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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6420 - pubb. 01/08/2010.

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Cassazione civile, sez. I, 11 Aprile 1995. Est. Vignale.

Società - Di persone fisiche - Società semplice - Scioglimento - Cause - In genere - Società costituita da due soli soci - Morte di uno dei soci - Conseguenze.


La morte del socio di una società di persone non determina necessariamente lo scioglimento generale della società, ne' la formale liquidazione della stessa, ancorché la società sia costituita da due soli soci, in quanto anche in tale ipotesi è applicabile la disciplina dello scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio (art. 2284 cod. civ.), dovendo il socio superstite procedere anzitutto alla liquidazione della quota spettante agli eredi dell'altro socio (salvo le eccezioni previste dallo stesso art. 2884), mentre lo scioglimento della società conseguirà solo se, in termini di cui all'art. 2272, n. 4 cod. civ., la pluralità dei soci non viene ricostituita. (massima ufficiale)

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE I

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Francesco Enrico ROSSI Presidente
" M. Rosario VIGNALE Rel. Consigliere
" Ernesto LUPO "
" Mario CICALA "
" Giuseppe M. BERRUTI "
ha pronunciato la seguente

SENTENZA
sul ricorso proposto
da
VENTURA MARIA (detta Mary) elettivamente domiciliata in Roma via Luigi Calamatta 16 c-o l'avv. Antonio Cardarelli che la rappresenta e difende unitamente all'avv. Adolfo Di Majo giusta delega a margine del ricorso;
Ricorrente
contro
FELICI ALESSANDRO, ANTONIO, DARIO;
Intimati
e sul secondo ricorso 1922-93 proposto
da
FELICI ALESSANDRO, ANTONIO E DARIO, quest'ultimo rappresentato da AMANTINI ALESSANDRO, elettivamente domiciliati in Roma Lungotevere dei Mellini 24 c-o l'avv. Giovanni Giacobbe che li rappresenta e difende giusta delega in calce al controricorso;
Controricorrente e ricorrente incidentale
contro
VENTURA MARIA, elettivamente domiciliata in Roma via L. Calamatta 16 c-o l'avv. Antonio Cardarelli che la rappresenta e difende giusta delega a margine del controricorso;
Controricorrente
avverso la sentenza 2942-92 della Corte di Appello di Roma dep. il 22.10.1992;
udito per il ricorrente l'avv.to Di Majo che chiede l'accoglimento;
udito per il resistente l'avv.to Giacobbe che chiede il rigetto;
udita la relazione della causa svolta dal Consigliere Relatore Dott. Vignale nella pubblica udienza del giorno 23.11.1994;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Lugaro che conclude per il rigetto del ricorso principale - assorbito il ricorso incidentale.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Nel 1987, Maria Ventura convenne innanzi al Tribunale di Roma Alessandro Felici, in proprio e quale esercente la patria potestà sul figlio minore Dario, nonché Antonio Felici, quali eredi della defunta sorella Grazia Maria. Premesso di aver gestito, in società di fatto con la sorella, in un immobile di loro proprietà, la clinica Villa Maria Grazia, chiese fosse dichiarato lo scioglimento della società, le fossero attribuiti i beni societari mobili ed immobili, fosse determinata la misura dei diritti degli eredi e che questi fossero condannati al rilascio dei locali della clinica. Il Tribunale, con sentenza non definitiva, dichiarò lo scioglimento della società di fatto alla data della morte di Grazia Maria Ventura, escluse che l'immobile nel quale era situata la clinica appartenesse alla società stessa e rimise la causa al giudice istruttore per la liquidazione della società. La sentenza impugnata dalla Ventura, fu integralmente confermata dalla Corte d'appello di Roma, la quale, con sentenza del 22 ottobre 1992, premesso che con la domanda introduttiva del giudizio la Ventura si era limitata a chiedere la dichiarazione di scioglimento della società, ha innanzitutto osservato che tale domanda era stata sostanzialmente accolta; ha, poi, stabilito che nella specie, non essendo intervenuta la liquidazione della quota a favore degli eredi della socia defunta, non era consentito l'esercizio dell'impresa da parte del solo socio superstite, per cui la società doveva essere posta in liquidazione; che la Ventura non poteva chiedere il rilascio dello stabile in cui veniva esercitata l'impresa, non avendo previamente proceduto alla liquidazione della quota degli eredi; che, peraltro, la proprietà dell'immobile stesso (da entrambe le socie originariamente conferito in comodato alla società), non era passata alla società, ma era rimasta in proprietà comune delle socie stesse, non potendo ritenersi, in mancanza di un atto scritto, che queste lo avessero conferito in società; che pertanto la domanda di rilascio dell'immobile formulata dalla Ventura non poteva essere accolta; neppure intendendola esercitata per ottenere l'adempimento del comodato, anche perché gli eredi della socia defunta avevano revocato il comodato.
