Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 7442 - pubb. 01/08/2010

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Cassazione civile, sez. I, 05 Dicembre 2003, n. 18620. Est. Ragonesi.


Comunità europea - Comunità economica europea - Istituzioni - Commissione - Atti - "Raccomandazioni" della Commissione europea - Efficacia nell'ordinamento nazionale - Efficacia vincolante - Esclusione - Contrasto della norma interna con la "raccomandazione" - Dovere del giudice nazionale di disapplicare la norma - Esclusione - Fattispecie in materia di requisiti dimensionali per l'assoggettamento delle imprese ad amministrazione straordinaria.

Fallimento ed altre procedure concorsuali - Liquidazione coatta amministrativa - Amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi - In genere - Assoggettamento dell'impresa ad amministrazione straordinaria ex legge n. 270 del 1990 - Requisiti dimensionali - Numero dei dipendenti - Computo dei lavoratori a tempo parziale - Criteri - Disciplina ex art. 6, D.Lgs. n. 61 del 2000 - Modifiche ex art. 1, D.Lgs. n. 100 del 2001 - Norma interpretativa - Configurabilità - Esclusione - Conseguenze.

Fallimento ed altre procedure concorsuali - Liquidazione coatta amministrativa - Amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi - In genere - Dichiarazione di fallimento - Domanda di conversione in amministrazione straordinaria - Forme e termini - Proposizione dell'opposizione alla sentenza di fallimento ex art. 18, legge fall. - Necessità.



Le "raccomandazioni" emanate dalla Commissione europea costituiscono atti comunitari tipici, non obbligatori, preordinati allo scopo di assicurare il funzionamento e lo sviluppo della Comunità europea, mediante la prospettazione della soluzione che appare preferibile adottare nell'ottica comunitaria e, conseguentemente, essendo privi di carattere vincolante nei confronti del legislatore nazionale, il giudice ordinario non è tenuto a disapplicare la norma statale che, eventualmente, si ponga in contrasto con esse. (In applicazione del succitato principio di diritto, la S.C. ha escluso il potere - dovere di disapplicazione dell'art. 2, D.Lgs. n. 270 del 1999 che, nello stabilire i requisiti dimensionali necessari per l'assoggettamento dell'impresa in crisi all'amministrazione straordinaria, prevede che l'impresa debba avere un numero di dipendenti inferiore a quello stabilito da una raccomandazione della Commissione europea). (massima ufficiale)

In tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, ai sensi del D.Lgs. n. 270 del 1999, il requisito dimensionale, in riferimento al numero dei lavoratori subordinati, va determinato, ex art. 6, D.Lgs. n. 61 del 2000, nel testo anteriore alla modifica introdotta dall'art. 1, D.Lgs. n. 100 del 2001, computando i lavoratori a tempo parziale nel numero complessivo dei dipendenti in proporzione all'orario svolto riferito alle ore lavorative ordinarie effettuate in azienda con arrotondamento all'unità della frazione di orario superiore alla metà di quello normale e, quindi, calcolando il lavoratore a tempo parziale come una unità, qualora l'orario di lavoro sia superiore alla metà di quello osservato dal lavoratore a tempo pieno, risultando questa interpretazione conforme alla direttiva 97/81/CE e dovendo altresì ritenersi che l'art. 1, D.Lgs. n. 100 del 2001 - in virtù del quale i lavoratori a tempo parziale sono computati nel complesso del numero dei lavoratori dipendenti in proporzione all'orario svolto e l'arrotondamento del tempo parziale opera per le frazioni di orario eccedenti la somma degli orari individuati a tempo parziale corrispondente a unità intere di orario a tempo pieno - non ha natura interpretativa e, conseguentemente, non è applicabile alle fattispecie perfezionatesi anteriormente alla sua entrata in vigore. (massima ufficiale)

