Diritto Bancario e Finanziario


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 323 - pubb. 01/07/2007

Anatocismo e tasso sostitutivo

Tribunale Lecce, 10 Marzo 2006. Est. Postano.


Conto corrente bancario – Anatocismo – Nullità della clausola – Ripetizione delle somme – Prescrizione – Decorrenza – Tasso uso piazza – Invalidità – Tasso sostitutivo – Individuazione – Capitalizzazione annuale – Legittimità.



 


 


omissis

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione datato 14.16.99 P. F. ha esposto di avere intrattenuto con il Credito Italiano s.p.a. filiale di Lecce una apertura di credito con affidamento su conto corrente ordinario e conto corrente sconto effetti sin dal 1989 con un saldo debitore di £. 26.292.000. Ha dedotto la nullità della clausola relativa all’applicazione del c.d. “uso piazza” come affermato reiteratamente dalla giurisprudenza, nonché della clausola di capitalizzazione trimestrale degli stessi non ricorrendo alcun uso normativo come affermato dalla Cassazione. Ha censurato l’applicazione della capitalizzazione sulla commissione di massimo scoperto, come pure la determinazione dei giorni di valuta effettuata in maniera errata a svantaggio dei ricorrenti.

Infine, ha ritenuto complessivamente inesatto il tasso effettivo globale applicato e conseguentemente illegittima la segnalazione alla Centrale Rischi.

Ciò premesso ha chiesto dichiararsi la nullità parziale dei contratti di apertura di credito e determinare con esattezza l’importo eventualmente dovuto all’istituto di credito, ovvero le somme delle quali l’attore risulti creditore nei confronti della banca.

Costituitasi la s.p.a. Unicredito Italiano ha dedotto di essere creditore di P. F. quale debitore principale e di Ala Carmela quale fideiubente della somma di £. 26.292.899 alla data del 31.12.94 oltre interessi convenzionali a tasso del 17%.

Ha precisato che la banca era intervenuta con atto del 28.02.95 nella procedura esecutiva promossa dall’allora Credito Romagnolo contro i predetti P. e Ala. In via preliminare ha eccepito l’inammissibilità dell’azione pendendo la procedura esecutiva. Nel merito ha dedotto l’esistenza di un accordo scritto sugli interessi, come risulta dalla scheda-firme sottoscritta dal P. che rinvia per la determinazione degli interessi a quelli usualmente praticati dalle aziende di credito (art. 7).

Tale determinazione convenzionale doveva ritenersi perfettamente legittima.

Analogamente per la clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi, come affermato tradizionalmente dalla giurisprudenza.

In ogni caso ha eccepito la prescrizione delle pretese avanzate dalle controparti. Da ultimo ha dedotto che comunque il pagamento di interessi superiori a quelli del tasso legale eventualmente non convenuti per iscritto costituisce obbligazione naturale non ripetibile.

Ha concluso per il rigetto della domanda e ha spiegato domanda riconvenzionale per il pagamento della somma di £. 26.292.899 nei confronti di P. F. e Ala Carmela.

Quest’ultima, sebbene chiamata in giudizio, non si è costituita e ne è stata dichiarata la contumacia.

La causa, ritenuta infondata l’eccezione preliminare, è stata istruita con il deposito della documentazione ritenuta opportuna dalle parti e con consulenza tecnica contabile di ufficio.

All’udienza del 23.02.05, comparso soltanto il difensore dell’attore, è stata trattenuta per la decisione con assegnazione dei termini di legge per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Come rilevato con ordinanza del 23.10.01 deve ritenersi infondata l’eccezione preliminare di inammissibilità del giudizio per la esistenza nei confronti dell’attore e del terzo chiamato di una procedura esecutiva promossa dal Credito Romagnolo nella quale l’istituto di credito aveva richiesto il recupero del credito rinveniente dal medesimo rapporto oggetto del presente giudizio.

Non ricorre, nel caso di specie, una competenza funzionale del Giudice dell’esecuzione per trattare le questioni relative al presunto credito per il quale è stato spiegato intervento nella procedura esecutiva.

Infatti, la giurisprudenza ha affermato che residua la legittimazione del debitore esecutato di instaurare un autonomo giudizio di ricognizione ordinaria per l’accertamento dell’invalidità del titolo negoziale fonte delle pretese creditorie e per la eventuale determinazione del credito o del debito (Cass. 5.05.98 n. 4525).

Dalla documentazione esibita risulta che in data 25.01.89 P. F. ha stipulato un contratto di conto corrente di corrispondenza con il Credito Italiano s.p.a. contenente le consuete clausole che non prevedono la indicazione in cifre del tasso di interesse né la commissione di massimo scoperto, rinviando alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza (art. 7 terzo comma). La stessa norma, al secondo comma, stabilisce anche la produzione degli interessi sugli interessi in via trimestrale con la capitalizzazione degli stessi e delle competenze.

