Diritto dei Mercati Finanziari


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 633 - pubb. 01/07/2007

My way e omessa informazione sulla natura del prodotto

Tribunale Lecce, 29 Ottobre 2004. Est. Miele.


Prodotto finanziario denominato My way – Omessa informazione sulla natura del prodotto, sul conflitto di interessi e sulla penale per il recesso – Insussistenza.



 


 


omissis

Svolgimento del processo

Il Giudice,

esaminati gli atti processuali, sciogliendo la riserva formulata in udienza, osserva:

FATTO

Con ricorso depositato il 16.04.04 G. G. chiedeva ex art. 700 cod. proc. Civ. di essere autorizzata a sospendere il pagamento dei ratei mensili dovuti in relazione al contratto denominato “My way” concluso con Monte dei Paschi di Siena e che fosse ordinato alla predetta banca di sospendere l’addebito automatico sul proprio c/c delle ulteriori rate in scadenza. Esponeva che aveva sottoscritto, su proposta della banca, il prodotto finanziario denominato My way essendo stata rassicurata in ordine a due specifiche circostanza: 1) l’investimento non avrebbe avuto durata superiore a due o tre anni. 2) le era riservata la facoltà di risolvere il contratto in qualsiasi momento. Aveva così aderito al piano provvidenziale, sottoscrivendo in bianco numerosi fogli e formulari. Nel momento in cui aveva deciso di rientrare in possesso del capitale investito e dei relativi interessi aveva però scoperto la diversa natura del rapporto che aveva concluso con la banca si trattava infatti di un finanziamento di durata trentennale per estinguere il quale avrebbe dovuto versare alla banca una somma particolarmente elevata. Nella realtà l’operazione della banca era consistita nella erogazione di una somma di denaro che non era mai stata corrisposta alla G., ma era stata invece investita in un titolo obbligazionario ed in un fondo comune d’investimento. Per entrambi tali investimenti si prospettava un conflitto d’interessi dal momento dal momento che la banca deteneva le obbligazioni che aveva venduto all’investitore ed il fondo comune faceva capo ad una società controllata dalla stessa banca.

Inoltre:

1)          la clausola che prevedeva la gravosa penale per il caso di uscita dal piano finanziario non era stata oggetto di apposita sottoscrizione così come imposto  dagli artt. 1341-1342-1469 bis cod. civ.;

2)          la banca aveva violato

a.                     l’art. 21 del tuf. Nella parte in cui impone un obbligo di diligenza, correttezza e trasparenza nei rapporti con la clientela;

b.                     l’art. 28 rag. Consob che impone di richiedere all’investitore notizie sulle sue esperienze nel settore finanziario sulla sua propensione al rischio sui suoi obbiettivi.

In ordine al periculum la ricorrente deduceva come le sue condizioni di reddito non le consentissero di sopportare oltre il pagamento del rateo mensile e se avesse smesso di versare tale rateo secondo le previsioni contrattuali, in conseguenza dell’inadempimento, avrebbe dovuto versare una “somma esorbitante”.

Con la comparsa di costituzione la banca contestava il contenuto del ricorso, prospettando un diverso svolgimento dei fatti:

a.                       la ricorrente ed il marito, nel corso di ripetuti incontri con i funzionari della banca avevano avuto più che esaurienti spiegazioni in ordine all’investimento che veniva loro proposto il quale era stato esplicitato in tutti i suoi aspetti. In particolare era stato chiarito che il tipo d’investimento sconsigliava di recedere dal contratto dopo un breve periodo;

b.                       il contratto era stato concluso dopo attenta lettura da parte della ricorrente che aveva sottoscritto specificatamente anche le clausole che venivano espressamente richiamate ai sensi degli artt. 1341 e 1342 cod. civ.

c.                       la ricorrente aveva puntualmente adempiuto gli obblighi derivanti dal contratto sino a quando, forse allarmata dalle notizie di stampa, aveva chiesto di recedere del contratto.

