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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 01/11/2018 Scarica PDF

Disciplina delle crisi dell'impresa societaria, doveri degli amministratori e strumenti di pianificazione: l'esperienza italiana

Alessandro Nigro e Daniele Vattermoli, Professori


Sommario:

I. Notazioni introduttive – 1. L’anticipazione della soglia di attenzione per le crisi e il potenziamento di strumenti di pianificazione. – 2. Le due direttrici e la continuità aziendale. – 3. Il programma della ricerca.

II. Strumenti di allerta e prevenzione – 4. Le procedure di allerta e di composizione assistita delle crisi nella l. delega n. 155/2017 – 5. Procedure di allerta e doveri degli amministratori. – 6. Situazioni di crisi, doveri degli amministratori e interessi tutelati.

III. La pianificazione della gestione della crisi e dell’insolvenza. – 7. Precisazioni preliminari. – 8. Il piano di risanamento attestato. – 9. Il piano nel concordato preventivo e nell’accordo. – 10. Il programma di liquidazione nel fallimento. – 11. I programmi di ristrutturazione e di cessione nell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza. – 12. Le normative speciali e di settore. – 13. Il programma di risoluzione nella risoluzione bancaria. – 14. Il piano di risanamento per le società a partecipazione pubblica. – 15. Il programma nelle aziende sequestrate e confiscate; il piano di risanamento nelle fondazioni lirico-sinfoniche. – 16. I tratti comuni e i tratti differenziati delle diverse figure. – 17. Figure pianificatorie e operazioni societarie straordinarie.

IV. Verso la pianificazione della gestione dell’“ipotesi” di crisi? – 18. Pianificazione “preventiva” delle soluzioni della crisi? – 19. Piano di risanamento e piano di risoluzione nella disciplina delle imprese bancarie. – 20. Piani di risanamento “preventivi” e doveri generali degli amministratori.

V. Nota bibliografica

   

I. Notazioni introduttive

1. In materia di diritto della crisi molti ordinamenti e fra questi quello italiano si vanno lentamente “riassestando” secondo due direttrici fondamentali: la direttrice della progressiva anticipazione, dal punto di vista temporale, di quella che può definirsi la “soglia di attenzione” per le vicende di crisi; e la direttrice della crescente rilevanza degli strumenti di pianificazione in funzione di prevenzione o di soluzione delle crisi.

Per la prima direttrice, con riferimento all’ordinamento italiano, basterà ricordare l’introduzione, ad opera della legge delega n. 155 del 2017, della disciplina degli strumenti di allerta e prevenzione, che fanno perno soprattutto sui particolari doveri gravanti sugli amministratori e che dovrebbero avere ad oggetto non soltanto le situazioni di crisi in senso stretto – intesa cioè come probabilità di insolvenza – ma anche tutte le situazioni di difficoltà suscettibili di sfociare in una crisi in senso stretto.

Per quanto riguarda la seconda direttrice, basterà ricordare, sempre con riferimento all’ordinamento italiano, le diverse figure introdotte dalla riforma del 2005/2007, del piano di risanamento attestato, del piano nel concordato preventivo, del programma di liquidazione nel fallimento, figure sopravvenute a quella, primigenia, dei programmi di ristrutturazione o di cessione dell’amministrazione straordinaria ed alle quali si sono successivamente aggiunte altre figure: quella del piano nelle procedure di sovraindebitamento di tipo compositivo introdotte dalla l. n. 3/2012 (una sola delle quali, peraltro, può riguardare imprese anche in forma societaria), quella del programma di risoluzione previsto dalla nuova disciplina delle crisi delle imprese bancarie ed infine quella del piano di risanamento contemplato dalla recente normativa relativa alle società a partecipazione pubblica (art. 14, comma 2, d.lgs. n. 175/2016).

Ancora. Le appena ricordate nuove normative sulla crisi delle imprese bancarie hanno introdotto anche due figure pianificatorie, di importanza, nel sistema, fondamentale: il piano di risanamento ed il piano di risoluzione, che potrebbero definirsi, rispetto alle altre, “preventive” nel senso che non presuppongono l’esistenza in atto di una situazione di crisi o di insolvenza, consistendo invece (anche se non si esauriscono in esse) in mere simulazioni in scenari ipotetici di crisi e/o insolvenza.

 

2. Entrambe le direttrici di cui si è detto si muovono nell’ottica di preservare la “continuità aziendale” – espressione, va subito avvertito, poco tecnica[1], ancorché impiegata dal legislatore – dell’impresa societaria in crisi, con la salvaguardia dei complessi produttivi c.d. viables e dei livelli occupazionali che a tale continuità normalmente si associa. In particolare, tanto le procedure di allerta e prevenzione, quanto le diverse figure pianificatorie di cui si è fatto cenno, vengono in rilievo quali strumenti teoricamente in grado di limitare gli effetti negativi scaturenti dall’uscita dal circuito economico di un centro di imputazione di atti e rapporti giuridici.

Sotto tale ottica, l’interesse perseguito dal legislatore sembra essere il mantenimento della stabilità del mercato di riferimento dell’impresa societaria in crisi – interesse particolarmente evidente nel settore delle imprese operanti nel mercato finanziario –, intesa però non soltanto dal punto di vista economico, ma anche (e nei limiti del possibile) come invarianza dei (e nei) rapporti giuridici in itinere.

 

3. Nelle pagine che seguono daremo conto quindi, da un lato, della disciplina degli strumenti di allerta e prevenzione nel contesto delle crisi delle imprese societarie e dei correlati doveri degli amministratori (II) e, dall’altro, della disciplina delle diverse figure pianificatorie presenti nell’ordinamento italiano (III). In ultimo, prendendo spunto dalla speciale disciplina dell’impresa bancaria, verrà posto l’interrogativo in ordine all’opportunità di arretrare la soglia di attenzione delle situazioni di difficoltà della società sino al punto di giungere alla enucleazione di un obbligo in capo all’organo di amministrazione di predisporre adeguati assetti organizzativi che contemplino, tra l’altro, la pianificazione della gestione di una crisi dell’ente collettivo né attuale né imminente, bensì meramente ipotetica (IV).

   


II. Strumenti di allerta e prevenzione e doveri degli amministratori

4. Come anticipato, la legge delega per la riforma delle procedure concorsuali (art. 4, l. 17 ottobre 2017, n. 155), seguendo un sentiero già da tempo battuto dall’ordinamento francese e, più di recente, da quello belga, ha previsto l’introduzione di sistemi di allerta e prevenzione, volti essenzialmente alla rilevazione tempestiva degli indizi della crisi – non necessariamente attuale – dell’impresa societaria. L’idea alla base della novella è che l’emersione precoce della situazione di difficoltà, consentendo agli organi di gestione di adottare le misure di risanamento quando l’impresa è ancora al going concern, consente di evitare la distruzione di valore generata dal ritardo che spesso si registra (almeno tra le imprese italiane) nei tempi di risposta alla crisi.