Risulta documentalmente che il giorno successivo (26.11.99) è stata concessa da Ala Carmela garanzia personale sulle obbligazioni del debitore principale. Si trattava di una fideiussione omnibus concessa inizialmente senza limitazione e successivamente limitata a £. 50.000.000 ai sensi della legge n. 154/94 (art. 10).

Sulla base di tali elementi occorre esaminare le tre questioni principali e cioè quella relativa alla prescrizione del diritto alla ripetizione delle somme, quella della validità della clausola relativa agli interessi cd. “uso piazza” e quella della capitalizzazione trimestrale degli stessi.

Prescrizione

Le Sezioni Unite della Corte della Cassazione in data 4 novembre 2004, n. 21095 sono intervenute ed hanno risolto il contrasto; hanno aderito all’orientamento più recente delle sezioni semplici; hanno confermato che la clausola contenuta nei contratti bancari di conto corrente in forza della quale prima del 22 aprile 2000 sono stati addebitati ai clienti interessi anatocistici su base trimestrale è nulla. Per l’effetto, i clienti hanno diritto di ripetere dalla banca le somme che a questo titolo sono state loro addebitate.

Quanto al problema della prescrizione per il diritto di ripetizione delle somme.

Sul punto la giurisprudenza di merito ha affermato che l’azione diretta a far dichiarare la nullità di clausole contrattuali (nella specie concernente l'anatocismo trimestrale) è imprescrittibile ex art. 1422 c.c..

Quella volta ad ottenere la ripetizione di quanto indebitamente versato è soggetta alla ordinaria prescrizione decennale di cui all’art. 2946 c.c.

Per la decorrenza del termine prescrizionale, il dies a quo va individuato in quello della chiusura definitiva del rapporto atteso che il contratto per la disciplina in conto corrente di operazioni bancarie è un contratto unitario che dà luogo ad un unico rapporto giuridico articolato in una pluralità di atti esecutivi, laddove i singoli addebitamenti o accreditamenti non danno luogo a distinti rapporti ma determinano solo variazioni quantitative dell’unico originario rapporto sicché solamente con il saldo finale si stabiliscono definitivamente i crediti ed i debiti fra le parti(App. Lecce 22-10-2001; Cass. 9-4-1984 n. 2262; per l’affermazione di tale principio in tema di garanzia prestata per il rapporto di conto corrente vedasi Cass. 23-3-2004 n. 5720; Cass. 11-5-1999 n. 4659; Cass. 14-4-1998 n. 3783; Cass. 19-6-1997 n. 5481; Cass. 18-4-1996 n. 3662).

Tassi uso piazza

Sia dal contratto di conto corrente depositato in atti che dal testo della domanda proposta si evince che il tasso risulta dalla certificazione di estratto conto redatta ai sensi dell'art. 50 del D.L 10 settembre 1993 n. 385 comunicato negli estratti conto regolarmente inviati al debitore nella misura del tasso usualmente applicato in piazza.

Da ciò si deduce che:

il tasso d'interesse applicato nel rapporto bancario dedotto in causa, non è quello legale ma quello usualmente applicato in piazza;

esso non è stato pattuito per iscritto.

Ed è noto che: "La validità della determinazione convenzionale solo "per relationem" del saggio degli interessi ultralegali postula che le parti facciano riferimento, espresso in forma scritta, a criteri prestabiliti e ad elementi, anche estrinseci al documento negoziale purché oggettivamente individuabili, che consentano la concreta determinazione del tasso convenzionale. Pertanto, il rinvio, contenuto in un contratto bancario alle condizioni usualmente praticate dalle aziende di credito su piazza, può essere considerato sufficiente ove esistano fonti vincolanti disciplinatrici del saggio in ambito nazionale, ma non anche quando in tali accordi siano contemplate diverse tipologie di tassi o, addirittura, essi non costituiscano più un parametro centralizzato e vincolante: in quest'ultimo caso assume rilevanza concreta il grado di unicità della fonte richiamata al fine della verifica dell'idoneità di essa all'individuazione della previsione alla quale le parti abbiano potuto effettivamente riferirsi e, quindi, ad un'oggettiva determinazione del tasso di interesse o quanto meno a una sicura determinabilità controllabile pur nell'ambito di una variabilità dei tassi nel tempo (Cassazione civile sez. 1,19 luglio 2000, n. 9465). Con la conseguenza che per il calcolo del debito residuato al correntista alla chiusura del conto in esame, non risulta corretta l'utilizzazione di un tasso superiore a quello legale e riferito a quello usualmente praticato in piazza. Tanto mancando la prova di una pattuizione scritta in tal senso come anche di una sicura determinabilità della misura dell'interesse concretamente applicato, misura d'interesse che doveva essere quanto meno ".. controllabile pur nell' ambito di una variabilità dei tassi del tempo.’’.

