Diritto dei Mercati Finanziari


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 261 - pubb. 01/01/2007

Violazione di norme imperative e nullità

Cassazione civile, sez. I, 07 Marzo 2001, n. 3272. Est. Plenteda.


Intermediazione finanziaria – Negozio contrario a norme imperative – Natura pubblica e generale degli interessi tutelati – Tutela del risparmiatore – Mancata previsione della nullità – Irrilevanza.



In presenza di un negozio contrario a norme imperative, la mancanza di una espressa sanzione di nullità non è rilevante ai fini della nullità dell'atto negoziale in conflitto con il divieto, in quanto vi sopperisce l'art. 1418, comma 1, c.c., che rappresenta un principio generale rivolto a prevedere e disciplinare proprio quei casi in cui alla violazione dei precetti imperativi non si accompagna una previsione di nullità. Pertanto - poiché il carattere inderogabile delle disposizioni della l. 2 gennaio 1991 n. 1, che prevedono la necessità dell'iscrizione all'albo delle società di intermediazione mobiliare, previo accertamento da parte della CONSOB della sussistenza di una serie di requisiti, deriva dalla natura, pubblica e generale, degli interessi con esse garantiti, che concernono la tutela dei risparmiatori "uti singuli" e quella del risparmio pubblico come elemento di valore della economia nazionale - è affetto da nullità assoluta il contratto di "swap" (da annoverare tra le attività di intermediazione mobiliare disciplinate dalla suddetta legge) stipulato, in contrasto con la stessa, da un intermediario abusivo, atteso l'interesse dell'ordinamento a rimuovere detto contratto per le turbative che la conservazione di esso è destinata a creare nel sistema finanziario generale.


Doveri informativi dell’intermediario, violazione, rimedi, nullità


Fatto

Con ricorso 8.3.1996 la società CIICAI S.C.a.r.l. propose dinanzi al Tribunale di Firenze opposizione allo stato passivo del fallimento Gestival s.p.a., dal quale era stato escluso il credito di L. 400.626.608, in quanto erano stati considerati nulli i contratti Domestic Indixed Swap, da cui era scaturito, e non era stata esaminata la pretesa di pari importo a titolo di risarcimento del danno. Il fallimento resistette e il tribunale rigettò la opposizione con sentenza 12.12-22.12.1997. Premesso che è contratto di Swap quello in cui due parti convengono di scambiarsi, in una o più date prefissate, somme di danaro calcolate applicando due diversi parametri (in termini di tassi di interesse o di scambio) ad un identico ammontare di riferimento, con il pagamento alla scadenza concordata di un importo di base netta, in forza di compensazione, e rilevato che la Gestival aveva garantito alla società cooperativa il rischio del cambio relativo alla restituzione di un finanziamento, regolando alla scadenza il differenziale determinato dalla variazione di cambio, nel senso che in caso di deprezzamento della lira la Gestival avrebbe pagato la differenza necessaria per acquistare la valuta estera da restituire e in caso di apprezzamento avrebbe riscosso la differenza attiva, nonché considerato che quei contratti non potevano essere conclusi se non dalle società Sim, cui erano riservati ai sensi dell'art. 2 L. n. 1-1991, e che la violazione della riserva è penalmente sanzionata dall'art. 14 della legge, rilevò il tribunale che i contratti in questione fossero nulli ai sensi dell'art. 1418 c.c.; escluse poi che sussistesse la responsabilità precontrattuale in capo alla Gestival ai sensi dell'art. 1338 c.c., in quanto la invalidità era derivata da una norma di legge, tanto da non potersi configurare una ignoranza incolpevole, mentre la esistenza dell'albo delle Sim consentiva a chiunque avesse inteso stipulare i contatti ad esse riservati la opportuna verifica, tanto da escludere ipotesi di ignoranza sullo stato giuridico della fallita.

