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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 25/04/2018 Scarica PDF

Concordato preventivo con continuità aziendale: problemi aperti in tema di perimetro applicativo e di miglior soddisfacimento dei creditori

Stefano Ambrosini, Professore ordinario di Diritto Commerciale nell'Università del Piemonte Orientale


Sommario: 1. Continuità aziendale versus liquidazione: spartiacque e ricadute applicative. – 2. Il rapporto fra regola ed eccezione e la disciplina applicabile al concordato con assunzione. – 3. Il rapporto fra generalità e specialità e lamoratoria ultrannuale dei crediti privilegiati tributari e contributivi. – 4. Cenni al problema del miglior soddisfacimento dei creditori in relazione ai cc.dd. scenari comparativi.

 

 

 

1. Continuità aziendale versus liquidazione: spartiacque e ricadute applicative

La legge fallimentare, com’è noto, non detta una vera e propria definizione del concordato in continuità[1], né, per vero, di quello liquidatorio: relativamente al primo, l’art. 186-bis (che non ha introdotto una nuova figura di concordato, avendo piuttosto regolato una delle possibili declinazioni della fattispecie[2]) prevede che la disciplina in esso contenuta si applichi tanto nel caso in cui l’attività d’impresa sia proseguita direttamente dal debitore, quanto in quello in cui il piano contempli la cessione dell’azienda in esercizio, o il suo conferimento in una o più società, anche di nuova costituzione[3]; con riguardo al secondo tipo di concordato, il primo comma dell’art. 182 stabilisce che trova applicazione una serie di previsioni – a cominciare dalla nomina giudiziale del liquidatore – se il concordato consiste nella cessione dei beni e non dispone diversamente (la norma, al quarto comma, menziona fra i beni oggetto di cessione anche le aziende e i rami di esse, senza precisare, a differenza dell’art. 186-bis, che devono essere “in esercizio”).

Il piano sul quale la legge colloca lo spartiacque fra le due tipologie in questione non è dunque di tipo strettamente definitorio, ma attiene alla diversa disciplina applicabile, rispettivamente, all’una e all’altra, lasciandosi in tal modo all’interprete l’individuazione dei criteri distintivi della continuità aziendale.

Ormai un lustro fa chi scrive aveva sostenuto che la formulazione dell’art. 186-bis rendesse sufficientemente perspicua l’adesione, da parte del legislatore, a un concetto di continuità in senso oggettivo[4]: ciò su cui il precetto mostra di appuntarsi è infatti l’azienda in esercizio, indipendentemente dalla circostanza che essa sia condotta dal debitore, o da soggetti diversi (cessionari o conferitari, come appunto esemplifica la norma). Di qui, fra l’altro, la riconducibilità dell’affitto di azienda stipulato anteriormente al deposito della domanda nel perimetro applicativo dell’art. 186-bis (fattispecie che va da tempo sotto il nome di continuità indiretta).

La tesi, inizialmente minoritaria soprattutto in giurisprudenza, ha riscosso progressiva fortuna e ha avuto modo di essere ribadita all’indomani della novella del 2015 sulla scorta del seguente (ulteriore) ragionamento: “non è ragionevole pensare che il legislatore della riforma non fosse edotto dell’annoso dibattito sulla riconducibilità all’art. 186-bis della c.d. continuità indiretta, sicché non sembra peregrino ipotizzare che, ove avesse voluto escluderla, ben avrebbe potuto parlare espressamente di “continuità aziendale diretta”. L’aver fatto invece riferimento al concordato “di cui all’articolo 186-bis”, che continua a menzionare, come possibile declinazione dell’istituto, la cessione dell’azienda in esercizio, sembra in qualche modo “portare ulteriore acqua” alla tesi che riconduce il caso del trasferimento di azienda nel perimetro applicativo della norma di cui trattasi, quand’anche la cessione sia preceduta da un contratto di affitto anteriore al concordato, contenente l’impegno dell’affittuario all’acquisto (ipotesi, quella in parola, non incompatibile con la parte di disciplina dell’art. 186-bis ad applicazione necessaria e non del tutto scevra da rischio d’impresa)”[5].

La validità della tesi ha trovato conferma, ormai sostanzialmente definitiva, nell’evoluzione della giurisprudenza di gran lunga prevalente, come dimostrano le linee guida dei principali tribunali[6]: tanto da essere recepita dalla legge delega per la riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza (legge 19 ottobre 2017, n. 155), il cui art. 2, 1° c., lett. g), chiarisce che la continuità aziendale può essere assicurata “anche tramite un diverso imprenditore, precisando, al successivo art. 6, 1° c., lett. i), n. 3), che le norme sul concordato in continuità si applicano “anche nei casi in cui l’azienda sia oggetto di contratto di affitto, anche se stipulato anteriormente alla domanda di concordato”[7].

