Diritto Societario e Registro Imprese


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6450 - pubb. 01/08/2010

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Cassazione civile, sez. I, 21 Dicembre 1999, n. 14360. Est. Plenteda.


Società - Di persone fisiche - Società semplice - Scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio - Recesso del socio - Cessione della quota sociale ai soci restanti - Obbligo del receduto di richiedere la cancellazione del proprio nome dal registro delle imprese - In assenza di esplicita disposizione pattizia - Sussistenza - Esclusione - Fondamento - Conseguenze.



In ipotesi di recesso da società semplice (e connessa cessione della quota sociale da parte del socio uscente ai soci restanti), salvo che ciò non sia esplicitamente convenuto in sede pattizia, non può ritenersi connaturale alla prestazione dovuta dal receduto l'obbligo di ottenere la cancellazione del proprio nome dal registro delle imprese, atteso che l'annotazione della residuale compagine sociale corrisponde all'interesse sia dei soci rimasti (per evitare che il receduto continui ad impegnare la società nei confronti dei terzi), sia del receduto (per evitare le responsabilità che gli residuerebbero in ordine alle obbligazioni successivamente contratte dalla società) e che perciò tanto gli uni quanto l'altro potrebbero richiedere tale annotazione; ne consegue che l'omessa annotazione non può fondare una richiesta di risoluzione del contratto di cessione della quota sociale per inadempimento, non potendosi configurare a carico del socio receduto alcun inadempimento ne' alcuna violazione dei doveri di diligenza e buona fede previsti dagli artt. 1176, 1366 e 1375 cod. civ. e tenuto conto, tra l'altro, che l'art. 2300 cod. civ. pone a carico degli amministratori l'obbligo di dare pubblicità alle modificazioni statutarie e agli altri fatti relativi alla vita sociale di cui è obbligatoria l'iscrizione, onde un tale obbligo non potrebbe fare capo al socio receduto, che ha perso il potere di gestione, essendo divenuto ormai estraneo alla società. (massima ufficiale)