Di seguito i tratti caratteristici fondamentali delle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi. Esse:

- hanno natura non giudiziale e confidenziale, e sono finalizzate ad agevolare lo svolgimento di trattative tra il debitore ed i creditori;

- non si applicano alle società quotate in borsa, né alle grandi imprese, così come definite dalla normativa europea;

- fanno perno su un Organismo di Composizione assistita della Crisi (OCC), istituito presso ciascuna Camera di Commercio, Industria e Artigianato, il quale: nomina un Collegio di tre esperti aventi determinati requisiti di professionalità; su istanza del debitore, svolge la funzione di mediatore tra quest’ultimo ed i creditori, facilitando la conclusione di un accordo che deve intervenire entro il termine massimo di sei mesi; convoca, in via riservata e confidenziale, il debitore e se si tratta di società dotata di organi di controllo, anche i componenti di questi ultimi, al fine di individuare nel più breve tempo possibile, previa verifica della situazione patrimoniale, economica e finanziaria esistente, le misure idonee a porre rimedio allo stato di crisi. Il Collegio di esperti, a sua volta, deve verificare se nel termine assegnato dalla legge è stata raggiunta la soluzione concordata della crisi e, qualora ciò non sia avvenuto e non vi siano soluzioni alternative, deve darne immediata notizia al Pubblico Ministero ai fini dell’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza della società;

- prevedono il coinvolgimento attivo degli organi di controllo della società, i quali debbono avvisare immediatamente l’organo amministrativo dell’esistenza di gravi indizi della crisi ricavabili da indici di natura finanziaria, quali il rapporto tra mezzi propri e mezzi di terzi, l’indice di rotazione dei crediti, l’indice di rotazione del magazzino e l’indice di liquidità; gli stessi organi di controllo, in caso di omessa o inadeguata risposta da parte dell’organo di amministrazione, debbono informare immediatamente l’OCC. La tempestiva segnalazione all’organo di amministrazione e all’OCC consente ai componenti dell’organo di controllo di sottrarsi alla responsabilità solidale con gli amministratori per le conseguenze pregiudizievoli dei fatti o delle omissioni successivi alla segnalazione medesima;

- prevedono, altresì, il coinvolgimento attivo di creditori pubblici qualificati (Agenzia delle Entrate; Enti previdenziali), i quali avranno l’obbligo – pena le degradazione del credito da essi vantato da privilegiato a chirografario – di segnalare agli organi di controllo della società e all’OCC il perdurare di inadempimenti di importo rilevante, la soglia di rilevanza dovendosi determinare non in valore assoluto, bensì sulla base di criteri relativi che tengano conto della dimensione dell’impresa e siano comunque in grado di assicurare l’emersione tempestiva della crisi. L’obbligo di segnalazione per tali creditori qualificati scatta nel momento in cui, avvertito il debitore del superamento dell’importo rilevante, quest’ultimo non abbia nei tre mesi successivi attivato il procedimento di composizione assistita della crisi, oppure non abbia raggiunto un accordo con il creditore qualificato, oppure, ancora, non abbia chiesto l’ammissione ad una procedura concorsuale;

- consentono al debitore di chiedere all’Autorità giudiziaria l’adozione di misure protettive (esempio: divieto di azioni esecutive) necessarie per condurre a termine le trattative in corso; misure che dovranno essere necessariamente temporanee e che saranno revocabili, anche d’ufficio, in caso di atti in frode ai creditori o quando il Collegio degli esperti ritenga che non vi è possibilità di addivenire ad una soluzione concordata della crisi o che non vi sono significativi progressi nell’attuazione delle misure idonee a superare la crisi medesima;

- prevedono, infine, quale incentivo al loro utilizzo, delle misure premiali per il debitore che abbia tempestivamente attivato la procedura di composizione assistita della crisi consistenti nella esclusione o attenuazione della responsabilità penale e, dal punto di vista patrimoniale, una congrua riduzione degli interessi e delle sanzioni correlati ai debiti fiscali dell’impresa.

 

5. Tracciate per sommi capi le coordinate di fondo delle future procedure di allerta e di composizione assistita della crisi, si può passare ad analizzare più da vicino il ruolo che in esse svolgono o dovrebbero svolgere gli amministratori della società debitrice, anche al fine di verificare quanto effettivamente di nuovo vi sia, rispetto ai compiti ed ai doveri che sugli amministratori già incombono nell’assetto normativo vigente.

Dalla lettura dell’art. 4 l. n. 155/2017 emerge con sufficiente chiarezza cosa dovrebbero fare gli amministratori quando dalle informazioni in loro possesso, in primis dalle scritture contabili, emergano gravi indizi della crisi della società. In particolare, essi dovrebbero attivare la procedura di composizione assistita della crisi, coinvolgendo l’OCC ed il Collegio degli esperti, in modo tale da addivenire ad un accordo con i creditori; oppure, nel caso in cui non vi siano i presupposti per una soluzione extragiudiziale su base convenzionale, attivare i meccanismi concorsuali (concordato preventivo; liquidazione giudiziale) o paraconcorsuali (accordi di ristrutturazione dei debiti).

Come è naturale che sia è dunque sugli amministratori che incombe, in prima battuta, il dovere di rilevare tempestivamente la situazione di crisi e di reagire prontamente alla medesima utilizzando gli strumenti che a tal fine offre l’ordinamento. Le misure di allerta – ovvero la segnalazione “interna” dell’organo di controllo e quella “esterna” dei creditori pubblici qualificati – si pongono allora come supporto e al tempo stesso come impulso agli amministratori nella rilevazione quanto più anticipata possibile della situazione di crisi.

Per valutare l’impatto innovativo di tali misure di allerta è necessario considerare che l’attivazione delle stesse presuppone il mal funzionamento degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati alla natura e alla dimensione dell’impresa sociale, che ai sensi dell’art. 2381, comma 5 c.c., debbono già oggi essere predisposti dagli amministratori delegati; assetti tra i quali non possono non rientrare le procedure interne atte alla rilevazione tempestiva della crisi. Sul punto va altresì aggiunto che ai sensi dell’art. 14 della l. n. 155/2017, il Governo, nel dare attuazione alla delega, dovrebbe procedere alle modifiche del codice civile prevedendo, tra l’altro, «il dovere dell’imprenditore e degli organi sociali di istituire assetti organizzativi adeguati per la rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi per l’adozione tempestiva di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale».

Sempre sul terreno del diritto societario “comune”, va poi rilevato come l’ordinamento italiano, come molti altri ordinamenti, contempli una specifica disciplina in punto di riduzione obbligatoria del capitale sociale per perdite, che in realtà funge da meccanismo di allerta, imponendo agli amministratori di intraprendere (o a proporre all’assemblea dei soci di intraprendere) misure correttive (art. 2482-bis c.c.); un meccanismo che risulta vieppiù “allertante” qualora alla perdita registrata si associ il verificarsi della causa di scioglimento – data dalla riduzione del capitale al di sotto del minimo legale (art. 2483-ter c.c.) – con gli obblighi e la contrazione dei poteri dell’organo di amministrazione che ad essa conseguono (artt. 2485 e 2486 c.c.).

Sul terreno del diritto societario “speciale”, infine, possono già oggi essere rintracciati meccanismi di allerta nella disciplina delle società con partecipazione pubblica, che contempla specifici obblighi relativi alla tempestiva rilevazione e gestione della crisi in capo agli amministratori, sub specie di programmi di valutazione del rischio di crisi aziendale (art. 6, d.lgs. n. 175/2016); e nella disciplina delle imprese bancarie, ove vengono regolati i piani di risanamento (artt. 69-ter ss. Testo Unico Bancario), che rappresentano un “modello” di pianificazione della tempestiva rilevazione e gestione della crisi. Degli uni e degli altri ci occuperemo, rispettivamente, infra, §§ 13 e 18.