Con ciò non si vuole annettere ai princìpi di delega una valenza propriamente interpretativa che essi, in mancanza di previsioni in tal senso (e senza che i relativi decreti delegati siano stati fin qui approvati), con ogni probabilità non hanno: ma non è un caso che la più recente giurisprudenza in materia valorizzi (anche) questo dato, osservando che “elemento qualificante del concordato in continuità - con conseguente applicazione, oltre che della disciplina generale di cui agli artt. 160 ss. L. Fall., dello statuto tipico di cui agli art. 186 bis ss. è - secondo l’orientamento condiviso dal Collegio, che appare peraltro in linea con i principi fissati nella legge 19 ottobre 2017 n. 155, di “Delega al Governo per la riforma delle discipline dalla crisi di impresa e dell’insolvenza” - l’elemento ‘oggettivo’ della previsione, nella proposta concordataria, della prosecuzione dell’attività di impresa, vuoi direttamente da parte del debitore, vuoi attraverso il meccanismo dell'affitto di azienda, finalizzato alla successiva cessione all'affittuaria o anche alla retrocessione al debitore dell’impresa risanata, o ancora, come pure testualmente previsto, ‘attraverso il conferimento dell’azienda in una o più società anche di nuova costituzione’”[8].

Discorso analogo vale, mutatis mutandis, per il c.d. affitto puro, quello cioè che non risulti prodromico alla cessione dell’azienda, ma alla sua semplice disclocazione in capo all’affittuario, con successiva retrocessione, durante la fase esecutiva del piano o al termine di essa, al debitore[9]. Non ha infatti senso annettere natura liquidatoria a tale fattispecie, nella quale il piano consente il ritorno in bonis dell’imprenditore addossando temporaneamente a terzi gli oneri e i rischi connessi alla conduzione diretta dell’attività, senza che vi sia, tendenzialmente, alcuna dismissione di cespiti aziendali (salva l’ipotesi di alienazione di beni non funzionali alla “riperimetrata” continuità, espressamente contemplata dall’art. 186-bis).

Detto ciò, deve peraltro osservarsi come sottrarre all’ambito applicativo del concordato liquidatorio – a cominciare dalla soglia percentuale di cui all’ultimo comma dell’art. 160 – tutto quello che è riconducibile al concetto di continuità in senso oggettivo non valga, di per sé, a risolvere l’ampio spettro dei problemi interpretativi, specie ove si ritenga possibile predicare una sorta di osmosi fra le differenti discipline.

E’ il caso di quanti affermano che debba farsi luogo alla nomina del liquidatore giudiziale (ancorché non prevista) con riferimento alla dismissione dei beni non strumentali alla continuità di cui alla seconda parte del primo comma dell’art. 186-bis; ovvero di quanti, con processo inverso, ritengono che il requisito del miglior soddisfacimento dei creditori prescritto in tema di concordato in continuità debba essere integrato anche nell’ipotesi di concordato liquidatorio. Si tratta di tentativi di applicazione “transtipica” che sembrano tuttavia trovare un ostacolo non facilmente sormontabile nel canone dell’interpretazione letterale.

Ed invero, nonostante il contrario avviso di autorevole (seppur minoritaria) giurisprudenza, che ha invocato fra l’altro l’intervenuto mutamento di rubrica dell’art. 182 (la quale dal 2015 recita, genericamente, “Cessioni”), deve rilevarsi che la nomina di un liquidatore ad opera del tribunale non è prevista dall’art. 186-bis, essendo stata ritenuta, verosimilmente, distonica rispetto a un piano la cui esecuzione appare volutamente connotata da un maggior grado di autonomia in capo al debitore; senza dire che la tesi in esame si pone in controtendenza rispetto all’obiettivo, valorizzato anche dalla recente proposta di Direttiva unionale, del contenimento dei costi complessivi della procedura.

Ancor più ardua risulta poi la trasposizione “forzosa” del requisito del miglior soddisfacimento dall’art. 186-bis all’ambito liquidatorio, dal momento che non vi è norma né principio che consenta, nel concordato con cessio bonorum, di sottrarre ai creditori la piena e discrezionale valutazione in ordine alla convenienza della soluzione concordataria, ben potendo essi optare, in ipotesi, per un loro minor soddisfacimento[10]. Ne consegue che l’attestatore di un piano liquidatorio non deve scrutinare la sussistenza di detto requisito, in quanto non prescritto né in via generale, né con specifico riguardo al concordato con cessione dei beni, ma solo, per l’appunto, relativamente al concordato in continuità.

   

2. Il rapporto fra regola ed eccezione e la disciplina applicabile al concordato con assunzione

Come si diceva, l’introduzione dell’art. 186-bis ad opera della novella del 2012 ha posto, fra gli altri, il problema di instaurare correttamente il rapporto regola/eccezione con riguardo alle due tipologie concordatarie in esame. Ed è apparso chiaro come le disposizioni sulla continuità aziendale (piano e attestazione “rafforzati”, divieto di moratoria ultrannuale per i privilegiati, pagabilità di debiti pregressi ove essenziali alla prosecuzione dell’attività, ecc.) avessero valenza derogatoria rispetto alla disciplina di diritto comune, applicabile invece per intero ai concordati liquidatori.

