Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 7538 - pubb. 01/08/2010

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Cassazione civile, sez. I, 19 Marzo 2004, n. 5561. Est. Spagna Musso.


Impugnazioni civili - Cassazione (ricorso per) - Motivi del ricorso - Questioni nuove - Ammissibilità - Limiti - Contrasto della normativa nazionale in tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi con l'ordinamento comunitario - Accertamenti di fatto - Necessità - Conseguenze - Ammissibilità del motivo - Esclusione.

Fallimento ed altre procedure concorsuali - Liquidazione coatta amministrativa - Amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi - In genere - Contrasto della normativa nazionale con l'ordinamento comunitario - Accertamenti di fatto - Necessità - Conseguenze - Deducibilità in cassazione - Esclusione.

Comunità europea - Giudice nazionale - In genere - Contrasto della normativa nazionale sull'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi con l'ordinamento comunitario - Accertamenti di fatto - Necessità - Conseguenze - Deducibilità in cassazione - Esclusione.



Nel giudizio di legittimità non è consentita la prospettazione di questioni nuove pur quando si tratti di questioni rilevabili d'ufficio, laddove esse implichino una modifica dei termini della controversia sviluppatasi nei precedenti gradi di merito o comunque presuppongano o richiedano nuovi accertamenti di fatto. Pertanto, poiché la disapplicazione della normativa nazionale relativa all'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, di cui al decreto legge 30 gennaio 1979, n. 26, convertito con modificazioni dalla legge 3 aprile 1979, n. 95, per contrasto con il divieto di aiuti di Stato alle imprese, alla stregua degli artt. 92 e ss del Trattato CE, poi divenuti artt. 87 e ss, postula l'accertamento in concreto dell'esistenza dell'autorizzazione all'esercizio dell'impresa in condizioni tali da realizzare un trattamento diverso da quello ipotizzabile in caso di procedure concorsuali ordinarie e da consentire all'impresa stessa benefici non compatibili con l'ordinamento comunitario, è inammissibile il motivo di ricorso con il quale si deduca per la prima volta in sede di legittimità la questione della compatibilità della suddetta normativa nazionale, applicabile "ratione temporis", con il diritto comunitario. (massima ufficiale)



REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE MUSIS Rosario - Presidente -
Dott. RORDORF Renato - rel. Consigliere -
Dott. GILARDI Gianfranco - Consigliere -
Dott. PICCININNI Carlo - Consigliere -
Dott. SPAGNA MUSSO Bruno - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:



SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGOLO TORINO SPA IN AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA, in persona dei commissari pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA PACUVIO 34, presso l'avvocato GUIDO ROMANELLI, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato ANTONELLA BORGNA BENEDICENTI, giusta procura a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
BANCA S. PAOLO TORINO IMI SPA;
- intimata -
e sul 2^ ricorso n^ 20631/00 proposto da:
SANPAOLO IMI SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA PIAZZA DI PIETRA N 26, presso l'avvocato GIANDOMENICO MAGRONE, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato CARLO DAL VERME, giusta procura speciale per Notaio Carlo Bobbio di Torino, rep. n. 84910 del 20.10.00;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
contro
COGOLO TORINO SFA IN AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA, in persona dei commissari pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA PACUVIO 34, presso l'avvocato GUIDO ROMANELLI, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato ANTONELLA BORGNA BENEDICENTI, giusta procura a margine del ricorso principale;
- controricorrente al ricorso incidentale -
avverso la sentenza n. 388/99 della Corte d'Appello di TRIESTE, depositata il 25/06/99;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/10/2003 dal Consigliere Dott. Renato RORDORF;
udito per il ricorrente l'Avvocato ROMANELLI che ha chiesto l'accoglimento del ricorso principale ed il rigetto del ricorso incidentale;
udito per il resistente l'Avvocato MAGRONE che ha chiesto il rigetto del ricorso principale e l'accoglimento del ricorso incidentale;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generalo Dott. CAFIERO Dario che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il 9 luglio 1984 la Cogolo Torino s.p.a. (all'epoca ancora operante con la denominazione Cortan s.p.a.) instaurò con l'Istituto Bancario San Paolo di Torino (che in prosieguo, per brevità, verrà designato solo come San Paolo) un rapporto di deposito di titoli in amministrazione, convenendo che i titoli anche in futuro depositati sarebbero stati costituiti in pegno a garanzia delle linee di credito accordate dalla banca alla società depositante, nonché di qualsiasi altro credito vantato dalla banca medesima.
