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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 16/10/2018 Scarica PDF

Verso l'equità correttiva generalizzata?

Michelangelo Ortore, Avvocato in Bolzano


(nota critica a Trib. Treviso, 8 ottobre 2018)[1]


 

Sommario: 1. Sintesi del caso di specie. – 2. I principi (superficialmente) evocati dal Tribunale. – 3. Il precedente (non richiamato) di Corte Cost. 77/2014 e 248/2013. – 4. La soluzione del caso.


   

1. Un avvocato ha chiesto ed ottenuto decreto ingiuntivo nei confronti di un cliente moroso, col quale aveva espressamente pattuito il compenso, sia per il primo grado, già concluso, sia per il successivo grado di appello.

Il cliente ha proposto opposizione, non contestando quanto dovuto per il primo grado, ma adducendo, quanto all’appello, di aver revocato il mandato due giorni dopo il suo conferimento, sicché l’avvocato non poteva aver maturato la fase di studio oggetto della domanda. In subordine, il cliente ha chiesto di determinare il compenso per tale fase sulla base del tariffario allegato al D.M. 55/2014.

Il Giudice dell’opposizione, in linea di fatto, ha accertato che l’incarico per l’appello era stato conferito in data 6.7.2016, che il termine per l’appello scadeva il 14.7.2016 e che la revoca al mandato era intevenuta il 9.7.2016. Quindi, senza ulteriore istruttoria, ha ritenuto che, stante l’imminente scadenza del termine di impugnazione, uno studio della controversia c’era senz’altro stato, ma propedeutico e incompleto, posto che, in assenza di revoca del mandato, sarebbe proseguito fino al deposito dell’impugnazione.

Ciò ritenuto in fatto, in linea di diritto il Tribunale ha così motivato:

- il compenso pattuito per la fase di studio risulta superiore alla media tariffaria, ma, in quanto pattuito tra le parti, ai sensi dell’art. 2233 c.c. il Giudice non può liquidarlo in base alla tariffa;

- tuttavia, in ragione delle tempistiche rilevate in fatto, l’importo convenuto dalle parti va ritenuto “manifestamente eccessivo”, sicché il Giudice ha il potere di ridurlo; infatti, l’elaborazione giurisprudenziale sull’art. 1384 c.c. e in materia di buona fede contrattuale rendono “immanente al nostro ordinamento un principio secondo cui, pur nel rispetto dell’art. 1322 c.c., viene attribuito al giudice un potere di controllo sulle pattuizioni delle parti, nell’interesse generale dell’ordinamento, al fine di evitare che l’autonomia contrattuale travalichi i limiti entro cui appare meritevole di tutela”.

In conclusione, il Tribunale ha ridotto il compenso per la fase di studio in appello a € 1.250,00.

 

2. Il Tribunale di Treviso, nel decidere una controversia piuttosto banale - anche, come vedremo, in quella che avrebbe dovuto essere la sua corretta soluzione – ha evocato alcuni tra i principi fondamentali del nostro ordinamento civilistico: l’equità, l’autonomia negoziale, la buona fede.

Principi, incardinati in clausole generali, la cui intrinseca forza espansiva e idoneità a permeare ogni ambito del diritto delle obbligazioni rappresentano da decenni uno dei principali stimoli dell’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale.

Ma tali principi, proprio in virtù della loro centralità e della loro forza, andrebbero trattati con cautela e approfondimento, non affastellati l’uno sull’altro, tanto da confondersi e finire per assumere un significato complessivo addirittura contra ius: quello, come anticipato nel titolo, del possibile ricorso ad una “equità correttiva generalizzata”.

Non è possibile, in queste poche righe, trattare in linea generale e astratta i predetti principi, neppure in forma sintetica o riassuntiva.

E’ possibile e doveroso, invece, intervenire in senso critico sull’interpretazione e sull’impiego che di essi ha fatto il Tribunale di Treviso nel caso in commento.

Anzitutto, balza agli occhi l’errore prospettico del ragionamento, che prende le mosse da una norma eccezionale e la declina quale corollario del principio generale del quale costituisce, invece, eccezione.

La norma eccezionale è rappresentata dal potere di riduzione ad equità della clausola penale manifestamente eccessiva, ai sensi dell’art. 1384 c.c.. Il principio generale è invece quello dell’autonomia privata negoziale di cui all’art. 1322, comma 1, c.c..

La prima non concorre a interpretare la seconda in chiave di sussistenza di un pervasivo potere di controllo giurisdizionale della libertà negoziale, volto a garantire l’equità o la proporzionalità[2] delle prestazioni in un rapporto sinallagmatico.

