ilcaso.it
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6478 - pubb. 01/08/2010.

La società di persone costituita nelle forme previste dal cod. civ. ed avente ad oggetto un'attività commerciale è assoggettabile al fallimento indipendentemente dall'effettivo esercizio dell'attività


Cassazione civile, sez. I, 28 Aprile 2005. Est. Plenteda.

Fallimento ed altre procedure concorsuali - Fallimento - Società e consorzi - In genere - Società commerciali - Società di persone - Fallimento - Assoggettabilità - Attività commerciale - Effettivo esercizio - Necessità - Esclusione - Fondamento.


La società di persone costituita nelle forme previste dal cod. civ. ed avente ad oggetto un'attività commerciale è assoggettabile al fallimento indipendentemente dall'effettivo esercizio dell'attività, poichè acquista la qualità d'imprenditore commerciale dal momento della sua costituzione, non dall'inizio del concreto esercizio dell'attività d'impresa, dovendo ritenersi sussistente il requisito della professionalità richiesto dall'art. 2082 cod. civ. per il solo fatto della costituzione per l'esercizio di un'attività commerciale, che segna l'irreversibile scelta per il suo svolgimento, come peraltro si desume anche dagli art. 2308 e 2323, cod. civ., essendo irrilevante che la società di persone non abbia la personalità giuridica, in quanto costituisce nelle relazioni esterne un gruppo solidale ed inscindibile, ed assume la struttura di un soggetto di diritti. (massima ufficiale)

 

Fatto

M.A. in proprio e quale rappresentante legale della società Al.Ce.Sud s.a.s., propose opposizione, con atto 11.10.1999, alla sentenza dichiarativa del fallimento della società e suo, quale socio accomandatario.

Dedusse che la società era sottratta al fallimento perché aveva gestito una azienda agricola, ad indirizzo cerealicolo e zootecnico, in cui la alimentazione del bestiame era assicurata dalla produzione di foraggi del fondo.

Il Tribunale di Pescara con sentenza 17.5.2000 respinse la opposizione, rilevando che l'oggetto sociale, che prevedeva la attività di agriturismo e di gestione di un villaggio turistico; le caratteristiche dell'allevamento degli ovini esercitato; le notevoli dimensioni dell'azienda; l'elevato livello di organizzazione patrimoniale; l'entità del passivo e l'assenza di bestiame e di attrezzature agricole e giacenze di magazzino, verificata subito dopo la dichiarazione di fallimento, deponessero per la natura commerciale dell'impresa.

La sentenza è stata confermata dalla Corte di Appello dell'Aquila in data 3.7.20012, che ha desunto la fallibilità dell'impresa dalle circostanze che l'oggetto sociale avesse previsto l'attività di agriturismo e la realizzazione e gestione di un villaggio turistico; che l'allevamento del bestiame non fosse in collegamento con il fondo rustico; che le dimensioni dell'azienda fossero rilevanti ed elevato fosse il passivo, senza che fosse riferibile a costi di conduzione del fondo; che altrettanto elevato fosse stato l'impegno finanziario, congiunto ai finanziamenti di terzi; e dal fatto che non fossero stati rinvenuti nell'azienda, all'atto dell'accesso del curatore fallimentare, bestiame, attrezzature e giacenze di magazzino, elementi tutti non svalutati dalle fatture di acquisto del mangime né dalle attestazioni della Regione Abruzzo circa l'indirizzo cerealitico - zootecnico dell'azienda, ovvero dalla consulenza tecnica esperita in un giudizio di espropriazione immobiliare, in ordine alla utilizzazione dei terreni come fonte primaria di cibo per animali di allevamento.

Propongono ricorso per cassazione con cinque motivi la società e il M. resiste con controricorso il curatore del fallimento.

 

Diritto

Con il primo motivo i ricorrenti denunziano la violazione dell'art. 2135 c.c.; affermano che con il D.Lgvo 228/2001, di riforma dell'art. 2135 c.c., il legislatore ha inteso evidenziare la ratio della norma codicistica, così come già elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, "in base alla quale debbono ritenersi comunque connesse le iniziative volte alla commercializzazione e valorizzazione della produzione agricola, nonché le attività dirette alla fornitura di beni e servizi mediante la utilizzazione prevalente di attrezzature e risorse dell'azienda, comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità".

Pertanto le attività previste nell'oggetto sociale della Al.Ce.Sud corrispondevano alle iniziative "ricreative, culturali e didattiche, di pratica sportiva, escursionistiche e di ippoturismo, finalizzate ad una migliore fruizione e conoscenza del territorio"; considerate dal D.Lgvo 228/2001, e al concetto di complementarità ed accessorietà espresse ancor prima dalla giurisprudenza di legittimità.

Con il secondo motivo la denunzia di violazione di legge è riferita all'art. 1 l.f..

Rilevano i ricorrenti che comunque le attività previste dall'oggetto sociale e ritenute di natura commerciale non erano mai state esercitate in concreto, sicché non rileverebbe la previsione statutaria.