Negli anni successivi il San Paolo erogò diversi crediti alla Cogolo Torino e furono immessi in deposito titoli del debito pubblico (Cct) per diverse decine di miliardi di lire, fin quando, nel maggio del 1989, la banca revocò gli affidamenti e procedette poi alla vendita dei titoli in deposito per soddisfare, con il ricavato, i propri crediti verso la Cogolo Torino. Questa, dichiarata insolvente con sentenza emessa dal Tribunale di Udine il 28 settembre di quello stesso anno, fu quindi sottoposta ad amministrazione straordinaria con decreto ministeriale del successivo 8 novembre. Presa cognizione di quanto sopra, i commissari straordinari, con atto notificato in data 8 aprile 1992, citarono il San Paolo in giudizio dinanzi al Tribunale di Udine e chiesero che, previa declaratoria di invalidità o di inefficacia della garanzia pignoratizia e degli atti di disposizione posti in essere dalla banca sui titoli ingessi, in deposito, la banca medesima fosse condannata a restituire quanto così incassato, nella misura di L. 8.492.930.189, oltre agli interessi di mora.
Il tribunale accolse la domanda solo in piccola parte. Giudicò infatti valido e pienamente opponibile il pegno in forca del quale il San Paolo aveva soddisfatto i propri crediti specificamente così garantiti, nella misura di complessive L. 7.414.855.018; negò, invece, che il medesimo pegno potesse validamente estendersi a qualsiasi altra ragione di credito della banca, e negò altresì che sussistessero le condizioni per operare una compensazione tra tali ulteriori crediti non garantiti ed il debito della banca per la restituzione della somma ricavata in eccesso dalla vendita dei titoli. Condannò quindi il San Paolo a restituire alla Cogolo Torino solo quest'ultima somma, ammontante a L. 778.075.171, con interessi legali decorrenti dalla data della domanda.
Investita dai contrapposti gravami, proposti in via principale dalla Cogolo Torino ed in via incidentale dal San Paolo, la Corte d'appello di Trieste, con decisione resa pubblica il 25 giugno 1999, riformò la sentenza di primo grado solo con riguardo agli interassi, che furono fatti decorrere non già dalla data della domanda, bensì da quella (11 luglio 1989) dell'avvenuta vendita dei titoli ad opera della banca.
Osservò infatti la corte: che il timbro postale apposto sul retro del foglio ove risultava vergato il contratto di pegno era sufficiente a dare data certa a quel contratto e, perciò, unitamente alla corrispondenza successivamente intercorsa, a dimostrare che esso era stato stipulato diversi anni prima dell'inizio della procedura concorsuale ed era a questa pienamente opponibile; che, contrariamente a quanto sostenuto dall'appellante principale, il diritto di prelazione della banca non era compromesso da un'insufficiente specificazione contrattuale delle cose date in pegno, sia perché, nella specie, doveva ravvisarsi un pegno irregolare disciplinato dall'art. 1851 c.c., sia perché, in ogni caso, gli estremi identificativi dei titoli dati in pegno risultavano ben specificati negli ordini di acquisto, nei tabulati concernenti il deposito in amministrazione e nelle note di data certa al riguardo inviate dalla banca alla società depositante; che nessun argomento in contrario poteva esser tratto dall'eccepita dematerializzazione dei titoli del debito pubblico, la quale non risultava dimostrata da alcun dato concreto e non poteva presumersi operante al tempo in cui il pegno fu costituito; che, parimenti, non aveva pregio l'eccezione concernente la mancata indicazione nel contratto di pegno del credito garantito, perché, al contrario, i riferimenti contenuti in detto contratto e nelle sue successive modificazioni consentivano di individuare la linea di credito garantita (denominata "denaro caldo"), in base alla quale erano stati in concreto erogati dalla banca i finanziamenti in valuta poi rimborsati attraverso l'escussione del pegno, e consentiva di stabilire che tale erogazione e la conseguente costituzione del pegno erano avvenute oltre un anno prima della declaratoria d'insolvenza della debitrice; che erano anche infondate le doglianze riguardanti le modalità della vendita dei titoli costituiti in pegno, sui quali la banca creditrice aveva pieno diritto di soddisfarsi direttamente, salvo l'obbligo di restituire l'eccedenza; che, tuttavia, giacche la restituzione dell'eccedenza avrebbe dovuto avere ad oggetto beni della stessa specie di quelli immessi in deposito, e non il loro controvalore in denaro, malamente il San Paolo aveva proceduto alla vendita di titoli oltre il valore dei crediti garantiti, di modo che siffatta vendita in eccesso configurava un illecito e, come tale, implicava l'obbligo di corresponsione degli interessi sin dalla data della vendita stessa.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre la Cogolo Torino, prospettando quattro motivi di doglianza.