Contro la decisione fu proposta dalla Cooperativa C.I.I.C.A.I. impugnazione, che la Corte di Appello di Firenze respinse con sentenza 2.3.1999, ritenendo anzitutto legittima la partecipazione al collegio giudicante del giudice delegato al fallimento; considerando, poi, che il contratto de quo sia compreso tra quelli riservati alle società di intermediazione finanziaria, attesa la esigenza della legge n. 1-1991 di disciplinare i comportamenti degli intermediari che operano nel mercato; escludendo che la nullità prevista dalla legge potesse essere qualificata relativa; negando, comunque, che nel caso di responsabilità precontrattuale l'oggetto della prestazione contrattuale inadempiuta potesse essere soddisfatto per equivalente, dal momento che ai sensi degli artt. 1337 e 1338 c.c. danno risarcibile è solo quello negativo, oltre alle spese sostenute per la conclusione del contratto e alle perdite sofferte per non aver usufruito di ulteriori occasioni uguali o più vantaggiose di quelle concluse. Escluse infine che potesse farsi luogo alla compensazione anche parziale delle spese processuali.

Ha proposto ricorso per cassazione la soc. Coop C.I.I.C.A.I. con quattro motivi, cui ha resistito il curatore del fallimento della soc. Gestival, che ha depositato controricorso e memoria.

Diritto

Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 98 L.F. e solleva eccezione di incostituzionalità della norma in relazione all'art. 24 Cost., nella parte in cui consente al giudice delegato del fallimento di istruire la causa di opposizione allo stato passivo e di partecipare alla relativa decisione.

La censura è infondata, nè è condivisibile il dedotto profilo di incostituzionalità della norma richiamata. Premesso che la imparzialità ed indipendenza del giudice sono dati acquisiti nel vigente ordinamento, oltreché tra i principi costituzionali - attraverso gli artt. 25 e 101 cpv Cost. - in quelli del sistema processuale (art. 51 ss c.p.c.), con riguardo alla fattispecie del giudice che abbia partecipato al procedimento, la normativa processuale, all'interno del generale sistema dei citati artt. 51 e ss., allargato alla ipotesi considerata dall'art. 669 terdecies c.p.c., relativa alla reclamabilità al collegio dei provvedimenti resi in materia cautelare, volto a tutelare la predetta imparzialità, riconosce, quale unico impedimento, attesa la tassatività delle situazioni che realizzano l'obbligo della astensione, quella di avere "conosciuto quale magistrato in altro grado del processo", e in tal caso, nello stabilire quell'obbligo, attribuisce quale rimedio esclusivo alla sua inosservanza la facoltà a ciascuna delle parti della ricusazione (artt. 52, 53, 54 c. p. c.).

Pertanto, al di fuori delle ipotesi in cui il giudice abbia un interesse proprio e diretto nella causa, da porlo nella condizione sostanziale di parte, tale da determinare la nullità della sentenza per la violazione del principio "nemo iudex in causa propria", la inosservanza del dovere di astensione, concepito al fine di assicurare la imparzialità, ma secondo i livelli apprezzati discrezionalmente dal legislatore con l'art. 51, non produce altro effetto che la possibilità della ricusazione, senza incidere sulla validità del provvedimento (Cass. 5734-19999; 6143-1996; 20-1981).

Nè sono riferibili al processo civile situazioni del processo penale, sulle quali il giudice delle leggi è intervenuto ripetutamente (Corte Cost. 326-1997; 131-1996; 115-1996; 432-1995), giacché le profonde differenze strutturali e funzionali tra il modello penale e quello civile non consentono di trasporre sic et simpliciter in quest'ultimo le considerazioni relative al primo e in particolare alle incompatibilità del giudice nel quadro dell'art. 34 c.p.p.; e ciò ancor più con riguardo alle peculiarità della disciplina fallimentare, ispirata al principio della concentrazione processuale presso i suoi organi di ogni controversia che ne deriva (Corte Cost. 363 e 304 e 234-1998; 351-1997; 148-1996), con collegamenti ed interferenze inevitabili, che non sono rilevanti agli effetti della legittimazione del giudice, per la prevalente esigenza di portare allo stesso grado giurisdizionale tutto il procedimento e di ridurlo ad unità. Per cui la partecipazione del giudice delegato, quale relatore, al collegio del tribunale fallimentare che decide in sede di opposizione avverso lo stato passivo, trova la sua ragione nel predetto principio di concentrazione processuale e nella particolare posizione di quel giudice quale garante della rapidità delle fasi processuali per la continuità della sua conoscenza sui fatti, rapporti, situazioni, richieste e mutazioni soggettive ed oggettive della procedura, tanto da non implicare violazione dell'obbligo di astensione previsto dall'art. 51 n. 4 c.p.c. (Cass. 1209-1992) e da escludere persino in astratto la situazione di incompatibilità che avrebbe potuto legittimare la ricusazione, la quale comunque, essendo, come si è visto, un onere della parte che la invoca, non può essere fatta valere in sede di impugnazione, in cui è altresì inibita la denuncia di incostituzionalità, in quanto sia strumentale ad una espansione additiva del potere di ricusazione, per il fatto che, rispetto a tale questione, la Corte di legittimità non può considerarsi giudice a quo, per essersi la giurisdizione, in relazione alla applicazione della norma sulla ricusazione, già consumata nella precorsa fase processuale (Cass. 4187-1998).

