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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6416 - pubb. 01/08/2010.

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Cassazione civile, sez. IV, lavoro, 15 Aprile 2004. Est. Maiorano.

Famiglia - Matrimonio - Rapporti patrimoniali tra coniugi - Impresa familiare - In genere - (costituzione - natura - oggetto) - Impresa individuale - Morte del titolare - Conseguenza - Diritti dei compartecipi - Individuazione.


A differenza della impresa collettiva esercitata per mezzo di società semplice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone (artt. 2251 e segg. cod. civ.), l'impresa familiare di cui all'art. 230 bis cod. civ. appartiene solo al suo titolare, mentre i familiari partecipanti hanno solo diritto ad una quota degli utili; ne consegue che, in caso di morte del titolare, non è applicabile la disciplina dettata dall'art. 2284 cod. civ., che regola lo scioglimento del rapporto societario limitatamente ad un socio, e quindi la liquidazione della quota del socio uscente di società di persone, ma l'impresa familiare cessa ed i beni di cui è composta passano per intero nell'asse ereditario del de cuius, rispetto a tali beni i componenti dell'impresa familiare possono vantare solo un diritto di credito commisurato ad una quota dei beni o degli utili e degli incrementi e un diritto di prelazione sull'azienda. (massima ufficiale)

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PRESTIPINO Giovanni - Presidente -
Dott. SPANÒ Alberto - Consigliere -
Dott. MAZZARELLA Giovanni - Consigliere -
Dott. MAIORANO Francesco Antonio - rel. Consigliere -
Dott. DI IASI Camilla - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
MERGA BONVINI ANNAMARIA, BONVINI EMILIA, BONVINI SONIA, BONVINI GIORGIO, BONVINI RENATO, MAIORE SALVATORE, elettivamente domiciliati in ROMA VIA ANGELO SECENI 4, presso lo studio dell'avvocato ENZO OTTOLENGHI, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato MARIO BERTOLA, giusta delega in atti;
- ricorrenti -
contro
SALICE DANTE, SALICE ANDREA (eredi di MERGA ELISA in SALICE CARCALI CARLA, BARCALI CARLO (eredi di MERGA TERESA ved. BARCALI), ROSA MERCA ved. BERNASOCCHI e ALDO MANCINI elettivamente domiciliati in ROMA V.LE DEGLI AMMIRAGLI 119, presso lo studio dell'avvocato OSVALDO FASSARI, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato ARISTODEMO TARONI, giusta delega in atti;
- controricorrenti -
avverso la sentenza n. 720/01 del Tribunale di COMO, depositata il 19/04/01 - R.G.N. 52/99;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/10/03 dal Consigliere Dott. Francesco Antonio MAIORANO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ABBRITTI Pietro che ha concluso, per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso al Pretore di Corno del 22/6/99 Merga Annamaria, Bovini Renato, Giorgio, Sonia, Emilia e Majore Salvatore Mario convenivano in giudizio Merga Elisa Teresa, Rosa e Mancini Aldo, per sentir dichiarare chetai tempo in cui era in vita Merga Andrea, proprietario di un terreno, si era di fatto costituita su detto fondo una impresa familiare ai sensi dell'art. 230 bis c.c., avente per oggetto la gestione del "Camping La Vigna del Lago", fra lo stesso Merga Andrea e la sorella Annamaria ed i familiari della stessa attori nel presente giudizio, sia pure con decorrenze diverse; chiedevano quindi determinarsi "in misura solo percentualistica l'entità della quota di partecipazione agli utili, agli acquisti ed agli incrementi dell'azienda Camping La Vigna del Lago di spettanza di Andrea Merga alla data della sua morte" avvenuta in data 20/6/85; quota che, secondo l'assunto degli attori, non superava il 35% dell'intero. I convenuti resistevano ed il Pretore dichiarava estinti per prescrizione i diritti azionati dai ricorrenti, compensando le spese. Il Tribunale di Corno, investito in grado di appello su ricorso degli originari ricorrenti, con sentenza del 16/3 - 19/4/01, rigettava il gravame e confermava la decisione. Precisava il Tribunale che preliminare all'esame del merito era l'inquadramento della fattispecie dedotta in giudizio: secondo i ricorrenti si sarebbe costituita di fatto una impresa familiare, avente ad