Ritiene questo Giudice di dover aderire al più recente, ma oramai consolidato orientamento giurisprudenziale in materia adottato dalla S.C. : «la convenzione relativa alla determinazione degli interessi è validamente stipulata, in ossequio al disposto di cui all’art. 1284, comma 3, c.c., quando il relativo tasso risulti determinabile e controllabile in base a criteri in essa oggettivamente indicati e richiamati. Una clausola contenente un generico riferimento "alle condizioni usualmente praticate dalle aziende di credito sulla piazza" può, pertanto, ritenersi univoca se coordinata alla esistenza di vincolanti discipline fissate su larga scala nazionale con accordi di cartello, ma non anche quando tali accordi contengano riferimenti a diverse tipologie di tassi e non consentano, per la loro genericità, di stabilire a quale previsione le parti abbiano inteso fare concreto riferimento. Nel caso di rinvio agli usi di piazza, pertanto, è necessario accertare, con riferimento al singolo rapporto dedotto, secondo la disciplina del tempo, se l’elemento estrinseco di riferimento permetta una sicura determinabilità della prestazione di interessi, pur nella variabilità dei tassi nel tempo, senza successive valutazioni discrezionali da parte della banca» (Cassazione civile sez. I, 8 maggio 1998, n. 4696).

In applicazione del su esposto principio di diritto, la S.C. ha cassato la decisione del giudice di merito che aveva ritenuto soddisfacente, in punto di quantificazione in misura ultralegale degli interessi, la clausola de qua, trascurando di accertare, in concreto, il grado di univocità della fonte richiamata e, quindi, l'oggettiva determinabilità del tasso, pur nella previsione di variazioni in corso di rapporto. Ha rilevato la Corte di Cassazione che tale omissione si traduce in una falsa applicazione della norma di cui all'art. 1284 c.c. ad una situazione non compresa nel suo ambito di previsione. Da tale orientamento, che perfettamente si attaglia al caso di specie, non vi è motivo di dissentire: la banca opposta non ha fornito una convincente dimostrazione in ordine alla certezza dell'ancoraggio ai cd. tassi usualmente praticati sulla piazza, non preoccupandosi di fornire una reale spiegazione in ordine alla loro modalità di formazione e di rilevamento. Viene così a cadere uno degli elementi fondamentali (il tasso convenzionale di interesse sui conti debitori) nella determinazione del saldo finale portato dalla banca, con conseguente totale incertezza sull'ammontare del credito e sulla sua stessa esistenza. Peraltro il conteggio che ha portato al saldo richiesto dalla banca risulta inficiato per eccesso da altre poste erroneamente conteggiate a favore della banca e riconosciute inopinatamente sino al soddisfo, in ossequio ad una errata applicazione del principio della perpetuatio obbligationis.

Pertanto, i contratti conclusi prima dell’entrata in vigore della legge numero 154 del 1992, sono interessati dalla nuova disciplina solo a partire dalla data di entrata in vigore della stessa. Pertanto prima di tale momento, le clausole contrattuali (ad esempio, quella relativa alla determinazione degli interessi uso piazza), potranno essere ritenute valide o meno sulla base della tesi giurisprudenziale che si ritiene di accogliere e non sulla base della nuova disciplina legislativa (come nell’ipotesi sub 1). Pertanto se la condizione risulta nulla (art. 1419 c.c.) trova applicazione il disposto dell'articolo 1284 c.c. (interessi al tasso di legge) con decorrenza dall’inizio del rapporto e sino alla data in cui è entrata in vigore la nuova disciplina. Successivamente a tale data le clausole nulle vanno sostituite sulla base dei criteri stabiliti dalla legge numero 145\92 prima e dal T.U. del 1993, dopo. In particolare, sebbene l'art. 117 faccia riferimento ai tassi dei buoni del Tesoro emessi nei dodici mesi precedenti la conclusione del contratto, la norma va necessariamente applicata, in riferimento ai tassi dell’anno precedente alla entrata in vigore della legge, non rispondendo alla ratio della nuova disciplina il rinvio al tasso praticato al momento della stipulazione di un contratto (magari, oltremodo risalente), da applicare con decorrenza 9.7.1992.

Anatocismo

La clausola che consentiva l'anatocismo, come prevista all'art. 7 del richiamato contratto di conto corrente è certamente nulla laddove è pacifico che: "La clausola di un contratto bancario, che preveda la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, deve reputarsi nulla, in quanto si basa su un uso negoziale (ex art. 1340 c.c.) e non su un uso normativo (ex art. 1 ed 8 delle preleggi al c.c.), come esige l'art. 1283 c.c., laddove prevede che l'anatocismo (salve le ipotesi della domanda giudiziale e della convenzione successiva alla scadenza degli interessi) non possa ammettersi, in mancanza di usi contrari". L'inserimento della clausola nel contratto, in conformità alle cosiddette norme bancarie uniformi, predisposte dall'A.B.I., non esclude la suddetta nullità, poiché a tali norme deve riconoscersi soltanto il carattere di usi negoziali non quello di usi normativi (Cassazione civile sez. I,11 novembre 1999, n. 12507).