Le osservazioni che precedono inducono dunque a ritenere che le misure di allerta disegnate dall’art. 4 l. n. 155/2017 non rappresentano, dal punto di vista concettuale, una novità assoluta per il nostro ordinamento, le novità riguardando, da un lato, le concrete modalità attraverso le quali può avvenire la rilevazione tempestiva della situazione di crisi e dall’altro l’allargamento della platea dei soggetti coinvolti nell’attività di monitoraggio.

 

6. A questo punto ci si deve chiedere per la tutela di quali interessi sono posti gli obblighi, di cui si è dato conto, che gravano sugli amministratori in ordine alla tempestiva rilevazione della situazione di crisi e all’adozione delle misure più opportune per la soluzione della medesima. Si può dire che gli amministratori, in caso di crisi della società, debbano ancora perseguire l’interesse sociale, inteso come interesse collettivo di tutti i soci; oppure si deve ritenere che, data la situazione in cui versa la società, i referenti soggettivi degli obblighi degli amministratori siano ormai i creditori? 

Secondo un certo orientamento, gli obblighi di cui si è fin qui detto – al quale deve aggiungersi, per l’ordinamento italiano, quello posto agli amministratori di richiedere l’apertura della procedura concorsuale qualora dalla mancata richiesta derivi un aggravamento del dissesto (art. 217, n. 4 l.fall.) – dovrebbero considerarsi come la risposta dell’ordinamento all’esigenza di fronteggiare il rischio di comportamenti opportunistici degli amministratori e degli azionisti, che, nelle situazioni di crisi patrimoniale della società, potrebbero essere indotti a sottrarre beni alla società o a favorire progetti rischiosi.

Sempre secondo tale orientamento, in relazione alla suddetta esigenza si dovrebbe in linea generale – e indipendentemente da apposite regole – ritenere che il prodursi della crisi, e specificamente dell’insolvenza, determini il sorgere di un dovere specifico degli amministratori di tutelare i creditori sociali (in sostanza: mentre nel caso dell’impresa solvente gli amministratori avrebbero doveri fiduciari solo nei confronti dei soci, nel caso dell’impresa che si trovi nella “zona dell’insolvenza” o addirittura sia già insolvente essi avrebbero doveri fiduciari anche o solo nei confronti dei creditori): un dovere tanto “assorbente” da mettere fuori giuoco, o comprimere fortemente, la business judgement rule.

Si tratta di una costruzione – maturata nel contesto del common law, ma largamente accolta anche altrove – certamente suggestiva.

Essa però, da un lato, prospetta non poche difficoltà sul piano operativo, a cominciare da quelle in punto di individuazione del c.d. “momento della verità”, cioè del momento esatto in cui la crisi o l’insolvenza è insorta e quindi sarebbe destinato a scattare il particolare regime ipotizzato. Dall’altro, risulta a ben vedere priva, almeno nell’ordinamento italiano, di una adeguata base normativa: nel nostro sistema non sono rintracciabili disposizioni che consentano di fondare questa radicale distinzione, in termini generali, di regimi degli obblighi e delle responsabilità degli amministratori a seconda della situazione patrimoniale della società. Dall’altro lato ancora, tale costruzione appare inutile, perché il problema che si intende risolvere può trovare una (più) convincente soluzione seguendo altri itinerari.

Sotto tale aspetto, due sono i punti fondamentali da cui si dovrebbe muovere.

Il primo. Sugli amministratori gravano, come è pacifico, specifici obblighi di conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, che sono esplicazione del dovere di gestione diligente e che sono espressamente sanciti da molte disposizioni (artt. 2394, 2386 c.c., ecc.). Tali obblighi hanno come destinataria la società, ma sono posti a protezione di tutti gli interessi che sulla società gravitano: della società medesima, dei soci, dei creditori sociali e, più in generale, degli stakeholders. Essi sussistono, restando identici, sia nelle situazioni normali sia nelle situazioni di crisi (in queste ultime, ovviamente, diventano più stringenti dato il pericolo che da queste situazioni deriva per l’integrità del patrimonio).

Il secondo. Le crisi costituiscono fasi o momenti del ciclo dell’attività di impresa e la gestione dell’impresa include “naturalmente” la gestione anche delle crisi. Nel nostro sistema, la gestione dell’impresa, nelle società di capitali, compete in principio agli amministratori, quindi agli stessi compete in principio anche e proprio la gestione delle crisi; del che si ha una precisa conferma, oggi, sul piano normativo, posto che gli artt. 152 e 161 l.fall. attribuiscono appunto agli amministratori di società di capitali, salva diversa previsione statutaria, la competenza a decidere in ordine alla presentazione di una proposta di concordato fallimentare o di concordato preventivo.

Da tutto questo si può direttamente derivare che, rispetto alla gestione delle crisi, gravi o meno gravi, in atto o in potenza, sono destinate a valere, in principio, le medesime regole di comportamento che valgono in generale per la gestione dell’impresa. Che non vi sia spazio per (né necessità di) regole speciali, ispirate ad una speciale (e totalizzante) considerazione degli interessi dei creditori sociali. E che, conseguentemente, tornano (restano) in giuoco sia il parametro generale della diligenza posto dall’art. 2392, sia la business judgement rule, sia, infine, il principio di ragionevolezza, nel suo ruolo di strumento di coordinamento, o di conciliazione, fra quel parametro e quella regola.

Ne deriva che gli amministratori, dinanzi ad una situazione di crisi della società, hanno un solo, fondamentale obbligo: quello di adottare tutte le misure che, in relazione a tutti gli interessi coinvolti, tale situazione ragionevolmente esige.

Quindi, a seconda dei casi, tentare la via del risanamento per linee interne, attraverso, per esempio, il piano attestato di risanamento, di cui è menzione nell’art. 67 l.fall. (sul quale v. infra, § 8) e che ben potrebbe essere utilizzato nell’ambito della procedura di composizione assistita della crisi, sotto l’egida degli OCC; o provare una delle strade, concorsuali o extraconcorsuali, che l’ordinamento offre per la soluzione negoziata della crisi; o invece procedere con l’istanza di fallimento (nel futuro: liquidazione giudiziale) o quella per la dichiarazione dello stato di insolvenza.

Fermi restando ovviamente, da un lato, il dovere di rispettare le prescrizioni in materia di riduzione del capitale e di scioglimento della società, di cui si è dato conto retro; e, dall’altro, l’obbligo derivabile dall’art. 217 l.fall.

In presenza di una situazione di crisi o di pre-crisi, dunque, la condotta degli amministratori deve essere valutata non in base ad alternative “secche”, come quella fra proseguire o cessare l’ordinaria gestione, o quella fra ricapitalizzare o liquidare, ma sulla base di criteri elastici che consentano di tener conto delle circostanze concrete e delle finalità in relazione alle quali la decisione di continuare o interrompere la gestione sia stata assunta ed attuata, circostanze e finalità vagliate appunto attraverso il criterio della ragionevolezza, che consente di verificare la “non arbitrarietà nella selezione degli interessi” e quindi, nell’ipotesi che stiamo esaminando, di verificare che gli interessi degli stakeholders (e fra essi, in particolare, dei creditori) vengano adeguatamente considerati nelle scelte degli amministratori.

