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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 11/04/2018 Scarica PDF

La "controriforma" della disciplina del concordato preventivo

Paolo Felice Censoni, Professore di Diritto commerciale nell'Università di Urbino


SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. La domanda di concordato. - 3. Il procedimento di composizione assistita della crisi nella bozza del nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza. - 4. La domanda di concordato preventivo nella bozza del nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza. - 5. Gli effetti della domanda di concordato preventivo: gli effetti prodromici e quelli successivi all’ammissione alla procedura per il debitore e per i creditori. - 6. Gli effetti della domanda di concordato preventivo sui rapporti giuridici preesistenti. - 7. Il giudizio di fattibilità del piano e lo sfondamento della linea di confine fra autonomia negoziale e controllo giudiziale nel “nuovo” concordato preventivo. - 8. Il giudizio di revoca del concordato preventivo quale ulteriore strumento di sfondamento della linea di confine fra autonomia negoziale e controllo giudiziale. - 9. Di altri profili della legge delega e di un auspicio de iure condendo.

 

 

 

1. Premessa

Fra gli strumenti di soluzione delle crisi di impresa il concordato preventivo è certamente quello che negli ultimi anni, soprattutto a partire dal 2005, ha ricevuto le maggiori attenzioni, sia da parte del legislatore (con una serie continua di interventi normativi)[2], sia da parte della giurisprudenza, sia infine da parte degli studiosi della materia[3].

Era pertanto ragionevole aspettarsi che detto istituto finisse per occupare un posto di rilievo anche nella nuova e più ampia riforma, lanciata dalla legge delega 19 ottobre 2017, n. 155[4] e tuttora in attesa di (incerta) attuazione nel passaggio di legislatura, benché sia già stata predisposta (e fatta circolare) la bozza provvisoria di un testo di decreto legislativo[5], definito (forse con enfasi eccessiva) “codice della crisi e dell’insolvenza”, al quale ovviamente si faranno ampi riferimenti nelle pagine seguenti.

Esprimo subito i miei dubbi sull’utilità di alcune scelte fatte dal legislatore delegante a proposito del concordato preventivo, le cui disposizioni sono contenute, in modo sparso e frammentario, innanzitutto nell’art. 6, ma poi anche negli artt. 2, 3, 4, 5, 7 e 9, a volte per innovare; a volte per recepire sul piano legislativo soluzioni giurisprudenziali (in generale ispirate dalla Suprema Corte, ancorché tutt’altro che consolidate all’interno della stessa); a volte semplicemente per estendere regole simili ad altri istituti (accordi di ristrutturazione; procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento), ma in definitiva con l’effetto di ricondurre al centro degli strumenti di soluzione delle crisi di impresa la “liquidazione giudiziale” (espressione sostitutiva della parola “fallimento”), a discapito (soprattutto) dell’istituto che ci occupa, già pensato dal legislatore del decennio precedente come lo strumento principale di soluzione delle crisi, fondato sulla accentuazione dell’autonomia privata (conformemente alle sue origini storiche risalenti al periodo delle città comunali dell’alto medio-evo).

Nell’attuale situazione di oggettiva incertezza circa la sorte della nuova riforma, occuparsene potrebbe apparire un vago esercizio dialettico; ma così non è in realtà, dovendo ritenersi oltremodo utile qualunque contributo (ancorché critico) riguardante un settore dell’ordinamento così importante come può affermarsi per la disciplina delle patologie dell’impresa, se non altro per migliorarla in tempo utile prima dell’ultimo passaggio parlamentare.

E dal momento che i profili presi in considerazione dalla legge delega sono assai numerosi, coinvolgendo tutte le fasi del procedimento concordatario, nel presente contributo dovrò necessariamente operare una scelta, privilegiando taluni temi di diritto sostanziale e trascurandone altri pur di grande interesse (ma che meriterebbero una trattazione specifica), come quelli relativi al presupposto oggettivo e alla competenza, comuni anche ad ulteriori strumenti di soluzione delle crisi.

   

2. La domanda di concordato

Naturalmente il primo argomento da prendere in considerazione non può non riguardare la domanda di concordato, il suo contenuto, i suoi effetti e il relativo giudizio di ammissione; e innanzitutto, data l’attuale diffusione in concreto della fattispecie prevista dal sesto comma dell’art. 161 l. fall., ci si può legittimamente domandare da quali regole sarà disciplinata la facoltà del debitore di presentare una domanda “con riserva” o “in bianco”, alla quale peraltro la legge delega fa espresso riferimento nell’art. 6.1 lett. c), sia pure per quanto concerne la natura dei crediti dei professionisti sorti in funzione del relativo deposito.

Volendo verificare quali effetti (per il debitore, per i creditori e sui rapporti giuridici preesistenti) produca la presentazione della richiesta di un termine per depositare proposta, piano e documentazione (in cui si compendia tale fattispecie di domanda) – quando saranno stati abrogati gli artt. 161, 168, 169, 169-bis e 186-bis l. fall. (che in vario modo ancora oggi li disciplinano) – ci si imbatte nella problematica necessità di coordinare il principio di “unicità” del “modello processuale per l’accertamento dello stato di crisi o di insolvenza del debitore” – enunciato nell’art. 2.1 lett. d) della legge delega, ma a prima vista comune anche ad altri strumenti concorsuali (come gli accordi di ristrutturazione dei debiti, ai quali, a norma dell’art. 5.1 lett. c, dovrebbe essere estesa o “assimilata” la disciplina delle misure protettive previste per la procedura di concordato preventivo, in quanto compatibile) – con il principio enunciato nell’art. 6.1 lett. b), che impone di procedere genericamente ad una “revisione della disciplina delle misure protettive” quanto a durata ed effetti, compresa la loro “revocabilità”, su ricorso degli interessati, “ove non arrechino beneficio al buon esito della procedura”.

Se il procedimento di accertamento del presupposto oggettivo degli strumenti di soluzione delle crisi deve essere “unico”, identici dovrebbero esserne gli effetti, tanto per il preconcordato, quanto per il preaccordo o per la fase istruttoria della liquidazione giudiziale (mentre per la procedura di “composizione assistita della crisi” di cui all’art. 4.1 della legge delega, nella lett. g, si prevede che il debitore possa “chiedere alla sezione specializzata in materia di impresa l’adozione, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, delle misure protettive necessarie per condurre a termine le trattative in corso, disciplinandone durata, effetti, regime di pubblicità, competenza a emetterle e revocabilità, anche d’ufficio in caso di atti in frode ai creditori”).

Ma così non sembra essere, leggendo la bozza del nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza predisposta dalla apposita Commissione ministeriale.

   

3. Il procedimento di composizione assistita della crisi nella bozza del nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza

In detto documento si prevede che il debitore in crisi o insolvente possa senz’altro accedere direttamente al concordato preventivo; ma prima di farlo può anche decidere di ricorrere al procedimento di composizione assistita della crisi di cui all’art. 22 ss., sia per ottenere anticipatamente la concessione di “misure protettive” necessarie “per condurre a termine le trattative in corso” (art 23.1) – e cioè quelle consistenti in particolare “a) nella inammissibilità di azioni esecutive o cautelari individuali sul patrimonio o l’impresa del debitore; b) nella sospensione dei processi esecutivi o cautelari pendenti; c) nel divieto per i creditori di acquisire titoli di prelazione se non concordati; in tali casi le prescrizioni che sarebbero state interrotte dagli atti predetti rimangono sospese, e le decadenze non si verificano” (art. 2, n. 16)[6]: misure che, complessivamente sommate per tutti i procedimenti regolati dalla nuova disciplina delle crisi, non possono “superare il periodo, anche discontinuo, di dodici mesi, inclusi eventuali rinnovi e proroghe” (art. 11) – sia per beneficiare di una serie di misure “premiali” (stabilite dall’art. 28), ma a condizione che la menzionata iniziativa sia “tempestiva” (art. 7.1): cioè quando la domanda di accesso al procedimento di composizione assistita della crisi di cui all’art. 22 sia proposta entro il termine di tre mesi “a decorrere da quando si verifica, alternativamente: a) l’esistenza di debiti per salari e stipendi scaduti da almeno sessanta giorni per un ammontare pari ad oltre la metà del monte salari complessivo; b) l’esistenza di debiti verso fornitori scaduti da almeno centoventi giorni per un ammontare superiore a quello dei debiti non scaduti; c) il superamento nell’ultimo bilancio approvato, o comunque per oltre tre mesi” degli indici di squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario, elaborati con cadenza triennale dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili, tenuto conto delle migliori prassi nazionali e internazionali, “che, valutati unitariamente, fanno ragionevolmente presumere la sussistenza di uno stato di crisi dell’impresa” (art. 16).