Ciò premesso in fatto, Monte dei Paschi di Siena rilevava come:

1.                       lo strumento finanziario cui aveva aderito la ricorrente era certamente controindicato per l’investitore che avesse voluto soddisfare esigenze di guadagno nel breve periodo e si caratterizzava per il fatto che, in relazione al ricorso al finanziamento, l’investimento si realizzava immediatamente per l’intero ammontare e non avveniva in maniera graduale in corrispondenza dei singoli versamenti periodici;

2.                       il contratto concluso – in realtà composto da più contratti collegati - era pienamente conforme alla normativa primaria e secondaria di settore vigente al momento del suo perfezionarsi (art. 117 TUB in relazione al finanziamento, artt. 26-30-32 regolamento CONSOB 11522/98in relazione all’obbligazione zero coupon, gli artt. 20-24 regolamento CONSOB 11971/99 in relazione alla quale del fondo comune d’investimento).

Motivi della decisione

La questione preliminare sollevata dalle parti nel corso dell’udienza in ordine alla competenza a decidere sul ricorso del Tribunale di Lecce sezione distaccata di Maglie e del Tribunale di Lecce nella sezione centrale, deve essere risolta in quest’ultimo senso dovendosi condividere le osservazioni contenute nel provvedimento con il quale il giudice della sezione distaccata di Maglie ha rimesso gli atti al Presidente del Tribunale ai sensi dell’art. 83 disp. art. cod. proc. civ.. Ed invece secondo l’art 1 d.lgv. n° 5/03 entrato in vigore l’01/01/04, le controversie relativi alla vendita di prodotti finanziari – qual è certamente quella in questione- sono rimesse alla decisone del tribunale in composizione collegiale. L’art. 669 ter. cod. proc. civ. prevede che la competenza a decidere sulle richieste di misura cautelare proposte ante causam sia dello stesso giudice competente a decidere della domanda di merito cui l’istanza cautelare si riferisce. L’art. 48 quater ord. giud. prevede che nelle sezioni distaccate di Tribunale siano trattate e decise esclusivamente le cause sulle quali il tribunale giudica in composizione monocratica. Nessun dubbio quindi che il ricorso proposto da G. G. debba essere trattato dal tribunale di Lecce e non dalle sezioni distaccate di Maglie.

Sostiene il difensore della ricorrente che la normativa che ha riformato il rito civile nelle materie indicate nel d.lgv. citato non possa trovare applicazione nella fattispecie in questione in vista del principio tempus regit actum e della considerazione che il rapporto dedotto in giudizio risale all’anno 2000, prima cioè dell’entrata in vigore della riforma.

L’assunto non è condivisibile. Pur con la dovuta precisazione che le questioni relative alla distribuzione dei giudizi tra la sede centrale del tribunale e le sezioni distaccate non attengono propriamente alla competenza per territorio, deve infatti trovare applicazione la disposizione di carattere generale contenuta nell’art. 5 cod. proc. civ. secondo cui la competenza si determina “con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda” indipendentemente dal riferimento al momento in cui è sorto il rapporto sostanziale per la cui tutela si sia agito in giudizio. Lo stesso legislatore della riforma si è preoccupato di ribadire il principio generale indicato, prevedendo art. 41 d.lgv. cit. che i giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della riforma devono proseguire secondo le disposizioni delle norme anteriormente vigenti, con ciò confermando che le nuove regole valgono sempre nei giudizi introdotti in periodo successivo all’01.01.04 (in senso conforme v.trib. Trieste, ord. 11.02.04, trib. L’aquila 16.04.04).

Nel merito il ricorso è infondato e deve pertanto essere rigettato.

Sostiene la ricorrente di avere aderito alla proposta della banca di sottoscrivere il contratto in questione nella convinzione – formatasi sulla base dei colloqui avuti con dipendenti della filiale di Botrugno dalla banca – che il prodotto finanziario al quale aderiva prevedeva versamenti mensili che si sarebbero protratti per non più di due o tre anni e che le era consentito di recedere in qualsiasi momento con la garanzia dell’integrale rimborso del capitale sino a quel momento investito. Rassicurata su tali aspetti per lei essenziali nella valutazione di convenienza del piano d’investimento proposta dalla banca, aveva sottoscritto alcuni moduli in bianco scoprendo solo a distanza di tre anni dalla conclusione del contratto quale ne fosse la reale natura (perdita del capitale e pagamento di un’ulteriore ingente somma in caso di estinzione anticipata).