La questione si è in un certo senso riproposta all’indomani dell’introduzione, nel 2015, della soglia di soddisfacimento minimo dei chirografari, fissata al 20% dall’ultimo comma dell’art. 160, dovendosi appurare se essa sia destinata ad operare per i soli concordati liquidatori, oppure in via generale con la sola eccezione del concordato in continuità.

Ad avviso di chi scrive, sono due gli argomenti fondatamente invocabili a sostegno della seconda soluzione: in primo luogo, la collocazione del precetto all’interno della norma generale per eccellenza in materia di concordato, quella con cui – come esordio del capo I del titolo III della legge – si disciplinano i presupposti per l’ammissione alla procedura; in secondo luogo, e in modo ancor più decisivo, la sua formulazione letterale, in base alla quale la disposizione in parola “non si applica al concordato con continuità aziendale di cui all’articolo 186-bis”. Non dunque, come prima facie potrebbe ritenersi, una norma dettata in via esclusiva per il concordato liquidatorio, ma per ogni tipo di concordato, ad eccezione di quello “tipizzato” dall’art. 186-bis: donde la conferma del carattere eccezionale del regime sancito per il concordato in continuità e l’applicabilità della previsione, in linea di principio, a tutte le situazioni esterne al perimetro dell’art. 186-bis.

Se l’assunto che precede non appare agevolmente controvertibile, occorre nondimeno verificarne la tenuta con riguardo a fattispecie non riducibili sic et simpliciter alla dicotomia continuità/liquidazione. E la miglior “cartina di tornasole” sembra essere rappresentata, da questo punto di vista, dal concordato con assunzione, contemplato bensì alla lett. b) del primo comma dell’art. 160, ma non disciplinato da essa né da altre disposizioni, se non limitatamente all’ipotesi di liberazione immediata del debitore, che ai sensi dell’ult. cpv. dell’art. 186 preclude la risoluzione pur al cospetto dell’inadempimento dell’assuntore.

Ora, stando a quanto poc’anzi osservato, il concordato con assunzione, non essendo menzionato dall’art. 186-bis, dovrebbe rientrare, a tutta prima, nell’ambito di operatività dell’ultimo comma dell’art. 160. In realtà, ai fini che ci occupano non sembra possibile prescindere dal contenuto del piano elaborato dall’assuntore: dal momento che, come si diceva in precedenza, ciò che conta è la continuità in senso oggettivo (vale a dire che l’azienda di cui trattasi sia in esercizio), non ha senso qualificare come liquidatorio un piano che preveda la prosecuzione dell’attività d’impresa, seppur da parte del terzo anziché del debitore stesso. Specularmente, ove il piano dell’assuntore contemplasse la dismissione dei cespiti acquisiti dal debitore, ci troveremmo in presenza di un concordato con cessione dei beni, anche se l’attività liquidatoria non viene svolta, in una fattispecie del genere, direttamente dal debitore.

Così determinata per relationem la natura del piano di concordato, la relativa domanda risulta ammissibile quand’anche sia stato previsto un soddisfacimento dei creditori chirografari inferiore al 20%, a condizione, per l’appunto, che la proposta dell’assuntore sia basata sulla continuità aziendale. Sotto questo profilo, dunque, un concordato con assunzione siffatto si pone come eccezione alla regola della soglia minima ex art. 160, u.c.

Non a caso, nel medesimo senso si è espressa la più recente e avvertita giurisprudenza, la quale ha disposto l’ammissione al concordato di un’impresa che prospettava ai creditori chirografari percentuali di soddisfacimento ben inferiori al 20%[11].

Altra, non meno rilevante, questione attiene all’applicazione dell’art. 163-bis al concordato con assunzione.

Fermandosi alla formulazione della norma, non pare che la gamma di obblighi propri dell’assuntore sia agevolmente riconducibile al presupposto di cui al primo comma dell’art. 163-bis. La proposta di concordato basata sull’impegno di un assuntore risulta infatti, per via dello spettro onnicomprensivo che la caratterizza, diversa dal piano che comprende un’offerta avente ad oggetto il trasferimento, anche prima dell’omologazione, dell’azienda, di rami di essa o di specifici beni[12].

Va nondimeno rilevato che altra giurisprudenza, comprensibilmente preoccupata (stanti le peculiarità del caso concreto) di scongiurare strategie elusive dell’obbligo di procedura competitiva, ha di contro ritenuto che anche il concordato con assunzione è soggetto “alla disciplina dell'art. 163 bis. L.f., norma questa inderogabile che trova applicazione in ogni tipo di concordato”[13].

A seconda, quindi, che si ponga l’accento sulla differenza “ontologica” fra l’assunzione e l’offerta di acquisto ex art. 163-bis (tesi per la quale lo scrivente non nasconde la propria preferenza), ovvero sul fatto che la regola in esso contenuta integri un principio – quello della competitività – di carattere generale e inderogabile, la relativa disciplina viene ritenuta ad applicazione necessaria o meno al caso di concordato con assunzione.