Nel caso di assoggettamento dell'impresa al fallimento, la conversione del fallimento in amministrazione straordinaria ai sensi dell'art. 35, legge n. 270 del 1999, diversamente da quanto previsto in precedenza dalla legge n, 95 del 1979, può essere richiesta esclusivamente mediante l'opposizione alla sentenza di fallimento ex art. 18, legge fall., che deve essere, quindi, proposta entro il termine di quindi giorni dalla notifica dell'estratto della sentenza di fallimento. (massima ufficiale)



REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE MUSIS Rosario - Presidente -
Dott. PLENTEDA Donato - Consigliere -
Dott. ADAMO Mario - rel. Consigliere -
Dott. RAGONESI Vittorio - Consigliere -
Dott. DE CHIARA Carlo - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:


SENTENZA
sul ricorso proposto da:
CURATELA FALLIMENTO SEC SPA, in persona del Curatore fallimentare, elettivamente domiciliata in ROMA VIA XX SETTEMBRE 3, presso l'avvocato BRUNO N. SASSANI, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato FRANCESCO P. LUISO, giusta mandato in calce al ricorso;
- ricorrente -
contro
POZZO RENZO, SAVE COOP A RL, PLM DI LUISOTTI POMPOSI & C SNC, CAGENA DI BIMBI LUCIANO & C SNC, BROCCHINI MAURO, IACOPINELLI MASSIMO, PELLEGRINETTI ALFREDO, BARTELLONI GIUSEPPE, RELA RICCARDO;
- intimati -
e sul 2^ ricorso n. 26645/02 proposto da:
POZZO RENZO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA QUATTRO FONTANE 10, presso lo STUDIO LEGALE GHIA, rappresentato e difeso dall'avvocato ROBERTO PAVIOTTI, giusta procura a margine del controricorso e ricorso incidentale;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
contro
CURATELA FALLIMENTO SEC SPA, in persona del Curatore fallimentare, elettivamente domiciliata in ROMA VIA XX SETTEMBRE 3, presso l'avvocato BRUNO N. SASSANI, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato FRANCESCO P. LUISO, giusta mandato in calce al ricorso principale;
- controricorrente al ricorso incidentale -
contro
SAVE COOP A RL, PLM DI LUISOTTI POMPOSI & C SNC, CAGENA DI BIMBI LUCIANO & C SNC, BROCCHINI MAURO, IACOPINELLI MASSIMO, PELLEGRINETTI ALFREDO, BERTELLONI GIUSEPPE, RELA RICCARDO;
- intimati -
avverso la sentenza n. 1047/02 della Corte d'Appello di FIRENZE, depositata il 06/08/02;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/09/2003 dal Consigliere Dott. Vittorio RAGONESI;
udito per il ricorrente l'Avvocato BRIGUGLIO, con delega, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso principale ed il rigetto di quello incidentale;
udito per il resistente l'Avvocato PAVIOTTI che ha chiesto l'accoglimento del ricorso incidentale e l'inammissibilità o il rigetto del ricorso principale;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Rosario RUSSO che ha concluso, previa riunione, per il rigetto di entrambi i ricorsi.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 24 novembre 2000, il Tribunale di Lucca dichiarava il
fallimento della Società Esercizio Cantieri s.p.a. (SEC). Avverso tale sentenza Renzo Pozzo, quale presidente e legale rappresentante della SEC, con tre citazioni, di identico contenuto per tre distinte udienze di comparizione, notificate al curatore in data 28 novembre 2002, proponeva opposizione alla dichiarazione di fallimento, affermando la sussistenza dei requisiti di cui all'art. 2 del d. lgs. 270/1999, e chiedendo quindi la conversione del fallimento, ex art. 35 dello stesso decreto legislativo. La curatela si opponeva alla richiesta di conversione. Nel giudizio di opposizione intervenivano volontariamente altri soggetti, il cui intervento veniva dichiarato inammissibile dal tribunale con sentenza sul punto non impugnata, e quindi passata in giudicato.