È oltremodo noto a questo giudice il complesso dibattito giurisprudenziale e dottrinale che ha accompagnato il rèvirement della Cassazione che ha escluso l'esistenza di un uso normativo in deroga al divieto di anatocismo di cui all'art. 1283 c.c.: «la previsione contrattuale della capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, in quanto basata su un uso negoziale, ma non su una vera e propria norma consuetudinaria è nulla, in quanto anteriore alla scadenza degli interessi » (Cass., 16 marzo 1999, n. 2374). Sì è esclusa così, condividendo l'opinione da tempo sostenuta da parte di certa dottrina a cui aveva fatto seguito di recente qualche pronuncia di merito, la più volte affermata natura normativa, degli usi in parola. È noto altresì che dopo pochi mesi il mutamento di indirizzo della Corte di Cassazione in tema di anatocismo bancario si è registrata una iniziativa del legislatore che il quale senza provvedere alla abrogazione della previsione di cui all.'art. 1283 c.c., che ancora sancisce un generale divieto di anatocismo, l'art. 25 del D.lgs. n. 342 \99 ha aggiunto al primo comma dell'art. 120 T.U. due nuove disposizioni. Con la prima (che ha introdotto il 2° comma dell'art 120) ha attribuito al CICR il potere di stabilire modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria. Il CICR, con deliberazione del 9 febbraio 2000, ha provveduto all'incombente riconoscendo la possibilità di capitalizzazione degli interessi creditori e debitori simmetrici.

Con la seconda, che ha introdotto il terzo comma dell'art. 120 T.U., ha stabilito che: «Le clausole relative alla produzione di interessi su interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera di cui al comma 2°, sono valide ed efficaci fino a tale data e, dopo di essa, debbono essere adeguate al disposto della menzionata delibera che stabilirà altresì le modalità ed i tempi dell'adeguamento. In difetto di adeguamento le clausole divengono inefficaci e l'inefficacia può essere fatta valere solo dal cliente». A seguito dell'emissione da parte dei giudici del merito di numerose ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale, con le quali si sono evidenziati la carenza di delega da parte dello stesso legislatore, la violazione dei principi di ragionevolezza e di parità di trattamento la Consulta con sentenza n. 425/00 ha dichiarato la incostituzionalità della disposizione del terzo comma, del citato art. 25 d. lgs n. 342/1999 nella parte in cui stabiliva la validità ed efficacia delle clausole relative alla capitalizzazione degli interessi passivi contenute nei contratti anteriori al d. lgs. 432/99 (pro praeterito) e fino all’entrata in vigore della delibera del CICR (avvenuta in data 22/04/00), che ha stabilito le modalità ed i criteri per la produzione di interessi su interessi.

Va quindi condiviso il mutato orientamento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite che con la decisione del 7 ottobre-4 novembre 2004, n. 21095, che - dopo aver riconosciuto per decenni la ricorrenza di un uso normativo bancario che legittimava la capitalizzazione trimestrale degli interessi sui conti debitori - ha definitivamente cambiato indirizzo. La Corte, facendo propria la tesi sostenuta da isolata dottrina ha escluso la possibilità di formazione di un uso normativo che possa derogare al divieto di anatocismo.

La clausola di applicazione della capitalizzazione trimestrale degli interessi risulta affetta da nullità – eccepita dagli opponenti, ma rilevabile anche d’ufficio – siccome non supportata da usi normativi ed inidonea a derogare alla disposizione imperativa di cui all’art. 1283 c.c..

Non può ritenersi vigente nel nostro ordinamento un uso normativo che autorizzi gli istituti di credito a procedere alla capitalizzazione trimestrale, poiché un uso di tal portata non risulta essere esistente nel nostro ordinamento in epoca anteriore o coeva al 1942, anno di promulgazione del codice civile vigente. Inoltre, le norme bancarie uniformi emesse dall’ABI non sono in realtà fonti di produzione del diritto, ma solamente degli schemi contrattuali uniformi che l’associazione delle imprese di credito propone ai suoi associati.

Di fronte alla pratica generalizzata degli istituti di credito di inserire nei contratti bancari, per di più stipulati con moduli prestampati a cura delle banche, la capitalizzazione trimestrale degli interessi, l’atteggiamento mentale della stragrande maggioranza dei clienti non è quello di accettazione di una pattuizione ritenuta conforme ad un precetto giuridico, ma piuttosto quella di una sorta di adesione necessaria ad una clausola imposta dal contraente più forte. Né tali condizioni possono essere contrastate dal rilievo della mancata contestazione – da parte del debitore principale – degli estratti di conto corrente inviati, poiché detta contestazione afferisce al profilo contabile degli addebiti e degli accrediti, ma non si estende alla validità ed efficacia dei rapporti obbligatori dai quali le partite inserite nel conto derivano.