Resiste il San Paolo con controricorso contenente anche un singolo motivo di ricorso incidentale.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. I ricorsi proposti avverso il medesimo provvedimento debbono preliminarmente essere riuniti, come prescrive l'art. 335 c.p.c.. 2. Nella memoria depositata ai sensi dell'art. 378 c.p.c. il San Paolo ha chiesto a questa corte di "dichiarare improseguibile il presente giudizio per incompatibilità, rispetto al dettato comunitario, della normativa di legge in base alla quale esso e stato promosso e proseguito e per conseguente carenza di legittimazione attiva che ne deriva per l'attrice amministrazione straordinaria". La questione così prospettata attiene al contrasto tra la normativa comunitaria e la disciplina dettata, in ambito nazionale, dal d.l. 30 gennaio 1979, n. 26, convertito in legge 3 aprile 1979, n. 95, con cui è stato introdotto l'istituto dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. Disciplina, quest'ultima, in seguito modificata dal d. lgs. 8 luglio 1999, n. 270, e tuttavia ancora operante nei termini originari quando si tratti - come nella specie - di amministrazioni straordinarie già in corso alla data di entrata in vigore di detto decreto (art. 106 dal decreto stesso). La difesa del San Paolo, facendo riferimento alle note decisioni della Commissione europea e della Corte di Giustizia delle comunità europee che hanno ravvisato un contrasto tra il regime della citata legge n. 95 del 1979 e le disposizioni comunitarie che vietano aiuti di stato alle imprese (decisione 16 maggio 2000 della Commissione e sentenze della Corte 1^ dicembre 1998, in causa C-200/97, e 17 giugno 1999, in causa C-295/97, nonché ordinanza della stessa Corte 24 luglio 2003, in causa C-297/01), assume che il giudice nazionale e tenuto a prendere atto anche d'ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, dell'inapplicabilità della suaccennata legge n. 95 del 1979. Donde la carenza di legittimazione del commissario straordinario ad esercitare l'azione revocatoria in detta legge prevista.
2.1. Il rilievo, che non risulta essere stato mai in precedenza sollevato, appare inammissibile.
Questa corte, infatti, ha già avuto nodo di osservare in precedenti occasioni come non sia consentita la prospettazione di questioni nuove in Cassazione, pur quando si tratti di questioni rilevabili d'ufficio, laddove esse implichino una modifica dei termini della controversia sviluppatasi nel precedenti gradi di merito, o comunque presuppongano o richiedano nuovi accertamenti di fatto. Ed è stato anche precisato che l'eventuale disapplicazione della normativa in esame, per contrasto con il divieto di aiuti di stato alle imprese, alla stregua degli artt. 92 e segg. (poi divenuti 87 e segg.) del Trattato Ce, postula l'accertamento in concreto sull'esistenza dell'autorizzazione all'esercizio dell'impresa in condizioni tali da realizzare un trattamento diverso da quello ipotizzatile in caso di procedure concorsuali ordinarie e da consentire all'impresa stessa benefici non compatibili con le accennate disposizioni comunitarie (Cass. n. 5241 del 2003; 13470 del 2002; 9681 del 1999). Sulla scorta di tali indicazioni giurisprudenziali, dalle quali non si ha qui motivo di discostarsi, risulta evidente l'inammissibilità della questione prospettata.
3. Il primo motivo di ricorso, con cui si denunciano la violazione e la falsa applicazione di svariato disposizioni del codice civile in materia di interpretazione dei contratti ed in materia di pegno, nonché vizi di motivazione dell'impugnata sentenza, investe in modo particolare la qualificazione giuridica del rapporto intercorso tra le parti, così come operata dalla corte d'appello.
Questa ha ravvisato, nel caso di specie, gli estremi di un pegno irregolare, riconducibile alla previsione dell'art. 1851 c.c., e ne ha tratto la conseguenza che non fosse necessaria, ai fini dell'opponibilità della prelazione, la specifica e puntuale individuazione di singoli titoli dati in pegno. La ricorrente, viceversa, sostiene che il documento di apertura del rapporto in esame faceva espresso riferimento al pegno di cose determinate o di crediti, e non al pegno irregolare; che nessun argomento a favore dell'esistenza di un pegno irregolare poteva trarsi dal tenore delle condizioni generali di contratto sottoscritte dalle parti, trattandosi di un modulo riferito a qualsiasi tipologia di pegno, le cui indicazioni sarebbero state poi di volta in volta applicabili a seconda del tipo di pegno in concreto stipulato; che il comportamento delle parti, ed in particolare il fatto che fossero stati individuati gli estremi dei primi certificati di credito immessi in deposito a garanzia, così come il tenore degli ulteriori documenti prodotti in causa, avrebbero dovuto portare ad escludere la configurabilità di un pegno irregolare, non potendosi questo dedurre solo dal fatto che i titoli dati in pegno (regolare) non fossero poi risultati in concreto sufficientemente identificabili.