   

3. Il rapporto fra generalità e specialità e la moratoria ultrannuale dei crediti privilegiati tributari e contributivi

Il tema della moratoria ultrannuale dei crediti privilegiati nel concordato in continuità è stato indubbiamente fra i più dibattuti degli ultimi anni. A fronte dell’opinione, prevalente in dottrina, incline a consentire il superamento del termine di cui all’art. 186-bis, 2° comma, lett. c), l. fall., attraverso l’attribuzione del diritto di voto in capo ai privilegiati riscadenziati oltre l’anno[14], la maggioranza dei giudici di merito ha invece ritenuto trattarsi di un divieto e non già di un semplice limite[15], da osservarsi tutte le volte in cui il debitore non abbia stipulato patti paraconcordatari in deroga ad esso[16].

Un caso particolare è tuttavia rappresentato dai crediti privilegiati di natura erariale e contributiva, cui è dedicato il disposto dell’art. 182-ter, di recente novellato ad opera della legge n. 232 dell’11 dicembre 2016.

Anche dal tenore di tale disciplina, infatti, alcuni ricavano la possibilità che i titolari di siffatti crediti siano, nella proposta concordataria, riscadenziati oltre l’anno e che la loro adesione a ciò avvenga non già con la necessaria previa sottoscrizione del patto paraconcordatario, bensì attraverso la semplice espressione del voto favorevole.

Questo assunto pare inoltre fondarsi, quanto meno implicitamente, sul carattere speciale dell’art. 182-ter rispetto alla norma generale di cui all’art. 186-bis, 2° comma, lett. c), l. fall., avendo il legislatore previsto un trattamento ad hoc per i crediti erariali e contributivi (utilizzando come criterio distintivo, beninteso, quello relativo alla natura del credito, in base al quale i crediti in questione costituiscono un sottoinsieme di quelli privilegiati).

Considerando la fattispecie da un diverso angolo visuale, tuttavia, la prospettiva risulta capovolta, a conferma della valenza anfibologica del criterio generalità/specialità: il rapporto di genus a species viene ravvisato, secondo questa diversa impostazione, fra la norma sul trattamento dei crediti tributari e contributivi e quella sul concordato in continuità, annettendo a quest’ultima il carattere della specialità, in quanto derogatoria del regime di “diritto comune” in materia concordataria.

E in questo senso si è da ultimo espresso il Tribunale di Roma, affermando che “la previsione dell'art. 182 ter I. fall., nella versione novellata attualmente vigente, costituisce la disciplina di carattere generale relativa al trattamento dei debiti di natura tributaria e contributiva suscettivi di integrale adempimento nell'ambito delle procedura concordatarie e per i quali la possibilità di un loro pagamento che devii dalla regola generale (ossia totale ed immediato all'esito dell'omologa) è subordinato alla predisposizione della proposta di transazione. Tale disciplina generale, deve, però, poi compararsi e coordinarsi con quelle speciali tipicamente apprestate per singole e specifiche forme concordatarie e, tra esse, quella del 'concordato con continuità aziendale', ex art. 186 bis, comma 2, lett. c), legge fallimentare, che limita ad un anno la possibilità di dilazione del debito assistito da prelazione. Trattandosi, questa appena citata, di norma speciale, deve escludersene, da parte della generale (ex art. 182 ter I. fall.) la possibilità di deroga, e ciò in applicazione dei canoni interpretativi previsti dall'art. 14 delle 'disposizioni sulla legge in generale' del codice civile”[17].

Orbene, il fatto che entrambe le tesi abbiano, manco a dirlo, “diritto di cittadinanza” genera un problema di eterogeneità di prassi applicative e, conseguentemente, di grave incertezza per gli operatori, cui andrebbe posto rimedio in sede legislativa.

Non può sottacersi, peraltro, come rispetto alla tesi da ultimo adottata dalla giurisprudenza romana costituisca un aspetto problematico, a tacer d’altro, l’oggettiva difficoltà di ordine pratico, per soggetti come l’Erario o l’INPS, di aderire a un accordo paraconcordatario prima che proposta e piano siano stati scrutinati dal tribunale e dal commissario giudiziale, anche alla luce di possibili profili di responsabilità erariale. E pur trattandosi di semplice (ma non trascurabile) argumentum ab inconvenienti, ciò potrebbe rendere preferibile considerare l’accordo con detti enti alla stregua di una condizione di omologabilità, piuttosto che di ammissibilità, del concordato.

       

4. Cenni al problema del miglior soddisfacimento dei creditori in relazione ai cc.dd. scenari comparativi

In tema di raffronto tra opzione concordataria e alternativa fallimentare, occorre anzitutto domandarsi quale sia il termine di paragone implicitamente assunto dall’art. 186-bis, laddove questo richiede, alla lettera b) del secondo comma, che venga attestata la funzionalità della prosecuzione dell’attività d’impresa al miglior soddisfacimento dei creditori (sottinteso: rispetto alle alternative concretamente praticabili, mutuando la terminologia utilizzata dal quarto comma dell’art. 180 relativamente al c.d. cram down).