Ora, a parte le misure “premiali” – previste alle medesime condizioni, ma nel termine più ampio di sei mesi per la presentazione diretta della domanda di accesso ad una delle vere e proprie procedure concorsuali, quindi anche al concordato preventivo (su cui infra) – quelle “protettive” possono essere chieste dal debitore, che abbia iniziato il percorso virtuoso descritto nella bozza del Codice, solo dopo l’audizione “riservata e confidenziale” davanti al Collegio di tre esperti nominati dall’Organismo di composizione della crisi (OCC) costituito presso ciascuna Camera di commercio; devono essere disposte dal tribunale concorsuale competente per una durata iniziale non superiore a sessanta giorni, ma prorogabile anche più volte fino ad un massimo di centottanta giorni (“solo a condizione che siano stati compiuti progressi significativi nelle trattative tali da rendere probabile il raggiungimento dell’accordo”); e possono essere revocate in ogni momento anche d’ufficio, “se risultano commessi atti di frode nei confronti dei creditori” ose il collegio segnala al giudice “che non vi è possibilità di addivenire a una soluzione concordata della crisi o che non vi sono significativi progressi nell’attuazione delle misure idonee a superare la crisi” (art. 23 passim).

Poi, se allo scadere di quel termine non è possibile raggiungere, con l’assistenza del Collegio di esperti, un “accordo stragiudiziale con i creditori coinvolti, e permane una situazione di crisi”, il debitore viene invitato a presentare entro trenta giorni una domanda di accesso ad una delle procedure di “regolazione della crisi e dell’insolvenza”, quindi, in definitiva, ad un concordato preventivo o ad un accordo di ristrutturazione dei debiti, potendo farsi assistere a tal fine dai componenti dello stesso Collegio (art. 24); ma a rischio, in caso negativo, di una segnalazione dell’insolvenza al pubblico ministero (tramite l’OCC) ai fini della presentazione da parte di quest’ultimo, entro sessanta giorni dall’informazione, di un’istanza di liquidazione giudiziale (art. 25).

Fin qui la proposta di novella contenuta nella bozza del Codice – e scandita dai passaggi procedurali descritti in modo (forse fin troppo) analitico – non sembra presentare particolari problemi interpretativi; e potrebbe anzi costituire una risorsa in più per il debitore (consapevole della crisi o dell’insolvenza), che abbia fin da subito in animo di approdare, in caso di esito negativo della trattativa con alcuni creditori, alla presentazione di una domanda di concordato preventivo, in relazione alla successione delle scadenze come sopra riassunte, finendo così per guadagnare più tempo anche rispetto alla vigente disciplina del concordato “con riserva” o “in bianco” di cui all’art. 161 l. fall. (con una vera e propria eterogenesi dei fini).

Infatti, per evitare la menzionata segnalazione dell’insolvenza al pubblico ministero di cui all’art. 25, gli basterebbe preparare per tempo (e tenere nel cassetto) la domanda di concordato (che comunque avrebbe la precedenza su qualunque istanza di liquidazione giudiziale, ai sensi dell’art. 46.6).

Ma, ove si tenga conto del fatto (più che notorio) che in concreto difficilmente un imprenditore (soprattutto se individuale) avverte o ammette (innanzitutto a se stesso) di essere in stato di crisi o di insolvenza, neppure di fronte a segnali di warning lanciati dai professionisti che abitualmente lo assistono, se ne può desumere – anche in considerazione della sostanziale modestia delle c.d. “misure premiali” – che la disciplina progettata nella bozza del menzionato Codice per il procedimento di composizione concordata della crisi potrebbe non avere sui mercati l’impatto auspicato nella legge delega, tanto più se correlato all’ulteriore depotenziamento di quello che, invece,  da sempre costituisce il più collaudato strumento di soluzione delle crisi di impresa alternativo al fallimento: il concordato preventivo, al quale ora occorre rivolgere la nostra attenzione.

   

4. La domanda di concordato preventivo nella bozza del nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza

A differenza da quanto previsto nella legge fallimentare, nella quale la disciplina del fallimento precede quella degli altri istituti concorsuali (concordato preventivo, accordi di ristrutturazione dei debiti, liquidazione coatta amministrativa e in passato anche amministrazione controllata), nella bozza del nuovo Codice gli “strumenti di regolazione della crisi” alternativi al fallimento (rectius alla liquidazione giudiziale) – e cioè i piani attestati di risanamento, gli accordi di ristrutturazione dei debiti dell’imprenditore, le procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento e il concordato preventivo – precedono la liquidazione giudiziale medesima, ancorché talune norme che li riguardano siano rinvenibili anche fra quelle comuni a tutte le “procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza”, contenute nel titolo III e in particolare, per quanto qui può interessare, nel capo IV, che riguarda appunto l’accesso a tali procedure, governato (nella sezione II) dal principio di “unicità”, enunciato nell’art. 2.1, lett. d) della legge delega (“adottare un unico modello processuale per l’accertamento dello stato di crisi o di insolvenza del debitore”, in conformità al vigente art. 15 l. fall.).

Già il fatto di aver collocato, nella topografia della novella, la liquidazione giudiziale all’ultimo posto non sarebbe così irrilevante, presupponendo un lodevole intento del legislatore di privilegiare uno qualunque degli altri strumenti di regolazione della crisi (preceduti o meno da quelli di “composizione assistita della crisi”, di cui sopra si è detto): un intento che, a sua volta, presupporrebbe la necessità di agevolarne in tutti i modi l’accesso e l’esito positivo; ma così in realtà non è, soprattutto con riferimento al concordato preventivo, a parte l’ipotesi di contestualità fra domanda di concordato e domanda di liquidazione giudiziale, regolata dall’effetto preclusivo della prima (art. 45.6), nel rispetto del principio enunciato nell’art. 2.1, lett. g) della legge delega (“dare priorità di trattazione, fatti salvi i casi di abuso, alle proposte che comportino il superamento della crisi assicurando la continuità aziendale, anche tramite un diverso imprenditore, purché funzionali al miglior soddisfacimento dei creditori e purché la valutazione di convenienza sia illustrata nel piano, riservando la liquidazione giudiziale ai casi nei quali non sia proposta un’idonea soluzione alternativa”).

Intanto va osservato che la menzionata “unicità” è stata intesa nella bozza del Codice anche nel senso dell’unitarietà (cioè dell’identità) del procedimento per l’accesso ad una qualunque delle procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza (artt. 44 ss.), sia essa la liquidazione giudiziale o il concordato preventivo, assoggettando alla medesima disciplina (peraltro più consona alla prima che non al secondo) tanto la domanda di concordato “ordinaria” (completa della proposta, del piano e della documentazione), quanto la domanda “con riserva”, già disciplinata nell’art. 161, comma 6 l. fall. (norma espressamente menzionata nell’art. 6.1, lett. c della legge delega e dunque non agevolmente eludibile, anche per un eventuale vaglio di costituzionalità del futuro decreto attuativo).

In sintesi, se è proposta una domanda di liquidazione giudiziale, il tribunale con decreto convoca le parti non oltre trenta giorni dal deposito del ricorso e nell’udienza il debitore, nel costituirsi, può anche presentare una domanda di accesso al concordato preventivo (art. 46); se invece non è chiesta la liquidazione giudiziale, il tribunale può limitarsi a verificare la regolarità della seconda domanda, senza convocazione all’udienza (art. 48.3), assumendo una serie di provvedimenti, in parte recuperati dalla vigente disciplina della domanda di preconcordato “con riserva”, in parte nuovi (art. 48.1); in particolare il tribunale:

a) fissa un termine perentorio compreso tra trenta e sessanta giorni, prorogabile su istanza del debitore, in presenza di giustificati motivi e in assenza di domande per l’apertura della liquidazione giudiziale, di non oltre trenta giorni, entro il quale il debitore deve depositare la proposta, il piano e la documentazione;

b) nomina un commissario giudiziale, disponendo che questi riferisca immediatamente al tribunale su ogni atto di frode ai creditori o grave mutamento delle condizioni o condotta del debitore manifestamente inidonea a una soluzione efficace della crisi; e in tal caso, su segnalazione del commissario giudiziale o del pubblico ministero, sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale, revoca il provvedimento di concessione dei termini con decreto non soggetto a reclamo (art. 48.2);

c) dispone gli obblighi informativi periodici relativi alla gestione economica, patrimoniale e finanziaria, che il debitore deve assolvere mediante relazioni e documenti, ivi compreso il deposito di una relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria, a pena della revoca della concessione dei termini come sopra in caso di grave violazione di quegli obblighi;

d) ordina al debitore il versamento, entro un termine perentorio non superiore a dieci giorni, di una somma per le spese della procedura, nella misura necessaria fino all’approvazione da parte dei creditori della proposta di concordato.