Con il terzo si denunziano la omissione ed insufficienza della motivazione, in ordine alla circostanza che il primo giudice avesse ritenuto che le fatture di acquisto dei mangimi erano invece riferibili all'acquisto di ovini.

Con il quarto mezzo i ricorrenti denunziano l'omesso esame di un punto decisivo della controversia, circa la esistenza dello stato di insolvenza, tema appena sfiorato dalla sentenza dichiarativa di fallimento e sul quale la corte di merito aveva mancato in modo assoluto di motivare, al di là dell'accenno alla entità del passivo di due miliardi di lire, del tutto inconferente.

Con il quinto, infine, sono denunziate la violazione dell'art. 2135 c.c. e la omessa ed insufficiente motivazione, con riguardo alla mancata qualificazione dell'attività come agricola e al mancato riconoscimento del collegamento funzionale dell'allevamento con il fondo, la cui negazione la corte aveva fondato su circostanze inconferenti, quali la dimensione dell'azienda e la sua situazione patrimoniale, gestionale e finanziaria.

Il ricorso è infondato.

Va preliminarmente rilevato che le ragioni per le quali i giudici di merito hanno ritenuto di natura commerciale e non agricola l'attività svolta dalla società fallita sono state desunte, da un lato, dalle previsioni statutarie della società, in ordine all'oggetto, e dall'altro dalle modalità con cui l'attività era stata in concreto esercitata, come era stato possibile accertare attraverso le dimensioni dell'azienda, l'impegno finanziario, la mancanza di giacenze di magazzino e di attrezzature all'atto della dichiarazione di fallimento, da cui si è tatto il convincimento che fosse mancato qualunque collegamento con il fondo rustico.

Quanto alle prime, la corte territoriale ha considerato che lo svolgimento dell'agriturismo e la realizzazione e la gestione di villaggi turistici con strutture sportive e ricreative, comprese la costruzione, gestione, locazione e vendita di appartamenti, bungalows, alberghi, ristoranti e sale da convegni, tutti considerati dall'atto costitutivo, non potessero essere ricondotti al novero delle attività agricole di cui all'art. 2135 c.c., nemmeno sotto il profilo del secondo comma della norma - nel testo previgente alla riforma introdotta dal D. Lgvo 18.5.2001 n. 228 - che, ad esplicitazione del concetto di attività connesse a quelle di coltivazione del fondo, di silvicoltura e di allevamento del bestiame contemplate dal primo comma, richiedeva, perché potessero considerarsi di natura agricola, che fossero dirette alla trasformazione o alla alienazione dei prodotti agricoli e rientrassero nell'esercizio normale dell'agricoltura.

E con riguardo a siffatto profilo ha ritenuto che, essendo invece, dirette al di fuori del consueto e normale ciclo dell'economia agraria, a perseguire finalità estranee alla produzione agricola e al completamento dell'utilità economica da questa derivante, dette attività avessero natura prettamente commerciale, mancando dei caratteri di complementarità e di accessorietà, rispetto alla coltivazione del fondo e all'allevamento del bestiame.

Ciò premesso, senza pregio è il primo motivo di censura, a sostegno del quale i ricorrenti invocano il testo riformato dell'art. 2135 c.c., assumendo che la riforma legislativa "si inserisce nel solco tracciato dalla Suprema Corte, sicché ben lungi dall'essere innovativa essa riforma rappresenta un utile strumento interpretativo".

La tesi, infatti, non può essere condivisa.

Premesso che la giurisprudenza di legittimità è stata di segno contrario a quanto i falliti assumono (tra le più recenti Cass. 17251 e 17042/2002; SS.UU. 265/1997; 6911/1997), occorre comunque rilevare che il D.Lgvo 228/2001 ha chiara portata innovativa, come è stato affermato nelle più recenti delle ora richiamate decisioni - dalle quali il Collegio non ha motivo di discostarsi - essendo stato emesso, alla stregua di quanto previsto dalla legge delega n. 57/2001, "per la modernizzazione nei settori dell'agricoltura, delle foreste, della pesca, dell'acquacoltura e lavorazione del pescato" (art. 7 I° comma), con l'impegno per i decreti legislativi di" creare le condizioni per promuovere.... . il sostengo e lo sviluppo economico e sociale dell'agricoltura..... (III° comma lett. a) e favorire la cura e la manutenzione dell'ambiente rurale, anche attraverso la valorizzazione della piccola, agricoltura per autoconsumo o per attività di agriturismo o di turismo rurale" (III° comma lett. h).; nel segno, cioè, di rafforzare la posizione imprenditoriale dell'operatore agricolo; e ciò ancor più per le attività connesse, tra le quali hanno assunto uno spiccato rilievo "le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge", che nessuna suscettibilità hanno di essere assunte nella categoria di quelle "dirette alla trasformazione o alla alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura" (II° comma art. 2135 cc. vecchio testo).

Sebbene, pure nella dimensione configurata dalla riforma, estranee all'attività agricola si appalesino la realizzazione e gestione di villaggi turistici, la costruzione, gestione, locazione e vendita di appartamenti, bungalows, alberghi e sale di convegni, per le quali, attesa l'ampiezza con cui l'oggetto sociale della fallita è stato concepito, manca qualunque possibilità di riferimento al concetto di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale come voluto dalla normativa citata.