oggetto la gestione della impresa commerciale Camping La Vigna del Lago di cui era titolare il de cuius e nell'ambito della quale i ricorrenti avrebbero prestatola loro attività lavorativa ai sensi e per gli effetti dell'art. 230 bis c.c.. Escludevano i ricorrenti una. diversa qualificazione del rapporto, di lavoro subordinato o societario, e chiedevano l'accertamento della sussistenza della impresa familiare "al dichiarato ed esclusivo fine di procedere alla vantazione quali- quantitativa della quota di partecipazione ... di astratta spettanza di Merga Andrea all'epoca del decesso ... limitatamente alla quale andrebbe operata ... la inclusione nell'ambito dell'asse ereditario da dividere tra tutti gli eredi del de cuius". I resistenti negavano la costituzione della impresa familiare e comunque rilevavano che i ricorrenti potevano al massimo vantare la liquidazione in denaro delle competenze loro spettanti, qualificabili come meri diritti di credito, già estinti per intervenuta prescrizione decennale. Precisava in proposito il Tribunale che la domanda non poteva essere accolta, anche se per ragioni diverse da quelle indicate dal primo giudice. Assorbente, rispetto alla questione della prescrittibilità o meno dei diritti azionati su cui avevano a lungo discusso le parti, era la considerazione della natura dell'istituto invocato dai ricorrenti e la valutazione corretta dei presupposti dell'azione esperita: l'impresa familiare aveva carattere individuale e si differenziava da ogni forma di gestione societaria prevista dall'ordinamento; la stessa, per esplicito dettato normativo, aveva anche carattere residuale per cui era ravvisabile solo in ipotesi di esclusione di una diversa configurazione, quale poteva essere il vincolo di subordinazione a carico dei familiari lavoratori nei confronti del titolare, oppure quello societario dei partecipanti; da qui la possibilità di attribuire la qualità di imprenditore non a tutti i partecipanti, ma al solo titolare, "individuato dagli stessi ricorrenti nel de cuius Merga Andrea".
Ne conseguiva la inapplicabilità della disciplina della società semplice (art. 2284 e ss. c.c.) ad una impresa che non era collettiva ma individuale ed apparteneva all'unico titolare, "residuando a favore dei cosiddetti "partecipanti" ... il diritto ad una quota degli utili ovvero dei beni aziendali con gli stessi. acquistati, nonché degli incrementi ... diritto pacificamente configurato in termini di mero credito e destinato ad essere liquidato in denaro ove ..richiesto", in caso di cessazione o alienazione dell'azienda (ex art. 230 bis, 4^ comma, c.c.); alla vendita era equiparabile la successione mortis causa, che non comportava, come pretendevano i ricorrenti, la "liquidazione della quota di astratta spettanza del de cuius ... bensì la cessazione stessa dell'impresa e l'inclusione dell'intera azienda ... nell'ambito dall'asse ereditario, il tutto senza pregiudizio ... dei diritti" dei partecipanti. Erronea quindi era l'eccezione di prescrizione, perché i diritti di credito non erano mai stati azionati ed i ricorrenti avevano invocato l'accertamento dell'esistenza dell'impresa familiare al solo fine di individuare la quota del defunto, da includersi nell'asse ereditario, "essendo stata automaticamente introitata dagli altri partecipanti all'impresa familiare l'intera azienda". Questa finalizzazione dell'accertamento precludeva l'accoglimento della domanda "per carenza di interesse ... in ordine all'azione di fatto esperita" la cessazione dell'azienda al momento della morte del familiare imprenditore comportava l'impossibilità del "prospettato subentro dei partecipanti nell'esercizio dell'impresa, circoscrivendone i diritti ... alla sola liquidazione della quota di partecipazione". L'intera azienda era inclusa nell'asse ereditario e quindi "si profila come ultroneo e irrilevante l'accertamento stesso dell'esistenza dell'assetto organizzativo prospettato dai ricorrenti". I diritti creditori in ipotesi spettanti ai ricorrenti erano estranei alla materia dedotta in giudizio e quindi difettava l'interesse ad agire, ex art. 100 C.P.C., per l'accertamento della sussistenza dell'impresa familiare. L'appello quindi doveva essere rigettato.