Il giudice istruttore disponeva la riunione delle tre opposizioni, nonché di una quarta, sempre proposta dalla fallita società - con la quale si chiedeva la revoca della dichiarazione di fallimento - che veniva dichiarata tardiva dal Tribunale con sentenza confermata, sul punto, dalla Corte di appello.
Nelle more del processo di primo grado, veniva pubblicato, sulla G.U. del 5 aprile 2001, il d. lgs. 26 febbraio 2001 n. 100, mediante il quale si interveniva sul primo comma dell'art. 6 del d. lgs. 25 febbraio 2000 n. 61, dettando nuovi criteri per l'accertamento della consistenza dell'organico di un impresa in riferimento ai dipendenti a tempo parziale.
La sentenza del Tribunale rigettava l'opposizione volta ad ottenere la conversione del fallimento, dichiarando la insussistenza del requisito dimensionale di cui all'art. 2 del d.l.vo 270/99. Tale sentenza era appellata dalla fallita società; la corte territoriale, disposta l'integrazione del contraddittorio ex art. 331 c.p.c, accoglieva l'appello e dichiarava quindi la conversione del fallimento.
Avverso tale sentenza ricorre per Cassazione il fallimento della Sec spa sulla base di due motivi.
Resiste con controricorso il Pozzo che propone altresì ricorso incidentale. Entrambe le parti hanno depositato memorie nei termini di legge stante la non applicabilità della sospensione dei termini feriali nel giudizio di opposizione al fallimento.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La curatela del fallimento della Sec spa deduce con il primo motivo di ricorso la violazione e falsa applicazione dell'art. 6 del d. lgs. 25 febbraio 2000 n. 61, con riferimento all'art. 360 n. 3 c.p.c., per avere la corte di merito affermato che ciascun dipendente part time, con orario superiore alla metà di quello pieno, deve essere considerato come un'unità.
Con il secondo motivo deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., con riferimento all'art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c., per avere la corte omesso di esaminare anche gli altri motivi proposti dalla curatela a fondamento della richiesta di rigetto dell'opposizione.
Con l'unico motivo di ricorso incidentale il Pozzo deduce la violazione dell'art. 387 c.p.c. da parte della impugnata sentenza laddove ha confermato la sentenza del giudice di primo grado concernente la causa riunita n. 4097/00 trib Lucca di inammissibilità per tardività dell'atto di citazione notificato il 14,12.00 in opposizione alla decisione di revocare l'ammissione della Sec spa all'amministrazione controllata e di dichiarare il fallimento.
Il primo motivo di ricorso è infondato.
Questa Corte ha già avuto occasione di osservare, sia pure in riferimento alla disposizione dell'art. 5, comma dodicesimo, D.L. 3 ottobre 1984 n. 726 (convertito con modificazioni nella legge n. 863 del 1984), che peraltro è sostanzialmente identica a quella di cui all'art. 6 del d.lvo 61/00, che i lavoratori a tempo parziale sono computati - al fine della qualificazione dell'azienda, oltre che al fine dell'accesso ai benefici di carattere finanziario e creditizio, nonché dell'assoggettamento agli obblighi derivanti dal collocamento obbligatorio - nel numero complessivo dei dipendenti in proporzione all'orario svolto riferito alle ore lavorative ordinarie effettuate in azienda con arrotondamento all'unità della frazione di orario superiore alla metà di quello normale. (Cass 11750/99). Il ricorrente assume invero l'inconferenza di tale precedente al caso di specie, ma tale tesi è priva di fondamento.
La sentenza citata fa infatti espresso riferimento ad una ipotesi in cui in una azienda prestavano attività un operaio e una impiegata a tempo parziale, entrambi computati come unità intera, ed ha ritenuto che "se il criterio seguito appare corretto con riferimento all'operaio svolgendosi il lavoro dello stesso per un arco di 26 ore e oltre settimanali, superiore alla metà di quello normale contrattualmente previsto di quaranta ore, non altrettanto sembra invece per l'impiegata il cui orario lavorativo era di venti ore settimanali, conseguendone evidentemente che la stessa doveva essere computata nella misura del 50%" (Cass 11750/99).