Dunque, rispetto alla disciplina attualmente vigente, quella annunciata dimezza i tempi complessivi per la predisposizione, da parte del debitore, della proposta, del piano e della documentazione (da centottanta a novanta giorni), imponendogli però sia obblighi informativi periodici sulla “gestione” che mal si giustificano ove il termine concesso sia particolarmente breve, sia un onere finanziario immediato per le spese processuali, che a sua volta appare iniquo in una fase in cui, a differenza da quanto previsto dall’art. 163, comma 2 l. fall., la procedura di concordato non è stata ancora aperta; e infine lascia poco tempo ed eccessiva discrezionalità al commissario giudiziale nella valutazione della natura degli atti compiuti dal debitore (anche anteriormente alla presentazione della domanda) e della condotta del medesimo nel suo tentativo di trovare “una soluzione efficace della crisi”, sotto la costante minaccia di una revoca sostanzialmente sommaria della concessione dei termini con decreto non soggetto a reclamo, da emettersi omessa ogni formalità non essenziale, con una distinzione poco comprensibile rispetto a quanto previsto per il decreto di non ammissione alla procedura, che invece è reclamabile dinanzi alla corte di appello (art. 51.3 e 4).

Oltre a questo, a dimostrazione dell’esistenza di un preconcetto disegno (di natura ideologica) di ostacolare per quanto possibile il ricorso all’istituto in esame, finanche pretendendo (nell’art. 6 della bozza del Codice) che i professionisti incaricati dal debitore concordatario debbano ridurre in modo ragionevole e proporzionato “la durata” delle prestazioni rese (espressione alla quale è difficile attribuire un senso, incidendo su un principio costituzionale: quello di cui all’art. 24 Cost.), per un verso va aggiunta la puntigliosa cura dedicata nella legge delega (art. 2.1, lett. l) e nella bozza del Codice (artt. 8 e 9) alla limitazione della misura dei relativi crediti, nonché della loro prededucibilità, per esempio condizionandola all’accoglimento della domanda di concordato, con un’evidente disparità di trattamento (rilevante anche ex art. 3 Cost.) rispetto ai crediti non professionali legittimamente contratti successivamente alla presentazione della domanda, che invece godono della piena prededucibilità (art. 50.3); per un altro verso non è priva di significato neppure l’applicazione ai crediti professionali della sanzione della ripetibilità (nell’ambito del concordato medesimo) o della revocabilità (nell’ambito della liquidazione giudiziale) delle somme corrispondenti alla parte eccedente gli importi per scaglioni indicati nella bozza (art.8.1) e persino agli acconti sul compenso eccedenti il 25% (art. 8.2)[7].

     

5. Gli effetti della domanda di concordato preventivo: gli effetti prodromici e quelli successivi all’ammissione alla procedura per il debitore e per i creditori

Ancora più preoccupante è quanto previsto a proposito degli effetti sostanziali del concordato preventivo, per i quali in verità la legge delega si è limitata ad imporre al legislatore delegato, per un verso, di “procedere alla revisione della disciplina delle misure protettive, specialmente quanto alla durata e agli effetti, prevedendone la revocabilità, su ricorso degli interessati, ove non arrechino beneficio al buon esito della procedura” (art. 6.2, lett. b); e, per un altro verso, di “integrare la disciplina dei provvedimenti che riguardano i rapporti pendenti” (art. 6.2, lett. h) relativamente a taluni profili, che esaminerò in seguito.

Quanto alla prima affermazione, di fatto priva di una precisa identificazione delle misure che ne sarebbero oggetto, ma presumibilmente riferibile alla disciplina delle autorizzazioni all’attività straordinaria del debitore (di cui agli artt. 161, comma 7 e 167, comma 2 l. fall., rispettivamente per il preconcordato e per il caso di apertura del procedimento) o agli effetti moratori per i creditori (di cui all’art. 168, comma 1 l. fall., applicabile sin dal momento della pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese), cioè al c.d. automatic stay, ciò che si può osservare innanzitutto è che l’eventuale loro indistinta revocabilità, non presidiata da un contestuale principio di salvezza degli atti e degli effetti legalmente prodotti, rischia seriamente di compromettere i principi di certezza e di stabilità delle relazioni commerciali.

Nella bozza del decreto attuativo la disciplina degli effetti della domanda di concordato nei confronti del debitore e nei confronti dei creditori è sì spalmata in una serie cospicua di norme (in particolare negli artt. 50, 58, 59, 99 e 101), ma purtroppo, leggendole, ci si rende conto che si tratta di disposizioni scarsamente coordinate fra di loro e quindi potenzialmente interpretabili in modo confuso.

Ad esempio, quanto agli effetti nei confronti del debitore, nell’art. 50 si afferma, in sintesi, che dopo il deposito della domanda di accesso al concordato preventivo (seguita dal decreto del tribunale di concessione dei termini, di cui sopra si è detto), il debitore può compiere gli atti di ordinaria amministrazione, mentre per quelli di straordinaria amministrazione occorre (a pena della loro inefficacia e della revoca della concessione dei termini) la previa autorizzazione del tribunale, che (acquisito il parere del commissario giudiziale) può darla solo se “urgenti” e solo se la richiesta del debitore contiene idonee informazioni sul contenuto del piano: ciò che ne presuppone un’avanzata predisposizione.

In fondo sin qui si tratta di disposizioni sovrapponibili a quelle dell’art. 161, comma 7 l. fall., con qualche integrazione.

Ma poi nell’art. 58 (“misure cautelari e protettive”) si aggiunge che nel corso del procedimento previsto dall’art. 45 (che è quello che riguarda il “procedimento unitario” di accesso ad una procedura di regolazione della crisi o dell’insolvenza, quindi – come si è constatato – anche al concordato preventivo) su istanza di parte (chi?) il tribunale può emettere i provvedimenti cautelari, inclusa la nomina di un custode dell’azienda o del patrimonio del debitore, che appaiano, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente l’attuazione della sentenza che omologa il concordato preventivo; insomma il debitore, che per sfuggire alla liquidazione giudiziale chiede di accedere alla menzionata procedura di regolazione della crisi, rischia di vedersi privato della sua azienda e del suo patrimonio fino all’omologazione del concordato, sia pure a seguito di un procedimento strutturato secondo le disposizioni dell’art. 59, che qui non interessano.

Forse, per raggiungere il medesimo obiettivo, meglio sarebbe stato allora ripristinare la previgente gestione commissariale prevista dall’art. 191 l. fall., che il tribunale poteva disporre su istanza di ogni interessato o anche d’ufficio in qualsiasi momento, una volta aperta la procedura di amministrazione controllata (ora abrogata) e quindi solo dopo il deposito in giudizio del piano di risanamento (ma non prima).

Tutto questo però viene vanificato dal successivo art. 99 della bozza del decreto attuativo corrispondente in larga parte (dal primo al quarto comma) all’art. 167 l. fall. ed espressamente applicabile non dall’ammissione al concordato, ma “dalla presentazione della domanda di accesso” al concordato (come precisato anche nella rubrica della norma), con qualche integrazione (nei commi quinto e sesto) a proposito della necessità di adozione di procedure competitive per l’alienazione o l’affitto di aziende, rami di azienda o specifici beni, autorizzati quali atti di straordinaria amministrazione dal giudice delegato (o dal tribunale in caso di urgenza e senza far luogo a dette procedure).