Avverso questa pronuncia propongono ricorso per Cassazione gli originari ricorrenti, fondato su due motivi, illustrati con memoria. Resistono gli intimati con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Lamentando, col primo motivo, violazione e falsa applicazione dell'art. 100 C.P.C., nonché omessa pronuncia sulla domanda e violazione dell'art. 112 C.P.C. (art. 260 n. 3 e 4 C.P.C.) deducono i ricorrenti che errata è la affermazione relativa alla carenza di legittimazione ad agire, pur trattandosi di eccezione che in astratto può essere rilevata anche d'ufficio in qualunque momento della causa. La presente controversia deriva da un'altra tuttora pendente presso il Tribunale di Corno, avente ad oggetto la divisione dell'eredità di Merga Andrea, il giudice istnittore in quel processo aveva conferito al C.T.U. l'incarico: a) per "accertare il valore dell'azienda cogestita" dal de cuius alla data della sua morte (20/6/85); b) per "determinare ... il valore corrispondente al suo diritto di partecipazione agli utili, ipotizzando l'esistenza di un'impresa familiare". Il consulente aveva risposto al primo quesito, determinando il valore del campeggio in L. 150.000.000 nel 1985, ma non aveva potuto rispondere al secondo per la difficoltà di procedere ad una indagine necessariamente testimoniale sul lavoro svolto dal Merga, rispetto a quello degli altri partecipanti. Da qui la domanda proposta nel presente giudizio per accertare sia il riconoscimento della sussistenza dell'impresa familiare, che la determinazione della quota del de cuius e quindi dei suoi eredi. Alla morte di Merga Andrea gli attuali ricorrenti avevano proseguito nella gestione, senza alcuna determinazione di quote, perché Annamaria Merga riteneva di essere l'unica erede, in virtù di testamento olografo, poi dichiarato apocrifo. Sussiste quindi l'interesse dei ricorrenti alla determinazione della quota del defunto, sia per stabilire la quota che devono conferire alla massa ereditaria, sia per dare evasione alla richiesta del giudice istruttore nell'altro processo. L'interesse ad agire sussiste indipendentemente dall'esame del merito della controversia. Lamentando, col secondo motivo, omessa motivazione su punto decisivo e violazione dell'art. 230 bis c.c. (art. 360 n. 3 e 5 C.P.C.) deducono i ricorrenti che nell'atto di appello avevano sostenuto che il diritto dei partecipanti alla impresa familiare rappresenta "l'oggetto di un diritto reale di comunione", con la conseguenza che i beni risultano fittiziamente intestati all'unico titolare, il familiare imprenditore, ma in realtà appartengono a tutti i partecipanti in virtù di un acquisto a titolo non derivativo, ma "originario ope legis (in evidente analogia con la comunione legale degli acquisti compiuti separatamente dai coniugi ex art. 117 c.c.)". La riprova ciò è nella lettera della legge, che al 4^ comma dell'art. 230 bis c.c., prevede "il diritto di partecipazione "può" essere liquidato in denaro alla cessazione, per qualsiasi causa;
della prestazione del lavoro"; la legge quindi prevede solo una facoltà di chiedere la liquidazione in denaro, ma la soluzione "principale, anche se sottaciuta, non può ... che essere quella della divisione in natura del bene", divisione che è un "accidente tipico ed esclusivo del diritto di proprietà". Se i beni sono in comunione, non possono rientrare tutti nell'asse ereditario. La Suprema Corte, con la sentenza n. 8959 del 25/7/92 si è espressa nel senso che il diritto di partecipazione riveste natura di un diritto di credito, ma il principio si attaglia solo al caso in cui vi sia già stata una scelta del partecipante in favore della liquidazione in denaro.
Il ricorso è infondato.
I due motivi vanno trattati congiuntamente, perché fra loro connessi. Il Tribunale parte dalla determinazione della fattispecie concreta dedotta in giudizio (la declaratoria della pregressa esistenza della impresa familiare, ai sensi dell'art. 230 bis c.c., fra Merga Andrea e la sorella Annamaria e la sua famiglia) e dal "dichiarato ed esclusivo" scopo perseguito dagli attori (la determinazione della quota di spettanza del defunto Andrea, pari al 35% dell'azienda da includere poi nell'asse ereditario da dividere fra tutti gli eredi del de cuius, con esclusione di ogni azione per il soddisfacimento delle spettanze di natura creditoria derivanti dalla cessazione della impresa familiare). Le censure proposte confermano che il giudice d'appello ha esattamente individuato la materia del contendere: da una parte, con la precisazione, contenuta nel primo motivo, che l'interesse nasce all'interno del giudizio di divisione ereditaria, anche per dare una risposta al quesito posto dal giudice istruttore; dall'altra con l'affermazione, di cui al secondo motivo, che il diritto dei partecipanti all'impresa familiare (come dedotto espressamente in sede di appello) rappresenta l'oggetto di un diritto reale di comunione"; ciò comporterebbe un acquisto dei partecipanti a titolo non derivativo ma "originario ope legis - in evidente analogia con la comunione legale degli acquisti compiuti separatamente dai coniugi ex art. 117 c.c. -", con la conseguenza che detta comunione dovrebbe essere sciolta prima dello scioglimento di quella ereditaria.
