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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 21/11/2019 Scarica PDF

Alla ricerca di una sintesi tra matematica e diritto nell'analisi del fenomeno anatocistico nel contratto di mutuo con ammortamento alla francese ...

Domenico Provenzano, Magistrato Civile del Tribunale di Massa


Nota a Trib. Torino 30 maggio 2019

 

1. Premessa: i termini della questione. I presupposti e la ratio dell’anatocismo “convenzionale” nel sistema codicistico (artt. 1283 e 1284 c.c.); le principali criticità della pronuncia in commento circa la nozione di scadenza-esigibilità dell’obbligazione per interessi in rapporto al momento di stipulazione della convenzione anatocistica.; 2. L’adozione della capitalizzazione composta nell’elaborazione del piano di ammortamento “alla francese” e l’ipotizzato effetto finanziario “multiforme” di tale regime finanziario (differenziato in funzione del criterio di calcolo degli interessi prescelto). Il meccanismo di determinazione del “debito residuo” ai fini della definizione della rata costante e del monte interessi. 3. Il rapporto tra il regime finanziario e la produzione degli interessi (proporzionale o esponenziale rispetto al tempo) alla luce della disciplina codicistica (artt. 821 comma 3 e 1284 comma 1 c.c.). 4. Conclusioni.

   

1. Premessa: i termini della questione. I presupposti e la ratio dell’anatocismo “convenzionale” nel sistema codicistico (artt. 1283 e 1284 c.c.); le principali criticità della pronuncia in commento circa la nozione di scadenza-esigibilità dell’obbligazione per interessi in rapporto al momento di stipulazione della convenzione anatocistica.

Una recente ed articolata pronuncia di merito, pur ammettendo – a fronte dei rilievi della pressochè pacifica letteratura scientifica in materia[1] – che nell’elaborazione dei piani di ammortamento dei finanziamenti con rimborso rateale “alla francese” oggetto della comune casistica giudiziaria viene solitamente adottato il regime finanziario della capitalizzazione composta (ai fini della determinazione della rata costante) e che, di conseguenza, anche il monte interessi viene in tal caso quantificato secondo tale regime, per importo superiore a quello che riverrebbe qualora il piano fosse elaborato in regime di capitalizzazione semplice, e ciò in ragione dell’addebito di interessi (ulteriori) computati su quelli (primari) che compongono le rate successive alla prima (“Dato il capitale (C), il tasso di interesse periodale (i) e il numero di periodi di ammortamento (n), l'importo della rata costante (R) è calcolato secondo la formula

Poiché il tempo (“n”) è esponente e non fattore, nella determinazione della rata costante è implicita l’applicazione dell’interesse composto sul capitale”) - ha nondimeno escluso che siffatto meccanismo comporti la violazione del divieto di anatocismo di cui all’art. 1283 c.c..[2]

Il presente commento alla citata sentenza rappresenta l’occasione per un’analisi ad ampio raggio della richiamata tematica, attualmente oggetto di acceso dibattito e di contrasti interpretativi sia in dottrina che in giurisprudenza[3], in ragione, tra l’altro, dell’incessante, ondivaga (e non poche volte di complessa sistemazione esegetica) produzione legislativa in materia e della rilevanza economico-sociale degli interessi in gioco[4].

Al di là del preliminare rilievo per cui la formula dianzi prospettata nella pronuncia in commento attiene, in realtà, specificamente (e soltanto) “all’ammortamento “alla francese” di un prestito nel regime finanziario della capitalizzazione composta con tasso d’interesse costante”, essendosi in tal modo (erroneamente) dato per presupposto che la capitalizzazione composta sia l’unico regime finanziario applicabile nella metodologia di ammortamento a rata costante - ben potendo essa essere invece sviluppata anche in capitalizzazione semplice (nel qual caso la rata costante di ammortamento risulta invece espressa dalla diversa formula

(come ha avuto modo di rimarcare autorevole letteratura matematica)[5] - ciò che soprattutto interessa al fine di impostare correttamente l’analisi giuridica della tematica in questione è enucleare le ragioni addotte nella citata sentenza a giustificazione dell’asserita esclusione di qualsivoglia effetto anatocistico nell’impiego del regime composto ai fini dell’elaborazione di un piano di ammortamento “alla francese”; onde verificare la correttezza di tale assunto sia sotto il profilo giuridico che in rapporto alla scienza matematica finanziaria, ambiti di indagine strettamente ed ineludibilmente connessi in funzione di un rigoroso e compiuto approccio metodologico alla ridetta tematica.

Le argomentazioni cui si è fatto ricorso nella pronuncia in esame per pervenire alla suindicata conclusione consistono, in buona sostanza: per un verso, nell’apodittico assunto secondo cui l’incremento esponenziale del monte interessi conseguente all’adozione del regime composto nel piano di rimborso rateale assumerebbe (sempre e comunque) una sorta di funzione risarcitoria e/o sanzionatoria nei confronti del debitore per un ipotetico mancato o inesatto adempimento all’obbligo di corrispondere (preesistenti) interessi primari (“Nell’art. 1283 c.c., la produzione di nuovi interessi (c.d. secondari, anatocistici) trova la propria fonte nell’inadempimento all’obbligo di pagare gli interessi c.d. primari alla scadenza prevista (“interessi scaduti”) ….. Se si considera che <> (art. 1282 c.c.), esce evidente che il divieto di anatocismo specificamente contraddice questa regola, postulando un debito per interessi, bensì “scaduto”, e quindi “esigibile” (art. 1282 c.c.) per essersi verificata la scadenza del termine di adempimento (e ogni altra condizione) che le parti hanno previsto in contratto, ma incapace di produrre a sua volta interessi (anatocistici) <>”)[6]”; per altro verso, nella considerazione - evidentemente sottesa a quella appena esposta ed alla stessa correlata sul piano logico - secondo la quale il divieto di anatocismo convenzionale (in difetto delle condizioni previste dall’art. 1283 c.c.) riguarderebbe necessariamente soltanto le ipotesi in cui la clausola anatocistica attenga ad un’autonoma e preesistente obbligazione per interessi già scaduta e quindi già esigibile al momento della stipulazione della medesima clausola, non vedendosi altrimenti, in difetto di siffatto ipotetico scenario, come possa essere postulato, fin dal momento della conclusione della ridetta convenzione (generalmente contenuta nello stesso contratto di finanziamento attraverso il richiamo all’allegato piano di ammortamento), un “inadempimento” del debitore (in tesi necessariamente) giustificativo della (pur riconosciuta) lievitazione esponenziale degli interessi implicata dall’adozione del regime composto (“Nell’art. 1283 c.c., la produzione di nuovi interessi (c.d. secondari, anatocistici) trova la propria fonte nell’inadempimento all’obbligo di pagare gli interessi c.d. primari alla scadenza prevista ….. il divieto di anatocismo specificamente contraddice questa regola, postulando un debito per interessi, bensì “scaduto”, e quindi “esigibile” (art. 1282 c.c.) per essersi verificata la scadenza del termine di adempimento”). Nel prospettare siffatto assunto, il giudicante ha evidentemente prestato adesione all’indirizzo recepito da certa dottrina: “Vuoi un’interpretazione attenta al collegamento dell’art. 1283 con l’art. 1282 e al ruolo effettivamente assegnato all’art. 1283 c.c. nell’ambito delle obbligazioni pecuniarie, vuoi l’elemento testuale, rappresentato dal riferimento agli interessi “scaduti”, univocamente rendono assai problematico riferire a questo articolo le ipotesi in cui il fenomeno di capitalizzazione abbia luogo su interessi non ancora esigibili alla stregua dell’art. 1282 c.c., vale a dire con riguardo ad interessi dei quali non sia ancora dovuto il pagamento e che, anzi, il debitore sia legittimato dalla legge o dal titolo a trattenere: in questo caso, la produzione di interessi su interessi, non essendo diretta a ristorare il danno da inadempimento del debito di interessi semplici, si colloca al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 1283 c.c.; costituisce una fattispecie diversa da quella disciplinata da tale disposizione, che – si ripete - almeno a stare al suo tenore letterale, ha ad oggetto esclusivamente le conseguenze di un ritardato adempimento del debito di interessi.” [7].