Come rilevato in giurisprudenza l’uso normativo postula la contestuale ricorrenza di due requisiti: l’uno di carattere oggettivo consistente nella uniforme e costante ripetizione di una determinata condotta, l’altro di tipo soggettivo, consistente nella consapevolezza di osservare, attraverso quella condotta, una norma giuridica, sicchè l’uso, come la norma, deve possedere i requisiti della generalità e dell’astrattezza.

In questo quadro risulta indifferente che la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente alla banca trovi generale riscontro nei loro rapporti, giacchè l’applicazione della capitalizzazione stessa discende dalla previsione contenuta negli schemi contrattuali predisposti dalle banche, in base alle norme bancarie uniformi, aventi natura pattizia: in sostanza la prassi così instaurata si collega al modo di operare di uno dei soggetti del rapporto – la banca – cui il cliente, nello stipulare un certo tipo di contratto, non può di fatto sottrarsi, sicchè nella stragrande maggioranza dei casi, l’adesione a quella prassi diventa in concreto ineludibile. Siffatta ricostruzione porta ad escludere che l’osservanza della prassi sia accompagnata dalla convinzione – che deve ovviamente essere comune ai contraenti di un certo settore – di attuare una regola volta a disciplinare giuridicamente determinate situazioni: in definitiva, il cliente, nell’ambito dei contratti bancari, stipula sulla base delle condizioni generali, fissate dalla banca, ed il fatto stesso che si avverta la necessità di inserire la clausola anatocistica tra quelle condizioni vale a dimostrare che l’uso in questione non è normativo, ma negoziale. L’uso normativo, infatti, operando come la norma, non ha bisogno di una previsione convenzionale (o imposta), sicchè l’inserimento della capitalizzazione nel documento contrattuale è funzionale a trovare una base pattizia in assenza di una regola giuridica. L’esclusione dell’uso normativo comporta la declaratoria di nullità della clausola, in quanto questa imponendo una capitalizzazione trimestrale anteriore alla scadenza degli interessi si pone in contrasto con la norma inderogabile dell’art. 1283 c.c.

La nuova impostazione giurisprudenziale è stata censurata rilevando in primo luogo che la capitalizzazione trimestrale preesisteva alle raccolte ABI del 1951. Si è allegata dottrina necessariamente datata in materia, soprattutto, di tecnica bancaria al fine di dimostrare in fatto l’esistenza di tale uso e ciò nonostante la irrilevanza di tali citazioni in sede processuale, dove quegli autori non possono essere citati quali testimoni.

Si è osservato che la Confederazione Generale Fascista, antenata di regime dell'ABI nel «Testo delle norme che regolano i conti correnti dì corrispondenza» del 1929 aveva previsto tale uso. Sul punto va rilevato che non appaiono sovrapponibili le nozioni di condizioni generali di contratto e di uso normativo per l'impossibilità per le prime di dare vita ai secondi. In ogni caso l’esame della missiva del 7 gennaio 1929 che accompagnava l'invio delle «norme» da parte della Confederazione alle banche (obbligatoriamente) consociate escude la configurazione di un uso normativo pregresso.

Nella nota di legge: «spett. Banca, la Commissione per la razionalizzazione dei servizi bancari costituita presso questa Confederazione proseguendo i suoi lavori ha concretato il " Testo delle norme che regolano i conti correnti di corrispondenza", quale riportato in allegato e ne propone l'adozione da parte delle Banche affinché il servizio in parola abbia a svolgersi nei rapporti della Clientela secondo norme uniformi».

Non è, invece, stato documentata l’esistenza da parte delle Camere di commercio di usi che prevedano l'anatocismo in epoca antecedente all'entrata in vigore del codice civile ed in particolare l'esistenza di una raccolta di usi di tal fatta nella provincia di Lecce antecedente all'entrata in vigore del codice del 1942.

Inoltre, ove anche si volesse ritenere che altra Camera di Commercio (ad esempio quella di Milano che ha individuato un uso normativo «preesistente» al divieto) ha documentato tale uso nessuna rilevanza potrebbe esplicare in questo giudizio, atteso la mancata rilevazione a quel tempo di un uso analogo nella provincia di Lecce.

Deve escludersi, in genere, l’analogia di una norma consuetudinaria, in quanto quest’ultima nella sua componente oggettiva - ripetizione di un determinato comportamento - e soggettiva -opinio iuris - presuppone la riferibilità ad una sfera ben delimitata di soggetti ed un oggetto ben determinato. Altrimenti, ove l'oggetto non fosse ben determinato sarebbe impossibile la verifica della identità del comportamento succedutosi nel tempo. Giova rammentare che la stessa Corte di Cassazione in forza di tali presupposti ha escluso l'estensione dell’uso ammissivo di anatocismo alle società finanziarie (Cass., 12 aprile 1980, n. 2335,) e più di recente l'esclusione dell'inammissibilità della deroga alla disposizione imperativa di cui all'art. 1283 c.c. è stata esclusa con riguardo alla clausola di capitalizzazione mensile degli interessi prevista dalle condizioni generali per le operazioni di factoring (Trib. Milano, 30 giugno 1997). Nel caso specifico poi, rappresentando comunque l'uso in questione una norma eccezionale rispetto al generale principio del divieto dell'anatocismo, non può essere in alcun modo suscettibile di applicazione analogica (art 14 disp. prel. c.c.).