Con il secondo motivo la società cooperativa C.I.I.C.A.I. denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 1 L. n. 1-1991 nonché la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata sul punto della nullità dei contratti. Deduce che il rapporto di cui si tratta non fosse regolato da contratti riservati alle società di intermediazione finanziaria, posto che l'attività della Gestival consisteva nel prestare alla clientela servizi di consulenza e di assistenza al fine di gestire in maniera ottimale il costo delle posizioni di indebitamento che il cliente aveva assunto direttamente ed autonomamente presso un istituto bancario. Si sarebbe pertanto trattato di due contratti connessi, uno di mandato con rappresentanza, con cui la Gestival si assicurava la facoltà di gestire direttamente il rapporto di finanziamento con l'ente finanziatore, e l'altro di swap avente come parametri il costo dell' indebitamente, dalla Gestival garantito come risultato della propria assistenza svolta attraverso il mandato. Da tale connessione sarebbe derivato un contratto atipico, giacché lo swap avrebbe perduto il carattere suo proprio dell'aleatorietà, essendo la Gestival in grado di gestirne gli esiti attraverso il mandato, che veniva a risultare la parte preminente del rapporto, tanto da renderlo estraneo agli schemi considerati dalla citata legge n. 1-1991, che prevedono la convenzione di scambio di due somme di danaro, rimanendo del contratto di swap solo la denominazione.

Del tutto sprovvista di base normativa sarebbe poi la ipotesi di nullità derivante dalla mancata iscrizione della Gestival nell'albo delle S.I.M., non prevedendo la legge n. 1-1991 alcuna sanzione di nullità per i contratti conclusi da soggetti sprovvisti di autorizzazioni, non discendendo la nullità da principi generali, mancando nell'ordinamento il principio secondo cui gli atti compiuti nell'esercizio di attività soggette ad autorizzazioni sono nulli allorché quelle autorizzazioni manchino, nè essendo quella attività illecita, corrispondendo a quella autorizzata. In ogni caso il vizio supposto dovrebbe semmai realizzare una ipotesi di nullità relativa, da farsi valere dal cliente soltanto.

Anche questo motivo è privo di fondamento.

La sentenza impugnata ha adeguatamente motivato in ordine alla corrispondenza dei contratti di cui si tratta all'istituto dell'art. 1 L. 11-1991, richiamando la giurisprudenza di questa Corte (11279-1997; 10976-1996) che ha ritenuto compreso il contratto swap tra gli strumenti assimilati ai valori immobiliari e negato il valore alla tesi della ricorrente, secondo cui il contratto di domestic indexes lira swap non è riconducibile allo swap. Ha, infatti, affermato il giudice di merito che la riconducibilità non trova resistenza nell'accenno alla pretesa complessità soggettiva - sotto il profilo che il rapporto intercorso tra le parti avrebbe involto anche l'istituto finanziatore - ed oggettiva - per la ragione che al contratto di finanziamento in divisa estera si è accompagnato un rapporto di mandato a gestire il finanziamento suddetto - osservando, quanto al primo che l'istituto di credito finanziatore non è parte del contratto e, quanto al secondo, che il mandato resta meramente accessorio e strumentale rispetto al principale contratto di swap.

Tali considerazioni, congrue sul piano motivazionale, da un lato si appalesano conformi alla norma di legge, che si assume violata (art.

I e II comma L.1-1991), e dall'altro, resistono alla critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice, compiuta attraverso la prospettazione di una diversa interpretazione, la quale, investendo il merito delle valutazioni effettuate, è inammissibile in sede di legittimità (Cass. 3507-1999; 8013-1998; 5437-1997).