Sul punto, non sembrano esservi soverchi dubbi circa il fatto che l’alternativa da prendere in considerazione sia rappresentata esclusivamente dal fallimento, mentre non rilevano altre, ipotetiche, modalità di soluzione negoziata della crisi (tipicamente, il concordato liquidatorio), in quanto concretamente non volute dall’unico soggetto – il debitore – cui spetta la decisione in proposito.

Ciò detto, bisogna appurare quale scenario, nell’ipotesi fallimentare, debba essere reso oggetto di simulazione per poter effettuare in modo corretto la comparazione fra le due alternative.

Rispetto al concordato in continuità (diretta o indiretta), la situazione che l’attestatore deve prendere in esame nel caso di fallimento è quella della cessione dell’azienda all’esito di procedura competitiva, vale a dire ciò che la legge, all’art. 105, prevede come ipotesi “naturale”.

Non pare invece possibile richiedere all’attestatore di simulare gli effetti di scenari non solo puramente eventuali, ma anche dipendenti da specifiche iniziative e autorizzazioni degli organi della procedura, com’è a dirsi, ad esempio, dell’esercizio provvisorio dell’impresa, o della c.d. derelictio.

Ed invero, nel primo caso, si tratta di una facoltà del tribunale, subordinata, al momento della declaratoria di fallimento, alla verifica di determinate condizioni e, successivamente, alla circostanza che il giudice delegato accolga la proposta formulata in tal senso dal curatore e che il comitato dei creditori si esprima favorevolmente e non ne ritenga poi opportuna la cessazione (art. 104); nel secondo caso, la rinuncia ad acquisire all’attivo o a liquidare uno o più beni dipende dalla valutazione del curatore circa la manifesta non convenienza dell’attività di liquidazione e dalla necessaria autorizzazione del comitato dei creditori (art. 104-ter, 8° c.): situazioni, queste, che non risultano realisticamente pronosticabili ex ante da parte dell’attestatore, a meno di presupporre il possesso di autentiche virtù divinatorie.

Altra questione delicata e rilevante sul piano applicativo riguarda il contenuto dello scrutinio in ordine al miglior soddisfacimento dei creditori rispetto alle azioni che un ipotetico curatore potrebbe promuovere nello scenario fallimentare: ci si chiede infatti se tale verifica possa limitarsi, sotto il profilo che ci occupa, a una descrizione, pur non eccessivamente succinta, delle iniziative eventualmente esperibili (soprattutto le azioni di responsabilità e le revocatorie fallimentari) e a una individuazione di massima delle utilità da esse eventualmente ritraibili; o se invece il debitore – e ancor più l’attestatore – siano tenuti a svolgere, in buona sostanza, la stessa attività che in questi casi compete al curatore fallimentare.

Al fine di fornire risposta all’interrogativo, va considerato che il legislatore, quando nel 2015 ha affrontato la questione, aveva di fronte a sé diverse possibilità: (i) addossare l’onere in questione al debitore, integrando di conseguenza la norma sul contenuto della domanda; (ii) annoverare l’indagine di cui trattasi fra i compiti dell’attestatore, integrando il disposto della relativa previsione; (iii) attribuire il compito di effettuare detta verifica al commissario giudiziale all’atto di redigere la relazione ex art. 172.

Com’è noto, la scelta è caduta su quest’ultima opzione: il novellato testo dell’art. 172 stabilisce infatti che “il commissario deve illustrare le utilità che, in caso di fallimento, possono essere apportate alle azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie che potrebbero essere promosse nei confronti di terzi”.

La relazione commissariale, che per definizione segue al provvedimento di ammissione alla procedura, costituisce quindi la sede elettiva degli accertamenti richiesti dalla novella del 2015, che per la prima volta ha previsto gli adempimenti in parola, onerandone espressamente il commissario giudiziale.

Né un’attività siffatta poteva in precedenza considerarsi implicita nello scrutinio circa il miglior soddisfacimento dei creditori di cui all’art. 186-bis, come si evince, a ben vedere più efficacemente ancora di ogni altra possibile argomentazione, dalla dimostrazione in via apagogica, la quale poggia sulla circostanza, per vero incontestabile, che nel decennio 2005-2015 non si è avuta notizia di alcuna declaratoria di inammissibilità del concordato incentrata sull’omessa analisi, da parte del debitore o dell’attestatore, dell’ipotetico ricavato dall’esperimento delle azioni risarcitorie, recuperatorie e revocatorie in caso di fallimento: ciò che invece sarebbe stato lecito attendersi se fosse stato effettivamente possibile evincere il requisito in parola dal solo disposto dell’art. 186-bis.

Tornando alla disciplina odierna, conviene esaminare in primo luogo, dal punto di vista che ci occupa, il contenuto della domanda di concordato.