Da ultimo la tesi della Cassazione è stata superata da alcune pronunce di merito, seguite da parte della dottrina, che hanno legittimato la prassi anatocistica in materia (Trib. Roma 14 maggio 1999; Trib. Roma 26 maggio 1999) poiché questa troverebbe il suo fondamento nelle disposizioni che regolano il conto corrente ordinario. Argomentando in forza dell'articolo 1831 c.c. che prevede il potere delle parti di stabilire le scadenze di chiusura e liquidazione del saldo , dall' art. 1823 c.c., che considera il saldo, ove non richiesto, come prima rimessa di un nuovo conto, e dall'art. 1825 c.c. che prevede come sulle rimesse decorrono gli interessi stabiliti, non solo in ipotesi di «rinnovazione» del contratto scaduto, ma anche in caso di. semplice «continuazione», si è individuata una eccezione al principio di cui all'art. 1283 c.c..

Da tale ambito normativo sarebbe possibile evincere la legittimità della previsione, ricorrente nel contratto oggetto di causa ,relativa alla chiusura dei conti debitori e ricorrente nelle Norme Bancarie Uniformi (art. 7 comma, secondo NBU). Secondo il Tribunale di Roma non rileva che il legislatore abbia ritenuto giusto, in considerazione delle peculiarità che il conto corrente bancario presenta rispetto ad un conto corrente ordinario, apprestare una normativa di coordinamento e di richiamo solo di alcune norme: l'articolo 1857 c.c. non richiama né il 1831, né il 1823, né il 1825 c.c., ma fa riferimento solo agli artt. 1826, 1829, 1832 c.c.. Si sostiene, poi, come la stessa legge 154/1992 sulla trasparenza bancaria, abbia fatto riferimento alla capitalizzazione degli interessi legittimandone l'adozione. Non vi sarebbe, in buona sostanza, una situazione di squilibrio contrattuale a seguito di una capitalizzazione trimestrale sui conti debitori ed una annuale sui conti creditori, perché la differenziazione troverebbe la sua giustificazione nel rischio che la banca corre per l'esposizione conseguente all'utilizzo del fido. Quanto, infine, alla possibile formazione di un uso normativo in epoca successiva all'entrata in vigore del codice civile il Tribunale di Roma citato, andando di contrario avviso al recente orientamento della Cassazione, sostiene che tale possibilità sia desumibile dalla norma di cui all'art. 162 bis delle disposizioni di attuazione del codice civile ove è stabilito che la disposizione dell'art. 1283 c.c. si applica anche alle obbligazioni sorte anteriormente all'entrata in vigore del codice.

Va osservato –al contrario- che il mancato richiamo da parte dell'articolo 1857 c.c. delle norme sopra citate (artt 1831, 1823, 1825 c.c.) deriva dalla differenza fra il conto corrente bancario e quello ordinario, rappresentata dall'immediata disponibilità del saldo, tipica solo nel conto corrente bancario.

Tale consistente diversità giustifica la mancata applicazione analogica della normativa in questione.

In secondo luogo l'art. 1831 c.c., riguardando la chiusura del conto corrente ordinario, presuppone la presenza di reciproche rimesse e l'inesigibilità del saldo sino alla chiusura (art. 1823 c.c.). Al contrario, l'art. 1852 c.c., in tema di conto corrente bancario, prevede la possibilità di disporre in qualsiasi momento del saldo attivo. Ciò rende difficilmente compatibile la applicazione dell'art 1831 c.c. al conto corrente bancario in assenza di uno specifico richiamo ed in presenza di più presupposti di integrazione delle relative fattispecie. Quanto alla previsione di cui all'art. 1823, secondo comma c.c. va osservato che in effetti il saldo è la prima rimessa di un nuovo conto (ma non dello stesso); però al primo comma dello stesso articolo e nella prima parte del secondo comma è prevista l'inesigibilità e l'indisponibilità delle relative somme a saldo sino alla chiusura del conto alla scadenza stabilita.

La S.C. (Cass. 11 luglio 1985, n.4022) ha ribadito che i saldi passivi di un conto corrente bancario sono immediatamente esigibili, salvo che siano ricollegati ad operazioni bancarie che ne sospendano temporaneamente la disponibilità, con conseguente impossibilità di applicazione analogica della disposizione di cui all'art. 1823 c.c..