Quanto alla deduzione che la ipotesi di nullità dei contratti, derivante dalla mancata iscrizione della soc. Gestival nell'albo delle società di intermediazione mobiliare, sia sprovvista di base normativa, la tesi non può essere condivisa, nè quando contesta che la riserva in favore delle SIM dell'attività sia parametro utile per giudicare della validità dei contratti; nè quando trae argomento da istituti diversi, ovvero considera - in termini generali - non decisiva la comminatoria penale dell'attività ai fini della validità del negozio; nè, infine, laddove nega la invalidità assoluta di esso, per il fatto che la illiceità del comportamento sia stata di una sola delle parti.

Per una corretta soluzione del problema è indispensabile muovere dalla formula dell'art. 1418 c.c. che, dopo avere, al primo comma, stabilito che è nullo il contratto contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente, al terzo comma aggiunge "il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge".

Tuttavia, se è necessario richiamarsi alla legge per decidere della nullità, o annullabilità, tale richiamo non offre sempre sicure soluzioni per l'ambiguità o la insufficienza delle espressioni usate dal legislatore, per cui diventa indispensabile valutare, ogniqualvolta vi sia difformità tra fattispecie e schema normativo, se invalidità sussista e quale ne sia la portata, utilizzando come criterio di individuazione la natura degli interessi tutelati, nel quadro dei valori dell'ordinamento, progressivamente ampliato dai nuovi interessi che tendono a realizzarsi secondo diritto e che meritano di essere protetti in modo maggiore o minore, a seconda che corrispondano o meno agli interessi generali della collettività.

La nullità, pertanto, diventa - come osservato in dottrina - uno strumento di controllo normativo utile, insieme ad altri, a non ammettere alla tutela giuridica interessi in contrasto con i valori fondamentali del sistema e si differenzia dalla annullabilità, non solo perché l'atto è difforme dallo schema legale e pregiudica gli interessi del suo autore, ma perché mette a rischio i valori preminenti della comunità, il cui contrasto costituisce la ragione dell'impedimento che l'ordinamento oppone alla efficacia giuridica tipica degli atti.

Superata la concezione individualistica, fondata esclusivamente sul valore della autonomia privata, la valutazione della nullità del negozio si è così giovata del criterio del riscontro della utilità sociale, influenzato da scelte sociopolitiche, che è diventato indice del giudizio di meritevolezza degli interessi delle parti, rispetto ai valori perseguiti dalla comunità, al punto che l'ordinamento, ove quel riscontro sia negativo, non assegna ad essi alcuna tutela ed anzi assoggetta alla sanzione della nullità l'atto compiuto per realizzarli. In sostanza elemento qualificante della validità non è più la tutela dell'interesse del contraente, ma quella degli interessi generali, che vengono preservati anche dalle iniziative individuali, al punto da prescindere delle posizioni che in riferimento all'atto assume la parte - che pure la norma intende proteggere - in nome della equità, correttezza e stabilità dei rapporti sociali. E la circostanza che siano sempre maggiori le sollecitazioni in tal senso della collettività finisce per accrescere le ipotesi della nullità dei negozi, progressivamente riducendo lo spazio della autonomia privata.

Tale impostazione dogmatica è in linea con il diritto positivo e con le norme citate - artt. 1418 commi 1 e 3 c.c. - posto che è pur sempre il diritto oggettivo a stabilire, anche in situazioni di contrasto con norme imperative, se assegnare tutela ed efficacia a fattispecie difformi dallo schema legale, sebbene in tal caso la sanzione, derivando automaticamente dalla previsione normativa, necessiti di una disposizione contraria perché resti inattuata.

A tale stregua il compimento dell'atto contro il divieto legale genera ipotesi di nullità c.d. virtuali, proprio perché non necessitano di espresse comminatorie di legge (Cass. 2493-1972; 2545-1970) - a fronte di quelle testuali dei commi II e III dell'art. 1418 c.c. - sempreché il controllo della natura della disposizione violata porti a verificare che l'interesse sotteso sia pubblico e non privato (Cass. 3266-1986; 6721-1985; 3642-1985); da un lato ciò corrispondendo al principio che la violazione di una norma positiva, anche se sanzionata penalmente, non dà luogo necessariamente a nullità del contratto compiuto, per via dell'inciso "salvo che la legge disponga diversamente", il quale lascia margine a meccanismi positivamente introdotti per realizzare egualmente gli effetti del negozio, in considerazione degli apprezzamenti, discrezionalmente compiuti dal legislatore, dei valori tutelabili; e dall'altro al dato positivo espresso dal combinato disposto del primo e del terzo comma dell'art. 1418 c.c., secondo cui la mancanza di una espressa sanzione di nullità dell'atto negoziale, in conflitto con il divieto, non è rilevante ai fini della nullità, sopperendovi la norma predetta, che rappresenta un principio generale rivolto a prevedere e disciplinare proprio quei casi in cui alla violazione dei precetti imperativi assoluti non si accompagna una previsione di nullità (Cass. 6691-1987; 6601-1982: 5311-1979; 1901-1977).