Contro tale sentenza la Ventura ha proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi. Resistono Alessandro, Antonio e Dario Felici con controricorso, formulando, a loro volta; ricorso incidentale, basato su un unico motivo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso principale e quello incidentale, in quanto relativi alla stessa sentenza, vanno riuniti ai sensi dell'art.335 cod. proc. civ..
Va, in via pregiudiziale, esaminata la fondatezza dell'eccezione di inammissibilità del ricorso incidentale, dedotta dalla Ventura sul rilievo che, nella copia notificatale, la procura stesa in calce al ricorso, non recando l'indicazione dell'avvocato al quale fu rilasciata, sarebbe affetta da nullità. La Corte osserva che la sicura riferibilità di tale procura proprio all'avvocato che stese il ricorso, emerge innanzitutto dall'epigrafe del ricorso stesso (il cui testo precede quello della procura), ma anche dal fatto che le parti elessero domicilio presso lo studio del medesimo avvocato ed, infine, dalla considerazione che proprio quest'ultimo procedette alla certificazione dell'autografia delle sottoscrizioni della procura. Elementi tutti in base ai quali si deve affermare la validità della procura in questione, potendo dallo stesso documento in calce al quale la procura era stata rilasciata, individuarsi il suo destinatario nella persona dell'avvocato che aveva steso il ricorso incidentale.
Con il primo motivo di ricorso, la Ventura lamenta che erroneamente il giudice di appello abbia affermata, per il caso di estinzione di una società costituita da due soli soci, la necessità della liquidazione del patrimonio sociale e, quindi, la cessazione dell'impresa. Sostiene che, invece, in tal caso, spetti al socio superstite di decidere se continuare o no l'impresa in forma individuale e, in tal ultima ipotesi, liquidare l'altra quota agli eredi della socia defunta. Conclude che, quindi, il giudice del merito non avrebbe potuto disporre la liquidazione della società. Riferendosi in particolare a questa censura, i Felici, con il ricorso incidentale, hanno lamentato che la Corte di merito - pur avendo dato atto, con riferimento al primo motivo d'appello, che la censura era stata rivolta ad un caso di decisione favorevole all'appellante (la dichiarazione di scioglimento della società) - abbia erroneamente omesso di dichiarare l'inammissibilità dell'impugnazione.
È opportuno, quindi, esaminare in via preliminare questa censura d'inammissibilità, la cui fondatezza precluderebbe ogni indagine su tutte le questioni sollevate nel ricorso principale. Poiché con il ricorso incidentale viene prospettata la commissione di un error in procedendo da parte della Corte d'appello (concretantesi nell'esame del merito dell'impugnazione, malgrado l'inammissibilità della stessa), è necessario accertare - attraverso un esame degli atti processuali - se effettivamente, come affermano i ricorrenti in via incidentale, debba ritenersi che, avendo il Tribunale accolto la domanda di scioglimento della società, fosse precluso alla Ventura di impugnare la sentenza; tal che il giudice dell'appello, accertata l'inammissibilità dell'appello, non avrebbe dovuto passare all'esame dei motivi d'impugnazione.
Dall'esame suddetto, risulta, tuttavia, che la Ventura, con l'atto introduttivo del giudizio, chiese non che fosse semplicemente dichiarato lo scioglimento della società di fatto tra essa stessa e la sorella defunta, ma anche che: a) previo accertamento che gli eredi della socia defunta avevano diritto solo alla liquidazione della quota, si procedesse alla determinazione di questa; b) previo accertamento del proprio diritto su tutti i beni mobili ed immobili della società di fatto, gli eredi suddetti fossero condannati a rilasciarle l'immobile destinato a clinica.