E’ pressoché indiscusso, in dottrina e giurisprudenza, che il potere di riduzione ad equità della clausola penale rappresenti un’eccezione alla regola della libera determinazione del contenuto contrattuale da parte dell’autonomia privata, la quale è soggetta ai soli “limiti imposti dalla legge” (art. 1322, comma 1, c.c.)[3]. E tali limiti sono essenzialmente quelli dettati dal rispetto delle norme imperative e inderogabili, sia in termini di nullità di carattere generale, sia in termini di specifica salvaguardia normativa di alcune categorie di soggetti ritenuti “deboli” (quali, ad esempio, i consumatori o i lavoratori dipendenti).

Né è dato confondere, come ha fatto il Trinunale, i due commi dell’art. 1322 c.c., posto che il criterio della “meritevolezza”, evocato dal secondo comma, attiene propriamente al piano della validazione della contrattazione atipica, laddove i tipi legali sono tutti, per definizione, meritevoli[4]. All’interno dei tipi legali e al di fuori della sussistenza di vizi invalidanti del consenso, eventuali squilibri genetici nella proporzionalità delle prestazioni non sono, salve specifiche ed espresse eccezioni, soggetti ad interventi correttivi officiosi del giudice, a tutela dell’ordinamento, ma sono soggetti a rimedi altrettanto tipizzati, primo tra tutti quello della rescissione per lesione di cui all’art. 1448 c.c.. Istituto di centrale importanza sistematica nel quadro dell’autonomia negoziale, che, come meglio diremo appresso, verrebbe di fatto abrogato – perché reso inutile - ove si riconoscesse al giudice un potere di intervento generalizzato a tutela della proporzionalità delle prestazioni nei contratti commutativi.

Gli squilibri funzionali del rapporto ed estranei ai comportamenti delle parti sono altrettanto disciplinati da specifiche norme, quali quelle sulla impossibilità (art. 1463 e ss. c.c.) o eccessiva onerosità sopravvenuta (artt. 1467 e ss c.c.).

Gli squilibri del rapporto dovuti al comportamento delle parti, infine, possono essere risolti col ricorso ai principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), che solo in questa chiave funzionale, non genetica, possono essere considerati come strumento di integrazione – non di correzione o sostituzione - del contratto[5]. Il Tribunale di Treviso, come vedremo, avrebbe forse potuto invocare tali ultimi principi, ma non nei termini in cui lo ha fatto.

Se la salvaguardia della proporzionalità – che meglio si attaglia al caso in esame – è soggetta alle norme e agli istituti sopra indicati, è ancor più errato pensare di aggirare l’ostacolo attraverso il richiamo all’equità.

Tra le fonti di integrazione del contratto di cui all’art. 1374 c.c., solo la legge ha la forza di operare un’integrazione cogente o imperativa (artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c.), laddove agli usi (art. 1340 c.c.) e all’equità è rimessa una funzione di integrazione meramente suppletiva. Non solo, la funzione integrativa dell’equità, risolvendosi in una regola di giudizio del caso concreto, non opera in modo generalizzato, ma solo per il tramite di un apposito richiamo normativo.

La giurispruenza che estende l’applicazione dell’art. 1384 c.c. agli interessi di mora convenzionali[6] non attribuisce alla norma una forza espansiva, tale da svincolarla dai limiti propri del suo carattere di eccezione alla regola: l’art. 1384 c.c. viene applicato agli interessi di mora convenzionali soltanto in quanto questi vengono considerati come una vera e propria clausola penale, rappresentando una forma di liquidazione anticipata della misura del risarcimento conseguente all’inadempimento.

 

3. Il ragionamento seguito dal Tribunale di Treviso avrebbe potuto più propriamente fondarsi sul richiamo alle due (identiche) ordinanze nn. 248/2013 e 77/2014 della Corte Costituzionale. Le stesse, attribuibili al medesimo Relatore[7], nonostante il tenore formale di ordinanza di inammissibilità, contengono un obiter tanto sinteticamente espresso, quanto potenzialmente dirompente, teorizzando, in caso di regolamento di interessi iniquo e gravemente sbilanciato ai danni di una parte, la “rilevabilità ex officio della nullità (totale o parziale), ex art. 1418 cod. civ., della clausola stessa, per contrasto con il precetto dell'art. 2 Cost. (per il profilo dell'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà), che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa, «"funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell'interesse del partner negoziale nella misura in cui non collida con l'interesse proprio dell'obbligato" (Corte di cassazione n. 10511 del 1999; ma già n. 3775 del 1994 e, in prosieguo, a Sezioni unite, n. 18128 del 2005 e n. 20106 del 2009)»”.