Contraddittoria sarebbe, poi, la motivazione della corte triestina laddove argomenta sul rapporto tra pegno irregolare e pegno di crediti.
3.1. il secondo motivo di ricorso concerne l'opponibilità del pegno alla procedura concorsuale cui la Cogolo Torino è sottoposta. L'opponibilità e stata contestata dagli organi della procedura, per difetto di data certa dei documenti dai quali il contratto risulterebbe, senza però veder accolta la loro tesi dai giudici di merito, ed in particolare dalla corte d'appello, la cui decisione è ora censurata, sul punto, per violazione dell'art. 2787, comma 3, in relazione agli artt. 2697 e 2704 c.c., nonché per difetti di motivazione.
La censura è articolata in due profili.
3.1.1. Il primo di essi si sostanzia nel rilievo che la Corte d'appello, al pari del tribunale, non avrebbe individuato correttamente l'originaria scrittura contrattuale, ritenuta opponibile alla procedura di liquidazione coatta perché dotata di un timbro postale a tergo. Quella scrittura - a parere della ricorrente - non potrebbe identificarsi con il cosiddetto ordine d'acquisto dei primi titoli immessi in deposito a garanzia (in realtà si tratterebbe di una mera disposizione con cui la società correntista autorizzava la banca a prelevare dal conto corrente le somme necessarie per l'acquisto di quei titoli), ma semmai con i successivi documenti contenenti la formalizzazione del medesimo ordine d'acquisto e dell'immissione dei titoli in deposito: i quali erano, però, del tutto sprovvisti di timbro postale.
3.1.2. Il secondo (e subordinato) profilo di doglianza attiene, invece, al riconoscimento della data certa del documento in cui la corte di merito ha identificato l'atto costitutivo del pegno. Quel riconoscimento la medesima corte ha operato facendo soprattutto leva sul timbro postale apposto a tergo del documento stesso; ed ha poi tratto argomento dal fatto che gli organi della liquidazione non avevano mai eccepito un abusivo riempimento di foglio in bianco e che le parti si erano ripetutamente riferite a quel documento nella loro successiva corrispondenza.
La ricorrente premette che non vi fu spedizione postale, ma solo apposizione sul documento di un timbro postale "in cosmo particolare". Osserva, poi, che l'apposizione del timbro sul retro del documento, piegato in più parti, non garantisca affatto che quanto scritto nella parta interna del medesimo documento sia anteriore o contestuale alla data indicata nel timbro, e non basta quindi a dare certezza della data dello scritto, senza che per questo si debba onerare il terzo di dimostrare l'abusivo riempimento, nulla potendosi inoltre ricavare al riguardo dalla documentazione successiva.
3.2. Anche il terzo motivo di ricorso, con cui nuovamente si lamentano la violazione del citato art. 2787, comma 3, e vizi di motivazione del provvedimento impugnato, e articolato in due parti ed attiene ancora al requisito dell'individuazione della res data in pegno.
3.2.1. Il primo rilievo si riallaccia ad un'ulteriore ratio decidendi che la Corte d'appello ha posto a base del proprio convincimento. La Corte ha infatti osservato che, ove pure si volesse nella specie prescindere dalla peculiare disciplina del pegno irregolare, l'eccezione di insufficiente individuazione dei titoli costituiti in pegno sarebbe infondata, risultando invece questi ben identificati, con codice di scadenza a data di emissione, nei relativi ordini d'acquisto, nei tabulati afferenti al deposito e nelle successive note inviate dalla banca alla società correntista.
Argomentazione che la ricorrente critica obiettando che, per titoli di questo genere, l'indicazione del loro tipo e del loro valore nominale non è sufficiente a determinare la res, il cui valore intrinseco dipende anche da altri fattori, onda occorre una maggiore specificazione per evitare il rischio che il creditore possa abusivamente sostituire titoli di maggior valore a quelli originariamente costituiti in pegno.