Quanto poi agli effetti nei confronti dei creditori, nell’art. 50.4 (che riprende l’analoga disposizione del terzo comma dell’art. 168 l. fall.) si afferma innanzitutto che dopo la pubblicazione nel registro delle imprese della domanda di accesso al concordato preventivo (seguita dal decreto del tribunale di concessione dei termini) le ipoteche giudiziali iscritte nei novanta giorni precedenti sono inefficaci rispetto ai creditori anteriori; e nell’art. 58.2 si aggiunge che nel corso del procedimento avviato dalla domanda del debitore, su richiesta di questo o dei creditori, il tribunale può disporre anche il divieto di azioni esecutive o cautelari, indicandone la durata; e che entro il medesimo termine i creditori non possono acquisire titoli di prelazione se non concordati; le prescrizioni che sarebbero state interrotte da quelle azioni rimangono sospese e le decadenze non si verificano.

Dunque a differenza da quanto stabilito nel vigente art. 168, commi 1 e 2 l. fall., l’automatic stay non si verifica ex lege dalla data della pubblicazione del ricorso introduttivo (anche “con riserva”) nel registro delle imprese, ma solo su espressa concessione del tribunale a seguito di un procedimento strutturato secondo le disposizioni dell’art. 59; e non fino a quando il provvedimento di omologazione diventerà definitivo, ma solo per la durata stabilita appunto dal tribunale medesimo, salvo successiva conferma in occasione del giudizio di omologazione (con eventuale conservazione degli effetti protettivi); o successiva revoca, ove emergano atti di frode (art. 59.4 e 5).

In verità nella legge fallimentare vigente il divieto di azioni esecutive o cautelari è diretto ad evitare che qualche creditore concorsuale sia tentato di soddisfarsi coattivamente o per iniziativa spontanea del debitore in violazione della par condicio creditorum per tutta la durata del procedimento, fino a quando con l’omologazione i rapporti di credito vengano ridefiniti o rimodulati nei termini indicati nella proposta e nel piano del debitore (a parte ipotesi eccezionali, quali quelle di cui all’art. 182-quinquies, comma 5, ripreso dall’art. 105.1 della bozza del decreto attuativo; o quelle di cui all’art. 4 del d.lgs. 21 maggio 2004, n. 170 in materia di contratti di garanzia finanziaria).

Dunque la menzionata disposizione dell’art. 168 l. fall. (corrispondente all’art. 51 l. fall. nel fallimento) meglio si comprende se messa in relazione alla norma successiva (l’art. 169 l. fall.), che – com’è noto – applica al concordato preventivo le disposizioni che definiscono la c.d. liquidazione del passivo fallimentare, cioè gli artt. da 55 a 63 l. fall., con l’integrazione dell’art 45 l. fall., ma con l’esclusione dell’art. 54 l. fall. (salvo il terzo comma, in quanto richiamato nel primo comma dell’art. 55 l. fall.).

Orbene, anche nella bozza del Codice della crisi l’art. 101 applica quelle medesime disposizioni, contenute nell’art. 150 (corrispondente all’art. 45 l. fall.) e negli artt. da 159 a 167, con l’aggiunta – difficilmente comprensibile – dell’art. 158 (corrispondente all’art. 54 l. fall.), che però, trattando del diritto dei creditori privilegiati nella ripartizione dell’attivo, sembra più agevolmente riferibile ad una fase di una procedura liquidatoria (fallimento o liquidazione giudiziale che sia), piuttosto che al concordato preventivo.

Dunque questa relazione fra liquidazione del passivo e automatic stay è assente nel progetto di decreto attuativo (e per la verità anche nella legge delega), essendo difficile riconoscere, ad esempio, qualche spunto di ragionevolezza nel fatto che un creditore concorsuale, che veda il suo credito pecuniario interamente scaduto alla data della presentazione della domanda di concordato per effetto delle disposizioni coordinate degli artt. 101 e 159 della bozza del decreto attuativo, possa poi agire esecutivamente sul patrimonio del debitore ove manchi (o manchi ancora o sia scaduto o sia stato revocato) un provvedimento di blocco di dette azioni.

Non ha senso lasciare ad una iniziativa di parte e alla discrezionalità del tribunale l’attivazione di un effetto sostanziale del concordato che mira a tutelare ex lege la par condicio creditorum.

         

6. Gli effetti della domanda di concordato preventivo sui rapporti giuridici preesistenti

Complessivamente meno invasive sono le novità previste per gli effetti del concordato preventivo sui rapporti giuridici preesistenti, in relazione ai quali l’art. 6.1, lett. h) della legge delega ha imposto di integrare la relativa disciplina “con particolare riferimento ai presupposti della sospensione e, dopo la presentazione del piano, anche dello scioglimento: al procedimento e al ruolo del commissario giudiziale; agli effetti, in relazione agli esiti possibili della procedura, nonché alla decorrenza e alla durata nell’ipotesi di sospensione; alla competenza per la determinazione dell’indennizzo e ai relativi oneri di quantificazione”.

E’ rimasta intatta la definizione dei contratti pendenti introdotta dal d.l. n. 83 del 2012 e dal d.l. n. 83 del 2015 sub art. 169-bis, comma 1 l. fall. nel senso che deve trattarsi di contratti (a prestazioni corrispettive) ancora ineseguiti o non compiutamente eseguiti (nelle prestazioni principali) da entrambe le parti alla data di presentazione della domanda di concordato; ugualmente intatto è rimasto il principio generale della prosecuzione di tali rapporti (indipendentemente dalla loro natura di atti di ordinaria o di straordinaria amministrazione), compresa la (perdurante) possibilità per il contraente in concordato di chiedere l’autorizzazione alla sospensione o allo scioglimento del rapporto, ma con questa novità: che fino a quando non viene presentato il piano, il debitore può chiedere solo la sospensione (che nella bozza del decreto attuativo non può eccedere il termine concesso dal tribunale ai fini del deposito della proposta e del piano: artt. 48.1 e 102.7); mentre dopo la presentazione del piano il debitore può chiedere sia la sospensione (che in quella bozza non può eccedere la durata di sessanta giorni, prorogabile una sola volta: art. 102.7), sia lo scioglimento (che nell’art. 102.8 della bozza opportunamente è stato ritenuto irreversibile, in conformità al principio generale della “salvezza” degli atti legittimamente compiuti nel corso della procedura, qualora la proposta di concordato non sia approvata e omologata o il concordato sia revocato).

La menzionata distinzione temporale fra sospensione e scioglimento mi pare ragionevole, essendo altrimenti difficile immaginare come il tribunale possa motivare il richiesto provvedimento ignorando il contenuto della proposta e del piano; e infatti nell’art. 102.1 della bozza del Codice della crisi quella autorizzazione può essere concessa solo qualora la prosecuzione del rapporto non sia coerente con la programmata esecuzione del piano, né ad essa funzionale, impedendo o rendendo difficoltosa o antieconomica la continuazione dell’attività aziendale o la liquidazione dei beni in pregiudizio della fattibilità del concordato; tuttavia, per altro verso, ben si potrebbe obiettare che (almeno) in qualche caso il debitore concordatario a sua volta potrebbe trovarsi nell’impossibilità di predisporre una proposta e un piano fattibili in assenza della menzionata autorizzazione e quindi ignorando la sorte di rapporti la cui prosecuzione potrebbe per l’appunto pregiudicare la fattibilità dell’una e dell’altro.; meglio sarebbe allora consentire al contraente concordatario, fino all’elaborazione della proposta e del piano, di chiedere l’autorizzazione alla sospensione del rapporto senza precondizioni; o di estendere al concordato preventivo la regola generale (della sospensione) così come prevista per il fallimento dal primo comma dell’art. 72 l. fall. (e ora dall’art. 177 della bozza del Codice della crisi).

Quanto poi al “procedimento” detta bozza prevede che la richiesta del debitore debba essere presentata al tribunale (prima dell’ammissione) o al giudice delegato (dopo l’ammissione) con istanza autonoma, contestuale o successiva alla domanda di accesso al concordato, dopo averla notificata al contraente in bonis, proponendo anche una quantificazione dell’indennizzo equivalente al risarcimento del danno conseguente all’anticipato recesso: quantificazione che deve essere evidenziata, quale credito concorsuale (salva l’eccezione attualmente prevista dal secondo comma dell’art. 169-bis l. fall.), anche nella predisposizione del piano, ai fini del calcolo del fabbisogno finanziario complessivo; e in caso di mancato accordo la determinazione dell’indennizzo è giustamente rimessa al giudice ordinariamente competente, salva l’ammissione del credito da parte del giudice delegato ai soli fini del voto e del calcolo delle maggioranze.