Tali pronunce – che ad oggi non hanno trovato espresso seguito in giurisprudenza - non hanno mancato di suscitare aspre critiche in dottrina[8]. Anche i commentatori che hanno manifestato interesse, se non piena adesione, rispetto a tale orienamento, non hanno mancato di rilevare che “a ben vedere, questa soluzione non è praticata neanche nei precedenti di legittimità richiamati nell’ordinanza, che sembra quasi volersi spingere oltre il limite raggiunto da questi ultimi, ipotizzando una nullità che derivi puramente e semplicemente dalla violazione di una clausola generale[9].

Ci si permette di aggiungere, a tale disamina, i seguenti elementi di assoluto rilievo:

(i) La Suprema Corte, nella pronuncia a ss.uu. del 2005 richiamata dalla Consulta, ha ancorato il potere di intervento officioso del giudice sulla penale alla considerazione che tale istituto attribuisce ai privati un potere, quello della liquidazione del danno, normalmente rimesso alla legge o al giudice; il che legittima a pieno titolo un controllo quantomeno successivo da parte del giudice sul corretto utilizzo di quel potere[10].

E’ evidente che un simile argomento non può essere utilizzato per giustificare un intervento correttivo del giudice in relazione agli elementi del contratto innegabilmente riservati all’autonomia negoziale (qual è senz’altro il corrispettivo di una prestazione).

(ii)Nell’argomentare della Consulta assume rilievo centrale il tramite della declaratoria di nullità del patto ritenuto contrario ai principi di buona fede e solidarietà sociale. Ciò significa che tale patto non può essere semplicemente “corretto” dal giudice, il quale è previamente chiamato a pronunciarne la nullità. Il che implica conseguenze di non poco momento. Anzitutto, solo ove lo squilibrio riguardi una pattuizione accessoria (come la caparra confirmatoria, oggetto della pronuncia) si potrà aprire un giudizio volto alla conservazione del contratto ai sensi dell’art. 1419 c.c.; quante volte riguardasse, invece, una pattuizione su un elemento essenziale, l’intero contratto sarebbe necessariamente nullo[11]. In caso di possibilità di salvaguardia del contratto, la clausola nulla potrebbe essere sostituita da altra solo in presenza di una norma di legge integratrice (art. 1339 c.c.) o dell’espressa previsione di un potere integrativo del giudice. Diversamente, la clausola verrebbe semplicemente meno, pur nella salvezza delle rimanenti clausole contrattuali.

(iii) Anche per i più convinti assertori del principio di proporzionalità del contratto e della correlata possibilità generalizzata di un riequilibrio giudiziale[12], l’intervento correttivo del giudice si giustifica soltanto in ipotesi di sproporzione e squilibrio “gravi” (in linea con il concetto di manifesta eccessività).

(iv) Inoltre, qualora lo squilibrio si rinvenga sul piano economico del rapporto, non si può dimenticare che l’art. 34 del Codice del Consumo – normativa di derivazione comunitaria a tutela di una categoria debole – esclude dal giudizio di vessatorietà la “determinazione dell’oggetto del contratto” e la “adeguatezza del corrispettivo[13]. Questa norma si pone come argomento forte a detrimento della tesi della possibilità di un intervento correttivo generalizzato, ad opera del giudice, di squilibri puramente economici nei contratti commutativi.

(v) Volendo superare tale ostacolo, si ritiene che un limite invalicabile, in chiave sistematica, debba comunque essere ravvisato nel disposto dell’art. 1448 c.c. (già sopra richiamato).

Va anzitutto premesso che l’istituto della rescissione mira a correggere uno squilibrio derivato da una volontà menomata all’atto dell’esplicazione dell’autonomia negoziale e, quindi – così come le fattispecie di vizi del volere che conducono all’annullamento - corregge una patologia dell’estrinsecarsi di tale autonomia[14].

Mentre l’art. 1447 c.c., avendo a tutela l’integrità della persona, sanziona qualsiasi pattuizione che sia frutto di una situazione di “pericolo attuale di un danno grave”, a prescindere dall’entità dell’inquità (o sproporzione), l’art. 1448 c.c., che tutela una più lieve forma di condizionamento della volontà – lo stato di bisogno – richiede un ulteriore elemento oggettivo, ossia l’entità ultra dimidium dello squilibrio, e uno soggettivo, ossia l’approfittamento della situazione di ridotta autonomia negoziale.