In perfetta sintonia con la teorica ricostruttiva appena delineata, nella motivazione della sentenza del Tribunale di Torino si è quindi affermato che “La produzione di interessi su interessi è … causa bensì necessaria ma non sufficiente del divieto di anatocismo, poiché determinanti nella considerazione legislativa del divieto sono: dal lato del creditore, l’esigibilità immediata dell’interesse primario …”; salvo precisare, nel medesimo contesto, che ulteriore fondamento giustificativo dello stesso divieto sarebbe “dal lato del debitore, il pericolo di indefinita crescita del debito d’interessi, incalcolabile ex ante, prima che l’inadempimento si sia verificato”. A ben vedere, l’affermazione appena citata, in riferimento alla contrapposizione tra le posizioni del creditore e del debitore, rivela, di per sé, l’intrinseca contraddizione logica che permea la soluzione esegetica in questione: in effetti, trattandosi di un medesimo rapporto obbligatorio, o l’inadempimento (sempre che si voglia postularne la necessità, nel contesto dell’anatocismo “convenzionale”) viene configurato (sempre) già in essere al momento della stipulazione della convenzione anatocistica (situazione prospettata nella pronuncia per il solo creditore), oppure esso è destinato a manifestarsi (anche) nel corso dell’esecuzione del medesimo rapporto, in riferimento all’ (eventuale e futuro) omesso, non integrale o tardivo pagamento delle rate (comprensive di quote interessi) che maturano a seguito della costituzione del vincolo (situazione, questa, predicata nella medesima sentenza per il solo debitore); diversamente, non avrebbe senso, a tale ultimo riguardo, il succitato riferimento al “pericolo di indefinita crescita del debito d’interessi, incalcolabile ex ante, prima che l’inadempimento si sia verificato”, così come resterebbe priva di rilievo sostanziale la considerazione, espressa nella medesima pronuncia del Tribunale di Torino, con la quale si è testualmente evidenziato che “l’art. 1283 c.c. impedisce al debitore di assumere “ora per allora” un’obbligazione che (la stessa disposizione, n.d.r.) presume – per valutazione legislativa tipica – eccessivamente onerosa, perché l’entità del maggior debito assunto per interessi anatocistici è incalcolabile ex ante”. In effetti, tale ultima argomentazione presuppone che, almeno con riferimento ai finanziamenti con rimborso rateale, gli interessi primari maturino normalmente soltanto nel corso dell’esecuzione del relativo rapporto obbligatorio e quindi successivamente alla stipulazione della clausola anatocistica contenuta nel contratto con cui viene concesso il prestito; non vedendosi, ciò posto, come essi possano allora ritenersi definiti dalla norma come (sempre e necessariamente) “scaduti” - e quindi esigibili - già in tale momento.