Da ultimo l'articolo 1853 c.c, in tema di conto corrente bancario, consente la compensazione fra conti diversi, anche quando i rapporti sono in corso (Cass. 17 luglio 1997, n. 6558), ciò in contrasto con l'articolo 1823 c.c. che non può trovare applicazione.

Quanto all'art. 1825 c.c., una volta esclusa l'applicazione analogica dell'art 1831 c.c. e dell'art. 1823 c.c., il suo richiamo resta irrilevante al fine di sostenere la tesi della capitalizzazione trimestrale. Per lo stesso motivo, il mancato richiamo, operato dall'art. 1857 c.c., appare comunque da solo sufficiente ad escluderne la sua applicazione analogica alla fattispecie in esame.

Quanto all'art. 162 bis disp. att. c.c. si tratta di una norma transitoria che trovava giustificazione nella necessità di coordinamento, per le obbligazioni «sorte anteriormente all'entrata in vigore » del codice del 1942, tra l'art. 1232 del codice civile del 1865, il quale prevedeva, al terzo comma, la possibilità di portare a capitale gli interessi scaduti, purché «dovuti per una annata intera» e l'art. 1283 del nuovo codice, che ha ridotto a sei mesi la decorrenza minima della debenza.

In conclusione e ritornando al nucleo della motivazione, deve ribadirsi che gli usi normativi contrari, cui espressamente fa riferimento il citato art. 1283 c.c., sono soltanto quelli formatisi anteriormente all'entrata in vigore del codice civile (né usi contrari avrebbero potuto formarsi in epoca successiva, atteso il carattere imperativo della norma "de qua" – impeditivi del riconoscimento di pattuizioni e comportamenti non conformi alla disciplina positiva esistente -), e, come, nello specifico campo del mutuo bancario ordinario e del conto corrente, non sia dato rinvenire, in epoca anteriore al 1942, alcun uso che consentisse l'anatocismo oltre i limiti poi previsti dall'art. 1283 c.c..

Va ritenuta, pertanto, la illegittimità tanto delle pattuizioni, quanto dei comportamenti - ancorché non tradotti in patti - che si risolvano in una accettazione reciproca, ovvero in una unilaterale imposizione, di una disciplina diversa da quella legale (Cassazione civile, sez. III, 20 febbraio 2003, n. 2593).

Ricostruzione del rapporto.

Una volta ritenuta la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale ex art. 1419 c.c., nella sostituzione di tale clausola appare convincente la soluzione interpretativa mediana, secondo cui sarebbe legittima una capitalizzazione annuale ex lege degli interessi.

Tra le diverse soluzioni che in astratto si possono porre, due sono quelle che hanno ricevuto maggiore credito:

quella che esclude ogni forma di capitalizzazione

quella che prevede una capitalizzazione annuale.

Una prima argomentazione a favore della capitalizzazione annuale muove proprio della inaccettabilità della tesi opposta.

Parte della dottrina osserva che la tesi della Cassazione a Sezioni Unite negli effetti privilegia gli imprenditori che sono titolari di conti correnti con andamento fluttuante o in passivo rispetto ai quali l’applicazione di una capitalizzazione semplice consentirebbe la ripetizione delle somme indebitamente conteggiate quali passività. Tale tesi però lederebbe eccessivamente la posizione dei consumatori o dei risparmiatori in generale che sono titolari di depositi e che sarebbero esposti all’azione delle banche per la restituzione degli interessi accreditati indebitamente a seguito della capitalizzazione annuale attiva.

In sostanza, contro la tesi della capitalizzazione semplice, si porrebbe l’effetto aberrante di un’applicazione simmetrica anche per i conti attivi nei confronti (e, quindi, ai danni) dei correntisti creditori della banca.

Secondo la tese opposta, invece, il disposto dell’art. 1283 c.c. è simile al divieto di patto commissorio, quale norma inderogabile, che non pone alternative: la nullità della clausola impone la capitalizzazione semplice e cioè esclude ogni forma di capitalizzazione.

In secondo luogo, non appare sostenibile la tesi della maggiore equità della capitalizzazione annuale che troverebbe un riscontro proprio nell’art. 1284 c.c. che prevede un termine annuale. In realtà la norma prevede solo che gli interessi vengono prodotti nella misura del 3% all’anno, ma non anche che il risultato di quella operazione viene capitalizzato.

Cioè gli interessi attivi si accantonano e poi si sommano tra loro.

Gli interessi attivi determinati annualmente potrebbero essere pagati al cliente e questo ne impedirebbe –di fatto- la capitalizzazione. Pertanto la capitalizzazione sarebbe solo un effetto casuale del comportamento del correntista creditore.

Quindi vi sarebbe una differenza sostanziale tra:

interessi annotati e capitalizzati a debito del cliente;

interessi annotati ed eventualmente pagati al cliente che si presenti a riscuoterli ad inizio dell’anno successivo.