Ne consegue che, ove le norme imperative siano in linea generale inderogabili dalla volontà dei privati, in relazione a tali valori, tutto ciò che sia programmato o compiuto in contrasto con essi è interamente nullo, necessariamente estendendosi la illiceità della condotta all'atto compiuto, per il rilievo che la sanzione di invalidità ha in relazione all'interesse perseguito dalla norma che risulterebbe frustrato, ove si accedesse alla tesi proposta dalla ricorrente della distinzione tra attività illecita ed atto valido, non potendo l'ordinamento tutelare l'autonomia privata nel momento in cui persegue interessi che contrastano con valori socialmente rilevanti e per i quali ha posto il divieto di operare, a causa della dannosità sociale di quella attività, che vano sarebbe sottoporre a sanzione penale, se poi raggiungesse il fine di conservare gli effetti degli atti compiuti, che l'ordinamento ha manifestato di rifiutare.

Ciò posto, con riguardo alla fattispecie in esame non par dubbio che la normativa introdotta dalla legge 2.1.1991 n. 1 consideri interessi di carattere generale, che vanno dalla tutela dei risparmiatori uti singuli, a quella del risparmio pubblico, come elemento di valore della economia nazionale, a quella della stabilità del sistema finanziario, come considerata dalla direttiva 93-22 CEE del 10.5.1993; alla esigenza di preservare il mercato da inquinamenti derivanti dall'impiego di risorse provenienti da circuiti illegali, a quella di rendere efficiente il mercato dei valori mobiliari, con vantaggi per le imprese e per la economia pubblica, interessi tutti chiaramente prevalenti su quelli del privato, che pure di riflesso ne rimane tutelato, e che attribuiscono alla iscrizione nell'albo, alla autorizzazione, ai successivi controlli una valenza che trascende la formale e ordinata gestione dell'attività ed investe l'atto in cui essa si sostanzia, essendo interesse dell'ordinamento rimuoverlo, per le turbative che crea sul sistema finanziario generale.