 

 

III. La pianificazione della gestione della crisi e dell’insolvenza

7. Prima di passare a delineare un quadro degli strumenti di pianificazione della crisi e dell’insolvenza presenti nell’ordinamento italiano sono indispensabili due precisazioni.

La prima precisazione è di ordine terminologico: come accade anche in altri settori dell’ordinamento, le discipline di cui daremo conto per designare i suddetti strumenti adottano talvolta il termine “piano” e talaltra il termine “programma”. Non è però possibile – di nuovo: come in altri settori – trarre dalle normative considerate una “differenziazione nozionale” dei due termini[2]: l’uso di essi è promiscuo, vale a dire che il legislatore utilizza indifferentemente l’uno o l’altro. Quello che si può osservare, comunque, è che, nella nostra materia, il termine “programma” risulta tendenzialmente impiegato per gli strumenti di pianificazione affidati agli organi di gestione delle procedure di soluzione delle crisi, mentre il termine “piano” risulta tendenzialmente impiegato per gli strumenti di pianificazione rimessi al debitore.

La seconda precisazione riguarda il criterio espositivo che seguiremo. Tratteremo prima delle figure previste dalle normative generali, per tali intendendosi la legge fallimentare e le leggi a questa complementari. Tratteremo poi delle più importanti fra le figure, e sono molte, previste dalle normative speciali, a cominciare da quella riguardante le banche e le imprese di investimento.

 

8. Iniziamo dal piano di risanamento attestato.

L’art. 67, comma 3, l.fall. – che è stato introdotto dalla riforma del 2005 e che disciplina una serie di ipotesi di esenzione dalla revocatoria fallimentare – prevede la figura del piano di risanamento, per tale dovendo intendersi «un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria», stabilendo inoltre che «un professionista indipendente designato dal debitore, iscritto nel registro dei revisori legali ed in possesso dei requisiti previsti dall’articolo 28, lettere a) e b) deve attestare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano» (di qui la usuale denominazione di “piano attestato”).

La legge nulla dice sul contenuto necessario e/o possibile del piano. Dà per presupposta la nozione generale di “piano” come espressione di un’attività programmatoria e rimette alla assoluta discrezionalità del debitore, della cui iniziativa individuale il piano è frutto, la scelta delle strade e degli strumenti attraverso i quali il risultato indicato dalla norma (il risanamento dell’esposizione debitoria e il riequilibrio della situazione finanziaria) dovrebbe essere conseguito.

Proprio alla luce del risultato indicato dalla norma si tende ad escludere che possano considerarsi piani di risanamento quei piani che prevedano non la prosecuzione dell’attività di impresa ma la sua liquidazione; non mancano però opinioni diverse.

Il piano può essere pubblicato nel registro delle imprese.

 

9. Altri esempi di questa attività pianificatoria sono il piano nel concordato preventivo e nella procedura di accordo del sovraindebitato.

a) Ai sensi dell’art. 160, comma 1 l.fall., «L'imprenditore che si trova in stato di crisi può proporre ai creditori un concordato preventivo sulla base di un piano che può prevedere: a) la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo, o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l'attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote, ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni, o altri strumenti finanziari e titoli di debito; b) l'attribuzione delle attività delle imprese interessate dalla proposta di concordato ad un assuntore; possono costituirsi come assuntori anche i creditori o società da questi partecipate o da costituire nel corso della procedura, le azioni delle quali siano destinate ad essere attribuite ai creditori per effetto del concordato; c) la suddivisione dei creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei; d) trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse».

Nonostante la legge accomuni proposta e piano, è necessario distinguere fra i due. La proposta deve indicare il tipo di ristrutturazione dei debiti che viene prospettata (riduzione, moratoria, ecc.) e l’entità ed il modo di soddisfacimento dei creditori (pagamenti; cessioni; ecc.); il piano deve indicare, in modo analitico, tutti gli elementi rilevanti ai fini dell’esatta esecuzione del concordato: piano finanziario, con l’individuazione delle risorse necessarie all’adempimento e delle fonti di approvvigionamento; piano dei pagamenti, con la specificazione del tempo e delle modalità di soddisfacimento dei creditori; piano di liquidazione di beni; ecc. È nel piano che deve propriamente trovare specificazione e illustrazione la eventuale previsione di operazioni societarie straordinarie, quali operazioni sul capitale, scissioni o fusioni, trasformazioni.

Il contenuto del piano dovrà essere diverso a seconda del “tipo” di concordato proposto: a seconda, in particolare, che si tratti di un concordato liquidatorio o di un concordato di risanamento [che la legge (art. 186-bis l.fall.) qualifica come concordato “in continuità aziendale”).

Il piano deve in ogni caso essere assistito da una attestazione da parte di un professionista esterno, che ne assicuri l’attendibilità e la fattibilità. Il tribunale fallimentare, da parte sua, verifica – in sede di ammissione prima ed in sede di omologazione poi – la fattibilità del piano (secondo un certo orientamento solo la fattibilità giuridica; secondo un altro anche la fattibilità economica).

È il caso di sottolineare che la legge non richiede l’esistenza di un piano nelle altre figure di concordato previste dall’ordinamento: concordato fallimentare; concordato nella l.c.a.; concordato nell’amministrazione straordinaria. Naturalmente, questo non impedisce che la proposta per l’ammissione ad una di tali “procedure” (meglio: subprocedure) sia accompagnata da un piano.

b) Al piano previsto dalla disciplina del concordato preventivo va in qualche misura assimilato il piano previsto nell’ambito della procedura di accordo del sovraindebitato introdotta dalla l. n. 3/2012.

Infatti, la proposta di accordo – che deve prevedere «la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante la cessione dei crediti futuri» (così l’art. 8, comma 1 l. n. 3/2012, che riprende la formulazione degli artt. 124, comma 2 e 160, comma 1, l.fall.) – deve essere accompagnata da un apposito piano.

La legge rimette all’autonomia del debitore le scelte in ordine al contenuto dell’accordo e del piano, che quindi, da un lato, può essere il più vario e, dall’altro, può avere come obiettivo, nel caso che il debitore sia un imprenditore, sia il salvataggio sia la liquidazione dell’impresa. Il piano, comunque, deve in ogni caso:

- assicurare il regolare pagamento dei titolari di crediti impignorabili (art. 7, comma 1), per tali dovendosi intendere i crediti di cui all’art. 545 c.p.c. (crediti alimentari, ecc.);

- prevedere le scadenze e le modalità di pagamento dei creditori «anche se suddivisi in classi», le eventuali garanzie rilasciate per l’adempimento delle obbligazioni, le modalità per l’eventuale liquidazione dei beni (ancora art. 7, comma 1, dove la precisazione che per i tributi di pertinenza dell’Unione europea, per l’IVA e per le ritenute operate e non versate il piano può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento).