Appare evidente che l'unico punto sul quale la decisione del Tribunale risultò favorevole alla domanda fu quello inerente allo scioglimento della società. Sussisteva, quindi, l'interesse della Ventura ad appellare la sentenza di primo grado; e ne conseguiva l'ammissibilità dell'impugnazione, poiché questa investiva quelle articolazioni della domanda introduttiva che non erano state accolte. Pertanto, il ricorso incidentale deve ritenersi infondato. Ritornando, quindi, all'esame del primo motivo del ricorso principale, va osservato che la fattispecie della morte di un socio nell'ipotesi di società personale costituita da due soli soggetti, e regolata innanzitutto da due norme, gli artt. 2272 n. 4 e 2284 cod. civ., di cui mentre la prima prevede lo scioglimento della società quando sia venuta meno la pluralità dei soci e questa non venga ricostituita nel termine di sei mesi, la seconda, nell'ipotesi di morte di uno dei soci, pone a carico degli altri soci, salvo fattispecie particolari, solo l'obbligo di liquidare la quota agli eredi.
Dalla comparazione di queste due norme e dalla loro particolare collocazione nell'ambito del codice civile (la prima posta nel libro V, titolo V, sez. II, capo IV, Dello scioglimento della società e, la seconda, nel successivo capo V, Dello scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio), la prevalente dottrina e tutta la giurisprudenza hanno tratto il convincimento che le due disposizioni restano compatibili anche nell'ipotesi di morte di un socio in una società composta da due soli soci, tal che l'applicazione di una di esse non esclude quella dell'altra (cfr., per l'analogo, ma diverso caso di recesso di uno dei due soci, Cass. 22 giugno 1963 n. 2899). Infatti, la nascita del diritto degli eredi alla liquidazione della quota e lo scioglimento della società sono conseguenze di due eventi distinti: il primo costituito dalla morte del socio; il secondo dalla mancata ricostituzione della pluralità dei soci (Cass. 7 maggio 1974 n. 1278 e 16 luglio 1976 n. 2812; 22 dicembre 1978 n. 6156; 16 febbraio 1981 n. 936; 6 febbraio 1984 n. 905). Le norme, pertanto, hanno un diverso ambito, inerendo la prima ai rapporti esterni tra società e terzi e la seconda ai rapporti interni tra soci. Da ciò deriva che, nel caso di morte di uno dei due soci, il socio superstite deve procedere innanzitutto alla liquidazione della quota spettante agli eredi (salve le eccezioni previste dallo stesso art. 2284), fermo restando lo scioglimento della società se, nei termini di cui all'art. 2272 n. 4, la pluralità dei soci non viene ricostituita. Da cui la conclusione che anche nelle società con due soli soci e possibile lo scioglimento limitato ad uno solo di essi, senza che cio implichi lo scioglimento generale della società. In altri termini, gli eredi hanno solo il diritto alla liquidazione della quota del socio loro dante causa: un diritto che sorge e si conserva (art. 2284) indipendentemente dal fatto che la società continui o si sciolga per la mancata ricostituzione della pluralità dei soci art. 2272 n. 4). Ed invero, tale diritto nasce per effetto della sola morte del socio e, rispetto ad esso, e indifferente che la pluralità dei soci sia stata o non sia stata ricostituita.
Quello di tutelare l'impresa gestita dalla societa, consentendo il più possibile che ne siano conservate l'organizzazione, la potenzialità di produrre reddito e la continuità dell'attività economica che ne costituisce l'oggetto, e certamente l'intento cui si ispira l'art. 2272 n. 4 (Cfr. Cass. 18 giugno 1956 n. 2164; 8 ottobre 1970 n. 1850; 22 dicembre 1978 n. 6156 cit.; 16 febbraio 1981 n. 936 cit.; 6 febbraio 1984 n. 905 cit.), conformemente, del resto, all'intero sistema del diritto delle società; un intento che non può non riflettersi anche sulla disciplina delle società composte da sole due soci, se è vero che il comb. disp. degli artt. 2287 ult. co. e 2289 cod. civ., nel regolare gli effetti dell'esclusione del socio nelle società di due persone, prevede lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un solo socio, senza subordinare tale effetto alla ricostituzione della pluralità dei soci e senza neppure collegare automaticamente a tale mancanza lo scioglimento della società (cfr. Cass. 30 maggio 1953 n. 1643; 18 giugno 1956 n. 2164 cit; 22 dicembre 1978 n. 6156 cit.). A conferma di quanto si è osservato, va rilevato, peraltro, che la Relazione al Progetto ministeriale Asquini del Codice di commercio (par. 37), trasfuso nel V libro del codice civile, esponeva: "Il concetto che ha ispirato la riforma... è stato che lo scioglimento della società con la conseguente liquidazione del suo patrimonio importa normalmente la distruzione dell'azienda e con ciò una distruzione di ricchezza. Ho creduto pertanto che, nell'interesse dei singoli e nell'interesse stesso dell'economia nazionale, si dovessero limitare i casi di scioglimento alle sole ipotesi in cui fosse una necessità imprescindibile...".