Essendo inammissibili interpretazioni che portino all’abrogazione di norme (sia di quella da interpretare, sia di altre), anche facendo il più ampio ricorso ai principi di buona fede, correttezza, solidarietà sociale, proporzionalità, non è dato ipotizzare una possibilità di intervento correttivo generalizzato da parte del giudice, volto al riequilibrio di un contratto commutativo di cui si ravvisi una sproporzione tra prestazioni, se non quando tale sproporzione sia non solo ultra dimidium, ma in misura tale da “compensare” l’assenza degli altri requisiti richiesti dall’art. 1448 c.c., ovvero lo stato di bisogno e l’approfittamento della parte “forte”. Dovrebbe trattarsi, quindi, di una sproprozione così marcata e rilevante da rasentare gli estremi del c.d. “caso di scuola”.

Diversamente, come detto, si finirebbe per abrogare – rendendolo inutile – l’art. 1448 c.c., oppure, ricorrendo i presupposti richiesti da tale norma, consentire di agire (non per la rescissione, ma solo per un riequilibrio) oltre i ristretti termini di prescrizione previsti dall’art. 1449 c.c.. Ipotesi, queste, evidentemente inaccettabili.

 

4. Inutile dire, per quanto precede, che il caso oggetto dalla sentenza in commento non si prestava ad essere risolto mediante l’evocazione di un potere correttivo generalizzato da parte del giudice, derivante dai principi di equità, buona fede e solidarietà sociale.

Sarebbe stato sufficiente soffermarsi sull’entità del presunto squilibrio - importo pattuito di € 2.500,00 a fronte di un importo tariffario medio di € 1.960,00 e, quindi, di un importo tariffario massimo di € 3.528,00 – per avvedersi che lo stesso non potesse in nessun caso considerarsi “manifestamente eccessivo” (come apoditticamente ritenuto dal Tribunale) e, quindi, evitare di trattare in modo tanto sommario i sopra analizzati principi[15]. Ad ogni modo, volendo seguire i suggerimenti provenienti da Corte Cost. 248/2013 e 77/2014, il Tribunale avrebbe dovuto dichiarare la nullità della pattuizione del corrispettivo ritenuta iniqua, per violazione degli artt. 2 Cost. e 1175 e 1375 c.c.; quindi, dato che nel caso di specie la determinazione pattizia del corrispettivo non rappresentava un elemento essenziale del contratto – in quanto passibile di eterodeterminazione, in caso di assenza, ai sensi dell’art. 2233 c.c. – avrebbe dovuto provvedere a determinare il compenso (in base alla tariffa).

Ma anche tale argomentare sarebbe stato scorretto, posto che l’assenza di uno squilibrio grave non avrebbe consentito, neppure seguendo la tesi più ardita qui criticata, di pervenire alla declaratoria di nullità della clasuola sul compenso e alla (soltanto) conseguente integrazione del contratto.

Per risolvere correttamente il caso, il giudice avrebbe dovuto rilevare, in primis, che l’eventuale sproporzione non poteva comunque attenere alla fase genetica del rapporto, ma, semmai, alla fase esecutiva. In altri termini: la pattuizione dell’importo di € 2.500,00 per la fase di studio (oltre tutto rientrante nella forbice tariffaria) non poteva essere messa in discussione. Intervenuto il recesso del cliente, il tribunale avrebbe dovuto semplicemente verificare se l’importo richiesto fosse maturato, in quanto conforme all’opera svolta, ai sensi degli artt. 2237, comma 1, c.c. e 7 D.M. 55/2014.

A parere di chi scrive, posto che ai sensi dell’art. 4, comma 5, D.M. 55/2014, il compenso dell’avvocato è liquidato “per fasi”, una volta accertato in fatto che l’attività di “studio della controversia” era in qualche misura avvenuta, al giudice non sarebbe restato che prenderne atto e, in applicazione dell’art. 2233 c.c. e dell’art. 1 D.M. 55/2014, condannare il cliente al pagamento della somma espressamente pattuita per tale fase.

Per quanto precede, nel caso di specie il giudice non avrebbe neppur potuto configurare come contraria a buona fede (in executivis), ai sensi dell’art. 1375 c.c., la richiesta dell’avvocato conforme all’accordo raggiunto per quella specifica fase. Ma una simile motivazione, intervenendo sul piano funzionale e non genetico del rapporto, avrebbe meritato una censura meno radicale.