Per il resto, in ipotesi di concordato “in continuità”, l’art. 100 della bozza del decreto attuativo si è limitato a recepire le disposizioni dell’art. 186-bis l. fall. (che però devono tener conto anche della disciplina speciale contenuta nel Codice dei contratti pubblici, recentemente novellata[8]).

   

7. Il giudizio di fattibilità del piano e lo sfondamento della linea di confine fra autonomia negoziale e controllo giudiziale nel “nuovo” concordato preventivo

Com’è noto, una delle questioni più controverse sorte dopo la precedente riforma della legge fallimentare[9] è stata quella di stabilire, in generale, se il tribunale, fra i suoi poteri di controllo, sia ai fini dell’ammissione alla procedura concordataria, sia nel corso di questa in relazione all’eventuale giudizio di revoca del concordato (con riferimento all’ultimo inciso contenuto nel terzo comma dell’art. 173 l. fall.) o nell’ambito del giudizio di omologazione, abbia anche quello di verificare la fattibilità del piano, non tanto o non soltanto sotto un profilo meramente formale (consistente nel controllo della correttezza, della logicità e della coerenza dei criteri valutativi adottati dal professionista attestatore ai sensi dell’art. 161, comma 3 l. fall.) o sotto quello più specificamente “giuridico” (e palesemente spettante al giudice) consistente nell’accertamento dell’inesistenza di eventuali motivi di nullità della proposta concordataria per violazione di norme imperative o per illiceità o impossibilità dell’oggetto – sempre che se ne presentino in concreto i presupposti, così come individuati in dottrina e in giurisprudenza con riferimento agli artt. 1418, comma 1 c.c. (per la contrarietà a norme imperative) e 1346 c.c. (per l’impossibilità o l’illiceità dell’oggetto) – quanto piuttosto sotto il profilo “economico” dell’effettiva realizzabilità del piano concordatario, in relazione al suo variabile e variegato contenuto, che può essere estremamente semplice (come nel caso di un concordato liquidatorio con cessione dei beni) o può essere estremamente complesso (come nel caso in cui il soddisfacimento dei creditori avvenga a mezzo o anche a mezzo di ristrutturazioni societarie), fino al punto di consentire al tribunale un sindacato (spesso sostanzialmente discrezionale) sulla mera probabilità di avveramento in concreto dei presupposti di fatto necessari alla riuscita del piano o alla verosimiglianza dell’esito prospettato dall’imprenditore (come, ad esempio, per mancanza di concrete offerte di acquisto del magazzino, per difficoltà di vendita dei prodotti in tempi brevi o in unica soluzione, per incertezza sulla cessione ai terzi di una quota di partecipazione o sul realizzo di un credito verso una partecipata, per assenza di impegni delle banche per l’apporto di nuova finanza dopo l’omologazione, per assenza di garanzie sulle dismissioni dei cespiti immobiliari, per mancanza di copertura del fabbisogno concordatario con le risorse previste dal piano, ecc.).

Naturalmente il tema è talmente complesso da non consentire di essere qui contenuto in uno spazio così angusto; e d’altra parte già in altra sede[10] ho espresso la mia contrarietà all’ultima (e più estensiva) delle opzioni sopra indicate, escludendo che il tribunale abbia il potere di sindacare la c.d. “fattibilità economica” del piano concordatario: ciò che invece è avvenuto in concreto con una certa frequenza (soprattutto in giudizi di revoca di concordati), lasciando intravvedere un sottile disegno ideologico travalicante la tradizionale funzione del giudice, soprattutto in relazione alla disciplina di istituti in cui sui piani di risanamento o di ristrutturazione del debitore dovrebbero essere innanzitutto i creditori a doversi pronunziare, come nel concordato preventivo e come bene era stato compreso dal legislatore della precedente riforma a partire dal 2005.

Per la verità all’interrogativo posto all’inizio avevano tentato di dare risposta le Sezioni unite della Corte di cassazione con la nota sentenza del 23 gennaio 2013, n. 1521[11], pur con qualche residua ambiguità, sulla base (in sintesi) della condivisibile distinzione fra fattibilità “giuridica” da un lato e fattibilità “economica” dall’altro, le cui valutazioni spettano, quanto alla prima, al tribunale dopo aver verificato (anche in modo difforme dalle conclusioni del professionista attestatore, al quale sono affidate “funzioni assimilabili a quelle di un ausiliario del giudice”)che le modalità attuative del piano non risultino “incompatibili con norme inderogabili” o che il piano medesimo non presenti una “assoluta impossibilità di realizzazione”, anche in relazione alla “preventiva individuazione della causa concreta del procedimento” consistente nella “regolazione della crisi” e nel “riconoscimento in favore dei creditori di una sia pur minimale consistenza del credito da essi vantato in tempi di realizzazione ragionevolmente contenuti”; e quanto alla seconda ai creditori, essendo “legata ad un giudizio prognostico, che fisiologicamente presenta margini di opinabilità ed implica possibilità di errore, che a sua volta si traduce in un fattore di rischio per gli interessati”: rischio che non può non far “esclusivo carico” ai creditori, “una volta che vi sia stata corretta informazione sul punto”.

Infatti, secondo la pronuncia in esame, la significativa compressione che i creditori finiscono per subire, determinata “da un’avvertita esigenza di bilanciamento” delle “esigenze di agevolazione dell’imprenditore nell’uscire dallo stato di crisi, può trovare concreta giustificazione – al di là della condivisione o meno nel merito dell’opzione effettuata – soltanto ove ricorrano le due seguenti condizioni: a) che lo svolgimento del procedimento avvenga nel rispetto delle indicazioni del legislatore, vale a dire consentendo ai creditori, dapprima, di votare avendo conoscenza (o avendo avuto modo di conoscere) di tutti i dati a tal fine necessari e, quindi, di esprimere le eventuali riserve nel giudizio di omologazione; b) che la conseguente definizione si realizzi con il raggiungimento della duplice finalità perseguita con l’instaurazione della procedura”: quella sopra indicata quale “causa concreta” della stessa.

Sempre secondo le Sezioni unite la stessa modifica del quarto comma dell’art. 180 l. fall. in tema di valutazione della convenienza, laddove questa sia contestata in sede di opposizione all’omologazione dai creditori dissenzienti che rappresentino il venti per cento dei crediti ammessi al voto, “non sembra possa trovare ragionevole fondamento nell’intento di ampliare i margini di intervento del giudice nell’ambito della procedura in questione, ma appare piuttosto un bilanciamento in favore del ceto creditorio”.

E nella stessa direzione mi era parso condurre anche il secondo comma dell’art. 179 l. fall. (introdotto dal d.l. n. 83 del 2012 e sorprendentemente recuperato senza variazioni nell’art. 117.1 della bozza del Codice della crisi), a norma del quale “quando il commissario giudiziale rileva, dopo l’approvazione del concordato, che sono mutate le condizioni di fattibilità del piano, ne dà avviso ai creditori, i quali possono costituirsi nel giudizio di omologazione fino all’udienza di cui all’articolo 180 per modificare il voto”: dove, per un verso, il mutamento delle “condizioni” non può non riferirsi che alla fattibilità “economica” (posto che il sindacato del tribunale su quella “giuridica” non è certamente assoggettabile all’iniziativa di qualche creditore); e, per un altro verso, lo stesso “mutamento” non può non riferirsi che a situazioni di fatto tali da aggravare potenzialmente il rischio di insuccesso dell’esecuzione del piano, con la conseguente attribuzione (non al tribunale, ma solo) al creditore che abbia votato favorevolmente di sollevare la relativa contestazione e solo riconoscendogli la legittimazione (che altrimenti non avrebbe) ad opporsi all’omologazione.

Poi, volendo, si potrebbe anche ricordare che a norma dell’ultimo capoverso dell’art. 186-bis l. fall., nel concordato con continuità aziendale (e solo in questo), se l’esercizio dell’impresa cessa o risulta manifestamente dannoso per i creditori (ipotesi entrambe riconducibili in qualche misura ad un mutamento della fattibilità economica), la possibilità di revocare il concordato ai sensi dell’art. 173 l. fall. non è automatica, ma è postergata alla facoltà del debitore di modificare la proposta.