Va peraltro evidenziato che l’art. 1283 c.c. fa espresso riferimento agli interessi sic et simpliciterscaduti”, non già (in ipotesi) necessariamente a quelli già in precedenza dovuti  e rimasti insoluti alla scadenza (anteriormente alla stipulazione della pattuizione anatocistica). Ne deriva, sotto tale profilo, un’evidente ed indebita sovrapposizione (o forse confusione), nel contesto della ricostruzione recepita nella sentenza in commento, tra interessi anatocistici ed interessi di mora (“il divieto codifica un dovere del creditore di comportarsi secondo un canone di correttezza…, impedendogli di “lasciar correre” interessi di mora sugli interessi primari scaduti, visto che il debito per interessi “scaduto” è esigibile e che il creditore può pretendere il pagamento immediato”); ricostruzione del resto diffusa anche presso la suindicata dottrina, laddove ha in proposito rilevato che la disciplina di cui all’art. 1283 c.c., nel limitare l’ammissibilità dell’anatocismo, si pone in contrasto “non solo con la regola della naturale fecondità del denaro in genere, ma anche con l’altra … per la quale l’inadempimento di un’obbligazione pecuniaria determina il decorso di interessi moratori[8]. Trattasi, in realtà, di tipologie di interessi aventi funzioni ben diverse, non sempre (e comunque non necessariamente) coincidenti: al di là del rilievo per cui, in presenza di rate composte da somme riconducibili in parte all’obbligazione restitutoria e in parte a quella accessoria, in caso di inadempimento gli interessi di mora maturano principalmente sulla sorte capitale, ancor prima che sui relativi interessi primari (ciò che di per sé vale a rivelare il distinto ed autonomo fondamento giustificativo della mora rispetto a quello proprio dell’anatocismo, che invece, per sua stessa natura, non può che attenere alla sola obbligazione per interessi), il fatto che una peculiare forma di anatocismo consentita ex lege (o, se si vuole, un’ipotesi di deroga al divieto codicistico di anatocismo) sia quella consistente nell’addebito degli interessi moratori sull’intera rata di rimborso del mutuo rimasta insoluta alla scadenza, comprensiva della quota interessi di pertinenza (secondo quanto già previsto, per i mutui fondiari, dall’art. 38, comma 2 del R.D. n. 646/1905, dall’art. 14 comma 2 del D.P.R. n. 7/1976 e dall’art. 16 comma 2 L. n. 175/1991 e come stabilito più recentemente per le operazioni di finanziamento dall’art. 3 della Delibera C.I.C.R. del 09.02.2000 e poi dall’art. 120 comma 2, lett. b) del T.U.B. nel testo vigente e dalla relativa delibera del C.I.C.R. attuativa del 03.08.2016, rispettivamente in virtù di espressa clausola negoziale, secondo la disciplina più risalente, ed a prescindere dalla stessa, in base a quella da ultima citata), non vale certo a ridurre il fenomeno anatocistico a tali ipotesi settoriali[9]; ipotesi, quelle appena menzionate, la cui previsione risulterebbe del resto superflua qualora fossero sussumibili nel disposto di cui all’art. 120 T.U.B., disposizione che, peraltro, nella versione conseguente alla novella del 2016, prescrive attualmente il divieto di produzione di “interessi ulteriori” su quelli semplicemente “maturati[10], non più su quelli “scaduti” (e, quindi, sicuramente a prescindere dall’inadempimento del debitore)[11]. Per converso, l’effetto anatocistico ben può verificarsi in virtù dell’utilizzo del regime composto (e ciò proprio in virtù delle regole che governano tale regime) in relazione agli interessi corrispettivi previsti nel piano di ammortamento anche nello scenario di regolare adempimento dell’obbligazione restitutoria frazionata, piuttosto che soltanto in riferimento a quelli moratori (presupponenti l’inadempimento o l’inesatto adempimento). In realtà, come già accennato, costituisce nozione di comune esperienza che, nell’ordinaria casistica giudiziaria, le clausole anatocistiche (integrate dall’approvazione, nell’ambito dell’assetto contrattuale, del richiamato ed allegato piano di ammortamento a rata costante stilato secondo il regime di capitalizzazione composta) attengono generalmente non già ad ipotetiche pregresse obbligazioni per interessi primari già scadute ed esigibili al momento della conclusione del contratto di finanziamento (nel quale le ridette clausole solitamente sono inserite), bensì ad interessi primari (precisamente alle varie quote di interessi corrispettivi che compongono le singole rate di rimborso) destinati a maturare soltanto nella fase esecutiva dell’obbligo restitutorio fondato sul medesimo contratto (ciò che avviene tipicamente, per l’appunto, nei mutui a rimborso frazionato); di tal che, non pare corretto predicare la necessaria “esigibilità immediata” (ovvero, per quanto pare doversi intendere, la preesistenza rispetto alla conclusione del patto anatocistico) di interessi primari (già “scaduti”) – e, quindi, corrispondentemente, il pregresso e conclamato inadempimento del debitore all’atto dell’approvazione della relativa clausola negoziale - quale condizione indefettibile della pratica anatocistica ai sensi dell’art. 1283 c.c., ben potendosi la norma applicare, nei contratti di durata (quale è innegabilmente il mutuo a rimborso graduale nella fase esecutiva), anche alle rate destinate a scadere, nei termini concordati, nel tempo successivo alla loro stipulazione e quindi nella fase esecutiva del rapporto. In proposito, la Corte regolatrice ha, per l’appunto, avuto modo di rimarcare expressis verbis, che non si sottrae al citato divieto “l'obbligo per la parte debitrice di corrispondere anche gli interessi sugli interessi che matureranno in futuro”, essendo “idonea a sottrarsi a tale divieto solo la convenzione che sia stata stipulata successivamente alla scadenza degli interessi[12]. Con riferimento alla disciplina del Codice Civile del 1942, la dottrina tradizionale, del resto, nel porre in luce la non univoca natura degli “interessi sugli interessi” cui si riferisce l’art. 1283 c.c., ha escluso che essa possa essere configurata, sic et simpliciter, come moratoria, almeno per quanto concerne l’anatocismo convenzionale: “nel caso in cui essi dipendono da convenzione, siamo di fronte a veri e propri interessi convenzionali, soggetti alle norme generali”, mentre nell’ipotesi in cui essi abbiano fondamento nella domanda giudiziale, “non può dirsi che si tratti di interessi moratori poiché non è sufficiente né necessaria all’uopo la costituzione in mora del debitore; trattasi, adunque, di una classe a sé stante di interessi legali, che partecipano della natura degli interessi moratori e di quelli corrispettivi[13]; di modo che, in base a tale tradizionale inquadramento, l’unica affinità tra interessi di mora ed interessi anatocistici (ravvisabile nel comune presupposto dell’inadempimento) è stata a ben vedere constatata, nei termini appena evidenziati, soltanto con riguardo all’anatocismo giudiziale, di certo non già anche a quello convenzionale (cui è invece innegabilmente riconducibile il fenomeno della contabilizzazione di interessi su interessi nell’elaborazione del piano di ammortamento progressivo a rata costante stilato in capitalizzazione composta, in virtù della natura negoziale del richiamo allo stesso piano contenuto in contratto). A fronte di tale peculiare e non univoca natura, non a caso, parte della dottrina ha ricondotto gli interessi anatocistici ad una “classe a sé stante[14].

Invero, la Relazione del Guardasigilli Pisanelli al Codice Civile del 1865, con riguardo al disposto di cui all’art. 1232 dello stesso Codice, attribuiva agli interessi prodotti sugli interessi una funzione sostanzialmente risarcitoria, a fronte dell’inadempimento dell’obbligo di pagamento degli interessi primari (una volta scaduti), non soltanto con riferimento  all’anatocismo giudiziale, ma anche a quello convenzionale: “… è norma non contrastata di diritto che il debitore in mora deve risarcire i danni derivanti dalla medesima. ….. Ora, sia che la somma dovuta formi un capitale, sia che costituisca interessi sopra un capitale, il danno presunto si verifica ugualmente pel creditore che non riceve il pagamento. … Né può impedirsi che gli interessi, quando siano scaduti, vengano, mediante apposita convenzione, costituiti in capitale per far decorrere gli interessi sopra i medesimi. Se il debitore li pagasse, il creditore potrebbe impiegare la relativa somma ad interessi presso un terzo: perché si dovrà vietare che ciò si faccia lasciandoli a mano dello stesso debitore? Questi inoltre può non trovarsi in grado di pagare gli interessi dovuti senza ricorrere ad un imprestito sottoponendosi al pagamento di altri interessi; perché non potrà ritenere quelli già dovuti, qual nuovo imprestito, invece di ricercare un terzo che abbia a mutuarglieli? Si teme che il debitore aumenti per tal modo eccessivamente il suo debito verso lo stesso creditore; ma la sua condizione non cambia punto se aumenta il suo passivo obbligandosi verso un altro[15]; teorica, quella appena menzionata, del resto seguita anche dalla dottrina dell’epoca[16]. Non può tuttavia ritenersi che tali argomentazioni ricostruttive, pertinenti al sistema civilistico del XIX secolo, si attaglino anche alla disciplina dell’anatocismo convenzionale attualmente vigente e ciò sia in virtù del principio di autonomia (ontologica, contabile e giuridica) dell’obbligazione per interessi rispetto a quella per sorte capitale, principio in forza del quale la prima non può mai convertirsi nella seconda e che costituisce ormai ius receptum nella giurisprudenza della Suprema Corte, per quanto verrà in seguito chiarito; sia in considerazione del fatto che l’ordinamento ha in seguito consentito, con espresse previsioni normative succedutesi nel tempo (e, come dianzi accennato, non sempre in virtù di apposita pattuizione), l’addebito di interessi di mora sulle intere rate di rimborso dei finanziamenti (comprensive delle rispettive quote capitali e quote interessi) in caso di inadempimento alla loro scadenza e quindi anche sulla porzione di rata costituita da interessi; in particolare: fino al 01.01.1994, l’art. 38, comma 2 R.D. n. 646/1905, l’art. 14 comma 2 D.P.R. n. 7/1976 e l’art. 16 comma 2 L. n. 175/1991 in relazione ai mutui fondiari[17]; poi l’art. 120, comma 2, T.U.B., come modificato dall’art. 125 del D.Lgs. n. 342/1999, e l’art. 3, comma 1 della delibera attuativa C.I.C.R del 09.02.2000[18], con riguardo a tutte le operazioni di finanziamento con rimborso rateale; da ultimi, lo stesso art. 120 comma 2, lett. b), primo inciso, del T.U.B., come novellato dall’art. 17 bis del D.L. n. 18/2016, convertito in L. n. 49/2016, con riferimento all’addebito di interessi di mora sugli “interessi debitori maturati” anche nei rapporti di finanziamento, e l’art. 3 della relativa delibera C.I.C.R. attuativa n. 343 del 03.08.2016[19], senza che sia peraltro in tal caso prevista la necessità dell’approvazione da parte del debitore in sede pattizia.