L’assunto della ricorrente, sulla base di documenti in atti, e del tutto inverosimile e deve dunque ritenersi privo di ogni fondamento.

Il contratto sottoscritto dalla signora G. comportava l’adesione a un piano finanziario che sin dalla prima pagina dello stampato predisposto dalla banca e sottoscritto dalla ricorrente, consentiva di individuare con più che sufficiente chiarezza i caratteri suoi propri. Si legge infatti in tale modulo che il piano finanziario si articolava in tre operazioni tra loro collegate:

1.                       l’acquisto di obbligazioni European Investiment Bank;

2.                       la sottoscrizione di quote di un fondo comune di investimenti denominato Spazio Finanza Concentrato;

3.                       la concessione di un finanziamento nella misura accessoria all’acquisto dei titoli obbligazionari o delle quote del fondo.

Tali operazioni chiaramente indicate come premessa erano poi ulteriormente specificate – sempre nella prima pagina del contratto, sicché non si comprende come potessero sfuggire all’attenzione del sottoscrittore – con le ulteriori indicazioni che:

a.                       il finanziamento veniva concesso nella misura di £ 98.922.000 per la durata di 30 anni, ad un tasso del 6,09% ed era rimborsato con il versamento di 358 rate mensili dell’importo costante di £ 600.000.

c.                       il finanziamento era finalizzato all’acquisizione di:

I.                               obbligazioni EIB per un controvalore di £ 124.000.000 al prezzo di £ 22,3245 ciascuno;

II.                            quote del fondo comune innanzi indicato per un controvalore di £ 45.316.597.

Se dunque l’offerta della banca nella proposta di adesione al piano finanziario aveva i caratteri innanzi descritti, non può condividersi l’affermazione della banca secondo cui il rapporto instaurato con tale piano finanziario, trovava la sua regolamentazione, con riferimento al finanziamento, nel t.u. bancario. Sostiene infatti la banca che il piano finanziario in questione non aveva alcuna regolamentazione all’epoca della sottoscrizione del contratto essendo stato tipizzato e disciplinato soltanto nel luglio del 2003 – con l’aggiornamento della circolare della Banca d’Italia n° 299/99 – con l’introduzione della figura dei “prodotti complessi”. Aggiunge la banca resistente che l’art. 23 del d.lgv. n° 58/98 esclude l’applicazione del tub. soltanto con riferimento ai servizi d’investimento ed al servizio accessorio previsto dall’art. 1 comma 6 lett. dello stesso d.lgv. e cioè la “consulenza in materia d’investimento in strumenti finanziari” e conclude dunque nel senso che la valutazione della legittimità dell’operazione di finanziamento va accertata avendo come esclusivo riferimento le prescrizione del tub.

Tale ricostruzione non è condivisibile dal momento che il t.u. sulla finanza prevede invece espressamente proprio la fattispecie in esame: l’art. 1 comma 6 f) infatti, nel fornire la definizione di tutte le operazioni finanziarie ricorrenti nella figura generale dei servizi accessori, ricomprende tra questi “la concessione di finanziamenti agli investitori per consentire loro di effettuare un’operazione relativa a strumenti finanziari nella quale interviene il soggetto che concede il finanziamento” che è esattamente il servizio offerto dalla Banca 121 con la proposta del piano di finanziamento My Way posto che lo stesso tuf definisce come strumenti finanziari – art. 1 comma 2 lett. b) e c) – anche le obbligazioni negoziabili sul mercato dei capitali ed i fondi comuni d’investimento.

Ne deriva che alla fattispecie in esame deve applicarsi il dettato dell’art. 23 tuf che espressamente richiama “i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento accessori”. E tuttavia, anche rispetto a tale norma, non trova alcun riscontro l’affermazione della ricorrente – per il vero piuttosto generica – secondo cui la banca avrebbe violato la disciplina di legge.