 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Pellegrino SENOFONTE - Presidente -
Dott. Giammarco CAPPUCCIO - Consigliere -
Dott. Donato PLENTEDA - rel. Consigliere -
Dott. Laura MILANI - Consigliere -
Dott. Paolo GIULIANI - Consigliere -
ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A
sul ricorso proposto da:
MARZORATI GIOVANNI, MARZORATI GIUSEPPE, MARZORATI MARCO, elettivamente domiciliati in ROMA VIA GAVINANA 1, presso l'avvocato FRANCESCO PECORA, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato ETTORE GRECO, giusta procura in calce al ricorso;
- ricorrenti -
contro
MARZORATI DIONIGI, MARZORATI GIULIANO, elettivamente domiciliati in ROMA VIA ACHILLE PAPA 21, presso l'avvocato GAMBERINI MONGENET RODOLFO, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato GIUSEPPE BRENZONE, giusta procura in calce al controricorso;
- controricorrenti -
avverso la sentenza n. 1229/97 della Corte d'Appello di MILANO, depositata il 18/04/97;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/05/99 dal Consigliere Dott. Donato PLENTEDA;
udito per il resistente, l'Avvocato Gamberini Mongenet, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Antonio MARTONE che ha concluso per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Marzorati Dionigi, Giuliano, Giovanni, Giuseppe e Marco il 28.7.1993 sottoscrissero una scrittura con cui convennero il recesso dei primi due dalla società di fatto "6 M dei cugini Marzorati" a far tempo dal 31.7.1993, dietro corrispettivo in loro favore del valore delle quote per L. 150.000.000.
Non essendo avvenuto nella data concordata il pagamento, Marzorati Dionigi e Giuliano nell'ottobre successivo ottennero il sequestro conservativo sui beni dei debitori, che poi convennero dinanzi al Tribunale di Monza per la loro condanna all'adempimento di quanto dovuto. I convenuti resistettero alla domanda, chiedendo in via riconvenzionale la declaratoria di risoluzione del contratto perché i receduti non avevano cancellato i loro nomi dal registro delle imprese, ovvero di nullità dello stesso, perché viziato da errore essenziale sull'ammontare dell'attivo e quindi sul valore delle quote. Il Tribunale accolse la domanda degli attori e contro la sentenza proposero appello i convenuti, con le stesse difese di primo grado. La Corte di Appello di Milano con sentenza 8.4.1997 rigettò l'impugnazione, ritenendo non provato quanto eccepito dagli appellati in ordine a presunte condizioni di efficacia del contratto, non realizzate, negando valore alla mancata cancellazione della qualità di soci presso il registro delle imprese ed escludendo l'errore invocato, dal momento che il valore delle quote era stato determinato da una perizia affidata a due esperti nominati congiuntamente dalle parti, dalla quale peraltro la liquidazione finale si era discostata, perché intervenuta due mesi dopo la stima e dunque nella piena consapevolezza dell'andamento economico dell'azienda societaria. Avverso tale decisione hanno proposto ricorso per cassazione Marzorati Giovanni, Giuseppe e Marco, con tre motivi, cui hanno resistito con controricorso Marzorati Dionigi e Giuliano. Motivi della decisione
Con il primo motivo i ricorrenti denunziano la violazione dell'art. 1453 c.c. e la falsa applicazione degli artt. 2285 e 2300 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c.. Assumono che dall'interesse dei soci rimasti - ai fini dell'art. 2300 c.c. - acché fosse risultato il recesso dei resistenti presso il registro delle imprese e dall'impossibilità per loro di chiederne la annotazione, emergerebbe l'obbligo dei soci receduti di ottenere la cancellazione dei loro nomi da detto registro, che l'art. 2285 c.c. non esclude, sicché la richiesta di risoluzione del contratto risultava giustificata dalla violazione di quell'obbligo. La censura non merita accoglimento. Essa suppone violato un obbligo contrattualmente assunto da Marzorati Dionigi e Giuliano, in occasione del loro recesso dalla società - o più propriamente dell'atto di cessione delle quote agli altri soci, essendosi trattato di un negozio bilaterale tra i due gruppi di soci - in forza del quale avrebbero dovuto conseguire la cancellazione dal registro delle imprese (rectius dalla Camera di Commercio, trattandosi di società non registrata) dei loro nomi rispetto alla originaria compagine sociale. Tale obbligo avrebbe corrisposto all'interesse dei soci rimasti, perché, in difetto di quella cancellazione, i receduti avrebbero continuato ad impegnare la società nei confronti dei terzi. L'assunto è privo di fondamento, non risultando quell'obbligo pattiziamente contratto ne' essendo connaturale alla prestazione dovuta. Escluso, infatti, sotto il primo aspetto, non essendosi nelle difese dei ricorrenti fatta menzione alcuna della clausola a riguardo, non è dato ravvisarlo neanche sotto il secondo, attraverso il preteso argomento dell'interesse dei soci rimasti a conseguire la annotazione del recesso, corrispondendo la annotazione della residuale compagine dei soci presso la Camera di commercio all'interesse non solo di quelli rimasti ma anche dei receduti, per la responsabilità che a loro carico sarebbe residuata per le obbligazioni successivamente contratte dalla società; sicché non può desumersi dalla contestata omissione una violazione dei doveri di diligenza e buona fede previsti dagli artt. 1176, 1366 e 1375 c.c., proprio in considerazione delle reciproche utilità e della conseguente possibilità tanto per gli uni quanto per gli altri di richiedere tale annotazione, in difetto di norme di legge che avessero onerato i soci receduti dell'adempimento, del tutto privo di significato risultando l'argomento che l'art. 2285 c.c. tale adempimento non esclude, dal momento che rileva piuttosto che ad esso il socio che recede sia tenuto, o per specifico disposto di legge o in relazione all'interesse tutelato.
Escluso, dunque, che per tale ultimo verso l'obbligo ricadesse sui resistenti, sotto l'aspetto più direttamente normativo esso, semmai, risulta essere stato dei ricorrenti in quanto esclusivi amministratori della società ai sensi degli artt. 2257 e 2293 c.c., una volta che i soci receduti avevano perduto il potere di gestione perché ormai estranei alla società; e ciò in relazione a quanto dispone l'art. 2300 c.c. che pone, appunto, a carico degli amministratori il dovere di dare pubblicità alle modificazioni statutarie e agli altri fatti relativi alla società, di cui è obbligatoria l'iscrizione.