Ne deriva che, a fronte di un ipotetico (pur sempre unico) inadempimento relativo alle rate di rimborso, stante la possibile compresenza, in forza delle disposizioni appena richiamate, di interessi anatocistici (quali quelli generati per effetto dell’applicazione del regime composto nei piani di ammortamento a rata costante) e di interessi di mora computati sui medesimi interessi anatocistici (nel caso in cui le rate, e quindi anche le rispettive quote interessi, rimangano insolute alla scadenza), deve concludersi che nell’attuale assetto ordinamentale – ove si voglia predicare l’inadempimento del debitore quale necessario presupposto della pattuizione anatocistica - pare privo di effettiva giustificazione (e non rispondente al principio di meritevolezza dell’interesse sotteso ad una clausola di tal genere, ex art. 1322 c.c.) reintegrare la sfera giuridica del creditore (giova ribadire, in relazione ad una medesima fattispecie di inadempimento) attraverso una duplice forma di ristoro, vale a dire, in ipotesi, sia con il computo di interessi ulteriori (anatocistici) calcolati su quelli corrispettivi insoluti (interessi ulteriori che devono considerarsi anatocistici per l’appunto “per la parte di rata composta da interessi primari”)[20], sia con l’obbligo, stabilito dalle previsioni normative dianzi citate, di corrispondere interessi di mora calcolati anche su questi ultimi, oltre che sulla quota capitale contenuta nella stessa rata); e ciò non fosse altro che per il fatto che, in realtà, nel momento in cui è formato il piano di ammortamento nell’ambito del quale sono distribuiti gli interessi anatocistici implicati dall’impiego del regime composto, alcun inadempimento relativo alle rate di rimborso (giustificativo del “carico” anatocistico, in base alla mentovata teorica) può essersi (ancora) verificato, né in rapporto all’obbligazione principale (restituzione del capitale), né in relazione a quella accessoria (pagamento degli interessi). In altri termini, se nel sistema vigente l’inadempimento o l’inesatto adempimento all’obbligo di pagamento degli interessi (corrispettivi) è ormai compensato e/o ristorato attraverso l’addebito di interessi moratori computati su questi ultimi (analogamente a quanto avviene con riguardo all’obbligazione per sorte capitale insoluta alla scadenza), non si vede come la stessa funzione “riparatoria” (dell’illecito contrattuale) possa essere contemporaneamente riconosciuta anche agli interessi anatocistici (sub specie di maggiorazione di quelli corrispettivi) - con conseguente  ipotetica duplicazione del ristoro per il creditore - se non in virtù di un tralaticio (ed acritico) ossequio alla, già ricordata, tradizionale teorica dottrinale inerente alla disciplina del Codice Civile del 1865 (costituente parte di un ordinamento nel quale, però, non era dato rinvenire siffatta duplicazione); quanto appena esposto specie ove si consideri la portata forfettaria ed omnicomprensiva di ogni profilo di pregiudizio patrimoniale propria della liquidazione (e della relativa pattuizione) degli interessi di mora ex art. 1224 comma 1 c.c..[21] Non è casuale, del resto, che, quanto all’ambito operativo dell’art. 1283 c.c., sia consolidata in giurisprudenza la consapevolezza che tale norma trova applicazione rispetto a qualsiasi tipo di interessi, compensativi, corrispettivi o moratori[22]; di modo che la Suprema Corte ha espressamente qualificato nulla la clausola contrattuale che preveda, per l’ipotesi di mancato pagamento della rata, l’addebito di interessi di mora anche sulla quota interessi di quest’ultima in relazione a fattispecie cui non siano applicabili ratione temporis le specifiche disposizioni settoriali dianzi citate, riconducibili ad un anatocismo “legale” disciplinato in deroga ai limiti ed alle condizioni stabilite dalla norma codicistica[23]. Quanto appena esposto dimostra, in definitiva, la distinzione (per diversità di natura giuridica e di modalità operativa) tra gli interessi anatocistici (che si caratterizzano per il peculiare criterio di formazione degli stessi, prodotti su interessi primari, a prescindere dal rispetto o dalla violazione dell’obbligo solutorio) e di quelli moratori (che invece effettivamente presuppongono - e sono volti a ristorare forfettariamente - l’inadempimento di una pregressa obbligazione pecuniaria, principale o accessoria, e consistono, generalmente, in una percentuale di quest’ultima). Eppure, il suindicato fondamento giustificativo dell’anatocismo (anche convenzionale), in funzione (necessariamente) riparatoria-compensativa del pregiudizio che al creditore deriva dall’inadempimento o dall’inesatto adempimento dell’obbligazione accessoria per interessi (inquadramento che rappresenta retaggio della disciplina codicistica del XIX secolo), è stato di fatto recepito come tradizionale ed intangibile postulato anche da buona parte della più recente ed accreditata dottrina[24]; ad esempio laddove, nel trattare dell’impiego del regime composto ai fini della determinazione del T.A.E.G., si è testualmente affermato: “Il tasso composto è la logica risultante della fruttuosità del capitale: se gli interessi, con il regolare pagamento, divengono capitale che può essere nuovamente impiegato, generando interessi, si giustifica – sul piano prettamente economico-finanziario – una pari produttività degli interessi scaduti e rimasti impagati, che, attraverso la capitalizzazione, vengono a ‘comporsi’ fruttando nuovi interessi (anatocismo); in altri termini, la mancata disponibilità degli interessi scaduti trova compensazione nella capitalizzazione che replica la fruttuosità del capitale liquido ed esigibile. Dalla fruttuosità stessa del capitale discende il naturale regime dell’interesse composto al quale si ricollega la formula del TAEG.”