In ultima battura, ove convinto della sostanziale ingiustizia del pagamento dell’intero corrispettivo pattuito per la fase processuale di studio, nel caso in cui la stessa, sia pure iniziata, non fosse stata completata (con apprezzamento in fatto che non è dato in questa sede sindacare), il giudice avrebbe dovuto argomentare in ordine alla possibilità, ai sensi dei citati artt. 2237 c.c. e 7 D.M. 55/2014, di verificare l’effettiva opera svolta e, quindi, i compensi maturati, anche all’interno di ogni singola fase  di cui all’art. 4 D.M. 55/2014, applicando al compenso per essa pattuito una riduzione direttamente proporzionale alla parte di attività propria della fase ma non ancora compiuta. Ovviamente supportando il ragionamento con idonea motivazione e, soprattutto, previo idoneo accertamento in fatto.

Non si trattava, quindi, di concorrere a scardinare l’autonomia negoziale mediante un uso quantomeno disinvolto di principi e clausole generali, andando ad incidere su un patto senz’altro e sotto ogni aspetto legittimo nel suo momento genetico, ma, semmai, di proporre un’interpretazione costituzionalmente orientata (sempre con rimando all’art. 2 Cost.) della normativa in materia di pagamento del compenso dell’avvocato in caso di recesso del cliente, ritenendo possibile un sindacato di merito sull’opera effettivamente svolta, anche nell’ambito della specifica “fase”, di cui all’art. 4 D.M. 55/2014, nel corso della quale si era verificato il recesso.



[1] http://news.ilcaso.it/news_5285

[2] L’equità richiama parametri sociali precostituiti di equivalenza e giustizia contrattuale che intervengono a colmare lacune contrattuali o pongono un limite all’autonomia contrattuale quando essa si spinga ad individuare meccanismi sanzionatori o derogatori rispetto all’ordinario sistema di tutela predisposto dal Legislatore ... La proporzionalità è invece un criterio relazionale fra le prestazioni che si specifica per il tramite di valutazioni di impronta soggettiva dei contraenti che tale relazione instaurano, o di constatazioni oggettive che presuppongono un valore “minimo” di proporzionalità al di là del quale viene meno la stessa relazione (così VELTRI, Contratti. Il difficile esercizio del giudice tra tutela del “debole” e difesa dell’autonomia – ipotesi di svolgimento della traccia di diritto civile di concorso in magistratura, in Guida al Diritto Focus on-line, giugno 2012).

[3] Di recente, Cass. civ. sez. III, 30.6.2014, n. 14776: “Ed invero, la disposizione dell'art. 1384 c.c., contemplando l'attribuzione al giudice del potere di incidere in un caso del tutto peculiare sulle pattuizioni private e di modificare il relativo contenuto, è norma che fa eccezione alla regola generale, immanente al sistema e formalmente sanzionata nell'art. 1322 c.c., che impone il rispetto dell'autonomia contrattuale dei privati, e, consequenzialmente, non è passibile di applicazione analogica a situazioni diverse da quella in essa specificamente previste”.

[4] Salva la verifica della sussistenza e della liceità della causa in concreto, che potrebbe condurre ad individuare una deviazione dal “tipo”, con conseguente necessità di operare un giudizio di meritevolezza (cfr. di recente Trib. Salerno, sez. I, 20.2.2015, n. 770).

[5] PARDOLESI Un nuovo super-potere giudiziario: la buona fede adeguatrice e demolitoria, in Foro It., 2014, 2039 ss., il quale ribadisce “l’impostazione sistematica intesa a scandire l’alternatività tra regole di validità e regole di condotta, relegando il parametro della correttezza a questa seconda provincia”.

[6] Cass. civ. sez. III, 18.11.2010, n. 23273; laddove è assolutamente non pertinente il richiamo operato dal Tribunale di Treviso a Cass. 25334/2017.

[7] Morelli, già ed estensore di una sentenza cardine in materia di buona fede, espressamente evocata nelle ordinanze della Consulta in esame, ovvero Cass. civ. sez. 24.9.1999, n. 10511, che ha per la prima volta ritenuto la riducibilità d’ufficio della penale manifestamente eccessiva, inaugurando un orientamente poi confermato dal Cass. civ. ss.uu. 13.9.2005, n. 18128 e da allora costantemente seguito

[8] PARDOLESI, op. loc. cit., che parla di vero e proprio “apriscatole giuridico”; D’AMICO, Applicazione diretta dei principi costituzionali e nullità della caparra confirmatoria “eccessiva”, in I Contratti, 2014, 926 e ss.), che sottolinea il “carattere dirompente di un’impostazione siffatta” e il “carattere eversivo” del principio enunciato, tale da condurre al rischio della relativizzazione di qualsiasi pattuizione privata, a questo punto rimessa al sindacato del singolo giudice ordinario.