Di questo intento del legislatore va, quindi, tenuto conto anche nel determinare, alla luce della legislazione vigente, la disciplina dei rapporti tra socio superstite ed eredi del socio defunto, quando il termine dei sei mesi per la ricostituzione della pluralità dei soci (art. 2272 n. 4) sia scaduto.
Si è già detto che la morte del socio, comportando lo
scioglimento del solo vincolo sociale estinto, fa sorgere negli eredi del socio defunto il diritto alla liquidazione della quota. Questo unico diritto spettante agli eredi ed esso, pur sorgendo immediatamente per effetto della morte del socio, è esigibile dagli eredi solo quando sia scaduto il sesto mese a partire da tale evento;
nel senso che, dovendo il relativo debito essere adempiuto entro il sesto mese, il debitore ha il potere di rinviarne l'adempimento fino a tale scadenza (comb. disp. artt. 2284 e 2289, ult. co., cod. civ.). Ma la scadenza di questo termine non comporta la trasformazione del diritto alla liquidazione della quota, degli eredi in quanto tali, in diritto allo scioglimento generale della società (Cass. 7 maggio 1974 n. 1278 cit.; 16 luglio 1976 n. 2812 cit.; 22 dicembre 1978 n. 6156 cit.; 16 febbraio 1981 n. 936 cit.). Il diritto degli eredi non subisce una siffatta trasformazione neppure se - alla scadenza del termine, anch'esso semestrale, di cui all'art. 2289 ult. co. resta insoddisfatto. Il termine di cui all'art. 2289, infatti, nessun collegamento ha con quello di cui all'art. 2272 n.4, sicché l'inutile sua scadenza produce solo l'effetto di rendere immediatamente esigibile il credito è applicabile, alla fattispecie, le disposizioni in materia di mora e di inadempimento (Cass. 18 giugno 1956 n. 2164 cit.).
Gli eredi devono esercitare il loro diritto, secondo la stessa lettera dell'art. 2284, non già contro la società, bensì contro il socio superstite, il quale, come è stato sottolineato dalla dottrina e dalla giurisprudenza (cfr. Cass. 18 giugno 1956 n. 2164 cit.), con la morte dell'altro socio ha accresciuto la propria partecipazione nel patrimonio sociale.