3.2.2. In secondo luogo, la ricorrente torna ad affermare che la possibilità di configurare un pegno opponibile di titoli di credito è legata all'effettiva individuazione ed alla materiale consegna dei titoli: il che non sarebbe nella specie provato, essendovi anzi aeri indizi che i certificati del tesoro di cui si tratta non siano mai stati in realtà emessi per effetto della cosiddetta
dematerializzazione di tali titoli.
3.3. Con il quarto motivo d'impugnazione - ancora una volta intitolato alla violazione dell'art. 2787, comma 3, c.c. ad a vizi di motivazione - la ricorrente sposta l'attenzione su un profilo diverso: quello dell'insufficiente determinazione del credito garantito, già eccepita nel giudizio di merito.
3.3.1. La Corte d'appello ha disatteso detta eccezione, premettendo cha all'atto dell'originaria costituzione del rapporto di pegno, nel 1984, la parti avevano fatto riferimento in modo sufficientemente specifico ad un credito per finanziamento inerente a "contratti Aerogrup - New Delhi", ed accertando poi, sulla scorta di successiva documentazione risalente al 1987, che la garanzia era stata modificata sino a comprendervi una linea di credito denominata "denaro caldo", in virtù della quale la sodata correntista poteva fruire immediatamente di anticipi per far fronte ad impegni a scadenza fissa sul rapporto di conto corrente già esistente". Questa linea, ha precisato la corte territoriale, era "finanziata da prestiti in valuta", che in concreto erano stati erogati nello stesso 1987, onde a quell'epoca - anteriore di oltre un anno all'inizio della procedura concorsuale di liquidazione coatta della Cogolo Torino - doveva farai risalire la nascita del credito poi soddisfatto mediante escussione da parta della banca dei titoli ricevuti in pegno.
La ricorrente oppone, in primo luogo, che il mero riferimento agli anticipi accordati dalla banca sui proventi dei "contratti Aerogrup" non è affatto sufficiente ad individuare gli estremi dei crediti garantiti dal pegno; in secondo luogo, che le ulteriori linee di credito ("denaro caldo") menzionate nei documenti del 1987 nulla avevano a che fare con l'oggetto dell'originario contratto di pegno, il quale non avrebbe potuto estendere i propri effetti di garanzia a crediti sorti in epoca successiva se non sul presupposto della validità del cosiddetto pegno omnibus, espressamente invece esclusa dagli stessi giudici di merito.
3.3.2. Sempre nel contesto del quarto motivo di ricorso la ricorrente formula poi tre ulteriori osservazioni: che la declaratoria di nullità di detta clausola "omnibus" avrebbe dovuto estendere il proprio effetto all'intero contratto di pegno, non risultando che la banca lo avrebbe stipulato in difetto di detta clausola; che i crediti garantiti sarebbero sorti, o comunque sarebbero stati individuati, entro l'anno anteriore alla dichiarazione d'insolvenza dalla società posta in liquidazione coatta e, quindi, sussistendo anche il requisito della scientia dedoctionis in capo alla banca, sarebbero revocabili, contrariamente a quanto affermato dalla corte territoriale; che ingiustificatamente la corte territoriale avrebbe negato rilievo al fatto che la banca aveva proceduto direttamente alla vendita dei titoli - per conto di una società debitrice individuata con denominazione errata -, anziché realizzare garanzia nelle forma voluta dagli artt. 2796 e 2798 c.c..
4. Il San Paolo, nel ricorso incidentale, ha censurato l'impugnata sentenza con riferimento alla dichiarata illegittimità della vendita dei titoli costruiti in pegno per un valore eccedente l'entità del credito garantito. Illegittimità che il ricorrente incidentale contesta, assumendo che la vendita doveva necessariamente avvenire per l'intero, giacché non ne era prevedibile con precisione il ricavato, e che del tutto lecitamente il conseguente debito della banca per la restituzione del ricavato in eccedenza, ammontante a L. 778.075.171, era stato compensato con ulteriori crediti liquidi ed esigibili vantati all'epoca dalla banca medesima nei confronti della Cogolo Torino.