Con il secondo ed il terzo motivo i ricorrenti hanno dedotto la violazione e falsa applicazione, rispettivamente dal II e dal III comma dell'art. 2289 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., giacché la liquidazione della quota, in luogo di rapportarsi al momento dello scioglimento del rapporto tra socio e società, come previsto da tale norma, si era riferita alla data del 27.5.1993, in cui era intervenuta la stima, la quale di molti debiti già allora esistenti, pari a L. 109.843.160, non aveva tenuto conto, per dimenticanza dell'amministratore della società Marzorati Dionigi, che non li aveva evidenziati; sicché di quei debiti i soci receduti erano obbligati al rimborso.
Del pari nell'elaborato di stima era risultato un credito verso terzi, che successivamente si era sensibilmente abbattuto a causa della insolvenza del debitore - imprevedibile alla data del recesso del 28.7.1993, - il quale aveva potuto adempiere all'obbligazione solo nella misura percentuale prevista dal concordato preventivo, cui era stato ammesso. Alla perdita di tale credito come alle suddette sopravvenienze passive - avrebbero dovuto concorrere i soci receduti, avuto riguardo al disposto dell'art. 2289 III comma c.c., che al socio uscente o ai suoi eredi conserva la partecipazione agli utili e alle perdite, inerenti alle operazioni che siano in corso all'atto della liquidazione della quota.
Anche tali censure debbono essere disattese.
Quanto alla divergenza del momento liquidatorio della quota, riferito al 27.5.1993, rispetto a quello dello scioglimento del rapporto sociale con i soci uscenti, fissato al 31.7.1993, la doglianza, è senza fondamento, sia perché la norma invocata dell'art. 2289 c.c. suppone le forme tipiche di scioglimento, della morte, del recesso e della esclusione del socio, in cui è la società debitrice della quota (anche nella ipotesi del decesso, in cui gli altri soci sono solo obbligati sussidiari ex art. 2284 c.c.:
Cass. 1027/1993; 103/1972), mentre nella specie la operazione va ricondotta, come più sopra rilevato, ad una convenzione che ha specificamente indicato gli obbligati al pagamento del prezzo della cessione e riferito il momento liquidatorio ad una data precedente e cioè al 27.5.1993; sia perché, comunque, il prezzo contrattuale fu stabilito all'atto della convenzione e cioè alla data del 28.7.1993, in cui eventuali incrementi o decrementi della quota, rispetto al valore di due mesi prima, le parti erano in grado di valutare e valutarono, alla stregua di quanto accertato dai giudici di merito, che hanno rilevato uno scarto tra stima peritale e importo della liquidazione.
Ma, a prescindere da tali rilievi, è senza pregio la deduzione circa la sopravvenienza di passività preesistenti e non contabilizzate dai consulenti nominati dai soci, perché, come la Corte territoriale ha rilevato, è priva di qualunque riscontro in ordine sia alla loro esistenza, sia alla conoscenza da parte dei soci receduti, sia infine alla ignoranza di quelli rimasti. Inconferente è, invece, la circostanza dell'abbattimento di un credito, che giustificherebbe, unitamente alla sopravvenienza delle passività, la richiesta di annullamento del contratto per errore essenziale. Quell'abbattimento seguì, come gli stessi ricorrenti assumono, di oltre un anno la scrittura, alla cui data essi stessi aggiungono che era imprevedibile la situazione economica prefallimentare del debitore; sicché nessuna rilevanza può ricevere, sotto l'aspetto considerato della invalidità del contratto, la evoluzione negativa di quel credito, la cui quantificazione, come per ogni credito, è affidata alla valutazione prudenziale dell'operatore commerciale. Nè miglior sorte ottiene la censura ai fini della sollecitata rettifica dei valori di bilancio, utile ad un ridimensionamento del prezzo contrattuale, sotto il profilo che il minor realizzo di detto credito deve gravare anche sui soci uscenti, ai sensi dell'art. 2289, terzo comma c.c., il quale regola l'ipotesi delle operazioni in corso, stabilendo che il socio, receduto o escluso, o gli eredi del socio morto partecipano agli utili e alle perdite ad esse inerenti. La norma risulta, infatti, impropriamente, invocata, dal momento che la svalutazione del credito, per effetto dello stato di insolvenza del debitore e della sua ammissione alla procedura di concordato preventivo, non è suscettibile di essere qualificata come effetto, in termini di perdita, di operazione in corso, riguardando la ipotesi considerata dalla disposizione di legge ogni situazione che, pur non essendo in atto al momento dello scioglimento del rapporto sociale, sia conseguenza necessaria ed inevitabile di rapporti giuridici preesistenti, anche se la loro definizione sia intervenuta dopo il momento di riferimento della liquidazione della quota (Cass. 1027/93;
6709/82). Nella specie l'operazione da considerare, in quanto sussumibile nell'art. 2289, fu quella da cui derivò il credito, ampiamente maturata e scaduta, come è pacifico, anteriormente alla liquidazione; mentre il credito che essa produsse ne rappresentò il risultato finale e consolidato, sul quale le vicissitudini successive e lontane dal momento della sua insorgenza della situazione economico - patrimoniale dell'obbligato lasciano l'operazione originaria integra ed immutabile, incidendo esclusivamente sul suo realizzo monetario.
Il ricorso va dunque respinto; le spese processuali seguono la soccombenza e si liquidano in L. 5.401.600 di cui L. 5.000.000 per onorari.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso proposto da Marzorati Giovanni, Giuseppe e Marco nei confronti di Marzorati Dionigi e Giuliano, avverso la sentenza 8.4.1997 della Corte di Appello di Milano, e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali in L. 5.401.600 di cui L. 5.000.000 per onorari. Così deciso in Roma, il 24 maggio 1999.
Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 1999