Il piano può inoltre prevedere:

- che i crediti muniti di privilegio, pegno, ipoteca possano non essere soddisfatti integralmente, allorché ne sia assicurato il pagamento in misura non inferiore a quella realizzabile avuto riguardo al valore di mercato attribuibile al bene oggetto della garanzia come attestato dall’organismo di composizione della crisi (sempre art. 7, comma 1, che riprende le previsioni degli artt. 124, comma 3 e 160, comma 2 l.fall.);

- nel caso di proposta di accordo con la continuazione dell’attività di impresa, «una moratoria fino ad un anno dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione» [art. 8, comma 4, che riprende l’art. 186-bis, comma 2, lett. c) l.fall.];

- l’affidamento del patrimonio del debitore ad un gestore – che dovrà essere un professionista dotato dei requisiti per la nomina a curatore previsti dall’art. 28 l.fall. e che dovrà essere nominato dal giudice – per la liquidazione, la custodia e la distribuzione del ricavato ai creditori (ancora art. 7, comma 1).

 

10. Passando al programma di liquidazione nel fallimento.

Ai sensi dell’art. 104-ter l.fall., il curatore fallimentare, entro sessanta giorni dalla redazione dell’inventario e comunque non oltre centottanta giorni dalla sentenza dichiarativa di fallimento, deve predisporre un programma di liquidazione.

Tale programma – stabilisce la disposizione appena richiamata – «costituisce l'atto di pianificazione e di indirizzo in ordine alle modalità e ai termini previsti per la realizzazione dell'attivo, e deve specificare:

a) l'opportunità di disporre l'esercizio provvisorio dell'impresa, o di singoli rami di azienda, ai sensi dell'articolo 104, ovvero l'opportunità di autorizzare l'affitto dell'azienda, o di rami, a terzi ai sensi dell'articolo 104-bis;

b) la sussistenza di proposte di concordato ed il loro contenuto;

c) le azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie da esercitare ed il loro possibile esito;

d) le possibilità di cessione unitaria dell'azienda, di singoli rami, di beni o di rapporti giuridici individuabili in blocco;

e) le condizioni della vendita dei singoli cespiti;

f) il termine entro il quale sarà completata la liquidazione dell'attivo

Il programma di liquidazione:

- da un lato, deve essere approvato dal comitato dei creditori, che può anche proporre modifiche del medesimo;

- dall’altro, deve essere comunicato al giudice delegato che autorizza l’esecuzione degli atti ad esso conformi.

 

11. Particolare rilevanza assumono poi i programmi di ristrutturazione e di cessione nella amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza.

La procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, disciplinata dal d.lgs. n. 270/1999, trova il suo perno nella predisposizione prima ed attuazione poi, da parte del commissario straordinario, di un programma, che deve assumere uno di due specifici indirizzi (delineati dall’art. 27, comma 2), quello di “cessione dei complessi aziendali”, che ha come obiettivo la liquidazione, previa riorganizzazione, degli assets produttivi e che deve essere attuato entro un anno, o quello di “ristrutturazione” (o di risanamento), che ha come obiettivo il recupero da parte dell’imprenditore della capacità di adempiere e che deve essere attuato entro due anni[3].

Esso programma, in generale, deve essere volto al recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali (art. 1), attraverso la prosecuzione, riattivazione o riconversione di tali attività secondo uno dei suddetti indirizzi (art. 27). Deve essere redatto sotto la vigilanza del Ministero dello sviluppo economico «ed in conformità degli indirizzi di politica industriale dal medesimo adottati, in modo da salvaguardare l’unità operativa dei complessi aziendali, tenuto conto degli interessi dei creditori» (art. 55).

Il suo contenuto è in parte comune ai due indirizzi e in parte è differenziato secondo l’indirizzo prescelto (art. 56).

Il contenuto comune è dato (comma 1) dall’indicazione in ogni caso:

- delle attività imprenditoriali destinate alla prosecuzione e di quelle da dismettere;

- del piano per l’eventuale liquidazione dei beni non funzionali all’esercizio dell’impresa;

- delle previsioni economiche e finanziarie connesse alla prosecuzione dell’esercizio dell’impresa;

- dei modi di copertura del fabbisogno finanziario, con specificazione dei finanziamenti o delle altre agevolazioni pubbliche di cui è prevista l’utilizzazione;

- dei costi generali e specifici complessivamente stimati per l’attuazione della procedura.

Ove sia adottato l’indirizzo della cessione dei complessi aziendali, il programma (comma 2) deve altresì indicare:

- le modalità della cessione, segnalando le offerte pervenute o acquisite;

- le previsioni in ordine alla soddisfazione dei creditori.

Ove sia adottato l’indirizzo della ristrutturazione, il programma (comma 3) deve indicare:

- le «eventuali previsioni di ricapitalizzazione dell’impresa e di mutamento degli assetti imprenditoriali»;

- «i tempi e le modalità di soddisfazione dei creditori, anche sulla base di piani di modifica convenzionale delle scadenze dei debiti o di definizione mediante concordato».

Il programma è redatto dal commissario straordinario che, entro 60 giorni dall’apertura della procedura di amministrazione straordinaria, deve presentarlo al Ministero il quale deve rilasciare, entro i successivi 30 giorni, l’autorizzazione alla esecuzione del medesimo (in realtà, si tratta di una vera e propria approvazione).

La disciplina che si è fin qui delineata vale anche per la “variante” introdotta nel 2003, la c.d. amministrazione straordinaria speciale, destinata alle “grandissime” imprese insolventi, che inizialmente si differenziava dalla “versione” normale anche e proprio per ciò che in essa poteva adottarsi solo il programma di ristrutturazione (la differenza è venuta meno con le modifiche apportate nel 2008, con la previsione della possibilità di adottare anche il programma di cessione).

 

12. Come si è avuto modo di anticipare, una disciplina articolata della pianificazione della gestione della crisi si ritrova anche in numerose normative speciali e di settore, ed in particolare in quelle che governano le imprese bancarie; le società a partecipazione pubblica; le aziende sequestrate e confiscate nell’ambito delle misure anti mafia e, infine, le fondazioni lirico-sinfoniche.

 

13. Si può senz’altro iniziare dal programma di risoluzione nel procedimento di risoluzione bancaria.

La nuova disciplina, di fonte comunitaria, delle crisi delle banche e delle imprese di investimento ha introdotto uno strumento di soluzione di tali crisi, denominato “risoluzione”. Si tratta di un procedimento assai complesso, che trova uno dei suoi “perni” nel c. d. programma di risoluzione, disciplinato dall’art. 32 d.lgs. n. 180/2015, di attuazione della c. d. BRRD.

Tale programma è contenuto nello stesso provvedimento di avvio del procedimento di risoluzione, di competenza della Banca d’Italia. In esso programma, tra l’altro:

«1) sono individuate le misure di risoluzione da adottare sulla base della valutazione effettuata ai sensi del Capo I, Sezione II;

2) in caso di applicazione del bail-in, sono indicati il suo ammontare e le categorie di passività escluse ai sensi dell'articolo 49, comma 2;

3) é indicato se si farà ricorso al fondo di risoluzione;

4) vengono, se del caso, indicati i termini e il periodo della sospensione o della restrizione di cui agli articoli 66, 67 e 68;

5) viene, se del caso, disposta la permanenza nella carica dei componenti dell'organo di amministrazione o di controllo o dell'alta dirigenza ai sensi dell'articolo 22, comma 1, lettera d);

6) se è prevista la costituzione di un ente-ponte o di una società veicolo per la gestione delle attività, sono indicati: i) i beni e i rapporti giuridici da cedere all'ente-ponte o alla società; ii) le modalità di costituzione dell'ente-ponte o della società; iii) le modalità di cessione delle partecipazioni al capitale sociale dell'ente-ponte o delle sue attività o passività».