In altri termini questa Corte ha ritenuto, nel vigore della norma in esame, che, ai fini della qualificazione dell'azienda in riferimento alle diverse ipotesi previste dalla legge (nel caso di specie si tratta del requisito del numero dei dipendenti al fine della ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria), ogni singolo lavoratore a tempo parziale deve considerarsi come una unità se il suo orario di lavoro supera la metà delle ore normalmente lavorate dai dipendenti a tempo pieno. Il collegio ritiene che non vi siano valide ragioni per discostarsi dal principio già affermato. Giova a tale proposito rammentare che l'art. 6 del d.l.vo n. 61/00 espressamente prevede che quando si renda necessario l'accertamento della consistenza dell'organico di una impresa " i lavoratori a tempo parziale sono computati nel numero complessivo dei dipendenti in proporzione dell'orario svolto, rapportato al tempo pieno ,così come definito all'art. 1, con arrotondamento dell'unità della frazione di orario superiore alla metà di quello pieno".
La dizione letterale della norma in esame è pienamente compatibile con l'interpretazione dianzi enunciata dal momento che la stessa lascia intendere che ogni lavoratore viene calcolato nell'organico in proporzione all'orario svolto rapportato a quello pieno. Ciò significa, ad esempio, che un lavoratore che abbia lavorato il 40% dell'orario pieno viene calcolato ai fini della determinazione dell'organico come il 40% di una unità, ma se il lavoratore stesso ha lavorato per il 51% del tempo pieno, lo stesso viene calcolato per una unità intera. In tal senso si è già espressa l'esaminata sentenza di questa Corte laddove ha ritenuto che la dipendente che aveva lavorato per il 50% del tempo pieno poteva essere conteggiata solo come mezza unità e non come una unità intera dal momento che non aveva lavorato per una frazione di orario superiore alla metà di quello pieno.
Tale interpretazione è, tra l'altro, in parte coincidente con quella avanzata dal ricorrente.
È infatti evidente che, per quanto concerne i lavoratori che hanno prestato la loro opera in misura inferiore al 50% del tempo pieno, occorre sommare le percentuali da ciascuno lavorate per ottenere il numero dei lavoratori da calcolare nell'organico. Ad esempio, due lavoratori che abbiano lavorato il 50% ciascuno del tempo pieno vengono calcolati al fine in esame come un unico lavoratore. Chi invece ha lavorato per un periodo di tempo percentualmente superiore al 50% del tempo pieno viene - come già detto-considerato a tutti gli effetti come una unità intera.
Tale interpretazione non è in alcun modo in contraddizione con la direttiva comunitaria 97/81/CE.
Tale direttiva infatti ha la finalità di "incrementare l'intensità occupazionale della crescita, in particolare mediante una organizzazione più flessibile del lavoro che risponda sia ai desideri dei lavoratori che alle esigenze della competitivita", e in conformità a tale scopo mira alla "eliminazione di discriminazioni verso i lavoratori a tempo parziale ed a contribuire allo sviluppo delle possibilità di lavoro a tempo parziale su basi accettabili sia ai datori di lavoro che ai lavoratori." In tal senso la direttiva espressamente riconosce il principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo parziale e quelli a tempo pieno.