La norma richiamata infatti, per un verso impone che il contratto abbia forma scritta e che una copia di esso sia consegnato al contraente, per altro verso vieta pattuizioni che operino un rinvio agli usi per la determinazione dia del corrispettivo dovuto dal cliente per il servizio ricevuto, che di ogni altro posto a suo carico. Orbene, nel caso concreto, il contratto in questione risulta essere stato accluso per iscritto e non contiene alcun rinvio agli usi per la determinazione degli interessi dovuti con riferimento al finanziamento concesso dalla banca.

Occorre sotto altro aspetto verificare – con i limiti di un accertamento quale quello imposto da questa sede dalla natura del procedimento – se da parte della banca sia stato rispettato il dettato dell’art. 21 tuf. norma che anch’essa trova applicazione al caso di specie in considerazione della natura della operazione conclusa tra la banca e la ricorrente, la norma citata 1) pone a carico dei soggetti abilitati il dovere di comportarsi “con diligenza, correttezza e trasparenza nell’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati” (con la precisazione che, ai sensi dell’art. 23 tuf spetta alla banca, nei giudizi per il risarcimento danni subiti dai clienti, fornire la prova di aver pagato con specifica diligenza richiesta). 2) pone loro l’obbligo d’acquisire dal cliente tutte le informazioni necessarie ad operare in modo da assicurare loro sempre una adeguata informazione, organizzarsi in modo da ridurre il rischio di conflitti d’interesse ed assicurare trasparenza ed equo trattamento in caso di conflitto, organizzare risorse o procedure in modo da garantire un efficiente svolgimento dai servizi, attuare una gestione indipendente, sana e prudente 3) porre in essere accorgimenti che garantiscano la salvaguardia dei clienti sui beni affidati.

In relazione all’obbligo di diligenza, correttezza e trasparenza cui al banca era tenuta si osserva che tale obbligo comporta che chi propone l’investimento – o nel caso di specie l’adesione ad un piano finanziario già predisposto – abbia come principale riferimento la tutela del cliente in modo da assisterlo al meglio nel perseguire scelte d’investimento che siano adeguate alla sua reale considerazione e rispondano agli interessi che egli intende realizzare ed alle sue esigenze, le quali vanno valutate tenendo conto della sua situazione finanziaria e degli obiettivi che si propone con l’operazione d’investimento.