Il provvedimento di avvio della risoluzione, comprensivo del programma, è approvato dal Ministro per l’economia ed è pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.


14. Passando al piano di risanamento per le società a partecipazione pubblica.

L’art. 14, comma 2 del d.lgs. n. 175/2016 (che contiene il testo unico in materia di società a partecipazione pubblica) stabilisce che: «Qualora emergano, nell'ambito dei programmi di valutazione del rischio di cui all'articolo 6, comma 2, uno o più indicatori di crisi aziendale, l'organo amministrativo della società a controllo pubblico adotta senza indugio i provvedimenti necessari al fine di prevenire l'aggravamento della crisi, di correggerne gli effetti ed eliminarne le cause, attraverso un idoneo piano di risanamento».

Analogamente a quanto si è visto per il piano di risanamento attestato (retro, § 8), la legge nulla dice sul contenuto necessario e/o possibile del piano. Dà ancora una volta per presupposta la nozione generale di “piano” come espressione di un’attività programmatoria e rimette alla assoluta discrezionalità dell’organo amministrativo della società la scelta delle strade e degli strumenti attraverso i quali il risultato indicato dalla norma (la prevenzione dell'aggravamento della crisi, la correzione dei suoi effetti e l‘eliminazione delle cause) dovrebbe essere conseguito.

 

15. Un sicuro interesse presentano ai nostri fini due particolari figure pianificatorie introdotte dalla legislazione più recente, anche se collocate in contesti che si trovano al margine del territorio cui si riferisce il nostro discorso.

A. La prima figura è quella del programma per la prosecuzione o la ripresa dell’attività delle aziende sequestrate e confiscate nel quadro delle misure antimafia disciplinate dal d.lgs. n. 159/2011: siamo sempre nel campo delle imprese in crisi, ma non (o non necessariamente) economica bensì di legalità.

L’art. 4, comma 1, del citato d.lgs. stabilisce che l’amministratore giudiziario di aziende sequestrate deve, entro tre mesi dalla sua nomina, presentare al tribunale una relazione contenente «una dettagliata analisi sulla sussistenza di concrete possibilità di prosecuzione o di ripresa dell'attività, tenuto conto del grado di caratterizzazione della stessa con il proposto e i suoi familiari, della natura dell'attività esercitata, delle modalità e dell'ambiente in cui é svolta, della forza lavoro occupata e di quella necessaria per il regolare esercizio dell'impresa, della capacità produttiva e del mercato di riferimento nonché degli oneri correlati al processo di legalizzazione dell'azienda». La disposizione prosegue stabilendo che«Nel caso di proposta di prosecuzione o di ripresa dell'attività é allegato un programma contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta, che deve essere corredato, previa autorizzazione del giudice delegato, della relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all'articolo 67, terzo comma, lettera d), del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni, che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del programma medesimo, considerata la possibilità di avvalersi delle agevolazioni e delle misure previste dall'articolo 41-bis del presente decreto».

Ai sensi del successivo comma 1-sexiesOve rilevi concrete prospettive di prosecuzione o di ripresa dell'attività dell'impresa, il tribunale approva il programma con decreto motivato e impartisce le direttive per la gestione dell'impresa».

B. La seconda figura meritevole di considerazione è quella del piano previsto per il risanamento delle fondazioni lirico-sinfoniche. Queste ultime, un tempo enti pubblici, sono oggi fondazioni di diritto privato: esse non esercitano propriamente imprese, ma gestiscono teatri ed in relazione a questo il legislatore italiano sta cercando di costringerle a rispettare il vincolo del pareggio di bilancio.

Il d.l. n. 91/2013, convertito dalla l. n. 112/2013, ha previsto, all’art. 11, un complesso meccanismo per conseguire l’obiettivo di cui sopra, imperniato, da un lato, sulla predisposizione e presentazione, da parte delle fondazioni che si trovassero in stato di difficoltà, di un piano di risanamento e, dall’altro, sulla nomina di un commissario straordinario unico, avente il compito di valutare i piani, di verificarne la adeguatezza e la sostenibilità e di proporne l’approvazione al Ministro dei beni e delle attività culturali.

Il comma 1 dell’art. 11, dopo aver precisato che il piano doveva intervenire «su tutte le voci di bilancio non compatibili con la necessità di assicurare il pareggio economico, in ciascun esercizio, ed il tendenziale equilibrio patrimoniale e finanziario, entro i tre successivi esercizi finanziari», ha delineato, in modo estremamente analitico, i «contenuti inderogabili del piano», fra cui, al primo punto, «a) la rinegoziazione e ristrutturazione del debito della fondazione che preveda uno stralcio del valore nominale complessivo del debito esistente al 31 dicembre 2012, comprensivo degli interessi maturati e degli eventuali interessi di mora, … nella misura sufficiente ad assicurare, unitamente alle altre misure di cui al presente comma, la sostenibilità del piano di risanamento, nonché il pareggio economico, in ciascun esercizio, ed il tendenziale equilibrio patrimoniale e finanziario della fondazione; »

 

16. Terminata questa rapida carrellata delle varie figure pianificatorie e programmatorie che animano l’ordinamento italiano si può tentare di delineare, delle stesse, i tratti comuni e quelli differenziali.

A. Il tratto comune delle diverse figure di cui si è dato conto è costituito da ciò che esse si concretano tutte in atti giuridici unilaterali, non negoziali (anche se qualificabili come dichiarazioni di volontà in senso lato) e di natura organizzativa, inidonei per questo ad incidere direttamente, in quanto tali, su situazioni giuridiche. Il che, fra l’altro, ne preclude tendenzialmente la autonoma impugnabilità (peraltro, talvolta queste figure possono costituire il presupposto di atti che incidono su situazioni giuridiche soggettive: attraverso, allora, l’impugnazione di tali atti è possibile far valere eventuali vizi della figura presupposta[4]).

B. I tratti differenziali sono dati da ciò che ciascuna figura, come si è potuto constatare, ha propri connotati strutturali (il contenuto) e funzionali (gli obiettivi, che peraltro risultano ormai tipizzati in due macrocategorie alternative: quelli di risanamento o ristrutturazione; quelli di liquidazione); ciascuna figura ha una propria disciplina (più o meno ampia che sia); ciascuna figura è idonea a produrre propri effetti.

C. Proprio in relazione agli effetti è comunque possibile individuare, nell’ambito dell’insieme complessivo, un sottoinsieme abbastanza omogeneo, quella delle figure che sono espressione della funzione organizzativa spettante all’organo di gestione di una procedura concorsuale. In tale sottoinsieme rientrano il programma di liquidazione nel fallimento, i programmi nell’amministrazione straordinaria, il programma di risoluzione nella risoluzione bancaria, il programma per la prosecuzione o la ripresa dell’attività delle aziende sequestrate e confiscate.

Queste figure si caratterizzano per ciò che esse producono tutte un preciso vincolo all’operare dell’organo di gestione: una volta che il programma abbia ricevuto l’approvazione da parte dell’organo a cui la legge abbia attribuito il relativo potere (nel fallimento il comitato dei creditori; nell’amministrazione straordinaria il Ministro dello sviluppo economico; nella risoluzione bancaria il Ministro dell’economia; nella procedura relativa alle aziende sequestrate e confiscate il tribunale), l’organo di gestione è tenuto ad attuarlo ed a rispettarlo, la mancata attuazione o il mancato rispetto potendo costituire giusta causa di revoca dell’organo e, d’altra parte, fonte di responsabilità a carico dello stesso.