[25]; e laddove, secondo lo stesso inquadramento dogmatico, si è sostenuto che “Il divieto di cui all'art. 1283 c.c. investe il fenomeno degli interessi scaduti e presuppone, pertanto, un ritardo del debitore nell'adempimento, il quale genera … interessi”, presupposto ricostruttivo, questo appena indicato, che non può che riflettersi sulla conclusione secondo cui “il divieto dell'anatocismo investe proprio tale fattispecie e quindi, in mancanza di un uso contrario, non si vede come nel mutuo o negli altri contratti possa essere consentita la produzione di interessi sugli interessi”[26]. Invero, ipotizzare che il fenomeno dell’anatocismo (in particolare, quello convenzionale) possa concernere (necessariamente) soltanto interessi scaduti al momento della stipulazione del patto anatocistico significa attribuire una portata precettiva parziale alla disposizione, rendendola di fatto “monca”.In realtà, l’impiego del regime della capitalizzazione composta può implicare effetti anatocistici anche in uno scenario di evoluzione fisiologica del rapporto in fase esecutiva, vale a dire a fronte di un regolare adempimento del debitore e quindi non soltanto nell’ipotesi di interessi rimasti insoluti alla scadenza del relativo termine di adempimento, secondo quanto verrà chiarito. Sempre con riguardo alla teorica che riconduce ad un pregresso inadempimento ed alla conseguente esigenza di reintegrazione della sfera giuridica del creditore il fondamento giustificativo dell’anatocismo (anche convenzionale), giova osservare che l’adesione a siffatta ricostruzione non può prescindere dall’esame del rapporto tra l’art. 1283 c.c. e l’art. 1224, comma 2 c.c. (che, come noto, subordina all’assolvimento di specifico onere probatorio circa gli ulteriori profili di pregiudizio la risarcibilità del maggior danno da inadempimento delle obbligazioni pecuniarie). La tematica risulta in effetti affrontata in giurisprudenza, con particolare riguardo all’art. 35, comma 3 del D.P.R. n. 1063/1962 (recante l’“Approvazione del capitolato generale d’appalto per le opere di competenza del Ministero dei lavori pubblici”), che, in relazione agli interessi per ritardato pagamento degli acconti dovuti dalla P.A. a titolo di corrispettivo delle opere pubbliche, stabiliva che “tutti gli interessi da ritardo sono interessi di mora comprensivi del risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1224, comma 2 c.c.”, norma sostituita dall’art. 30, comma 4 del D.M. n. 145/2000 che disciplinava (prima di essere abrogato con l’art. 358, lett. e) del D.P.R. n. 207/2010) il nuovo Capitolato di Appalto dei Lavori Pubblici, ai sensi del quale il saggio degli interessi di mora per ritardato pagamento (sia delle rate di acconto che della rata di saldo) era (in misura) “comprensiva del maggior danno ai sensi dell’art. 1224, 2° comma del c.c.”. La giurisprudenza, in proposito, per lungo tempo aveva oscillato tra due diversi orientamenti: in alcune pronunce si era sostenuto che gli interessi dovuti per il tardivo pagamento in base al succitato art. 35 del D.P.R. n. 1063/1962 non escludessero il risarcimento del maggior danno previsto dalla norma generale di cui all’art. 1224 comma 2 c.c., pertanto non derogata dalla citata disciplina di settore[27]; con altri arresti la Suprema Corte aveva invece recepito l’opposto principio secondo cui il pregiudizio derivato dall’inadempimento dell’obbligazione di interessi non potesse che essere tutelato soltanto con la norma sull’anatocismo di cui all’art. 1283 c.c. (nel rispetto dei limiti e delle condizioni dalla stessa posti), dovendosi quindi gli interessi di mora previsti dal Capitolato di Appalto di Lavori Pubblici intendere come comprensivi del risarcimento del maggior danno (generalmente liquidato attraverso la rivalutazione monetaria) subito dall’appaltatore[28]. Il contrasto è stato finalmente composto da una pronunzia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la quale è stato accolto l’indirizzo da ultimo menzionato ed è stato affermato che l’obbligazione di interessi di qualsiasi natura (ivi compresi quelli di cui all’art. 35 del D.P.R. n. 1063/1962) non si configura (anche qualora sia adempiuta l’obbligazione principale) come una qualsiasi obbligazione pecuniaria, dalla quale deriva il diritto agli ulteriori interessi di mora nonché il risarcimento del maggior danno ex art. 1224 comma 2 c.c., essendo invece soggetta alla norma speciale sull’anatocismo, di cui all’art. 1283 c.c., derogabile solo dagli usi contrari[29]. Si è infatti precisato, al riguardo, a definizione della vicenda  giurisprudenziale in questione, che tale ultima disposizione non comporta soltanto un limite al principio generale di cui all’art. 1282 c.c., ma vale anche a rimarcare la particolare natura che, nel quadro delle obbligazioni pecuniarie, la legge attribuisce al debito per interessi, con la previsione di una disciplina specifica, che si pone come derogatoria rispetto a quella generale in tema di danno nelle obbligazioni pecuniari (stabilita dall’art. 1224 c.c.) e che proprio per il suo carattere di specialità deve prevalere su quest’ultima norma [30]. Con la richiamata pronuncia le Sezioni Unite hanno precisato che “se così non fosse, … l’art. 1224 verrebbe ad assorbire tutto il campo applicativo dell’art. 1283 c.c., che resterebbe circoscritto ai casi in cui il debito per interessi è quantificato all’atto della proposizione della domanda giudiziale. Ma una simile limitazione dell’ambito applicativo del citato art. 1283 c.c. non emerge dal dettato della norma e viene anzi a porsi con essa in contrasto, perché trascura la peculiare natura del debito per interessi sopra segnalata ed elude, almeno in parte, la finalità di tutela per la posizione del debitore che la norma ha previsto stabilendo in quali casi e con quali presupposti gli interessi scaduti possono essere produttivi di altri interessi”. D’altro canto, non sarebbe neppure conforme al principio di ragionevolezza un approdo ermeneutico che, in presenza di obbligazioni di pagamento aventi natura e contenuto identici (per interessi), rendesse applicabile al debitore che ha già pagato il debito principale l’art. 1224 c.c. (e quindi la responsabilità risarcitoria a titolo di maggior danno, ai sensi del comma 2 della stessa disposizione) ed al debitore totalmente inadempiente, e quindi convenuto per il pagamento sia del capitale che degli interessi, l’art. 1283 (con conseguente garanzia di rispetto, in relazione a questi ultimi, delle condizioni e dei limiti della pratica anatocistica)[31].