Orbene, ferma la necessità di fornire una corretta rappresentazione dei fatti e di rivelare eventuali atti di frode idonei a incidere sulla formazione del consenso dei creditori, non sembra sia onere del debitore trarre ipotetiche conseguenze sotto il profilo dell’esperibilità di rimedi risarcitori nei confronti dei propri amministratori (o degli amministratori di altre società del gruppo). E ciò anche in considerazione del fatto che, ogniqualvolta essi fossero ancora in carica al momento della presentazione della domanda (come sovente accade), si finirebbe per addossare a chi deve curarne i contenuti il compito di vagliare la propria eventuale responsabilità, se del caso imponendo una vera e propria confessione, in palese violazione del principio – sancito anche dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo – nemo tenetur se detegere[18].

D’altronde, il ricorrente non ha di regola la possibilità di procedere, contestualmente alla – già di per sé complessa – predisposizione del piano e della proposta di concordato, all’effettuazione di tutte le penetranti indagini che attengono all’attenta valutazione non solo dell’astratta esperibilità dell’azione (la quale presuppone l’individuazione delle singole condotte contra legem, nonché del danno a esse eziologicamente riconducibile), ma anche dei risultati ai quali il suo concreto esperimento potrebbe ragionevolmente condurre, con conseguente necessità di dare corso ad approfondite e laboriose investigazioni circa la reale consistenza patrimoniale dei presunti responsabili, nonché di soppesare la forza delle loro possibili eccezioni, a cominciare da quelle afferenti alla business judgment rule e alla prescrizione dell’azione.

Non a caso, la circostanza che il ridetto art. 172, con formulazione assai perspicua, assegni al commissario – si ripete – il compito di indagare sui presupposti per l’esperimento dell’azione di responsabilità e che questi debba farlo nella menzionata relazione di cui all’art. 172 l. fall. costituisce conferma (proveniente direttamente dal dettato normativo), da un lato, che le valutazioni circa i profili di responsabilità devono – e possono – essere svolte funditus solo successivamente all’ammissione al concordato; dall’altro, che il soggetto preposto all’analitica ricostruzione di questo profilo non è – né, come detto, potrebbe essere – il debitore, bensì, per l’appunto il commissario, il quale risulta peraltro legittimato all’esperimento delle azioni di responsabilità, quantomeno nelle fattispecie espressamente previste dall’art. 240 l. fall., quando non – secondo un certo orientamento, pur controverso (ed invero controvertibile) – in via addirittura generale[19].

Ne consegue che l’analitico esame della questione delle azioni di responsabilità (e di quelle revocatorie) non rappresenta certamente un contenuto necessario del ricorso per l’ammissione al concordato.

Discorso in parte diverso vale per l’attestatore. Questi infatti non può esimersi, al fine di verificare il miglior soddisfacimento dei creditori, dal prendere in considerazione l’alternativa fallimentare e con essa le utilità ipoteticamente ricavabili dalle azioni di cui trattasi. Egli tuttavia non può considerarsi tenuto, in mancanza di una disposizione normativa in tal senso, a enucleare partitamente “le azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie da esercitarsi ed il loro possibile esito”, come recita invece testualmente l’art. 104 ter, 2° c., lett. c), a proposito del programma di liquidazione, pena l’obbligo – non prescritto, né evincibile in via interpretativa – di svolgere la stessa attività propria del curatore fallimentare.

Piuttosto, affinché il requisito del miglior soddisfacimento dei creditori risulti adeguatamente scrutinato, l’attestatore deve farsi carico di – e può limitarsi a – constatare, prima facie, la verosimile assenza (i) di pagamenti revocabili tali da rendere ictu oculi preferibile l’alternativa fallimentare e (ii) di atti di mala gestio che siano, ad un tempo, eclatanti e riferibili a soggetti patrimonialmente in grado di ristorare il danno in una misura che, tenuto conto del restante attivo nello scenario fallimentare (e dell’eventuale minor passivo in quello concordatario), appaia complessivamente superiore al livello di soddisfacimento stimabile nell’ipotesi di concordato; sempre che, beninteso, non si tratti di ipotesi rientranti nel perimetro dell’art. 240, stante in tal caso la legittimazione del commissario giudiziale a costituirsi parte civile allo stesso modo del curatore.

Ove poi il commissario giudiziale, in sede di redazione della relazione ex art. 172, dimostri, al contrario, la sicura presenza di almeno uno dei suddetti elementi, ciò può costituire causa di arresto della procedura (e non già di inammissibilità originaria della domanda), perché solo a quel punto il tribunale è in grado, precisamente a seguito delle verifiche che lo stesso art. 172 pone in capo al commissario, di valutare l’inadeguatezza dell’attività dell’attestatore; e ciò anche in dipendenza del fatto che la nomina del commissario nella fase “in bianco” e la redazione della c.d. preopinion (nonché, a ben vedere, lo stesso deposito del ricorso di cui all’art. 161, 6° c.) costituiscono situazioni puramente eventuali.