In via subordinata, il San Paolo censura altresì la decisione della corte d'appello laddove questa ha ritenuto che gli interessi sulla somma sopra indicata dovessero decorrere dalla data della vendita dei titoli tenuti in pegno, anziché da quella della domanda giudiziale. 5. A fronte di così articolate doglianze reputa la corte che sia necessario - ancorché forse ovvio - ribadire quali sono i limiti del ricorso per cassazione. Limiti che non consentono alla corte medesima di prendere conoscenza di questioni di fatto (salvo che in caso di denuncia di errore in procedendo) e pertanto impongono il requisito dell'autosufficienza del ricorso, tendendo di conseguenza inammissibili quella doglianza che, se pur formulata in termini di pretesi vizi di motivazione del provvedimento impugnato, postulano la conoscenza di risultanze istruttorie e di documenti cha si assumono prodotti nei precedenti gradi di merito ma sono solo
approssimativamente richiamati in sede di legittimità. Tali doglianze sfuggono alla valutazione dalla Corte di Cassazione, perché essa potrebbe saggiarne la fondatezza solo a seguito di un esame diretto del menzionato materiale istruttorio, ma così finirebbe per dare ingrasso ad un terzo grado di merito, incompatibile con i caratteri stessi della giurisdizione di legittimità. Resta invece in ogni caso fermo, ovviamente, il potere- dovere di vagliare i vizi di motivazione idoneamente denunciati nel ricorso, ai sanai dell'art. 360, n. 5, c.p., a rilevabili dalla lettura della sentenza impugnata.
Occorre allora porre, nella presente fattispecie, alcuni punti fermi per individuare le questioni di fatto sulle quali è intervenuto un motivato accertamento del competente giudice di merito, non suscettibile di riesame in questa sede.
La Corte d'appello ha accertato: a) che la scrittura privata contenente il contratto di pegno di cui ai discute (il cui contenuto è identificato direttamente o per relazione ad altro documento di alcuni giorni prima) è quella, prodotta in giudizio dal San Paolo, recante la data del 9 luglio 1984, con timbro postale a tergo; b) che le condizioni di tale contratto prevedevano la facoltà della banca depositarla di "disporre dei titoli immessi in deposito a copertura dei suoi crediti in sofferenza, nonché il collegamento della garanzia con la concessione di finanziamenti mediante anticipazioni" (si vedano, in particolare, le pagg. da 12 a 14 della sentenza impugnata), ed in particolare un collegamento con un finanziamento afferente ad un contratto stipulato con la Aerogrup di New Dehli (sentenza cit., pag. 14); c) che la pattuizione originaria fu modificata, nel corso dell'anno 1987, nel senso che la garanzia costituita dai titoli immessi in deposito fu riferita ad una linea di credito (denominata "denaro caldo") consistente in finanziamenti in valuta operati dalla banca in favore della società correntista; d) che i crediti da ultimo così garantiti sono venuti in essere nello stesso anno 1987 (sentenza cit., pag. 17).
Le diverse considerazioni della ricorrente su tutti tali punti, ivi comprese quelle secondo cui altro sarebbe il documento contrattuale da prendere in considerazione, non sono apprezzabili se non a patto di prendere diretta conoscenza dalla produzione documentale operata nel giudizio di merito, ciò che si è visto non essere qui invoco consentito; ne' la medesima parte ricorrente, cha pur ripetutamente a quella produzione documentale fa riferimento, ne riporta in ricorso il contenuto testuale, la cui conoscenza sfugge perciò a questa corto, il che dicasi anche per la doglianza formulata con riguardo a pretesi errori di diritto nell'applicazione delle norme in tema di interpretazione dei contratti; doglianza che, in realtà non pone in evidenza errori di diritto, bensì prospetta una diversa lettura di un materiale documentario che - giova ancora una volta ripeterlo - non è esposto nel ricorso con tale compiutezza da consentire a questa corte di vagliarne la portata senza procedere (ma inammissibilmente) ad un suo esame diretto.
6. Operate tali indispensabili puntualizzazioni, si può ora passare all'esame dei singoli motivi di ricorso, cominciando naturalmente da quello principale.
6.1. Il primo motivo, che, come si è detto, concerne essenzialmente la qualificazione giuridica del rapporto di cui trattasi in termini di pegno irregolare, non ha fondamento.