Nè può condividersi l'assunto che i contratti di swap richiedano solo che esista il soggetto - impresa, cui l'autorizzazione gioverebbe semplicemente a rimuovere gli ostacoli giuridici all'esercizio dell'attività, che di per sè l'impresa è bene in grado di svolgere. Tale affermazione è infatti contraddetta proprio dalla natura degli interessi protetti, che la legge dimostra di voler tutelare, stabilendo la riserva in favore delle Sim (art. 2 I comma L. 1-1991); prevedendo per esse la iscrizione in un albo apposito, istituito presso la Consob (art. 3), ed una espressa autorizzazione con la specificazione delle attività - tra quelle menzionate nell'art. 1 - per le quali essa è rilasciata, in base all'accertamento di una serie di requisiti, che attengono alla struttura dell'ente autorizzato; al suo capitale; e, in termini di professionalità ed onorabilità (art. 1 lett. c. L. 23.3.1983 n. 77, richiamato dall'art. 3 citato), agli organi di gestione e persino ai soggetti che, in virtù della partecipazione al capitale, in via diretta o per interposta persona, o per il tramite di società fiduciaria o di società controllata, ovvero in virtù di particolari vincoli o accordi, esercitano il controllo della società; stabilendo che l'esercizio dell'attività sia "soggetto alle disposizioni della presente legge", al punto da identificare l'attività di intermediazione esclusivamente con quella che si svolge in conformità alla normativa; imponendo controlli e limitazioni (artt. 2 e ss.) oltre all'obbligo per le società di intermediazione di avvalersi esclusivamente dell'opera di promotori finanziari iscritti nell'albo unico nazionale dei promotori, istituito presso la Consob (art. 5 commi I e V), previa verifica, anche in tal caso, di specifici requisiti di onorabilità e professionalità, con la previsione, anche per essi, della riserva di attività e delle sanzioni penali di cui all'art. 14 (art. 5 comma X); prevedendo che la attività di gestione dei patrimoni e di negoziazione dei valori mobiliari (artt. 8 e 11) sia svolta nel rispetto di regole, considerate imperative al punto che i patti in deroga sono espressamente sanzionati da nullità (art. 8 comma IV e art. 11 comma 11). E la circostanza che la vigilanza della Consob e della Banca d'Italia (art. 9) sia finalizzata al rispetto di regole di comportamento, volte a garantire, tra l'altro, "che nello svolgimento delle suddette attività non di abbia scambio di informazioni e di responsabilità di gestione tra chi opera nelle diverse attività", "il rispetto delle modalità di negoziazione prescritte per i mercati regolamentati", "la tenuta di idonee registrazioni relative alle transazioni eseguite, che devono essere conservate per i periodi prestabiliti" (lett. b,e,f, art. 9); e abiliti l'organo che la esercita alla sospensione sino a 60 gg. dell'attività, ove siano accertate irregolarità gravi o gravi violazioni di legge, di regolamenti o di disposizioni impartite dall'autorità di vigilanza e, comunque, ogni qualvolta lo richiede "la tutela del pubblico risparmio" (art. 13 comma II), conferma che la natura degli interessi tutelati trascende quelli della clientela ed ha ad oggetto quelli generali della regolarità dei mercati e della stabilità del sistema finanziario, espressamente considerati dal disposto dell'art. 13 V comma, in cui i pericoli ad essi relativi e connessi alle irregolarità e violazioni accertate giustificano l'intervento del Ministro del Tesoro per la cancellazione dell'albo della Sim e la nomina di un commissario preposto alla tutela e alla restituzione dei patrimoni di proprietà dei clienti della società. Tale norma da un lato evidenzia la rilevanza pubblica di quei valori e dall'altro fornisce argomento testuale, seppure indiretto, alla tesi della nullità assoluta dei contratti stipulati dall'intermediario abusivo, posto che, nel momento in cui prevede per quello iscritto, la cui condotta non si sia conformata al precetto di legge e di regolamento, l'obbligo di restituzione dei patrimoni ai clienti della società, incide sui rapporti negoziali instaurati, sanzionandone la improseguibilità con la rescissione di quelli in corso, sì da privare di valenza giuridica gli atti futuri che fossero compiuti nell'esercizio della attività non più consentita; a riprova che nella fattispecie in esame l'attività non consentita genera contratti nulli.

Per tale verso non sono utilizzabili gli arresti giurisprudenziali in merito alla attività assicurativa (Cass. 12910-1995; 586-1995; 1150-1977; 3291-1973; 3096-1992), dai quali la ricorrente trae argomento favorevole alla tesi della validità dei contratti. L'art. 75 T.U. 13.2.1959 n. 449, sull'esercizio delle assicurazioni private, stabilisce che "i contratti di assicurazione stipulati.....presso imprese che operano in violazione delle disposizioni del presente testo unico.........sono risoluti, su semplice denuncia del contraente", così individuando, tra quelle previste dall'ordinamento, la reazione di minor rigore e con effetti ex nunc, dal legislatore dell'epoca apprezzata come sufficiente a reintegrare la situazione creata dalla violazione della norma, lasciata alla determinazione dell'interessato e chiaramente predisposta alla sua esclusiva tutela.

Quanto ai contratti conclusi dal banchiere di fatto, la invalidità per difetto del presupposto giuridico soggettivo, costituito dalla qualità formalmente riconosciuta alla banca dalla autorizzazione ad operare nel settore del credito, non è contraddetta, ma anzi confermata dalla circostanza che quei negozi siano validi, in quanto ascrivibili alla categoria generale dei contratti di deposito o di mutuo, una volta che resti ferma la esclusione di validità sub specie degli artt. 1834 - 1860 c.c..

Nè giova alla tesi della ricorrente l'art. 18 D. L.gvo 23.7.1996 n. 415, entrato in vigore l'1.9.1996, che, nel recepire la direttiva 93-22-CEE del 10.5.1993, relativa ai servizi di investimento del settore dei valori mobiliari e quella 93-6-CEE del 15.3.1993, relativa alla adeguatezza patrimoniale delle imprese di investimento e degli enti creditizi, ha in larga parte sostituito la normativa sulle SIM.