Ma tant’è: il riferimento all’ambiguo concetto di “causa concreta” del concordato preventivo, nella giurisprudenza della stessa Corte di cassazione successiva all’intervento delle Sezioni unite, ha finito per annacquare quella (opportuna) distinzione fra “fattibilità giuridica” e “fattibilità economica[12] e per estendere – a mezzo del giudizio di revoca di cui al terzo comma dell’art. 173 l. fall. – il sindacato del tribunale (in base a valutazioni meramente prognostiche) ad ogni ipotesi di modificazione del rischio di insuccesso nella realizzazione del piano concordatario, sottraendolo ai creditori (benché adeguatamente informati), in palese contrasto persino con il menzionato insegnamento delle Sezioni unite: un equivoco, questo, che è stato ora sciolto (nel modo peggiore e probabilmente sulla spinta di pressioni corporative) dal legislatore con la legge delega n. 155 del 2017, in particolare nella disposizione che principalmente si occupa del tema qui esaminato: mi riferisco all’art. 6.1, in cui si incarica il Governo, nell’esercizio della delega, (nella lett. c) di “fissare le modalità di accertamento della veridicità dei dati aziendali e di verifica della fattibilità del piano”; e (nella lett. e) di “determinare i poteri del tribunale, con particolare riguardo alla valutazione della fattibilità del piano, attribuendo anche poteri di verifica in ordine alla fattibilità anche economica dello stesso, tenendo conto dei rilievi del commissario giudiziale”.

Fermo restando che il menzionato principio allo stato non può essere richiamato[13], neppure come strumento di interpretazione “autentica” della disciplina tuttora vigente, se non dopo e alla condizione (per nulla scontata) che alla legge delega venga data effettiva attuazione, si può solo osservare, leggendo la bozza del Codice della crisi, che alle nozioni di “fattibilità” o di “realizzabilità” o di “attuabilità” fanno riferimento numerose disposizioni: l’art. 90.2 (“la proposta deve fondarsi su un piano che abbia concrete possibilità di realizzazione”); l’art. 92.2 (“il debitore può presentare, insieme alla domanda, la relazione di un professionista indipendente da lui designato che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano”); l’art. 51.1 (“a seguito del deposito del piano e della proposta di concordato, il tribunale, verificate le condizioni di cui agli articoli da 89 a 93, anche con riferimento alla fattibilità del piano e tenuto conto dei rilievi del commissario giudiziale, con decreto: ecc.”); l’art. 45.4, per il caso di proposte concorrenti (“la relazione di cui al comma terzo dell’articolo 92 può essere limitata alla fattibilità del piano per gli aspetti che non siano già oggetto di verifica da parte del commissario giudiziale, e può essere omessa qualora non ve ne siano)”; l’art. 106.2, in relazione alle condizioni di prededucibilità, nella consecutiva liquidazione giudiziale, dei finanziamenti effettuati in esecuzione di un concordato preventivo (prededucibilità esclusa in caso di manifesta inattuabilità del piano); l’art. 117.1, per l’ipotesi di mutamento delle condizioni di fattibilità del piano; l’art. 52.3, in relazione al giudizio di omologazione (“il tribunale, verificata la regolarità della procedura e l’esito della votazione, anche con riferimento alla fattibilità del piano […], provvede con sentenza sull’omologazione del concordato”).

Come si vede, a parte quest’ultima norma, finalizzata a risolvere un dubbio interpretativo sorto con riguardo alla disciplina tuttora vigente, le altre in definitiva altro non fanno che recuperare le analoghe disposizioni contenute, rispettivamente, negli artt. 161, comma 3, 163, comma 4 e 179, comma 2 l. fall.; ma in nessuna di quelle (attuative della delega) mi pare che si faccia espresso riferimento alla fattibilità “economica”.

   

8. Il giudizio di revoca del concordato preventivo quale ulteriore strumento di sfondamento della linea di confine fra autonomia negoziale e controllo giudiziale

Quanto la definizione del perimetro del potere del giudice di valutare la “fattibilità” del piano concordatario influisca anche sulla tracciabilità della linea di confine fra autonomia negoziale e controllo giudiziale nel concordato preventivo, una volta attribuita a quella ex art. 6.1, lett. e) della legge delega la natura di vera e propria condizione di ammissibilità della domanda, lo si desume agevolmente anche dalla disciplina della revoca, tuttora contenuta nell’art. 173 l. fall. (il cui testo è sostanzialmente riprodotto, con l’eccezione del secondo comma, nell’art. 111 della bozza del Codice della crisi): norma che da sempre costituisce un pilastro della disciplina concordataria, non limitandosi a sanzionare determinati comportamenti del debitore, ma consentendo al tribunale di valutare durante tutto il corso della procedura la permanente sussistenza delle “condizioni prescritte per l’ammissibilità del concordato”, le quali a loro volta possono essere del tutto indipendenti da quei comportamenti.

Dunque, da questo punto di vista, l’accertamento della sopraggiunta irrealizzabilità economica del piano concordatario così come proposto e valutato in fase di apertura (che è un giudizio di merito di natura tipicamente economico-aziendale, difficilmente riconducibile alla tradizionale funzione giurisdizionale attribuita al giudice) non potrebbe non condurre alla revoca del concordato, senza neppure transitare dalla manifestazione (mediante il voto) delle volontà dei creditori (che pure dovrebbero essere i principali stakeholders della disciplina delle crisi d’impresa).

Peraltro da un diverso punto di vista la medesima norma (direttamente richiamata anche dagli artt. 161, comma 6, 185, comma 6 e 186-bis, comma 7 l. fall.) impone al debitore concordatario, che intenda accedere alla procedura e condurre in porto il tentativo di salvataggio della sua impresa, vincoli di correttezza di comportamento e di rispetto delle regole (oltre che vincoli di collaborazione, ove venga presentata una proposta “concorrente” ai sensi dell’art. 163 l. fall.), al fine di evitare che ai creditori vengano sottratte informazioni utili ad esprimere un corretto giudizio sulla convenienza della proposta concordataria rispetto all’ipotesi fallimentare.

E più in generale, se prima della riforma della legge fallimentare avviata a partire dal 2005, con riferimento al c.d. giudizio di “meritevolezza” in sede di omologazione – che doveva tener conto delle cause del dissesto e della “condotta” del debitore, cioè in definitiva del grado di colpevolezza di questo nella produzione del dissesto – la stessa Corte di cassazione era giunta a ritenere che la disciplina allora vigente non esigesse una gestione imprenditoriale totalmente immune da critiche od addebiti, ma affidasse al giudice (con un criterio liberaleggiante) una valutazione complessiva sulla correttezza morale e professionale del debitore, nonostante errori od imprudenze in singoli episodi, in funzione (solo) dell’attendibilità e dell’eseguibilità del concordato[14], dopo la riforma è stato frequentemente (e giustamente) osservato come l’art. 173 l. fall., abbandonata l’originaria funzione sanzionatoria, mirerebbe solo a tutelare l’interesse dei creditori ad una corretta informazione circa la situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’imprenditore, affinché essi possano esprimere, in sede di votazione, un consenso informato e non viziato da fatti o comportamenti (purché non contestati o contestabili) che siano suscettibili di alterare in modo rilevante la valutazione di quella situazione.

Se dunque ancor prima dell’eliminazione del giudizio di meritevolezza dottrina e giurisprudenza erano approdate ad orientamenti ragionevolmente mirati a limitare l’impatto di quel giudizio (pur in presenza di atti esorbitanti da “onestà e probità[15]) sulle prospettive di sopravvivenza dei complessi aziendali in crisi e quindi, in definitiva, sulla fruibilità e sull’applicabilità dell’istituto concordatario in funzione salvifica di quei complessi (lasciando sì al giudice un margine di discrezionalità nelle valutazioni dei casi concreti, ma da effettuarsi su qualità e comportamenti complessivi del debitore proponente, piuttosto che su episodi isolati), la condivisione del mutamento di ratio dell’art. 173 l. fall.– come in altra occasione ho avuto modo di sottolineare[16] – dovrebbe condurre a riconoscere che, una volta eliminata l’asimmetria informativa, non ci sarebbe ragione non solo di privare i creditori del loro diritto di esprimere (magari all’unanimità) un voto favorevole sulla domanda del debitore così come originariamente proposta, ma altresì di farlo semplicemente in base ad una valutazione prognostica del tribunale circa l’esito presuntivamente negativo di una votazione che, in realtà, non potrebbe più svolgersi una volta decisa la revoca, imponendo in modo autoritario ai creditori una soluzione fallimentare (normalmente) pregiudizievole per i loro interessi in quanto meno conveniente e priva di tutte quelle eventuali garanzie (di adempimento) che assistano in concreto la proposta concordataria (del debitore o “concorrente” che sia).