[1] Di “definizione” parla per vero Censoni, Il concordato preventivo, in Trattato delle procedure concorsuali, diretto da Jorio e Sassani, IV, Milano, 2016, p. 170, ma - par di capire - in senso atecnico.

[2] Cfr. Stanghellini, Il concordato con continuità aziendale, in Fallimento, 2013, p. 1225, il quale osserva che il legislatore si è limitato “ad introdurre adattamenti allorché in pendenza della procedura di concordato vi sia esercizio dell’attività d’impresa e tale esercizio divenga parte del piano”; precisando poi che si tratta di norma ad applicazione necessaria (il debitore può “scegliere se mettere o meno in atto la fattispecie-continuità aziendale, ma se la scelta è nel senso della continuità la disciplina applicabile è quella dell’art. 186 bis”).

[3] Sembra allora preferibile parlare di “nozione”: e v. infatti Fabiani, Concordato preventivo, in Commentario Scialoja-Branca-Galgano al codice civile, Bologna, 2014, p. 194: “La nozione di continuità aziendale utilizzata dal legislatore è spuria e ambigua in quanto sono accomunate al medesimo destino sia quelle imprese in cui l’azienda viene trasferita (o conferita) a terzi sia quelle in cui l’attività resta in capo al medesimo imprenditore”.

[4] Ambrosini, Appunti in tema di concordato con continuità aziendale, in ilcaso.it, 2013, p. 9. Precisa giustamente, in proposito, Casa, Controversie teoriche e discussione pratiche sull’art. 186 bis l. fall., in Fallimento, 2013, pp. 1383 e ss., che in ogni caso la riconducibilità della fattispecie all’art. 186-bis dovrebbe passare non dalla predeterminazione delle qualificazioni giuridiche suggerite dal debitore, ma dal contenuto stesso del piano concordatario, che determina la natura del concordato (liquidatorio e/o in continuità). Per la tesi, oggi sostanzialmente superata, dell’impossibilità di applicare l’art. 186-bis all’affitto d’azienda ove stipulato prima del deposito della domanda di concordato v. invece Stanghellini, Il concordato con continuità aziendale, cit., p. 1231.

[5] Ambrosini, Il nuovo diritto della crisi d’impresa: l. 132/15 e prossima riforma organica. Disciplina, problemi, materiali, Bologna, 2016,pp. 87-88. A conclusioni sostanzialmente analoghe perviene Arato, Questioni controverse nel concordato preventivo con continuità aziendale: il conferimento e l’affitto d’azienda, il pagamento ultrannuale dei creditori privilegiati, l’uscita dalla procedura, in Ilcaso.it., 2016.

[6] Tribunale fallimentare di Roma, Linee guida in ordine a talune questioni controverse della procedura di concordato preventivo, in Ilfallimentarista.it, 6 maggio 2016, pp. 3-4; e si vedano altresì le Linee guida interpretative su alcuni profili della L. 132/2015, adottate da vari altri tribunali e pubblicate anch’esse in Ilfallimentarista.it, 17 maggio 2016, pp. 3-4.

[7] E la bozza di decreto delegato varata alla fine del 2017 recita, all’art. 89, 2° c.: “La continuità può essere diretta, in capo all’imprenditore che ha presentato la domanda di concordato, ovvero indiretta, in caso sia prevista la gestione dell’azienda in esercizio in capo a soggetto diverso dal debitore in forza di cessione, usufrutto, affitto, stipulato anche anteriormente alla presentazione del ricorso, conferimento dell’azienda in una o più società, anche di nuova costituzione, o a qualunque altro titolo”.

[8] Trib. Rimini, 9 novembre 2017, in Ilcaso.it.

[9] In questo senso, da ultimo, Trib. Rimini, 9 novembre 2017, cit., dove si precisa che anche l’affitto “puro” può rappresentare una forma di continuità (che, ad avviso di chi scrive, risulta totalmente o parzialmente indiretta a seconda che la restituzione al debitore dell’azienda risanata avvenga al termine dell’esecuzione del piano, ovvero in un momento anteriore).