Orbene, premesso che non vi sono elementi per dare credito all’affermazione della ricorrente secondo cui ella si sarebbe limitata a sottoscrivere dei fogli in bianco che sarebbero stati solo successivamente compilati dalla banca, deve osservarsi che – sulla base dei dati di fatto allo stato offerti all’attenzione di questi giudici – deve escludersi che da parte della banca vi sia stata violazione dei doveri ai quali avrebbe dovuto attenersi secondo le disposizioni di legge innanzi richiamate. Ed invero, dal testo del contratto risulta in modo assolutamente chiaro che l’investimento offerto si componeva di un operazione di finanziamento a lungo periodo – il capitale oggetto del finanziamento doveva essere restituito con il pagamento di 358 rate mensili per la durata di 30 anni – immediatamente strumentale all’acquisto di obbligazioni European Investiment Bank ed alle sottoscrizioni di  quote di un fondo comune d’investimento e che, nonostante tale rapporto di strumentalità, i due diversi aspetti dell’operazione – finanziamento ed investimento – restavano tra loro separati e distinti ed erano regolati da termini e condizioni contrattuali diverse. In particolare, con riferimento al finanziamento, per il quale la ricorrente lamenta di non essere stata informata circa le gravose conseguenze che avrebbe dovuto sopportare in caso di scelta di disinvestire entro il breve periodo (due o tre anni), va osservato che nel testo del contratto – a pag. 3 – la stessa ricorrente da atto di aver “preso completa cognizione delle norme che regolano il finanziamento (…) nonché delle relative condizioni economiche, norme e condizioni economiche riportate nella presente e nei relativi allegati”. Nella stessa pagina – nella sezione II – a proposito delle “CONDIZIONI ECONOMICHE DEL FINANZIAMENTO” è disciplinata la facoltà del cliente di estinguere anticipatamente il finanziamento alle condizioni dettagliatamente indicata e cioè “corrispondendo alla banca altre agli interessi e gli altri oneri maturati fino all’esercizio di certa facoltà, un importo determinato dalla somma delle rate ancora a scadere attualizzata mediante l’applicazione del tasso swap di pari durata a quella della scadenza del finanziamento di contratto di uno spread pari allo 0,5096”. Tale informazione deve ritenersi idonea a far conoscere il costo economico della eventuale scelta di disinvestire prima del termine di trent’anni entro il quale, per la natura dell’operazione preposta, lo stesso investimento doveva compiutamente attuarsi. In sostanza il cliente attraverso l’indicazione dei criteri di determinazione della scadenza  da restituire nel caso di esercizio del diritto di recesso prima della restituzione del finanziamento secondo il piano di ammortamento (358 rate mensili di importo unitario di £ 600.000), era in grado di conoscere l’importo da restituire alla banca a seconda del momento in cui fosse stata attuata la scelta di recidere. E ciò deve ritenersi sufficiente a considerare assolto da parte della banca l’obbligo di fornire adeguata informazione in ordine alla natura dell’operazione che veniva conclusa, tanto indipendentemente dalla oggettiva difficoltà per un profano della finanza di sviluppato formula matematica riportata nell’all. 4 del contratto dal momento che detta formula non costituiva altro che lo sviluppo matematico finanziario di una clausola contrattuale il cui contenuto dispositivo era sufficientemente chiaro. Inoltre, con la sottoscrizione del contratto la ricorrente ha dato atto di aver ricevuto “adeguate informazioni sulla natura, sulle caratteristiche, sui rischi e sulle implicazioni dei servizi” offerti, in particolare dei “relativi oneri e rischi patrimoniali in maniera tale da poter acquisire la conoscenza necessaria per effettuare consapevoli scelte di investimento/disinvestimento”. Ancora, la ricorrente nel sottoscrivere il contratto riconosceva espressamente che sulla base di tutte le informazioni ricevute dalla banca aveva effettuato una scelta consapevole dell’investimento propostole, nel senso che “le singole operazioni in cui si sostanzia il piano finanziario e lo stesso nel suo complesso” erano pienamente rispondenti ai suoi interessi.

Orbene, è vero che, come già detto, secondo la normativa applicabile spetta a chi propone l’investimento fornire la prova di avere tenuto un comportamento aderente alla diligenza richiesta ma è vero anche che tale obbligo di diligenza non può essere esteso anche a tutela di chi, aderendo all’investimento, non presti la dovuta attenzione per la reale natura del contratto e per gli effetti economici che lo stesso produrrà nel suo patrimonio, non almeno quando il contratto esponga con la dovuta chiarezza la reale natura dell’operazione e i rischi connessi, così come è certamente avvenuto nel caso di specie in ragione delle previsioni contrattuali delle quali si è fatto espresso richiamo. La tutela del cliente cioè, pienamente giustificata nelle forme più ampie per l’elevata rischiosità delle operazioni e la notevole sproporzione di forza contrattuale ed economica tra le parti che sottoscrivono il contratto, non può giungere fino al limite di colmare le lacune di attenzione e di adeguata considerazione dei propri interessi che siano imputabili alla condotta omissiva dello stesso cliente.

Ad analoghe conclusioni si deve pervenire riguardo il conflitto d’interessi denunciato in ricorso. A proposito di tale conflitto la banca si è comportata in modo corretto prestando ossequio al precetto normativo secondo cui aveva l’obbligo di denunciare il conflitto in modo da assicurare trasparenza ed equo trattamento. Il testo del contratto è esplicito nel rilevare che la ricorrente era stata messa al corrente dell’esistenza di un conflitto d’interessi sia in relazione all’acquisizione dei titoli obbligazionari (per i quali è detto trattarsi di titoli “negoziali della banca medesima”) sia quanto alla sottoscrizione delle quote del fondo (per il quale la banca rileva espressamente trattarsi di quote “collocate dalla Banca del Salento e sono emesse da un soggetto  (Spazio Finanza SGR s.p.a.) collegato alla Banca del Salento da rapporti di gruppo”). Per entrambe le operazioni la ricorrente preso atto della situazione di conflitto o di potenziale conflitto, ha comunque autorizzato l’effettuazione dell’operazione.