Detto questo va subito aggiunto che la legge delega, lungi dall’omologare un orientamento “controriformatore” volto ad attribuire all’art. 173 l. fall. una vetusta funzione sanzionatoria fino a fare della revoca del concordato – come purtroppo è frequentemente accaduto in tempi recenti – un vero e proprio “abuso”, si è limitata, in realtà, a fissare fra i principi e i criteri direttivi, nell’art. 6.1, lett. m), anche (e solo) quello di “riordinare la disciplina della revoca”, senza dare alcun’altra indicazione, così consentendo al futuro legislatore di rimodulare tale disciplina nel modo ritenuto più opportuno e quindi – ritengo – anche riconducendola nel più ristretto ambito conforme alla menzionata tutela dell’interesse dei creditori ad una corretta informazione circa la situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’imprenditore, affinché essi possano esprimere, in sede di votazione, un consenso informato e non viziato nel senso sopra indicato.

Peraltro quanto agli “atti in frode ai creditori” la stessa legge delega se ne occupa solo con riferimento alla “prededuzione dei finanziamenti autorizzati dal giudice nel caso di successiva liquidazione giudiziale o amministrazione straordinaria” (art. 6.1, lett. o): suggerimento – questo sì – recepito nella bozza del Codice della crisi (nell’art. 104.5, a proposito dei finanziamenti c.d. interinali, e nell’art. 106.2, a proposito dei finanziamenti in esecuzione), che però per il resto appare permeato da spirito controriformatore anche per i profili qui esaminati, ad esempio quando nell’art. 48.1 lett. b), che disciplina la fase di accesso al concordato (compresa fra trenta e sessanta giorni), impone al commissario (o precommissario) giudiziale, come prima cosa (dunque come fosse la più importante, nonostante la brevità di quel termine) di riferire “immediatamente al tribunale su ogni atto di frode ai creditori”, a pena di revoca del provvedimento di concessione dei termini, con decreto non soggetto a reclamo, emesso al termine di un procedimento sommario (art. 48.2; e analogamente l’art. 59.4, nel caso di concessione di misure cautelari e protettive); o quando si pretende che il piano del debitore debba assurdamente indicare, a pena di inammissibilità della domanda, persino “le possibili azioni di responsabilità per il caso di liquidazione giudiziale nei confronti di amministratori, organi di controllo, revisori, soci e soggetti terzi e le prospettive di recupero per entità e tempo” (art. 92.1, n. 4): informazioni e valutazioni che è lecito semmai pretendere dal commissario giudiziale nella sua relazione ex art. 110.2, come quelle relative alle “azioni risarcitorie, revocatorie e recuperatorie esperibili, con indicazione di quelle eventualmente proponibili solo nel caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale” (art. 92.1, n. 5), ma non dal debitore medesimo, preoccupato di salvare la sua impresa e di tutelare con essa gli interessi dei suoi numerosi stakeholders, costringendolo di fatto a rendere pubblica confessione su eventuali atti di (presuntiva) mala gestio compiuti dai propri amministratori (che sono tuttavia quelli ai quali è affidata la legittimazione a deliberare la presentazione della domanda di concordato), atti che poi finirebbero per costituire uno dei presupposti per l’eventuale revoca della concessione del termine o per la dichiarazione di inammissibilità della domanda, con l’aberrante conseguenza che tanto il silenzio, quanto la confessione condurrebbero entrambe ad un medesimo risultato negativo.

Qui si manifesta in modo evidente (oltre il dettato della legge delega) quella “guerra santa” promossa nei confronti dell’istituto in esame prima da certa giurisprudenza di merito (fortunatamente non da tutta), poi anche da qualche pronuncia della Corte di cassazione e infine dalla Commissione ministeriale che ha elaborato la bozza del Codice della crisi, tradendo e distorcendo le legittime finalità della precedente riforma avviata a partire dal 2005 da un legislatore ben più imparziale e meno sensibile a pressioni di tipo corporativo.

   

9. Di altri profili della legge delega e di un auspicio de iure condendo

Naturalmente ci sono altri profili della legge delega che meriterebbero un approfondimento, se non un ripensamento; me ne occupo qui in modo molto sintetico per non abusare della pazienza del cortese lettore.

Ad esempio (e a parte quanto già anticipato in relazione al trattamento dei crediti dei professionisti sorti in funzione o nel corso del procedimento concordatario), rendere obbligatoria la suddivisione dei creditori in classi, di fatto costringendo il debitore ad offrire di meno ai creditori che beneficino di garanzie esterne (art. 6.1, lett. d), costituisce una violazione del principio di autonomia contrattuale, che è alla base della libertà di determinare “attraverso qualsiasi forma” la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti nella proposta e nel piano (art. 160, comma 1 l. fall., ripreso dall’art. 90.3, lett a della bozza del Codice della crisi).

La soppressione dell’adunanza dei creditori, che è l’unica occasione di confronto diretto fra debitore e creditori o fra il debitore e i creditori che abbiano presentato una proposta concorrente, alla presenza del giudice delegato e del commissario giudiziale, oltre che di tutti coloro ai quali è precluso il diritto di voto, ma non quello di intervento, è una scelta inopportuna, finendo in definitiva per indebolire ulteriormente il livello di autonomia dei soggetti titolari dei rapporti creditori e contrattuali dell’impresa in crisi, già in parte compromesso dall’attribuzione al giudice del potere di impedire l’avvio o l’ulteriore decorso della procedura a seguito di una valutazione negativa della fattibilità economica del piano concordatario.

Naturalmente non tutto è da buttar via; opportuna deve ritenersi, ad esempio, una prima disciplina organica delle crisi o delle insolvenze dei gruppi di società, il cui vuoto normativo era stato sin qui riempito dall’interpretazione e dalle prassi giurisprudenziali.

Peraltro molte riserve possono essere espresse per il modo stesso con il quale si è giunti all’approvazione finale in Senato della legge delega, con un’accelerazione forzata e inopportuna (probabilmente dettata solo da motivi di convenienze elettorali), eliminando con un colpo di spugna tutte le modifiche che erano state proposte in sede di Commissione e quelle suggerite da varie parti per migliorarne il testo e finendo così per implementare la confusione e il disorientamento degli operatori del diritto in un settore di disciplina tanto importante e delicato, soprattutto in un momento in cui ancora devono sedimentarsi indirizzi giurisprudenziali consolidati sulla riforma precedente e sui successivi (numerosi) interventi del legislatore.

Ciò che sorprende è che proprio (e particolarmente) l’istituto che ci occupa rischia di subire, ove si dia attuazione alla legge delega, una regressione (in termini di ragionevolezza e di fruibilità) verso un approdo persino deteriore rispetto a quello risultante dalla originaria disciplina del 1942; meglio dunque sarebbe lasciar decadere la legge delega e ripartire con un nuovo progetto, che – lungi dal contrastare la precedente e recente riforma (quella avviata a partire dal 2005) – si limiti a completarla, in direzione e nel rispetto dell’autonomia contrattuale del debitore e dei suoi creditori, cioè dei principali (ancorché non unici) portatori degli interessi meritevoli di tutela nella soluzione delle crisi d’impresa, che il giudice – garante della correttezza del procedimento – è chiamato ad agevolare nell’interesse generale dell’economia, non a contrastare.



[1] Il presente scritto è destinato agli Studi in memoria del Prof. Michele Sandulli.