Se allora, con riguardo all’obbligazione avente ad oggetto gli interessi corrispettivi (primari), in forza del principio di specialità la previsione dell’addebito di interessi moratori applicati su questi ultimi va ricondotta alla norma sull’anatocismo (art. 1283 c.c.), piuttosto che a quella generale sulla mora (art. 1224 c.c.) – o, se si preferisce, laddove, in base a specifiche disposizioni normative, è consentito l’addebito di interessi anatocistici in dipendenza dell’inadempimento del debitore, a questi ultimi va in tali ipotesi riconosciuta funzione risarcitoria (e quindi sostanziale natura moratoria) – non può che escludersi che una funzione di tal genere possa realizzarsi (attraverso il computo di ulteriori interessi su interessi primari), al contempo, sia quale effetto del meccanismo anatocistico (ex art. 1283 c.c), sia a titolo di maggiorazione moratoria (ex art. 1224 c.c.) applicabile sugli stessi interessi corrispettivi insoluti (già comprensivi della loro componente anatocistica generata dal ricorso al regime di capitalizzazione composta); ciò che implicherebbe, all’evidenza, una (ingiustificata) duplicazione del ristoro per il creditore in riferimento ad un medesimo inadempimento.   

Ciò posto, è ben vero che l’art. 1283 c.c. fa espresso riferimento agli interessi “scaduti” rispetto al momento di stipulazione del patto anatocistico, ma, atteso che prevede esplicitamente in questo caso la legittimità di una clausola di tal genere (sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno sei mesi), la stessa disposizione regola (indirettamente, ma in modo inequivoco) anche gli interessi non (ancora) “scaduti” all’atto della conclusione della suddetta pattuizione (e quindi destinati a scadere nel corso dell’esecuzione del rapporto derivante dal contratto nel quale essa è trasfusa), attribuendo  (a contrario) a quest’ultima, in tale diversa ipotesi, lo stigma di illiceità (in quanto, per l’appunto, di formazione non “successiva” alla scadenza degli interessi primari cui essa si riferisce). La teorica criticata in questa sede, nel prospettare (peraltro per il solo creditore) la pregressa esigibilità (e quindi la già intervenuta scadenza) degli interessi primari rispetto al perfezionamento della clausola anatocistica quale presupposto necessario del divieto posto dall’art. 1283 c.c. (o, se si preferisce, dell’operatività dei limiti e delle condizioni dell’anatocismo legittimato dalla medesima disposizione), circoscrive oltremodo – recependo il suggerimento di parte della dottrina[32], ma, a ben vedere, in contrasto con la complessa ed effettiva ratio della previsione normativa - l’ambito di applicabilità della medesima disposizione imperativa in esame, che opererebbe quindi non già anche per le clausole trasfuse in contratti destinati a regolare i rapporti dagli stessi nascenti (in particolare, nei finanziamenti, le relative obbligazioni restitutorie), bensì soltanto in relazione a preesistenti obbligazioni accessorie (per interessi) già scadute e rimaste inadempiute al momento della stipulazione delle clausole de quibus (si pensi, ad esempio, ad un ipotetico accordo novativo o integrativo o alla pattuizione di una proroga dei termini di pagamento già fissati o, ad un’obbligazione di garanzia inerente ad un pregresso debito comprensivo dei relativi interessi primari (o anche avente ad oggetto soltanto questi ultimi), ovvero relativa soltanto a questi ultimi); limitazione che pare ancor più ingiustificata ove si consideri che, a ben vedere, come dianzi evidenziato, a norma dello stesso art. 1283 c.c. la stipulazione della clausola anatocistica concernente interessi (primari) già “scaduti” si configura di per sè legittima (tale essendo espressamente definita, per l’appunto, quella “posteriore alla loro scadenza”), purchè si riferisca ad interessi dovuti “per almeno sei mesi” (ovvero a fronte della disponibilità del capitale in capo al mutuatario protrattasi per tale periodo minimo), ciò che rende palese la contraddittorietà e l’infondatezza della teorica ricostruttiva in questione. Siffatta incongruenza emerge chiaramente anche laddove, sempre nella pronuncia in commento, la ratio dei limiti e delle condizioni dell’anatocismo stabiliti dall’art. 1283 c.c. è stata individuata, oltre che (“dal lato del creditore”) nella già menzionata “esigibilità immediata dell’interesse primario” (profilo con riferimento alla quale valgono le considerazioni appena espresse), anche (“dal lato del debitore”) nel “pericolo di indefinita crescita del debito d’interessi, incalcolabile ex ante, prima che l’inadempimento si sia verificato” e ciò in quanto l’art. 1283 c.c. impedisce al debitore di assumere “ora per allora” un’obbligazione che presume – per valutazione legislativa tipica – eccessivamente onerosa, perché l’entità del maggior debito assunto per interessi anatocistici è incalcolabile ex ante, non essendo noto al momento della convenzione l’ammontare dell’obbligazione per interessi primari che potrebbe restare in futuro inadempiuta, né prevedibile l’estensione del ritardo di pagamento”. Invero, delle due l’una: o l’inadempimento di una preesistente obbligazione accessoria e quindi l’ “immediata esigibilità” di interessi (già in precedenza) “scaduti” e rimasti insoluti al momento della stipulazione della convenzione anatocistica costituisce presupposto imprescindibile della disciplina posta dall’art. 1283 c.c., oppure detta disposizione deve ritenersi applicabile anche con riferimento ad interessi primari destinati a maturare ed a divenire esigibili soltanto nel corso dell’esecuzione del rapporto obbligatorio sorto per effetto del regolamento pattizio nel quale è trasfusa la ridetta convenzione (e, giova precisare sin da ora, indipendentemente dall’eventuale inadempimento del finanziato). In altri termini, trattandosi del medesimo vincolo obbligatorio, non pare corretto prefigurare una diversificata giustificazione giuridica della disciplina in esame a seconda che si abbia riguardo alla posizione del creditore (per il quale la convenzione anatocistica risulterebbe legittima sempre che attenga ad interessi già scaduti e rimasti insoluti al momento della stipulazione della stessa convenzione) o alla posizione del debitore (con riferimento al quale la stessa convenzione sarebbe illegittima se relativa ad interessi destinati a maturare ed a restare insoluti alla loro scadenza nel corso dell’esecuzione del rapporto); e ciò non fosse altro per la considerazione per la quale – più precisamente e, giova evidenziare, sia per il creditore che per il debitore - sotto il primo profilo, la convenzione anatocistica è legittima se successiva alla scadenza dell’obbligazione per interessi (secondo quanto espressamente stabilito dall’art. 1283 c.c.) soltanto a condizione che essi siano pattuiti per il godimento (fruttifero) del capitale di durata parli ad almeno sei mesi, mentre, sotto il secondo profilo, la stessa pattuizione si configura evidentemente illegittima anche se, per ipotesi, si riferisca ad interessi già scaduti e rimasti insulti anteriormente alla sua stipulazione, qualora non sia trascorso il suddetto periodo semestrale. In definitiva, alla luce della stessa linea interpretativa recepita nella sentenza in commento, o deve ritenersi che il disposto di cui all’art. 1283 c.c., nel porre il divieto di anatocismo, faccia riferimento necessariamente (sia per il creditore che per il debitore) ad interessi primari già “scaduti” all’atto della stipulazione della convenzione anatocistica e quindi ad un (pregresso) inadempimento del debitore rispetto ad una preesistente obbligazione per interessi primari, secondo quanto dato per presupposto nella parte iniziale della motivazione (“postulando un debito per interessi, bensì “scaduto”, e quindi “esigibile” (art. 1282 c.c.) per essersi verificata la scadenza del termine di adempimento (e ogni altra condizione) che le parti hanno previsto in contratto”); oppure si prefigura (anche in tal caso, per elementare coerenza, sia per il creditore che per il debitore) un inadempimento degli interessi primari destinato a verificarsi nel corso dell’esecuzione del rapporto che deriva dalla convenzione, come pure si è chiaramente affermato nello stesso contesto argomentativo (laddove si è per l’appunto fatto riferimento alla mancata conoscibilità, in capo al debitore, “al momento della convenzione, (del)l’ammontare dell’obbligazione per interessi primari che potrebbe restare in futuro inadempiuta”), dovendosi constatare che, peraltro, tale ultima opzione ermeneutica non pare certo conciliabile con la (pur contestualmente postulata) intervenuta scadenza degli interessi primari all’atto della formazione della ridetta pattuizione anatocistica.