L'inutile scadenza dell'uguale (ma distinto) termine semestrale senza ricostituzione della pluralità dei soci, secondo quanto dispone l'art. 2272 n. 4 cod. civ., comporta l'automatico scioglimento anche della società e, quindi, pure la liquidazione della stessa. Quando, tuttavia, uno solo e il socio superstite, sono inapplicabili gli artt. 2275 e segg. in tema di liquidazione della società. In particolare, deve escludersi che - oltre al socio superstite (Cass. 10 febbraio 1972 n. 370; 16 febbraio 1981 n. 936 cit.) - alla liquidazione della società possa procedersi dall'autorità giudiziaria su richiesta degli eredi del socio (Cass. 18 giugno 1956 n. 2164 cit.; 16 febbraio 1981 n. 936 cit.) o su autonoma iniziativa del giudice, giacché l'intervento del giudice, a MOTIVI DELLA DECISIONE
norma dell'art. 2275, presuppone un disaccordo tra i soci e tali non possono essere ritenuti gli eredi del socio defunto (Cass. 20 dicembre 1985 n. 6525). Per la liquidazione della società, allora, non essendo necessaria l'adozione di una procedura formale (cfr., tra le tante decisioni, conformemente alla dottrina dominante, Cass. 27 ottobre 1972 n. 3320; 25 gennaio 1978 n. 333; 22 novembre 1980 n. 6212), nulla impedisce al socio superstite (anche alla luce del predetto intento legislativo di favorire la continuazione dell'impresa) di attendere agli incombenti collegati allo scioglimento della società, procedendo semplicemente all'estinzione di tutti i debiti sociali verso i terzi (oltre a quelli verso gli eredi del socio defunto), in modo da proseguire individualmente l'esercizio dell'attività imprenditoriale attraverso l'utilizzazione dei beni costituenti il vecchio patrimonio sociale (Cass. 6 febbraio 1984 n. 905 cit.). Il che determinerà, ovviamente, in via conclusiva l'estinzione della società e la continuazione dell'attività imprenditoriale da parte dell'ex socio superstite, divenuto imprenditore individuale, salva l'osservanza dell'art. 2626 cod.civ.. Ciò non importa che la liquidazione della società non possa essere promossa anche dagli eredi così come dai creditori sociali e del socio superstite, per opposti motivi), ma gli eredi potranno chiederla soltanto se intendono ottenere una maggiore garanzia per la realizzazione del loro credito, acquisendo il potere di aggredire oltre al patrimonio del socio superstite anche quello sociale che va con esso a confondersi (Cass. 16 febbraio 1981 n. 936). In conclusione, per ritornare al nucleo della censura illustrata nel primo motivo del ricorso principale, deve ritenersi errata la decisione impugnata nella parte in cui - sull'erronea affermazione che la liquidazione della società conseguiva al mancato pagamento, nel termine di cui all'ult. co. dell'art. 2889 cod. civ., della quota spettante agli eredi - ha prima escluso che la società in questione, stante tale inadempimento, potesse tramutarsi in impresa individuale, senza passare per una fase di formale liquidazione, ed ha, poi, d'ufficio, dato impulso alla procedura di liquidazione della società sciolta.
La sentenza della Corte d'appello, in relazione a tale censura, va, conseguentemente, cassata, con rinvio della causa ad altra sezione della Corte d'appello di Roma, che, nell'adeguarsi ai principi innanzi enunciati, provvederà anche in ordine al regolamento delle spese del giudizio di cassazione. Infondato deve ritenersi, invece, il secondo motivo del ricorso principale, con il quale la Ventura critica la decisione di appello nel punto in cui ha escluso che essa potesse chiedere il rilascio dell'immobile in cui veniva esercitata l'impresa, in quanto il conferimento dell'immobile alla società non aveva assunto la forma scritta. Sostiene la ricorrente che la volontà delle socie di conferire nella società l'immobile di loro proprietà comune si desumeva dall'incarico da loro dato ad un perito per la valutazione dell'immobile, in vista della trasformazione della società di fatto in una società di capitali. Aggiunge che la mancata realizzazione del progetto di trasformazione non toglieva rilievo alla circostanza che, nell'incarico conferito al perito, le socie avessero espressamente dichiarato che l'immobile faceva parte della societa,' così obbedendo, quanto alla forma della manifestazione di volontà, al precetto di cui all'art. 1350 cod. civ. per il trasferimento dei beni immobili.
Correttamente il giudice del merito è giunto alla conclusione che la società di fatto tra le due sorelle Ventura non poteva ritenersi divenuta proprietaria dell'immobile, a seguito di conferimento da parte delle socie. Invero, i contratti che trasferiscono la proprietà di immobili richiedono la forma scritta quoad substantiam e, perché possa ritenersi integrato tale requisito, non è sufficiente la formazione di un qualsiasi documento dal quale possa indirettamente risultare la prova che il contratto sia stato già concluso o che s'intenda concluderlo, ma è necessario che la manifestazione di volontà negoziale sia direttamente contenuta nell'atto scritto, nel senso che questo deve costituire l'estrinsecazione formale diretta e completa della volontà contrattuale delle parti e deve essere stato formato al fine specifico di manifestare tale volonta (cfr., tra i tanti precedenti giurisprudenziali, Cass. 13 gennaio 1982 n. 6822; 10 dicembre 1984 n. 6480; 18 febbraio 1985 n. 1374). Condizioni, queste, che evidentemente non sussistono nel caso di specie, in cui l'atto al quale bisognerebbe far riferimento per dedurne una manifestazione di volontà nel senso predetto, consiste in un'istanza rivolta dalle proprietarie, formalmente a tutt'altro fine, all'autorità giudiziaria.