La lettura del contratto esclude anche che la banca abbia omesso di verificare la sapienza dell’investitore in materia d’investimenti, la sua situazione finanziaria, i suoi obbiettivi d’investimento e la sua preparazione al rischio. Risulta, infatti nel testo sottoscritto della ricorrente che la stessa richiesta di fornire le notizie di cui innanzi, riferì di avere esperienza finanziaria e propensione al rischio alto. Non vi sono elementi per ritenere – o anche sospettare che tali indicazioni inscritte nella prima pagina del contratto sottoscritto dalla ricorrente – siano state introdotte dalla banca all’insaputa della cliente ovvero che si tratti di notizie non rispondenti ai dati reali riferiti dalla cliente a chi proponeva l’investimento. Anche sotto tale profilo dunque deve escludersi – per la meno sulla base di quanto risulta allo stato – che la condotta della banca sia in alcun modo viziata sul piano della legittimità. 

Resta da esaminare un ultima censura formulata dalla ricorrente con riferimento alla clausola penale che a suo giudizio sarebbe stata prevista in contratto in ordine alla facoltà di recedere dal contratto prima della sua compiuta esecuzione.  Secondo le allegazioni della ricorrente tale clausola va qualificata come vessatoria ex  art. 1469 bis. c.c., in quanto prevedrebbe “una somma manifestamente eccessiva (da) versare alla Monte dei Paschi di Siena s.p.a. a titolo di penale per poter estinguere anticipatamente il contratto”.

La censura non è fondata: ed invero la ricorrente richiamando la disciplina della clausola penale a proposito di una ipotesi di recesso regolamentata in contratto, sembra voler assommare due fattispecie – il recesso unilaterale in contratto a prestazioni continuative e periodiche e l’inadempimento  - del tutto diverso. L’art. 1382 c.c. disciplina l’istituto della clausola penale precisando che la stessa consiste nella previsione con cui le parti convengono che, in caso d’inadempimento o di ritardo nell’adempimento il contraente inadempiente è tenuto ad una determinata prestazione  che ha effetti risarcitori nei confronti dell’altra parte e limita la misura del risarcimento dovuto alla prestazione promessa, salvo che non si sia anche espressamente convenuta la risarcibilità dell’ulteriore danno derivante dalla condanna del soggetto inadempiente. L’obbligo di adempiere alla prestazione prevista come penale deriva dal solo fatto dell’adempimento o del ritardo nell’adempimento e chi lo subisce non è onerata da dover provare il danno. Del tutto diverso dalla fattispecie dell’inadempimento è il diritto di recesso unilaterale disciplinato dall’art. 1373 c.c. diritto con il quale è consentito alle parti di estinguere anticipatamente gli effetti del contratto, la norma citata prevede che nella loro autonomia le parti possano disporre che il diritto di recesso possa essere esercitato a fronte di una prestazione di un corrispettivo e che, solo quando tale prestazione viene eseguita, il recesso produce i suoi effetti tipici. L’art. 1386 c.c. dispone poi che, nel caso in cui in contratto sia stata stabilita una caparra e sia successivamente esercitato il diritto di recesso, la caparra ha la sola funzione di costituire il corrispettivo dell’esercizio del recesso, con la conseguenza che chi recede dal contratto perde la caparra versata, ovvero deve restituire il doppio della caparra ricevuta da controparte.