A ben vedere, l’unica soluzione esegetica in grado di risolvere ragionevolmente l’ (apparente) impasse interpretativoconsiste nel prendere atto che, con riguardo ai finanziamenti a rimborso progressivo (così come anche in relazione alle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi contenute nei contratti di conto corrente, non a caso dichiarate nulle dalla Corte di legittimità per contrasto con l’art. 1283 c.c., a far tempo dalle sentenze “gemelle” della Suprema Corte n. 2374/1999, n. 3096/1999 e 12507/1999)[33], il fenomeno dell’anatocismo convenzionale (così come i limiti e le condizioni della relativa pratica stabiliti dall’art. 1283 c.c.) può riguardare sia interessi già scaduti ed esigibili al momento della stipulazione della convenzione anatocistica (e quindi a fronte di un preesistente inadempimento, inerente ad un pregresso rapporto obbligatorio, sorto anteriormente rispetto a tale momento), sia (ed invero ben più di frequente) interessi destinati a scadere “in futuro”, quali quote di pertinenza delle singole rate di rimborso del finanziamento che si susseguono successivamente alla conclusione della medesima convenzione (come chiarito dalla Corte regolatrice nella succitata sentenza n. 3805/2004); e ciò, giova precisare (nell’uno e nell’altro caso) – e diversamente dall’anatocismo giudiziale (che presuppone sempre, almeno in base alla prospettazione difensiva dell’attore, l’omesso o tardivo pagamento) - indipendentemente dall’inadempimento del finanziato (pregresso o futuro), pertanto anche nello scenario della regolare e tempestiva esecuzione del rapporto obbligatorio ed in ragione di un monte complessivo interessi già “caricato” (quale che sia la successiva sorte dell’obbligo solutorio gravante sul finanziato) della componente anatocistica all’atto della predisposizione del piano di ammortamento in regime di capitalizzazione composta, vale a dire fin dalla fase genetica del vincolo[34].

Alcun convincente elemento esegetico è dato evincere, in effetti, a conferma di un’interpretazione secondo la quale gli interessi di cui all’art. 1283 c.c, oltre che già “scaduti”, debbano essere necessariamente anche insoluti all’atto della conclusione del patto anatocistico, ben potendo la previsione normativa in questione trovare applicazione anche alle quote interessi che compongono le rate destinate a scadere nella fase esecutiva del vincolo obbligatorio (in particolare, dell’obbligo di restituzione del capitale previsto ex art. 1813 c.c.); ciò specie ove si consideri che, come dianzi precisato, nel finanziamento a rimborso graduale il monte interessi relativo all’obbligazione principale restitutoria viene determinato, ex ante, fin dal momento dell’elaborazione del piano di ammortamento (attraverso il progressivo aggiornamento, ora per allora, del debito residuo conseguente al pagamento delle rate successive, destinate a scadere), non già attraverso una pluralità di calcoli successivi effettuati, volta per volta, in occasione della scadenza delle singole rate[35]. Del resto, anche alla stregua di un criterio interpretativo di ordine logico, se, ai sensi del citato art. 1283 c.c., il fenomeno dell’anatocismo convenzionale fosse configurabile soltanto con riguardo ad interessi (primari) già scaduti all’atto della conclusione della relativa pattuizione, risulterebbe allora superflua la distinzione operata dalla stessa norma tra clausole anatocistiche antecedenti e successive a tale momento, al fine di sancirne, rispettivamente, l’illegittimità o la legittimità, atteso che – ipotizzando, per l’appunto, la necessaria pregressa esigibilità degli interessi primari quale imprescindibile presupposto della disciplina posta dalla citata norma imperativa – a ben vedere, la pattuizione anatocistica risulterebbe comunque sempre legittima (per l’appunto in ragione della, postulata, già intervenuta scadenza dei ridetti interessi al momento dell’approvazione della clausola de qua) e la disposizione si sarebbe quindi limitata a stabilire esclusivamente la debenza (almeno) semestrale dei medesimi interessi quale (unica) condizione di validità della stessa clausola pattizia. In altre parole, in tal caso la (supposta) portata precettiva della norma si sarebbe verosimilmente risolta in una formulazione più semplice e lineare, del tipo: in mancanza di usi contrari, (esclusivamente) gli interessi (già) scaduti al momento della proposizione della domanda giudiziale o della stipulazione di apposita convenzione (anatocistica) possono produrre interessi e solo da tale momento, sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno sei mesi.