È invero risolutivo - e neppure specificamente contestato - l'accertamento in fatto dalla corte d'appello secondo cui il contratto di pegno stipulato tra la parti espressamente prevedeva la facoltà del creditore di disporre dei titoli ricevuti in pegno. Elemento, questo, che, unitamente al carattere di par sè non infungibile di detti titoli, costituisce il segno distintivo del pegno irregolare, come contagiato dall'art. 1815 c.. Escluso, quindi, che si possa in questa seda rivedere il suindicato accertamento in punto di fatto, la qualificazione giuridica che ne è stata ricavata risulta pienamente conforme a diritto, così come lo è la conseguente valutazione di sufficienza delle indicazioni contrattuali - relative al tipo ed al valore nominale dei titoli - concernenti l'individuazione del genere di beni fungibili che le parti hanno inteso costituire in pegno. Indicazioni sufficienti, appunto, ad individuare quei titoli nel loro genus, senza che rilevi l'eventuale diverso ed oscillante loro valore di marcato, destinato ad essere comunque assorbito dall'obbligo di restituzione di beni del medesimo genere per il valore eccedente il soddisfacimento delle ragioni del creditore pignoratizio. Del resto, non potrebbe anche in tale situazione non valere il principio già enunciato da questa corte con riferimento al pegno in generale, secondo cui il requisito dalla sufficiente indicazione della cosa data in pegno ben può ritenersi soddisfatto, nel caso di pegno di titoli di credito al portatore, dalla semplice menzione della natura del titolo a dell'ammontare del credito in esso incorporato, senza necessità di ulteriori specificazioni di tutti gli elementi occorrenti per l'esatta identificazione del documento, superflue rispetto all'interesse tutelato (Cass., 7 giugno 1999, n. 5562). Appare invece del tutto irrilevante la critica alla motivazione della corte triestina sul tema del rapporto tra pegno irregolare e pegno di crediti, trattandosi di questione cui lo stesso giudice territoriale non ha ricollegato alcun reale valore decisivo.
6.2. Quanto appena osservato consente subito di licenziare anche il terzo motivo di ricorso, che in effetti si riferisce ad un'argomentazione di rincalzo, adoperata dalla corte territoriale in via meramente eventuale, ma che, accertata la natura irregolare del pegno in questione, è in sè priva di ogni reale valore decisivo. Per il resto, le censure in tema di asserita, possibile dematerializzazione dei titoli in pegno nuovamente investono una questione di fatto, in ordine alla quale non vi sono elementi che consentano di rivedere, in questa sede, l'accertamento negativo operato in proposito dal giudice di merito.
6.3. Ugualmente infondato è il secondo motivo del ricorso, che attiene al tema della certezza della data del documento contrattuale in cui la corte territoriale ha individuato la fonte del rapporto di pegno.
S'è già rilevato come tale individuazione sia frutto di uno specifico accertamento di fatto che il giudice di legittimità non ha strumenti per sindacare.
Quanto al requisito della data certa, è appena il caso di ricordare come già altre volte questa aorte abbia avuto modo di chiarire che il timbro postale deve ritenersi idoneo a conferire carattere di certezza alla data di una scrittura tutte le volte in cui lo scritto faccia corpo unico con il foglio sul quale il timbro stesso risulti apposto, poiché la timbratura eseguita in un pubblico ufficio deve considerarsi equivalente ad un'attestazione autentica che il documento è stato inviato nel medesimo giorno in cui essa è stata eseguita; e ciò anche nell'ipotesi che il timbro postale di annullo del francobollo sia quello contemplato dall'art. 41 lett. b) d.p.r., 156/1973 (oggi abrogato dal d. lgs. n. 261 dal 1999), riferito, come nella specie, alla corrispondenza ed. "a corso particolare", l'una e l'altra timbratura provenendo da dipendenti dell'amministrazione postale, con pari garanzia di autenticità. Donde consegue che spetta eventualmente al terzo, il quale contesti la certezza della data, l'onere di fornire la prova specifica del fatto anomalo della redazione del contenuto della scrittura in un momento diverso dalla data così accertata. Con l'ulteriore decisiva precisazione che, in ogni caso, l'apprezzamento se un fatto o un atto possa essere considerato equipollente di quei fatti tipici indicati dall'art. 2704 c.c. come idonei ad offrire certezza sull'anteriorità della formazione del documento è rimesso al giudice del merito ed è insindacabile, in sede di legittimità, se sorretto da motivazione adeguata (cfr., ex multis, Cass., 28 giugno 2002, n. 9482). La Corte d'appello ai è attenuta correttamente a tale principio, nel presente caso, ed ha adeguatamente motivato sul punto la propria decisione, che perciò non è scalfita dalla censura di parte ricorrente.
6.4. La questione dell'insufficiente indicazione, nel contratto di pegno, del credito garantito è al centro del quarto motivo di ricorso.