Tutto ciò premesso, deve dunque escludersi che le prestazioni poste a carico del cliente in caso di esercizio del diritto di estinguere anticipatamente il contratto di finanziamento, possono essere qualificate come clausola penale, istituto che – innanzi detto – non ha funzione di corrispettivo del recesso, ma funzione prettamente ed esclusivamente risarcitoria del danno conseguente all’inadempimento o al ritardo nell’inadempimento. Il contratto in oggetto disciplina in modo specifico le conseguenze dell’inadempimento da parte del cliente, ma non prevede affatto il pagamento di una clausola penale. Limitandosi a stabilire che il mancato pagamento di sole tre rate anche non consecutive, consente alla banca di risolvere il contratto con la perdita per il cliente del beneficio del termine e l’obbligo di versare alla banca – per effetto congiunto della risoluzione del contratto e della decadenza del beneficio del termine – il capitale residuo, gli interessi (corrispettivi e di more) e gli accessori.

Rispetto a quanto detto, non vi è spazio nel caso concreto per l’applicazione della disciplina di cui all’art. 1469 bis e ss. c.c. invocata dalla ricorrente e, in particolare, dall’art. 1469 bis n° 6 c.c. secondo cui si presume la vessatorietà della clausola contrattuale che impone al consumatore “in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente d’importo manifestamente eccessivo”. Né sono applicabili le altre disposizioni della stessa norma – nn. 7 e 8 – che espressamente rinviano alla facoltà di recesso, ma che limitano la vessatorietà di tale facoltà al solo caso in cui l’esercizio della stessa sia consentita al solo professionista e non anche al consumatore. Né, infine, deve ritenersi la vessatorietà della clausola in questione alla luce della previsione di carattere generale contenuta nell’art. 1469 bis comma 1 c.c. secondo cui si considerano vessatorie tutte le clausole che abbiano l’effetto di determinare “a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”. Per quanto occorre in questa sede, è in proposito sufficiente rilevare che l’effetto richiesto dalla norma deve prodursi non con riferimento alle conseguenze che si determinano nelle posizioni delle parti contraenti limitatamente alla concreta esecuzione della clausola sospetta di vessatorietà, ma con riferimento all’incidenza che tale clausola ha rispetto al più generale assetto d’interessi regolamentato dalle parti con il contratto. Nel caso concreto non può non tenersi conto del fatto che il contratto in questione prevede una fattispecie d’investimento che per le sue stesse modalità di attuazione, non poteva essere sufficientemente retributiva per l’investitore nel breve e medio periodo, ma aveva prospettive di utili nel lungo periodo essendo necessariamente collegata ad un finanziamento – direttamente funzionale ad acquisire la liquidità per eseguire l’investimento – il cui rimborso doveva avvenire nell’arco di trent’anni. In tale prospettiva dunque, non può ritenersi affatto una stortura la previsione di un particolare aggravio a carico del cliente che, appena tre anni dopo la conclusione del finanziamento, intendesse estinguere. Per completezza va rilevato che, anche laddove si aderisse alla tesi della ricorrente in ordine alla vessatoria della clausola imposta dalla banca, ciò comporterebbe, ai sensi dell’art. 1469 quinquies c.c., la inefficacia della clausola nella sua intera portata, facendo comunque salvi gli effetti del contratto. E dunque, nel caso di specie, dovrebbe escludersi la facoltà di recesso, senza alcuna possibilità di rimodellarne le modalità di esercizio, disapplicando soltanto quelle che direttamente incidono sul giudizio di vessatorietà. Così non potrebbe applicarsi la clausola nella parte in cui prevede la facoltà di recesso della ricorrente, e disapplicarsi la stessa nella parte in cui prevede, contestualmente al recesso, il pagamento alla banca di “un importo determinato dalla somma delle rate ancora a scadere attualizzata mediante l’applicazione del tasso swap di pari durata a quello della scadenza del finanziamento diminuito di uno spread pari allo 0,5%”.

Ricorrono giuste ragioni per compensare integralmente tra le parti le spese del giudizio.

P.Q.M.

rigetta il ricorso di cui premessa.

Dichiara interamente compensato tra le parti le spese del presente giudizio.

Manda alla cancelleria per gli adempimenti di rito.

Lecce, 29 ottobre 2004.