Prevede tale norma due ipotesi di nullità, in riferimento ai contratti stipulati dai soggetti regolarmente abilitati, di cui agli artt. 2 e 23 del citato decreto e 106 ss. T.U. in materia bancaria e creditizia, approvato con D. L.gvo 1.9.1993 n. 385, aventi ad oggetto i servizi previsti dal decreto 415: e cioè la mancanza della forma scritta e il rinvio ad usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente e di ogni altro onere a suo carico; aggiungendo al terzo comma che essa può essere fatta valere solo dal cliente.

A fronte di tale disposizione, che commina la nullità a tali contratti, benché stipulati da soggetti debitamente autorizzati, la tesi che restino esclusi dalla sanzione di nullità, in via generale, quelli stipulati da intermediari abusivi è doppiamente incongruente, perché suppone la indifferenza del sistema civilistico agli atti compiuti in violazione di norme penali di rilevanza maggiore rispetto a quella testè richiamata, civilisticamente sanzionata, e perché conferisce validità piena ai negozi, privi di forma scritta, e alle pattuizioni che rinviano agli usi con riguardo all'oggetto suindicato, una volta che risultino compiuti da coloro che abbiano operato contra legem. Nè potrebbe sostenersi la inconferenza della norma esaminata perché estranea alla disciplina che regola gli atti per cui è causa, in quanto entrata in vigore l'1.9.1996, poiché nell'impianto del decreto 415-1996 il principio della nullità dei negozi posti in essere dai soggetti non abilitati è rimasto inespresso quanto nella legge 1-1991, pur operando, come il Collegio ritiene abbia operato, per i contratti stipulati sotto il precedente regime, quanto sotto il successivo; sicché la citata disposizione, lungi dal contraddire quella nullità, la ribadisce, attraverso la configurazione di ulteriori ipotesi di invalidità, di minore gravità, in quanto rivolte palesemente alla tutela di interessi inferiori, rispetto a quelli più sopra analizzati, posto che è dato solo al cliente il potere di farla valere.

Nè è condivisibile l'argomento difensivo, secondo il quale, perché si ritenga vietato il contratto e risulti quindi nullo, occorre che sia punito il comportamento negoziale di entrambe le parti, per cui nelle fattispecie negoziali plurisoggettive l'antigiuridicità penale della condotta di una parte non si comunica all'altra e quindi non investe il negozio. Nella specie la nullità è stata, infatti, desunta dalla natura imperativa della norma, che fa divieto a chiunque - siano i soggetti che intendono esercitare professionalmente, nei confronti del pubblico, le attività di intermediazione mobiliare, siano le controparti, pur se esenti da sanzione penale - di stipulare i contratti swap e ogni altro previsto dall'art. 1 L. 1-1991, nonché dalla generalità degli interessi tutelati e non solo dalla condotta criminosa di uno dei contraenti, la quale rileverebbe in senso contrario, solo se la sanzione fosse concepita in funzione della tutela esclusiva dell'altro.

Assume, tuttavia, la ricorrente che quand'anche si ravvisasse una ipotesi di nullità, non si tratterebbe di nullità assoluta, ma relativa, invocabile dal solo risparmiatore; ma la tesi è contraddetta proprio dalle considerazioni che precedono. Al di là della configurabilità in astratto della categoria delle nullità relative - si è osservato in dottrina che la nullità, essendo una qualificazione negativa del negozio, non può che essere unica di fronte a tutti, per cui, avendo carattere obiettivo, non è concettualmente possibile parlarne in termini relativi - il problema si traduce in termini di legittimazione ad esperire l'azione, alla stregua del disposto dell'art. 1421 c.c., e in ordine ad essa l'argomento che abilitato sia solo il risparmiatore, in quanto unico interessato a far valere la nullità, costituisce una petizione di principio, giacché suppone quanto invece avrebbe dovuto essere dimostrato e cioè che l' interesse alla rimozione dell'atto sia solo suo. Le considerazioni svolte più sopra, che hanno evidenziato l'ampiezza degli interessi protetti, giovano a disattendere il rilievo della ricorrente e al rigetto delle sue censure.