Nel conto a debito vi sarebbe solo la contabilizzazione e mai la dazione, mentre in quello a credito la dazione è il profilo fisiologico e solo in conseguenza di una diversa volontà del cliente le somme rimangono sul conto corrente.

A questa impostazione si replica con argomentazioni giuridiche che appaiono di grande spessore. L’art. 1283 c.c. fa salvo l’uso contrario, che secondo la Cassazione deve essere l’uso normativo. La Corte ha precisato che l’uso normativo di capitalizzare ogni tre mesi gli interessi passivi non si è formato perché il cliente non era libero di aderire a tale uso.

In sostanza, la Cassazione ha ritenuto insufficiente il cd. uso unilaterale ed ha richiesto la condivisione spontanea di quella prassi, concludendo per l’insussistenza di un uso normativo di capitalizzazione trimestrale degli interessi.

Al contrario, sugli interessi annuali non vi è stata alcuna imposizione da parte del ceto bancario esistendo una simmetria nel conteggio ed in particolare la capitalizzazione annuale è in favore del cliente. Inoltre è prevista dall’art. 120 del CICR.

Deve concludersi, pertanto, che mentre la capitalizzazione trimestrale non è un uso normativo secondo la nozione condivisa dalle Sezioni Unite, l’uso della capitalizzazione annuale ha tutti i presupposti per ritenersi legittimo ai sensi dell’art. 1283 c.c.

Sotto altro profilo, si contesta che vi sia una differenza tra il meccanismo della capitalizzazione passiva ed attiva.

Infatti, si osserva che il cliente è posto nelle condizioni di evitare l’onere aggiuntivo rappresentato dalla capitalizzazione degli interessi negativi versando delle somme che riducono o azzerano soltanto gli interessi.

Il meccanismo che realizzerebbe tale risultato è quello della imputazione del pagamento ai sensi dell’art. 1194 c.c. che prevede espressamente che il pagamento debba essere imputato agli interessi e non al capitale salvo accordo con il creditore.

Così vengono estinti prima i debiti relativi agli interessi e successivamente quelli a titolo di capitale.

Pertanto, non sarebbe fondata la tesi della differenza tra capitalizzazione attiva e passiva, con la conseguenza che anche nell’ipotesi di annotazione passiva è possibile pagare direttamente gli interessi passivi ed evitare la capitalizzazione.

Esisterebbe quindi un parallelismo tra la capitalizzazione annuale attiva e passiva.

Si obbietta, dai fautori della tesi opposta, che per consentire il pagamento delle posizioni passive sarebbe necessario inserire quelle poste su un “conto di evidenza”.

Il conto corrente prevede un meccanismo automatico di capitalizzazione degli interessi conteggiati annualmente a debito che si trasformano in capitale. Invece negli interessi a credito non vi è una capitalizzazione automatica, ma solo eventuale, poiché se il cliente non ritira le somme annotate a titolo di interessi, la capitalizzazione eventuale diviene reale. Al contrario il meccanismo contabile non consentirebbe al cliente di pagare l’interesse passivo prima che venisse capitalizzato.

Si rileva da parte dei sostenitori della tesi della capitalizzazione annuale che, al contrario, l’estinzione delle voci di debito relative agli interessi è possibile attraverso il meccanismo della imputazione: il cliente imputa il pagamento ad interessi oppure ciò avviene sulla base del criterio previsto dal codice civile.

Per quanto detto occorre considerare il conteggio relativo alla capitalizzazione annuale.

In conclusione, sulla base delle corrette valutazioni effettuiate dal Consulente d’Ufficio, tenuto conto della nullità della clausola c.d. “uso piazza” degli interessi che sono stati correttamente ricalcolati al tasso legale fino all’entrata in vigore della legge n. 154/92 e successivamente sulla base dei criteri stabiliti dall’art. 5 della legge citata e poi dall’art. 117 del D.L.gs. n. 385/93, conteggiando altresì nella ricostruzione del rapporto la capitalizzazione annuale degli interessi, si perviene ad un credito in favore di P. F. pari ad € 6643,16. Conseguentemente va accolta in questi termini la domanda dell’attore, mentre deve essere rigettata quella riconvenzionale dell’istituto di credito.

Le spese seguono la soccombenza.

P. T. M.

Accoglie per quanto di ragione le domande proposte da P. F. e dichiara la nullità parziale del contratto stipulato il 25.01.89 da P. F. con la s.p.a. Credito Italiano con riferimento alla determinazione degli interessi;

condanna la banca Unicredito Italiano s.p.a. a corrispondere in favore di P. F. la somma di € 6643,16 oltre agli interessi legali dal giugno 1999;

rigetta ogni altra domanda;

condanna l’Istituto di Credito a pagare in favore dell’attore le spese da questo sostenute per il presente giudizio che si liquidano in € 137 per spese, € 1050 per diritti ed € 2167 per onorario di Avvocato, oltre accessori di legge, se dovuti e spese di consulenza per intero.

Così deciso in Lecce in data 30.05.2005.