La normativa comunitaria - al contrario di quanto sostenuto dal ricorrente - non contiene alcuna disposizione o riferimento in ordine alla neutralità che dovrebbe derivare dalla scelta di tale rapporto per evitare effetti distorsivi tra le imprese, dal momento che la direttiva è priva di ogni riferimento al mercato ed alla concorrenza, nonché alla struttura delle imprese ed ai loro rapporti ^imitandosi agli aspetti della organizzazione del lavoro. In ogni caso, il meccanismo di calcolo dei dipendenti previsto dal decreto legislativo in esame tende a creare un equo contemperamento delle diverse situazioni in quanto prevede che i lavoratori che prestano la loro opera per un periodo di tempo inferiore alla metà dell'orario di lavoro pieno vengono considerati ai fini della consistenza dell'impresa in proporzione al tempo lavorato mentre quelli che eccedono tale metà sono equiparati ai lavoratori a tempo pieno in base in quest'ultima ipotesi ad una valutazione di equivalenza delle diverse prestazioni ai fini in esame che il legislatore ha ritenuto discrezionalmente di effettuare.
Si potrebbe altresì dire che il principio di non discriminazione, se valutato nella sua piena estensione, non potrebbe non avere riflessi anche in riferimento alla consistenza dell'organico dell'impresa dovendosi ritenere che il dipendente, sia pure a tempo parziale, in quanto legato da un rapporto di lavoro con l'impresa con tutti i conseguenti riflessi sul piano occupazionale, previdenziale, produttivo etc, non possa non considerarsi unitariamente come parte integrante dell'impresa a pari titolo degli altri dipendenti a tempo pieno.
La tesi dei ricorrenti non può trovare accoglimento anche seguendo, sotto il profilo interpretativo, la successiva evoluzione normativa. La circostanza infatti che il decreto legislativo 61/00 abbia integralmente riportato il testo del precedente articolo 5 del d.l. 726/84 tranne la sostituzione dell'espressione "tempo normale" con quella "tempo pieno" dimostra che il decreto legislativo in esame altro non ha fatto che riprodurre la legislazione previgente adattandola a quanto stabilito dalla direttiva 97/81/CE che da la definizione di tempo parziale il rapporto a quella di tempo pieno e non già a quella di tempo normale.
Ciò rende del tutto evidente che il successivo intervento effettuato dal legislatore con il d.l.vo n. 100/01 - con cui si è stabilito il diverso principio secondo cui "l'arrotondamento del tempo parziale opera per le frazioni di orario eccedenti la somma degli orari individuali a tempo parziale corrispondente a unità intere di orario a tempo pieno" - abbia avuto un carattere modificativo della precedente legislazione e non già interpretativo poiché ,se fosse sorta l'esigenza di fornire una interpretazione autentica del decreto legge 726/84, lo si sarebbe fatto già tramite il d.l.vo 61/00. A tali considerazione devono aggiungersi quelle correttamente esposte nella motivazione della sentenza impugnata.
Invero, dal tenore letterale del decreto legislativo n. 100 del 2001 si evince con chiarezza che tale decreto ha avuto un carattere innovativo e modificativo del precedente decreto legislativo 61 del 2000. Ciò risulta non solo dalla intestazione del provvedimento "disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 25.2.200 n. 61" ma anche dal titolo dell'articolo 1 (il cui sesto comma contiene la norma di cui ci si occupa) che espressamente fa riferimento a "modificazioni" che vengono apportate al precedente decreto legislativo.
A fronte di tali univoci elementi non se ne rinvengono di diversi che possano far ritenere il carattere interpretativo della norma in esame, dovendosi rammentare a tale proposito che le norme a carattere interpretativo rivestono nel nostro ordinamento un carattere eccezionale per cui, di regola, tale carattere viene espresso in modo esplicito dal legislatore o quanto meno lo stesso deve risultare in modo inequivocabile dal contesto normativo; circostanze che nella fattispecie non ricorrono sussistendone invece, come già evidenziato, altre di segno opposto.
Il secondo motivo è infondato.