Giuridicamente infondato è anche il secondo motivo, irrilevante essendo la circostanza che le attività previste dall'oggetto sociale non siano state esercitate.

L'impresa collettiva nasce, infatti, con la costituzione della società, anche se il suo esercizio sia differito nel tempo, e cessa di esistere, pur dopo che abbia cessato di operare, per fatti connessi alla condizione sua propria e alla struttura di ente complesso e non per fatti relativi alla sua vitalità.

La società è essa stessa impresa, perché acquista quella identità nel momento in cui si costituisce, a prescindere dall'esercizio dell'attività per cui sorge; ed è impresa commerciale per il solo fatto che abbia oggetto commerciale, prima ancora che compia atti che lo realizzino, tant'è che la sua sottoposizione alla procedura fallimentare trova "adeguata giustificazione nella presunzione di speculazione e di profitto che ne ha determinato la costituzione" (Corte Cost. 6.2.1991 n. 54). E l'elemento della professionalità richiesto dall'art 2082 c.c. è rinvenibile nel fatto che si costituisca "per l'esercizio" di attività commerciale, indipendentemente dall'attuale suo svolgimento, tant'è che il fallimento gli artt. 2308 e 2323 c.c. espressamente contemplano, per le società di persone (come gli artt. 2448, 2464, 2497 e 2539 nel testo anteriforma, per quelle di capitali e per le cooperative), nella ipotesi che abbiano ad oggetto una attività commerciale e non anche se quella attività in concreto abbiano esercitato (Cass. 26.6.2001 n. 8694; 22.2.1999 n.1479; 4.11.1994 n.9084; 10.8.1979 n. 4644; 22.6.1972 n. 2067; 10.8.1965 n. 1921).

Il principio è inoltre ribadito dall'art. 1 l.f., che la fallibilità delle società commerciali prevede sempre e comunque, in quanto l'attribuzione dello status di imprenditore commerciale è, in via generale, legata al momento in cui egli manifesti in via definitiva l'intenzione di svolgere una attività economica organizzata per la produzione e lo scambio di beni e servizi; e mentre per la persona fisica la definitività di tale scelta - che rende attuale uno dei plurimi fini virtualmente perseguibili - si realizza solo con l'inizio del concreto esercizio dell'attività stessa (ben potendo, anche dopo la esteriorizzazione della volontà di intraprendere quella attività, il soggetto mutare il proprio programma operativo, senza essere vincolato dalla precedente sua esternazione), onde appunto la qualità di imprenditore commerciale si acquisisce in questo caso solo in termini di effettività, per l'ente collettivo la irreversibilità della scelta si realizza per definizione in un momento anteriore, in quanto la indicazione dello scopo di esercitare l'attività commerciale sovrappone alla pluralità di fini possibili l'attualità ed effettività di quel fine specifico, che connota la società stessa già con il suo venire in essere.

Ed è inconferente che la società sia di persone perché, sebbene non si risolva nella unità di una distinta persona giuridica, essa si manifesta comunque nelle relazioni esterne in termini di gruppo solidale ed inscindibile, assumendo la struttura di un soggetto di diritti, non potendosi condividere l'argomentazione proposta dai ricorrenti, secondo cui debba esser fatto riferimento alla concreta attività esercitata dai soci coimprenditori, giacché l'attività di impresa è della società e solo ad essa fa capo.

Il terzo ed il quinto motivo sono assorbiti dal rigetto dei primi due, atteso che, una volta riconosciuta la natura commerciale dell'attività per l'aspetto considerato, è indifferente che essa lo fosse anche per l'allevamento del bestiame.

Inammissibile è, infine, il quarto mezzo, con cui si lamenta l'omesso esame dello stato di insolvenza.

Parte controricorrente ha eccepito la novità della questione, né i ricorrenti hanno fatto riferimento, nella esposizione delle vicende processuali, alla deduzione relativa al presupposto oggettivo della dichiarazione di fallimento.

Essi anzi, nel riportare gli elementi che avevano caratterizzato lo svolgimento del processo in primo e in secondo grado, hanno riprodotto la narrativa contenuta nella sentenza impugnata, che dello stato di insolvenza non fa menzione alcuna e riferisce le ragioni della opposizione alla sentenza dichiarativa esclusivamente in termini di non fallibilità per la natura agricola dell'impresa, aggiungendo poi, nella esplicitazione dell'unico motivo di appello, che esso aveva, appunto, posto in discussione l'affermazione della qualità commerciale della società.

Né i ricorrenti hanno replicato alla deduzione di parte avversa sulla novità della questione, avendo mancato persino di depositare la memoria difensiva di cui all'art. 378 c.p.c..

Il ricorso va dunque respinto, con condanna dei soccombenti in solido alle spese processuali, in Euro 3.100, di cui 3000 per onorari e 100 per esborsi.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali, in Euro 3.100, di cui 100 per esborsi e 3.000 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Roma 26.1.2005.

Depositata in cancelleria IL 28 APR. 2005.