Egualmente infondato è il terzo motivo di ricorso, con il quale la Ventura lamenta che il rigetto della domanda di rilascio dell'immobile destinato a clinica - da lei proposta al fine di proseguirvi l'esercizio in forma individuale dell'impresa di cui era rimasta unica titolare - sia stato giustificato con il fatto che l'istante non aveva provveduto alla liquidazione della quota degli eredi della socia defunta. Osserva che la mancata liquidazione della quota era dipesa unicamente dalla condotta deqli eredi. Rileva, infine, che, quand'anche si fosse dovuto ritenere che lo stabile non era stato conferito in società ma era stato solo concesso in comodato alla stessa da ciascuna delle socie per la rispettiva quota di proprietà, il rifiuto opposto dagli eredi della socia defunta al rilascio dell'immobile doveva ritenersi illegittimo per violazione delle obbligazione nascenti da tale contratto, sicché la pronuncia di rigetto basata sulla revoca del comodato da parte degli eredi, non avendo questi ultimi chiesto la restituzione del cespite, violava il principio della domanda.
Anche se deve respingersi, per quanto osservato a proposito del primo motivo del ricorso, l'ipotesi di un qualsiasi collegamento tra la mancata liquidazione della quota spettante agli eredi da un lato e lo scioglimento e la liquidazione della società dall'altro, chi -come la ricorrente - deve procedere, sia pure in modo non formale, alla liquidazione della società, non può non tener conto del disposto dell'art. 281 cod. civ., in base al quale i soci che hanno conferito beni in godimento, hanno diritto di riprenderli nello stato in cui si trovano. Ma (considerato come la censura è stata impostata), nella valutazione della fondatezza di questo ultimo motivo di ricorso, appare assorbente la considerazione che il contratto di comodato dell'immobile (o meglio della quota spettante alla socia defunta) senza determinazione di durata, è revocabile ad nutum (art. 1810 cod. civ.). Nella specie, infatti, non è affatto certo che una precisa durata del comodato fosse indirettamente desumibile dall'uso cui l'immobile era stato destinato dalle socie comodanti (la gestione di una clinica), giacché non è stato neppure enunciato che tale destinazione derivasse da soggettiva configurazione architettonica dell'immobile o da altri elementi sicuri, e non può affatto escludersi che la destinazione dell'immobile a quell'uso fosse subordinata alla continuazione di una società della quale facessero parte come socie entrambe le comodanti. Ciò senza considerare che, secondo una corrente giurisprudenziale, quand'anche si tratti di comodato con determinazione implicita di durata, il contratto, essendo basato sulla fiducia, deve ritenersi estinto in conseguenza della morte della comodante (cfr. Cass. 10 aprile 1970 n. 986; 24 settembre 1979 n. 4920 e 19 aprile 1991 n. 4258), così come espressamente disposto per il decesso del comodatario dall'art. 1811 cod. civ.. Ne può ritenersi, infine, che, rigettando la domanda di rilascio proposta dalla ricorrente principale, la Corte di merito abbia pronunciato extra petita. Infatti, il giudice doveva certamente valutare la sussistenza delle condizioni oggettive per l'accoglimento della stessa e, nella specie, era del tutto pacifico che gli eredi della socia defunta avessero revocato il comodato (facendone venir meno l'efficacia) e che la controversia investiva solo la legittimità di quella revoca. Tal che la pronuncia di rigetto della domanda di rilascio non richiedeva affatto la formulazione di una contrapposta richiesta degli eredi volta ad ottenere la restituzione dell'immobile, non avendo neppure indirettamente deciso circa una pretesa di restituzione avanzata dagli eredi.
Il secondo ed il terzo motivo del ricorso principale, così come il ricorso incidentale, devono, pertanto, essere rigettati. P.Q.M.
La Corte riuniti i ricorsi, rigetta il secondo ed il terzo motivo di quello principale e rigetta il ricorso incidentale; accoglie il primo motivo del ricorso principale e cassa, in relazione al motivo accolto, la sentenza impugnata, rinviando la causa ad altra sezione della Corte d'appello di Roma, che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
Roma, 23 novembre 1994.