È questo uno dei requisiti cui l'art. 2787, comma terzo, c.c. subordina l'opponibilità ai terzi della prelazione derivante dal pegno. In proposito questa corte ha altre volte già precisato come, perché il credito garantito possa ritenersi sufficientemente indicato, non occorra che esso venga specificato, nella scrittura costitutiva del pegno, in tutti i suoi elementi oggettivi, bastando che la scrittura medesima contenga elementi idonei a consentirne l'identificazione (Cass., 12 luglio 1991, n. 7794). Ma ha anche aggiunto che, a tal fine, l'eventuale ricorso a dati esterni all'atto di costituzione del pegno richiede che l'atto contenga un indica di collegamento da cui possa desumersi l'individuazione dei menzionati dati: sicché non vi è luogo alla prelazione se, per effetto della estrema genericità dalle espressioni usate, il credito garantito possa essere individuato soltanto mediante l'ausilio di ulteriori elementi esteriori, come nel caso ai sia fatto solo riferimento alle "linee di credito accordate" dalla banca, anche se risulti poi che contestualmente alla costituzione del pegno quest'ultima abbia concesso un'apertura di credito in conto corrente, o come nel caso di riferimenti al solo conto corrente bancario, senza che si possa poi far ricorso al "libro-fidi" tenuto dalla banca, oppure al concreto svolgimento del rapporto, al fine di ritenere che l'atto si riferiva uno o più specifici rapporti (Cass., 7 novembre 1996, n. 9727; e 24 giugno 1995, n. 7163).
Alla stregua di tali principi, dai quali non si ritiene di doversi qui discostare, appare corretta e ben comprensibile l'affermazione alla Corte di merito secondo cui il credito garantito dagli originari accordi stipulati dalle parti nel 1984 risultava adeguatamente identificato mediante il riferimento ai finanziamenti concessi dalla banca alla propria correntista in relazione al contratto stipulato da quest'ultima con la società Aerogrup di New Dehli.
Non altrettanto è a dirsi, però, per quel che riguarda i successivi mutamenti contrattuali, che - stando all'accertamento in fatto operato dalla Corte d'appello - avrebbero trasferito la garanzia pignoratizia a tutti i crediti bancari derivanti da affidamenti in valuta (denominati "denaro caldo"), di cui la medesima correntista godeva. Non è infatti par nulla chiaro, nella stessa motivazione dell'impugnata sentenza, se e quali elementi di collegamento vi fossero tra tali affidamenti e l'anzidetta previsione originaria del contratto; e, soprattutto, non è affatto ovvio che l'individuazione dei crediti operata attraverso il solo riferimento alla valuta estera in cui i relativi finanziamenti sarebbero stati erogati basti a soddisfare il requisito di specificità imposto, ai fini della prelazione, dulia citata disposizione dell'art. 2787. Resta, perciò, non sufficientemente spiegato se, dopo i surriferiti mutamenti dei termini del contratto di pegno - alla cui stregua (oltre che sulla base della formulazione originaria del contratto) si imponeva di verificare il requisito dell'adeguata individuazione dei crediti garantiti -, detti crediti fossero ancora (ed eventualmente in qual misura) identificabili attraverso il riferimento alle operazioni in essere con la società indiana Aereogrup di New Dheli, o se - come invece da alcuni passaggi dell'impugnata sentenza sembrerebbe doversi dedurre - si trattasse di crediti diversi. Nel quale ultimo caso, occorrerebbe però anche chiarire e valutare se e quali elementi di identificazione di tali diversi crediti siano contenuti nel testo, o nei testi, in cui risulta consacrato il (modificato) rapporto di pegno; e, qualora tali elementi d'identificazione si riducessero alla mera espressione "denaro caldo" o alla sola circostanza che gli affidamenti fossero in valuta, dovrà anche essere motivatamente vagliato in basa a quali elementi logici si possa ritenere che simili espressioni abbiano un valore identificativo adeguato rispetto al livello di tutela degli interessi cui è ispirata la citata disposizione dell'art. 2787. 7. La necessità di siffatta ulteriori, motivata verifiche, afferenti ad un punto decisivo dalla vertenza, intona quindi di cassare l'impugnata sentenza affinché si possa dar corso ad un giudizio di rinvio.
Nel che resta assorbito l'esame dagli ulteriori profili di doglianza contenuti nel quarto motivo del ricorso principale a dall'intero ricorso incidentale.
8. La Corte d'appello di Roma, in vasta di giudice di rinvio, provvederà altresì in ordine alla spesa del presenta giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi:
a) accoglie, par quanto di ragiona, il quarto motivo del ricorso principale;
b) rigetta gli altri motivi di detto ricorso;
c) dichiara assorbita la doglianza non esaminata del medesimo ricorso principale, nonché il ricorso incidentale;
d) cassa l'impugnata sentenza, in relazione alla censura accolta, e rinvia la causa ad altra sezione della Corte d'appello di Roma, cui demanda di provvedere anche in ordina alla spesa del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 16 ottobre 2003.
Depositato in Cancelleria il 19 marzo 2004