Ancorché la Corte territoriale non abbia esplicitamente esaminato la questione della contrarietà dell'art. 2 del d.lvo 270/99 al disposto della raccomandazione comunitaria che ,in tema di grandi imprese, stabilisce a 250 il numero minimo dei dipendenti necessario per essere considerate tali, mentre, invece, il decreto legislativo fissa in 200 unità il numero in questione, deve ritenersi che la stessa sia stata implicitamente rigettata. Mette infatti appena conto di ricordare che le raccomandazioni sono degli atti comunitari atipici non obbligatori considerati come esercizio del potere della Commissione di assicurare il funzionamento e lo sviluppo della Comunità europea. In particolare, con tali atti le Istituzioni comunitarie prospettano ai destinatali, che possono essere tanto gli stati che soggetti privati, la soluzione di un certo problema nel senso preferibile secondo l'ottica comunitaria.
Si tratta di atti sostanzialmente d'indirizzo non vincolanti. In particolare deve ritenersi che essi non obblighino il legislatore nazionale ad adeguare ad essi la propria legislazione con la conseguenza che il giudice nell'applicare quest'ultima non è tenuto a disapplicarla in caso di contrasto con la raccomandazione. Alla stregua di questa considerazioni la corte territoriale, nel rigettare in toto l'appello, ha implicitamente rigettato anche la questione della non conformità della legislazione italiana con la raccomandazione in esame essendo, comunque, tale contrasto privo di rilevanza ai fini del decidere. Per quanto concerne la questione di legittimità costituzionale, la stessa in quanto implicitamente riproposta in questa sede, deve essere esaminata dalla Corte e va ritenuta priva di rilevanza nel presente giudizio.
La questione infatti concerne il limite dell'indebitamento minimo, stabilito dall'art. 2 del d.l.vo 270/99 quale requisito per l'ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria, ma tale aspetto non ha costituito oggetto della pronuncia dei giudici di merito che si è incentrata, invece, esclusivamente sull'altra questione dianzi esaminata del numero dei dipendenti per cui ,anche una ipotetica pronuncia di incostituzionalità della norma in questione non potrebbe avere alcun riflesso nella decisione della presente causa non avendo costituito oggetto di controversia. Per quanto concerne il ricorso incidentale, con l'unico motivo il ricorrente sostiene, in particolare, che la conversione del fallimento in amministrazione straordinaria prevista dall'articolo 35 del d.lvo 270/99 non può in alcun modo considerarsi come impugnazione ancorché la relativa domanda debba proporsi con la forma dell'opposizione a fallimento. Sulla base di questo assunto il ricorrente osserva di avere proposto con tre atti di citazione notificati il 28/11/00 - prima ancora di conoscere il contenuto della sentenza dichiarativa di fallimento - la domanda di conversione del fallimento in amministrazione straordinaria e, successivamente con atto notificato il 14.12.00, di aver proposto opposizione avverso la sentenza dichiarativa di fallimento. Trattandosi di azioni tra loro diverse la Corte avrebbe - a suo dire - erroneamente applicato il principio della consumazione dell'impugnazione secondo cui non è consentito a chi ha già proposto una impugnazione proporne una successiva di diverso od identico contenuto.
L'assunto secondo cui la domanda di conversione del fallimento in amministrazione straordinaria costituisce un mezzo di impugnazione diverso rispetto all'opposizione al fallimento è errato. La conversione del fallimento in amministrazione straordinaria disciplinata dall'art. 35 del d.l.vo 270/99 è sostanzialmente diversa da quella in precedenza disciplinata dalla legge n. 95 del 79. Mentre infatti quest'ultima poteva essere richiesta nel corso del fallimento senza alcun termine di decadenza dagli interessati oltre che dall'organo della procedura e dall'ufficio stesso, l'attuale conversione può essere proposta unicamente tramite l'opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento nei ristretti termini previsti per tale impugnazione come si deduce dal testo dell'art. 35 del d.l.vo 270/99.