Il termine “scaduti” di cui all’art. 1283 c.c., in definitiva, va ragionevolmente inteso come “una volta scaduti” (se del caso anche nel corso della fase esecutiva dell’obbligazione restitutoria); interpretazione che consente di estendere (in conformità alla ratio della norma) l’applicazione dell’art. 1283 c.c. anche agli interessi primari destinati a scadere nel corso del rapporto obbligatorio sorto dall’accordo contrattuale nel quale è inserita la pattuizione anatocistica.  Peraltro, anche in tema di anatocismo “giudiziale”, non mancano significativi contributi dottrinali[36] e pronunce giurisprudenziali (anche della stessa Corte di legittimità) in virtù dei quali è stato ritenuto possibile che con la domanda venga richiesto (anticipatamente) il pagamento degli interessi sugli interessi destinati a scadere nel corso del processo, vale a dire che si possa agire al fine di conseguire la corresponsione degli interessi (ulteriori) via via maturati (su quelli primari) e scaduti nel corso del giudizio (pertanto successivamente alla proposizione della medesima domanda), sia pure “sempre con il limite dell’esclusione di quelli scadenti nei sei mesi precedenti la pubblicazione della sentenza che li riconosca[37]; ciò che, in definitiva, costituisce conferma della possibilità che gli interessi anatocistici maturino su interessi che scadono successivamente alla stipulazione della clausola anatocistica o all’esercizio dell’azione (rispettivamente in riferimento all’anatocismo convenzionale ed a quello giudiziale).

La soluzione interpretativa sin qui criticata, in definitiva, pare comportare un’arbitraria vanificazione del presidio imperativo rappresentato dal medesimo art. 1283 c.c., in difetto di giustificazione di sorta compatibile con la ratio della stessa previsione normativa.

In realtà, la ratio della disciplina posta dall’art. 1283 c.c. è ben più complessa ed è ispirata ad una triplice finalità: in primo luogo, con particolare riguardo all’anatocismo convenzionale, essa è volta a rendere trasparente – in linea con la norma di cui all’art. 1284, comma 3 c.c. – l’onere economico costituito dagli interessi, in modo da assicurare la piena consapevolezza in capo all’obbligato in ordine al loro effettivo impatto economico sull’ammontare complessivo del debito e trova quindi fondamento nell’“esigenza di tutelare la posizione del debitore, evitando che quest’ultimo incorra nella difficoltà di “farsi a priori l’idea dei suoi risultati disastrosi[38] e ciò, giova ribadire, anche senza prefigurare lo scenario dell’inadempimento, ma in ragione dell’impiego dell’utilizzo della capitalizzazione composta (solitamente non indicato nel testo contrattuale); in secondo luogo, in riferimento al (comune) presupposto della durata almeno semestrale della debenza degli interessi primari[39] - la disposizione è tesa ad evitare che un’eccessiva brevità del periodo di maturazione degli stessi ai fini della maggiorazione anatocistica incida sulla quantificazione del tasso effettivamente praticato (assumendo, in sostanza, la funzione di “moltiplicatore incontrollabile” dei medesimi), dando così luogo ad una produzione di interessi abnorme, essendo stato lo stesso anatocismo, non a caso, eloquentemente definito dalla Corte regolatrice “forma subdola, ma socialmente non meno dannosa di altre, di usura[40]; infine, la previsione è diretta a evitare che il debitore possa trovarsi costretto ad accettare, quale condizione per l’accesso al finanziamento, la pattuizione di interessi anatocistici ancor prima che pervengano a scadenza quelli primari, in modo da evitare che il consenso del debitore sia carpito ed originato in ragione della posizione di squilibrio in favore di colui che concede il credito, ovvero che “il creditore ne imponga la stipulazione come conditio sine qua non per la concessione del mutuo[41]. La complessità del fondamento giustificativo della succitata norma imperativa, del resto, è stata esplicitata, per l’appunto nei termini sin qui esposti, in varie pronunce del Supremo Collegio[42]. L’evidenziata ratio della disposizione, improntata al favor debitoris, consente di comprendere il fondamento giustificativo delle eccezioni al divieto di anatocismo (o, se si vuole, delle condizioni in presenza delle quali esso è consentito dall’ordinamento): l’efficacia derogatoria degli “usi contrari” - al di là del retaggio storico rappresentato dal fatto che l’art. 1232 comma 2 del previgente Codice Civile del 1865 ammetteva, sia pure nella sola materia commerciale, usi in deroga al divieto di anatocismo posto dalla medesima disposizione - si spiega con la considerazione per la quale la ripetizione del comportamento e la convinzione della sua doverosità fanno ragionevolmente presumere la consapevolezza della portata economico–giuridica di quello stesso comportamento (ovvero, nel caso specifico, del costo del finanziamento), ragion per cui in tale ipotesi non v’è ragione per tutelare il debitore; analogamente, la “convenzione posteriore alla scadenza” degli interessi consente a quest’ultimo di valutare adeguatamente, nel rapporto tra capitale ed interessi già dovuti al momento della pattuizione anatocistica, la consistenza degli ulteriori interessi generati da tale operazione; la condizione della domanda giudiziale si giustifica in quanto, a fronte dell’inadempimento del debitore, la tutela non può che rivolgersi al creditore, in considerazione della perdita patrimoniale che lo stesso subisce, corrispondente al vantaggio economico che egli avrebbe conseguito impiegando il denaro che gli spettava in altre operazioni, avendo quindi (soltanto) in tal caso la maggiorazione anatocistica necessariamente la funzione di riequilibrare la posizione di quest’ultimo, evitando al contempo che il debitore ottenga un finanziamento a costo zero, traendo vantaggio dal proprio inadempimento[43].

Alcun significativo contributo al dibattito in materia deriva poi dall’affermazione - tratta da un’elaborazione dottrinale che ha omesso di considerare il rilievo assunto in tale ambito di indagine dall’algoritmo proprio del regime finanziario applicato[44] - secondo cui “la capitalizzazione composta nei contratti di credito” consisterebbe in “un modo per calcolare la somma dovuta da una parte all’altra in esecuzione del contratto concluso tra loro”, ovvero in “una forma di quantificazione di una prestazione o una modalità di espressione del tasso di interesse applicabile ad un capitale dato”[45]. Siffatto assunto non vale evidentemente, di per sé solo, ad escludere che l’adozione del regime di capitalizzazione composta non possa comunque determinare risultati contrastanti con il disposto imperativo di cui al citato art. 1283 c.c.; per altro verso, in realtà è proprio la scelta del regime finanziario applicato che determina il tasso di interesse effettivo risultante dal piano di ammortamento, non viceversa, e ciò in virtù dell’innegabile ragione per cui l’interesse semplice è tale in quanto “cresce come <> del tempo: ossia, ad una durata doppia corrisponde, a parità di capitale impiegato, interesse doppio”, mentre “l’interesse composto cresce come <> del tempo[46], principio del quale la stessa Corte di legittimità si è mostrata pienamente consapevole[47].


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