Le altre figure possono tutte considerarsi, genericamente, espressione dell’autonomia organizzativa dell’impresa o, più in generale, del debitore[5]. I loro effetti sono però differenziati.

Il piano nel concordato preventivo non è idoneo a produrre alcun effetto fino a quando la proposta concordataria non venga accettata dai creditori ed omologata dal tribunale; una volta che sia intervenuta l’omologazione, il debitore è tenuto ad attenersi al piano, gli scostamenti dal quale possono integrare una causa di risoluzione del concordato (discorso analogo vale con riferimento al piano nella procedura di accordo del sovraindebitato).

Il piano di risanamento attestato ed il piano di risanamento nella disciplina delle società pubbliche – che sono strutturalmente affini fra loro e che si caratterizzano per essere svincolati da ogni procedura o procedimento – producono gli effetti tipici di qualunque programmazione aziendale (possono essere accostati ai piani strategici, industriali e finanziari, di cui all’art. 2381 c.c., ai piani industriali e finanziari, di cui all’art. 2409-terdecies c.c., ed al piano economico e finanziario di cui all’art. 2501-bis). Essi, in quanto non diretti (indirizzati) a terzi[6], hanno rilevanza in principio solo interna (nel senso, in particolare, che l’organo amministrativo che ne sia l’autore deve darvi attuazione). Da essi non scaturiscono obblighi nei confronti dei terzi: però, i piani, ove siano pubblicati (come è possibile per i piani di risanamento attestati) o comunque comunicati o resi noti ai terzi, possono determinare in questi ultimi un affidamento la cui lesione può costituire fonte di responsabilità extracontrattuale o precontrattuale.

 

17. Le figure pianificatorie qui considerate possono tutte contenere previsioni concernenti le cosiddette operazioni straordinarie e talvolta la relativa disciplina ne fa espressa menzione: così, il programma dell’amministrazione straordinaria con indirizzo di ristrutturazione deve contenere le «eventuali previsioni di ricapitalizzazione dell’impresa e di mutamento degli assetti imprenditoriali» (art. 56, comma 3 d.lgs. n. 270/1999); così, il piano nel concordato preventivo può prevedere «cessione dei beni, accollo, o altre operazioni straordinarie» (art. 160 l.fall.).

Con riferimento a simili previsioni e con riguardo all’ipotesi che la vicenda in cui si inserisce la figura pianificatoria riguardi una società e specificamente una società di capitali si è da tempo posta e tuttora si pone una serie di delicati quanto importanti problemi. Il problema centrale è se nelle ipotesi considerate debba ritenersi o no operante la regola generale, posta dal diritto societario comune, secondo la quale le decisioni sulle operazioni straordinarie (operazioni sul capitale, fusioni e scissioni, trasformazione) spettano normalmente (non agli amministratori bensì) ai soci e specificamente, nelle società di capitali, all’assemblea straordinaria.

La dottrina prevalente ritiene che il nostro ordinamento sia tuttora caratterizzato dal principio di neutralità organizzativa, cioè il principio per il quale l’assoggettamento o l’ammissione ad una procedura concorsuale non tocca, di regola, le funzioni ed i poteri dell’organizzazione societaria in quanto tale: principio alla luce del quale essa dottrina afferma che, nelle suddette ipotesi, resta sempre necessario l’intervento, in qualche momento della procedura, della decisione dei soci (non mancano, naturalmente, opinioni – minoritarie – contrarie: come quella secondo la quale, nel concordato preventivo il cui piano preveda una operazione straordinaria, il provvedimento giudiziale di omologazione del concordato fornirebbe esso stesso il titolo sufficiente a produrre le modificazioni dell’organizzazione societaria contemplate nella proposta, in sostituzione delle deliberazioni assembleari eventualmente necessarie secondo la disciplina codicistica).

Va sottolineato, peraltro, che il principio di neutralità non costituisce affatto un dogma vincolante anche per il legislatore. Il legislatore ben può introdurre delle deroghe, e lo ha fatto o lo sta facendo anche e proprio per i profili che qui specificamente interessano.

Ci si riferisce, da un lato, all’art. 185 l.fall., nella parte in cui ha previsto una sorta di esecuzione coattiva di una proposta di concordato preventivo concorrente, che contempli un aumento di capitale con esclusione del diritto di opzione e che sia stata omologata, da parte di un amministratore giudiziario, dotato anche del potere di sostituirsi ai soci nell’esercizio del diritto di voto in assemblea; ed al correlato art. 6, comma 2, della l. n. 155/2017, il quale ha previsto che si debba«imporre agli organi della società il dovere di dare tempestiva attuazione alla proposta omologata, stabilendo che, in caso di comportamenti dilatori od ostruzionistici, l'attuazione possa essere affidata ad un amministratore provvisorio, nominato dal tribunale, dotato dei poteri spettanti all'assemblea ovvero del potere di sostituirsi ai soci nell'esercizio del voto in assemblea, con la garanzia di adeguati strumenti d'informazione e di tutela, in sede concorsuale, dei soci». E, dall’altro, all’art. 7, comma 2, lett. d), dell’appena menzionata l. n. 155/2017, dove si prevede che al curatore della liquidazione giudiziale (già fallimento) siano attribuiti «previa acquisizione delle prescritte autorizzazioni, i poteri per il compimento degli atti e delle operazioni riguardanti l'organizzazione e la struttura finanziaria della società, previsti nel programma di liquidazione, assicurando un'adeguata e tempestiva informazione dei soci e dei creditori della società nonché idonei strumenti di tutela, in sede concorsuale, degli stessi e dei terzi interessati».

Si tratta però di eccezioni rispetto al sistema, che come tali debbono essere intese ed interpretate.

 

 

IV. Verso la pianificazione della gestione dell’“ipotesi” di crisi?

18. In apertura si è visto come il nostro ordinamento si stia muovendo lungo le direttrici della progressiva anticipazione, dal punto di vista temporale, della soglia di attenzione per le vicende di crisi e della crescente rilevanza degli strumenti di pianificazione in funzione di prevenzione o di soluzione della crisi medesima. Si è poi dato conto sia delle nuove misure di prevenzione e di allerta, che si inseriscono pleno jure nella prima delle direttrici segnalate; sia della variegata congerie di piani e programmi che oramai affollano il sistema italiano del diritto della crisi, testimonianza dell’esistenza e dell’importanza della seconda.

Ci si potrebbe ora chiedere, in conclusione di questa analisi, se sia o meno auspicabile arretrare ancor di più la soglia di attenzione sino al punto di immaginare un obbligo in capo agli amministratori di pianificare la gestione di una crisi né attuale né imminente, ma semplicemente ipotizzata, simulando scenari patrimoniali, economici e finanziari in cui la società potrebbe trovarsi in un futuro più o meno prossimo.

 

19. In tale ottica, un rilievo del tutto peculiare assume la disciplina della crisi delle imprese bancarie e, in particolare, le figure del piano di risanamento e del piano di risoluzione.