[10] In realtà, in un obiter dictum di Cass., 19 febbraio 2016, n. 3324, in Fallimento, 2016, p. 791, si legge che “il criterio della “migliore soddisfazione dei creditori” (solo di recente espressamente codificato, sempre con specifico riguardo al concordato con continuità aziendale, oltre che nel già citata L. Fall., art. 182 quinquies, comma 4, anche nel comma 1, del medesimo articolo, nonchè nell'art. 186 bis), individua, come autorevolmente sostenuto in dottrina, una sorta di clausola generale applicabile in via analogica a tutte le tipologie di concordato (ivi compreso quello meramente liquidatorio, mediante cessione dei beni aziendali […]), quale regola di scrutinio della legittimità degli atti compiuti dal debitore ammesso alla procedura.” (il riferimento dottrinale è probabilmente a Patti, Il miglior soddisfacimento dei creditori: una clausola generale per il concordato preventivo?, in Fallimento, 2013, p. 1107). Nondimeno, deve ritenersi che un concordato meramente liquidatorio sia ancora oggi del tutto ammissibile “se (superata la soglia della soddisfazione da “assicurare” ai creditori chirografari ai sensi dell’art. 160, ultimo comma, l.fall.) la proposta concordataria possa risultare meno “soddisfacente” di quanto non potrebbe fare un’alternativa liquidazione fallimentare, riducendosi siffatto confronto ad una questione di mera convenienza, quindi rimessa alla sola valutazione del ceto creditorio” (così Rossi, Il miglior soddisfacimento dei creditori (quattro tesi), in Fallimento, 2016, p. 646, il quale, ponendo in evidenza il fatto che la pronuncia in esame si riferisce alla violazione del divieto di atti non autorizzati di straordinaria amministrazione, soggiunge che “nei termini esposti dalla Suprema Corte, tuttavia, la “clausola generale” vale per giudicare di un atto di gestione, non di un’attività e men che meno di un piano liquidatorio” (ibidem). Sembra dunque corretto ritenere che quello testé citato non costituisca un precedente esattamente in termini (ferma la non condivisione, anche da parte di chi scrive, della portata generale dell’assunto formulato dalla Cassazione).

[11] Trib. Milano, 15 giugno 2017, ric. Italtrading SpA in liquidazione, inedito; Id., 28 dicembre 2017, ric. Waste Italia SpA, inedito.

[12] Secondo il Trib. Milano, 15 giugno 2017, cit., il concordato con assuntore “non comporta la sottoposizione della acquisizione del patrimonio a procedure competitive di cui al 163 bis e/o al 182 l.f. ispirate alla logica di cui agli artt. 107 e ss l.f., poiché si reputa che tale effetto di legge sia escluso concettualmente dalla figura dell’assuntore che non si limita ad acquistare il patrimonio ad un determinato corrispettivo, ma diviene il successore e sostituto del debitore liberato, assumendone, quindi, non solo la posizione attiva ma anche quella passiva (condizione che non è equiparabile a quella di nessun acquirente di beni all’interno della legge fallimentare)”.

[13] Trib. Alessandria, 14 dicembre 2017, in Ilcaso.it.

[14] Ambrosini, Il concordato preventivo, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto da Vassalli-Luiso-Gabrielli, Torino, 2014, p. 122; Arato, Questioni controverse nel concordato preventivo con continuità aziendale: il conferimento e l’affitto d’azienda, il pagamento ultrannuale dei creditori privilegiati, l’uscita dalla procedura, cit., pp. 18-19. Tale impostazione risulta accolta dalla legge delega per la riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza, se è vero che all’art. 6, 1° c., lett. i), n. 1), della legge 19 ottobre 2017, n. 155, si ammette espressamente che “il piano possa contenere, salvo che sia programmata la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, una moratoria per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca per un periodo di tempo anche superiore ad un anno, riconoscendo in tal caso ai predetti creditori il diritto di voto”.

[15] Trib. Monza, 26 settembre 2014, in ilcaso.it; Trib. Marsala, 5 febbraio 2014, in ilcaso.it; Trib. Padova, 4 dicembre 2013, ilcaso.it; Trib. Padova, 30 maggio 2013, in Fallimento, 2014, p. 445.

[16] Meritevole di ulteriore approfondimento è poi l’aspetto relativo al momento in cui il patto deve perfezionarsi, a seconda che lo si consideri alla stregua di una condizione di ammissibilità, ovvero di omologabilità, giacché in questo secondo caso la domanda dovrebbe ritenersi (inizialmente) ammissibile, salvo prendere atto della sua (successiva) improseguibilità per via della mancata stipulazione degli accordi paraconcordatari prima dell’udienza di omologazione. Nel primo senso si sono espressi, tra gli altri, Trib. Rovigo, 24 maggio 2016, in Fallimento, 2017, p. 1333, con commento di Aiello, Il c.d. “patto para-concordatario”: appunti per la ricostruzione della fattispecie; Trib. Torino, 19 ottobre 2017, ric. Sei Energia s.p.a., inedito e Trib. Roma, 22 dicembre 2017, ric. Gruppo Bonifaci s.r.l., inedito. In dottrina, fra i primissimi contributi specificamente dedicati a siffatti accordi sia consentito richiamare Ambrosini, Concordato preventivo e autonomia privata: i cc. dd. patti paraconcordatari, in Ilcaso.it, 2016.

[17] Trib. Roma, 22 dicembre 2017, ric. Gruppo Bonifaci s.r.l., inedito.

[18] Per un approfondimento sul punto cfr., tra gli altri, La Croce, La “confessio” salvifica degli atti in frode ai creditori. Un equivoco pericoloso, denso di antinomie, contrasti costituzionali e violazioni Cedu, in Fallimento, 2015, pp. 304 ss.

[19] Sul tema v., in luogo di altri e per ulteriori riferimenti, Fabiani, Le azioni di responsabilità dei creditori sociali e le altre azioni sostitutive, Milano, 2015, pp. 142 ss.


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