di mero saldaconto come in un primo tempo ritenuto atteso che in esso sono riportate tutte le operazioni effettuate nel periodo dal 1-10-2001 al 26-2-2002 con separata indicazione del capitale e degli interessi) e che siffatto documento, trascorso il debito periodo di tempo dalla sua comunicazione al correntista, assume carattere di incontestabilità ed è quindi idoneo a fungere da prova sia ai fini dell’emissione del decreto ingiuntivo sia, ove non contestato, nel successivo giudizio contenzioso instaurato dal cliente (in tal senso vedasi Cass. 25-9-2003 n. 14234; Cass. 20-8-2003 n. 12233; Cass. 25-2-2002 n. 2751): da ciò consegue che sussistevano i presupposti per l’emissione del decreto ingiuntivo e, pertanto, non può disporsi la cancellazione dell’ipoteca, rilevandosi peraltro che la riduzione del debito dell’obbligato principale non ha determinato in concreto alcuna conseguenza  per il fideiussore titolare degli immobili sui quali l’ipoteca giudiziale era stata iscritta.

All’esito delle conclusioni sopra raggiunte va respinta la domanda di condanna della banca ex art. 96 c.p.c. non sussistendone i presupposti di legge, dovendosi altresì escludere che quest’ultima abbia arrecato danni agli opponenti.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo sussistendo peraltro giusti motivi, avuto riguardo all’esito della lite, per porre definitivamente a carico di ciascuna parte, nella misura della metà, le spese della consulenza tecnica.

(omissis)