[2] L’elenco completo è assai lungo, dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35 (pubblicato in G.U. del 16 marzo 2005, n. 62), convertito con modificazioni dalla l. 14 maggio 2005, n. 80 (pubblicata in G.U. del 14 maggio 2005, n. 111); poi al d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 (pubblicato in G.U. del 16 gennaio 2006, n. 12); al d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169 (pubblicato in G.U. del 16 ottobre 2007, n. 241); dal d.l. 31 maggio 2010, n. 78 (pubblicato in G.U. del 31 maggio 2010, n. 125), convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122 (pubblicata in G.U. del 30 luglio 2010, n. 176); al d.l. 22 giugno 2012, n. 83 (pubblicato in G.U. del 26 giugno 2012, n. 147), convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 2012, n. 134 (pubblicata in G.U. dell’11 agosto 2012, n. 187); al d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 (pubblicato in G.U. del 19 ottobre 2012, n. 245), convertito dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221 (pubblicata in G.U. del 18 dicembre 2012, n. 294); al d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (pubblicato in G.U. del 21 giugno 2013, n. 144), convertito con modificazioni dalla l. 9 agosto 2013, n. 98 (pubblicata in G.U. del 20 agosto 2013, n. 194), al d.l. 23 dicembre 2013, n. 145 (pubblicato in G.U. del 23 dicembre 2013, n. 300), convertito con modificazioni dalla l. 21 febbraio 2014, n. 9 (pubblicata in G.U. del 21 febbraio 2014 , n. 43); al d.l. 24 giugno 2014, n. 91 (pubblicato in G.U. del 24 giugno 2014, n. 144), convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 116 (pubblicata in G.U. 20 agosto 2014, n. 192), al d.l. 12 settembre 2014, n. 132 (pubblicato in G.U. del 12 settembre 2014, n. 212), convertito con modificazioni dalla l. 10 novembre 2014, n. 162 (pubblicata in G.U. del 10 novembre 2014, n. 261); al d.l. 27 giugno 2015, n. 83 (pubblicato in G.U. del 27 giugno 2015, n. 147), convertito con modificazioni dalla l. 6 agosto 2015, n. 132 (pubblicata in G.U. del 20 agosto 2015, n. 192), ai d.lgs. 16 novembre 2015, n. 180 e n. 181 (pubblicati in G.U. del 16 novembre 2015, n. 267); al d.lgs. 18 aprile 2016, n.50 (pubblicato in G.U. del 19 aprile 2016, n. 91) al d.l. 3 maggio 2016, n. 59 (pubblicato in G.U. del 3 maggio 2016, n. 102), convertito con modificazioni dalla l. 30 giugno 2016, n. 119 (pubblicata in G.U. del 2 luglio 2016, n. 153); al d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 (pubblicato in G.U. dell’8 settembre 2016, n. 210) alla l. 11 dicembre 2016, n. 232 (pubblicata in G.U. del 21 dicembre 2016, n. 297); al d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56 (pubblicato in G.U. del 5 maggio 2017, n. 103).

[3] Qui la letteratura è amplissima; mi limito pertanto a citare solo talune delle più recenti opere trattatistiche: FABIANI, Il concordato preventivo, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca-Galgano (a cura di De Nova), sub art. 2221, Bologna, 2014; AMBROSINI, Il concordato preventivo, in AA.VV. Le altre procedure concorsuali, in Trattato di diritto fallimentare, diretto da Vassalli-Luiso-Gabrielli, vol. IV, Torino, 2014; CENSONI, Il concordato preventivo, in Trattato delle procedure concorsuali (diretto da Jorio e Sassani), vol. IV, Milano, 2016, 1-452.

[4] Per i primi commenti sulla legge delega n. 155 del 2017 cfr. BENOCCI, Dal fallimento alla liquidazione giudiziale: rivoluzione culturale o make-up di regolamentazione?, in Giur. comm., 2017, I, 759 ss.; DE MATTEIS, I principi generali della legge delega di riforma delle procedure concorsuali, in Dir. fall., 2017, I,1291 ss.; LO CASCIO, La nuova legge delega sulle procedure concorsuali tra diritto ed economia, in Fallimento, 2017, 1253 ss.; TERRANOVA, Diritti soggettivi e attività d’impresa nelle procedure concorsuali, in Giur. comm., 2017, I, 669 ss.

Per altri commenti sul disegno di legge delega nel corso dei lavori parlamentari cfr. D’ATTORRE, Prime riflessioni sulla delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Riv. soc., 2017, 517 ss.; FABIANI, Di un ordinato ma timido disegno di legge delega sulla crisi d’impresa, in Fallimento, 2016, 261 ss.; JORIO, Su allerta e dintorni, in Giur. comm., 2016, I, 261 ss.; MEO, I soci e il risanamento. Riflessioni a margine dello Schema di legge-delega proposto dalla Commissione di riforma, in Giur. comm., 2016, I, 286 ss.

[5] Il testo è reperibile in alcuni siti internet: in particolare nel sito www.osservatorio-oci.org, ove si sottolinea, in effetti, che dette bozze sono ancora prive di una vera propria relazione articolo per articolo, in corso di redazione, e possono ancora contenere piccoli refusi o imprecisioni dovuti alla materiale attività di collazione dei testi.

[6] Oltre al differimento degli obblighi previsti in caso di riduzione del capitale sociale di s.p.a. o di s.r.l. per perdite e alla non operatività della relativa causa di scioglimento (art. 23.4).

[7] Sul tema qui menzionato cfr. anche FABIANI, Il delicato ruolo del professionista del debitore in crisi fra incerta prededuzione e rischio di inadempimento, in Giur. comm., 2017, I, 720 ss.

[8] Per i riferimenti normativi sul punto mi limito a richiamare BONFATTI, CENSONI, Lineamenti di diritto fallimentare, 2a ed., Milano. 2017, 351 ss.; e FIMMANO’, Concordato preventivo in continuità e contratti stipulati o da stipulare con la pubblica amministrazione, altro scritto destinato agli Studi in memoria del Prof. Michele Sandulli.

[9] Per ampi richiami sul punto cfr. FERRO, in La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico (a cura di Ferro) ² cit., sub art. 162, 1856 ss., ivi 1860 s.; FILOCAMO, in La legge fallimentare cit., 1963; PENTA, La revoca del concordato preventivo, in Fallimento, 2011, 735 ss., ivi 742 ss.; BOTTAI, Il processo di disintermediazione giudiziaria continua, ivi, 2011, 810 ss., spec. in nota 5.

[10] Cfr. CENSONI, Il concordato preventivo cit., 291 ss.

[11] In Fallimento, 2013, p. 149, con nota di FABIANI, La questione “fattibilità” del concordato preventivo e la lettura delle Sezioni Unite; ivi, 2013 (solo mass.), 279, con note di DE SANTIS, Causa “in concreto” della proposta di concordato preventivo e giudizio “permanente” di fattibilità del piano; PAGNI, Il controllo di fattibilità del piano di concordato dopo la sentenza 23 gennaio 2013, n. 1521: la prospettiva “funzionale” aperta dal richiamo alla “causa concreta”; DI MAJO, Il percorso “lungo” della fattibilità del piano proposto nel concordato; in Dir. fall., 2013, II, 1, con nota di DIDONE, Le Sezioni unite e la fattibilità del concordato preventivo; in Giur. comm., 2013, II, 333, con nota di CENSONI, I limiti del controllo giudiziale sulla “fattibilità” del concordato preventivo; ivi, 2013, II, 621, con nota di CIERVO, Fattibilità del piano di concordato e atti di frode: i poteri del giudice ex art. 173 l. fall secondo le Sezioni Unite; ivi, 2014, II, 443, con nota di C. ALESSI; in Riv. dir. comm., 2013, II, 189, con nota di TERRANOVA, La fattibilità del concordato.

[12] E infatti Cass., 9 marzo 2018, n.5825, sulla scia di Cass., 7 aprile 2017, n. 9061, in Fallimento, 2017, 923, con nota di TERENGHI, ha finito per ritenere sostanzialmente superata quella distinzione giudicata “astratta”.

[13] Come al contrario ha sorprendentemente fatto Cass. 9 marzo 2018, n. 5825 cit.

[14] Cfr. ad esempio Cass., 23 maggio 2008, n. 13419, in Fall., 2008, 1470; Cass., 10 febbraio 2006, n. 2972, ivi, 2006, 849; Cass., 23 novembre 1999, n. 12994, in Mass. Giur. it., 1999.

[15] Così Cass., 10 febbraio 2006, n. 2972 cit.

[16] In L’annullamento del concordato preventivo e la riscrittura dell’art. 186 l fall. ad opera della Suprema Corte: verso un diritto senza certezze, in Fallimento, 2017, 29 ss.


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