Il primo, disciplinato dagli artt. 69-ter ss. del Testo Unico Bancario (TUB), contiene l’indicazione delle misure che la banca adotterebbe per far fronte a ipotetiche situazioni di difficoltà; deve essere predisposto e periodicamente aggiornato da ciascuna banca ed è valutato dall’autorità di vigilanza. Il secondo, disciplinato dagli artt. 7 ss. d.lgs. n. 180/2015, prevede le modalità per l’applicazione alla banca delle misure e dei poteri da attivare nell’ipotetico caso di risoluzione; deve essere predisposto e periodicamente aggiornato, per ciascuna banca, dall’autorità di risoluzione.

I dati da sottolineare sono, innanzi tutto, che le due figure realizzano contemporaneamente le due direttrici indicate nelle notazioni preliminari: l’uno e l’altro piano vengono infatti predisposti in relazione a future ed ipotetiche situazioni di crisi e quindi in uno stadio anticipato al massimo rispetto alla stessa insorgenza della crisi. E sono, poi, che tali piani non costituiscono pure e semplici simulazioni, ma concretano vere e proprie pianificazioni, in relazione alle quali l’autorità di vigilanza può arrivare a rimodellare completamente l’impresa. Per esempio, a norma dell’art. 69-sexies, co 3, lett c), TUB la Banca d’Italia, all’esito della valutazione del piano di risanamento, può «ordinare modifiche da apportare all’attività, alla struttura organizzativa o alla forma societaria della banca o del gruppo bancario o ordinare altre misure necessarie per conseguire le finalità del piano[7]».

 

20. Naturalmente, non è neppure lontanamente pensabile che l’articolata disciplina bancaria di cui si è appena detto possa essere “trasportata” puramente e semplicemente nel campo delle imprese di diritto comune.

In linea generale, bisognerebbe pensare a norme ad hoc, che prevedano e disciplinino apposite figure di “piani di risanamento”, ispirati appunto a quelli contemplati per le banche, stabilendo chi debba predisporli, chi debba verificarli o controllarli, quali ne siano gli effetti, ecc. Simili norme sarebbero senz’altro opportune: naturalmente avendo come destinatarie solo le società per azioni (o addirittura solo quelle che abbiano certe dimensioni).

Ci si potrebbe però porre un nuovo interrogativo alla luce di quanto ormai positivamente stabilito dalla legge delega n. 155/2017. Questa, come si è già visto, prevede, all’art. 14, l’introduzione sia del dovere degli amministratori «di istituire assetti organizzativi adeguati per la rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi per l’adozione tempestiva di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale», sia del dovere degli organi di controllo di avviso del verificarsi della crisi.

Ci si potrebbe interrogare, allora, se, fra gli assetti organizzativi adeguati possano annoverarsi anche e proprio i piani di risanamento diciamo così preventivi. La risposta non è semplice: da un lato, il concetto di “adeguatezza” è un concetto molto elastico, sicuramente suscettibile di abbracciare anche la figura in questione; dall’altro, un piano di risanamento del genere di quello di cui stiamo parlando è strumento complesso, costoso e, per altro verso, delicato.

Crediamo che si possa e si debba riflettere sull’argomento.

 

 

Nota Bibliografica

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[1] Dovendosi, all’evidenza, la continuità riferire ad un’attività, ossia, nella specie, all’impresa, non già ad un complesso di beni, seppure organizzato dal debitore per l’esercizio di quell’attività.

[2] Del resto, le nozioni che ne vengono date a livello di linguaggio comune sono assai vicine: secondo il vocabolario Treccani per “piano” si deve intendere «il complesso di indicazioni, ordinatamente elaborate e prefissate nella loro successione, per lo più (ma non necessariamente) in un documento scritto, secondo le quali si intende predisporre e regolare lo svolgimento di un’azione, di un’attività o di una serie di attività, di un’impresa»; e per “programma” si deve intendere l’«enunciazione particolareggiata, verbale o scritta, di ciò che si vuole fare, d’una linea di condotta da seguire, degli obiettivi a cui si mira e dei mezzi con cui s’intende raggiungerli».

In passato, era stato proposto di designare con il termine programma una figura più circoscritta rispetto al piano: ma questa idea non ha mai trovato sicuro conforto nelle norme (per esempio: l’art. 2, comma 5 d.l. n. 26/79, in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, contemplava un piano di risanamento che era parte di un programma: v. infra, nt. 3).

[3] Il d.lgs. del 1999 trova il suo diretto antecedente nel d.l. n. 26/1979 che aveva introdotto nel sistema italiano l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, la cui disciplina prevedeva del pari (all’art. 2, comma 5) la predisposizione da parte del commissario straordinario di un programma, il quale doveva «prevedere, in quanto possibile e tenendo conto degli interessi dei creditori, un piano di risanamento, coerente con gli indirizzi di politica industriale, con indicazione specifica degli impianti da riattivare e di quelli da completare, nonché degli impianti o complessi aziendali da trasferire e degli eventuali nuovi assetti imprenditoriali, per quanto possibile deve essere preservata l’unità dei complessi operativi, compresi quelli da trasferire».

È il caso di sottolineare, da un lato, che la normativa del 1979 costituiva parte di un articolato complesso di misure di ausilio alle imprese industriali in crisi ispirate tutte ad una logica programmatoria a tutti i livelli. Tale complesso comprendeva infatti:

- la l. n. 675/1977, che aveva previsto la concessione di ausili finanziari alle imprese industriali che realizzassero progetti di ristrutturazione e riconversione conformi ai programmi finalizzati approvati da un apposito comitato interministeriale;

- la l. n. 787/1978, che consentiva alle banche di partecipare a società consortili aventi ad oggetto esclusivo la sottoscrizione e la vendita di azioni od obbligazioni convertibili emesse da imprese industriali per aumenti di capitale o emissioni di obbligazioni connessi a piani di risanamento produttivo, economico e finanziario delle medesime imprese.

E, dall’altro, che la legge del 1999 trova un altro, meno diretto, antecedente nella l. n. 33/1993 relativa alla liquidazione del gruppo di società facente capo all’EFIM (ente pubblico di gestione delle partecipazioni statali nelle industrie manifatturiere). Tale legge aveva infatti previsto la sottoposizione dell’intero gruppo ad una sorta di amministrazione coattiva da parte di un commissario liquidatore, il quale, per quel che qui interessa, doveva predisporre un programma globale finalizzato alla liquidazione dell’intero gruppo, da attuare attraverso due indirizzi alternativi: la cessione a terzi di società, aziende, parti delle stesse (previa eventualmente la loro ristrutturazione, riaccorpamento, ecc.); o la liquidazione diretta delle società.

[4] Lo si ritiene, per esempio, in materia di programmi nell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi.

[5] Fa eccezione, peraltro, il piano di risanamento delle fondazioni musicali, che è predisposto con l’intervento anche del commissario straordinario ed è approvato, su proposta di quest’ultimo, dal Ministro.

[6] Non mancano però, sul punto, opinioni diverse.

[7] Si può aggiungere che a norma dell’art. 6 della BRRD, l’autorità può “ingiungere all’ente di: a) ridurre il proprio profilo di rischio, compreso il rischio di liquidità; b) attivare tempestive misure di ricapitalizzazione; c) riesaminare la strategia e la struttura dell’ente; d) modificare la strategia di finanziamento al fine di migliorare la resilienza delle linee di business principali e delle funzioni essenziali; e) modificare la propria struttura di governance».



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