[9] ASTONE, Riduzione della caparra manifestamente eccessiva, tra riqualificazione in termini di “penale” e nullità per violazione del dovere generale di solidarietà e di buona fede, in Giurisprudenza costituzionale, 2013, 05, 3770D; come si legge anche a nota 12 di tale commento, dei precedenti richiamati dalla Consulta, Cass. n. 10511/1999 e Cass. ss.uu., 18128/2005 – che a questa ha aderito – hanno ritenuto che il giudice possa ridurre la penale d’ufficio, interpretando in chiave costituzionale l’art. 1384 c.c.; Cass. n. 20106/2009, in termini di abuso del diritto, ha individuato i limiti funzionali – non genetici – al diritto di recesso; Cass. n. 3775/1994 ha richiamato la buona fede sempre per la disciplina del profilo funzionale del rapporto, per determinare l’inadempimento e il risarcimento del danno. Nessun precedente ha postulato la nullità quale conseguenza della violazione della buona fede e del principio costituzionale di solidarietà sociale.

[10] Testualmente: “Nel disciplinare l'istituto la legge ha ampliato il campo normalmente riservato all'autonomia delle parti, prevedendo per esse la possibilità di predeterminare, in tutto o in parte, l'ammontare del risarcimento del danno dovuto dal debitore inadempiente (se si vuole privilegiare l'aspetto risarcitorio della clausola), ovvero di esonerare il creditore di fornire la prova del danno subito, di costituire un vincolo sollecitatorio a carico del debitore, di porre a carico di quest'ultimo una sanzione per l'inadempimento (se se ne vuole privilegiare l'aspetto sanzionatorio), e ciò in deroga alla disciplina positiva in materia, ad esempio, di onere della prova, di determinazione del risarcimento del danno, della possibilità di istituire sanzioni private.

Tuttavia, la legge, nel momento in cui ha ampliato l'autonomia delle parti, in un campo normalmente riservato alla disciplina positiva, ha riservato al giudice un potere di controllo sul modo in cui le parti hanno fatto uso di questa autonomia”.

[11] Per tutte, Cass. civ. sez. I, 19.7.2002, n. 10536: “Il principio di conservazione del negozio giuridico affetto da nullità parziale, nel sistema del codice civile, è la regola, mentre l'estensione all'intero negozio degli effetti di tale nullità costituisce l'eccezione che si verifica quando la nullità è relativa ad un elemento essenziale del negozio o ad una pattuizione legata alle altre da un rapporto di interdipendenza ed inscindibilità”.

[12] PERLINGERI, Equilibrio normativo e principio di proporzionalità, Napoli, 2001, che teorizza il principio di proporzionalità addirittura come distinto e sovraordinato alla clausola genrale di buona fede.

[13] Purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e preciso: lo squilibrio, quindi, può rilevare solo sotto il profilo di una tecnica redazionale subdola e ingannevole e, quindi, sul piano di una consapevole esplicazione dell’autonomia negoziale; ove questa si sia consapevolmente espressa, di contro, qualsiasi possibilità di valutazione sotto il profilo strettamente economico è preclusa.

[14] Tanto che per molti rappresenta una “forma di invalidità” del contratto, simile all’annulabilità; cfr. ad es. BIANCA, Diritto civile – Il contratto.

[15] Di certo, nel caso di specie, il Tribunale non ha raccolto l’invito alla particolare prudenza e impegno, che la dottrina tendenzialmente favorevole alla via indicata dalla Consulta nelle pronunce sopra ricordate, ha indirizzato ai giudici di merito che volessero raccogliere detti spunti; ASTONE, op. loc. cit., “Alla succinta motivazione del provvedimento non si poteva chiedere di più che un cenno, ma al giudice di merito che volesse raccogliere lo spunto così offerto si richiederebbe – in rilevante misura – pari impegno e prudenza”. La riforma dell’art. 360 c.p.c., e la sostanziale abrogazoine del controllo della motivazione in sede di legittimità, rende ancor più manifesto il pericolo insito nell’attribuzione ai giudici di merito di poteri di intervento correttivo caratterizzati da una forte connotazione soggettivistica.


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