Ciò comporta che la richiesta di conversione diviene un nuovo motivo di opposizione con il quale si propone un diverso profilo di censura alla sentenza di fallimento. Mentre infatti con l'opposizione a quest'ultima prevista dall'art. 18 l.f. si contesta sostanzialmente la qualità d'imprenditore o la sussistenza dello stato d'insolvenza, e, quindi, si nega in radice l'assoggettabilità ad una procedura concorsuale, con la domanda di conversione si contesta il mancato accertamento da parte della sentenza di fallimento di quei presupposti che avrebbero reso possibile una diversa pronuncia che avrebbe comportato l'ammissione ad una differente procedura concorsuale.
Ciò trova ulteriore conferma nella circostanza che è ben possibile che il debitore abbia nel corso del procedimento prefallimentare dedotto la sussistenza dei requisiti per l'ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria ed in tal caso non è dubbio che la sentenza che dichiara il fallimento debba farsi carico dell'esame di tali circostanze e debba motivare in ordine alla loro insussistenza. In tale ipotesi la richiesta di conversione non può non costituire una vera e propria censura alla sentenza di fallimento da farsi valere necessariamente con l'opposizione avverso quest'ultima. Non è dubbio pertanto che entrambe le censure, ancorché propongano profili di censura diversi, facciano parte di un unico mezzo impugnatorio che è costituito dall'opposizione alla sentenza di fallimento per cui è ad esse,in principio, applicabile la regola della consumazione dell'impugnazione.
Il ricorso incidentale è peraltro fondato sotto un diverso profilo. Il giudice di secondo grado, dopo avere rilevato che l'opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento è stata proposta con atto distinto rispetto a quello di conversione del fallimento in amministrazione straordinaria, ha accertato che il primo era stato proposto dopo sedici giorni dalla prima impugnazione e, pertanto, oltre i termini di legge e doveva, quindi, essere dichiarato inammissibile per tardività.
Tale pronuncia non è corretta.
Questa Corte in diverse occasioni ha già affermato che il principio di consumazione dell'impugnazione non esclude che, fino a quando non intervenga una declaratoria di inammissibilità, possa essere proposto un secondo atto di appello, immune dai vizi del precedente e destinato a sostituirlo, sempre che la seconda impugnazione risulti tempestiva, dovendo la tempestività valutarsi, anche in caso di mancata notificazione della sentenza, non in relazione al termine annuale, bensì in relazione al termine breve decorrente dalla data di proposizione della prima impugnazione, dovendosi ritenere quest'ultima proposta sulla base della conoscenza della sentenza da parte dell'impugnante (Cass. 9569/00; Cass 12803/00). Tale principio richiede peraltro che la predetta conoscenza sia in qualche modo desumibile o documentata dagli atti di causa. Nel caso di specie è invece pacifico e non vi sono elementi atti a dimostrare il contrario, che i primi tre atti di opposizione avverso la sentenza dichiarativa di fallimento sono stati proposti il 28.11.00, ancor prima della notifica del dispositivo della sentenza senza che la parte abbia avuto conoscenza del contenuto della stessa. In tal caso pertanto non può farsi decorrere dalla predetta data del 28.11.00 alcun termine iniziale per la proposizione di una successiva seconda opposizione recante nuovi motivi poiché quest'ultimo decorre comunque dalla conoscenza della sentenza, o quanto meno dei suoi elementi essenziali che nel caso di specie non risulta - come detto- avvenuta.
Pertanto la quarta opposizione proposta il 14.12.00 deve ritenersi nei termini, in quanto effettuata entro i quindici giorni dalla notifica dell'estratto della sentenza di fallimento, occorsa il 30.11.00 e contenente gli elementi essenziali della decisione (Cass 5104/96).
Il ricorso principale va pertanto respinto mentre va accolto quello incidentale La sentenza impugnata va pertanto cassata in relazione al motivo del ricorso incidentale accolto con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Firenze che provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di Cassazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale, accoglie quello incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia anche per le spese ad altra sezione della Corte d'appello di Firenze. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 ottobre 2003. Depositato in Cancelleria il 5 dicembre 2003