Se questa è la materia del contendere, opportune sono le considerazioni svolte nella sentenza impugnata sulla natura dell'istituto invocato dai ricorrenti e sul quale poggiano tutte le loro pretese. In proposito correttamente il Tribunale ha affermato che l'impresa familiare ha carattere individuale e residuale, per cui è ravvisarle solo in ipotesi di esclusione di qualsiasi altro rapporto (di lavoro subordinato oppure societario); con la conseguenza che riveste la qualifica di imprenditore solo il titolare "individuato dagli stessi ricorrenti nel de cuius Merga Andrea" (su questo punto non vi è censura alcuna e quindi si tratta di un dato acquisito). Da questo inquadramento dell'istituto il Tribunale trae la logica conseguenza della inapplicabilità della disciplina relativa allo scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio, di cui agli art. 2284 e ss. c.c., e quindi della liquidazione della quota del socio uscente, che era il fine perseguito dagli attori; precisa poi che residua a favore dei partecipanti solo il diritto di credito (relativo alla quota di utili, dei beni aziendali acquistati con essi e degli incrementi) in caso di cessazione o alienazione dell'azienda e più in generale di passaggio di proprietà anche per causa di morte, senza pregiudizio dei diritti dei partecipanti, che non sono stati però mai azionati. Si osserva in proposito che la affermazioni del Tribunale sono pienamente condivisibili. La Corte, infatti, ha già avuto modo di affermare il principio di diritto secondo cui "La disciplina dettata per l'esclusione del socio dalla società semplice dall'art. 2287 cod. civ. trova applicazione per l'impresa collettiva appartenente per quote (uguali o diverse) a più persone, ma non per l'impresa umiliare di cui all'art. 230 bis cod. civ., che appartiene sempre al suo titolare, mentre i familiari partecipanti hanno diritto solo ad una quota degli utili. In tale ipotesi, l'esclusione può quindi avvenire solo nei confronti dei predetti familiari con il diritto, oltre che alla liquidazione della quota spettante, al risarcimento del danno per il caso in cui l'esclusione sia ingiustificata, non potendo il titolare della impresa essere privato dell'esercizio della propria attività' economica ed essere espropriato dei beni aziendali e dei capitali, che restano di sua esclusiva proprietà anche dopo la trasformazione dell'originaria impresa individuale in impresa familiare" (Cass. n. 8959 del 25/7/99). La tesi sostenuta dal ricorrente, secondo cui questo principio sarebbe applicabile solo dopo la scelta operata dai partecipanti in favore della liquidazione della loro quota, non è condivisibile, perché in contrasto con la natura individuale e non societaria dell'impresa, per cui non esiste una comunione da sciogliere.
Nè esiste una forma di acquisto a titolo originario della proprietà merce l'esercizio della impresa familiare, come prospettato dai ricorrenti, sia per la diversa natura di questo istituto rispetto alla comunione legale dei beni fra coniugi, sia per là debolezza dell'argomento su cui si fonda la loro pretesa: dalla espressione "il diritto di partecipazione "può" essere liquidato in denaro" (comma 4^ dell'art. 230 bis) i ricorrenti ricavano che, come unica alternativa, vi sarebbe una soluzione che ritengono "principale, anche se sottaciuta, ... della divisione in natura del bene";
l'alternativa invece è quella prevista dallo stesso art. 230 bis, al 5^ comma, laddove stabilisce che "in caso di divisione ereditaria, o di trasferimento dell'azienda, i partecipi ... hanno diritto di prelazione sull'azienda"; diritto che gli attuali ricorrenti non hanno mai esercitato, come chiaramente emerge dalle loro stesse deduzioni.
In ordine alla censuro relativa alla affermazione di carenza di interesse ad agire si osserva che il Tribunale lo ha escluso sotto un duplice profilo, da una parte, per l'impossibilità giuridica di ottenere il riconoscimento della comproprietà dell'azienda (65% in testa ai ricorrenti e 35% in testa dal de cuius), perché l'impresa familiare è cessata per trasferimento mortis causa e l'azienda di cui Andrea Merga era unico titolare è passata per intero nell'asse ereditario e, dall'altra, per il mancato esercizio dei diritti di credito astrattamente spettanti ai partecipanti.
Il primo profilo, in realtà, più che una declaratoria di difetto di legittimazione processuale è un rigetto nel merito della domanda; il secondo, invece, si configura come carenza di interesse ad agire, perché se la parte non chiede la liquidazione dei suoi diritti di credito, non ha giuridico interesse all'accertamento della sussistenza della impresa familiare. La questione però non è rilevante, perché la sentenza si conclude con il rigetto dell'appello e la conferma (sia pure con diversa motivazione) della pronuncia di rigetto della domanda; questa in ogni caso si imponeva, in virtù delle argomentazioni svolte dal giudice d'appello, sia per il merito, che per la carenza di interesse in virtù del principio di diritto già elaborato dalla Corte, secondo cui "la carenza di interesse ad agire risolvendosi, in sostanza, in difetto di legittimazione, comporta una pronuncia di rigetto e non già di inammissibilità" (Cass. n. 2416 del 2/3/95). Corretta è quindi la sentenza di rigetto della domanda, sia per il merito, che per la carenza di interesse ad agire ed il ricorso va rigettato. Le spese vanno poste a carico dei ricorrenti e liquidate come in dispositivo. P.Q.M.
LA CORTE
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese, che liquida in Euro oltre ad Euro 4.000,00 per onorario.
Così deciso in Roma, il 9 ottobre 2003.
Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2004