Con il terzo motivo la società ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1337 e 1338 c.c., relativamente alla richiesta di risarcimento del danno; assume che la ignoranza, giudicata inescusabile dalla sentenza impugnata, deve considerarsi riferita non a norme di legge ma ad una situazione di fatto non conforme a legge, essa discendendo dal fatto che la soc. Gestival non aveva ottenuto le autorizzazioni previste. La scusabilità della ignoranza andrebbe riferita alla particolarità della normativa, della quale non era possibile che il cliente avesse esatta conoscenza, al contrario della Gestival, che, esercitando professionalmente quella attività, avrebbe dovuto secondo la diligenza richiesta all'operatore informarsi presso le sedi competenti della eventuale necessità di autorizzazioni. Quanto, poi, alla misura del danno corrispondendo la fattispecie alla ipotesi di responsabilità contrattuale e non precontrattuale - il contratto infatti era stato concluso - era da considerare sia il danno emergente che il lucro cessante, risultando inadempiuta la obbligazione riconducibile allo schema dell'art. 2043 c.c..

La censura è infondata anche sotto tale aspetto, prospettato in via subordinata per la ipotesi che le censure principali, in ordine alla contestata nullità e alla sua natura, fossero disattese. Ha rilevato la corte territoriale che correttamente il primo giudice aveva rigettato la domanda di risarcimento dei danni, sotto il profilo della responsabilità precontrattuale, per la ragione che nella specie, trattandosi di invalidità derivante da una norma di legge, non è configurabile una ignoranza incolpevole, tenuto anche conto che nella specie non era stata dedotta, neanche in fatto, la ignoranza della normativa di cui alla L. 1-1991, ed ha aggiunto "in ogni caso il risarcimento del danno previsto dall'art. 1338 c.c. concerne il solo interesse contrattuale negativo, non dimostrato e neanche dedotto dall'odierna appellante, limitatasi a chiedere il risarcimento dell'interesse contrattuale positivo derivante da un contratto nullo e privo di effetti". Al contrario la ricorrente invoca la responsabilità piena, trattandosi di contratti conclusi, rispetto ai quali "la mancata comunicazione della causa di nullità farebbe sorgere in capo alla parte una obbligazione riconducibile all'art. 2043 c.c., senza che operi la limitazione all'interesse negativo".

La conclusione del giudice di merito non merita le critiche della ricorrente, che riferisce la propria ignoranza, non già alle norme di legge, ma alla situazione di fatto non conforme a legge, relativa alla mancata autorizzazione alla soc. Gestival a svolgere la attività di intermediazione mobiliare.

Siffatta prospettazione non giova però a modificare la decisione della corte di merito, posto che, se esclude la ignoranza della normativa, invece considerata dalla sentenza impugnata inidonea a giustificare la pretesa risarcitoria, propone l'omesso accertamento della iscrizione della soc. Gestival nell'albo previsto dalla legge, che avrebbe potuto agevolmente conseguirsi e che aveva la ricorrente l'onere, con l'esercizio della ordinaria diligenza, di conseguire, a fronte di operazioni finanziarie di tanto rilievo, così verificando la causa che ha poi portato alla invalidazione dei contratti. Alla stregua di tale rilievo la inescusabile conoscenza della inidoneità della Gestival a contrarre privano di tutela la pretesa, dal momento che gli artt. 1337 e 1338 c.c., di cui la ricorrente lamenta la violazione, mirano a tutelare nella fase precontrattuale il contraente di buona fede ingannato o fuorviato dalla ignoranza della causa di invalidità del contratto che gli è stata sottaciuta e che non era nei suoi poteri conoscere (Cass. 1987-1985).

Con il IV motivo, infine, la soc. CIICAI denunzia la violazione dell'art. 92 c.p.c., in riferimento al regolamento delle spese processuali, poste a suo carico per entrambi i gradi di merito, benché la novità e la complessità della questione ne giustificassero la compensazione.

La censura è inammissibile, esulando dal sindacato di legittimità e rientrando nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione della opportunità della compensazione, totale o parziale, delle spese processuali (Cass. 5909-1999; 2949-1995; 7335-1993; 551-1999), essendo, invece, sindacabile solo la statuizione che violi il divieto posto dall'art. 91 c.p.c. di porre, anche parzialmente le spese a carico della parte vittoriosa, oltre a quelle che procede alla compensazione con motivazione illogica o erronea (Cass. 11770-1998; 5174-1997).

Il ricorso va pertanto respinto.

Sussistono giusti motivi per la compensazione e delle spese processuali.

P.Q.M

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese processuali.

Roma 9 ottobre 2000.