CrisiImpresa


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 01/04/2020 Scarica PDF

La resilienza dell'impresa di fronte alla crisi da Coronavirus mediante affitto d'azienda alla newco-start up, auto-fallimento e concordato "programmati"

Francesco Fimmanò, Professore ordinario di diritto commerciale presso l'Università delle camere di commercio "Universitas Mercatorum" di Roma e Vicepresidente del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti


Sommario - 1. La reazione dell’impresa a crisi esterne improvvise e congiunturali; - 2. Affitto dell’azienda ad una newco-start up, auto-fallimento e concordato fallimentare come programma catartico di “restart”; - 3. I vantaggi competitivi del concordato fallimentare assistito da garanzie o finanziamenti pubblici rispetto al concordato preventivo in continuità indiretta e comunque come variante di “second best”; - 4. La fenomenologia della fattispecie scrutinata; - 5. L’opponibilità al fallimento dell’affitto preesistente; - 6. La sorte dei rapporti pendenti in caso di retrocessione dell’azienda affittata; - 7. Il recesso ed i rimedi alternativi a garanzia della fisiologia del programma; - 8. Alcuni profili processuali della fattispecie; - 9. Prelazione legale e prelazione convenzionale all’acquisto dell’azienda affittata come variante del programma base; - 10. La legittimazione della società affittuaria start up con medesimo assetto proprietario alla presentazione del “concordato fallimentare del giorno dopo”.

 


1. La reazione dell’impresa a crisi esterne improvvise e congiunturali

L’era del coronavirus produrrà sul piano economico quanto accaduto in situazioni analoghe nella recente storia dell’umanità, solo con una gravità ed una rapidità esponenziale generata dalla globalizzazione, esattamente come si sta verificando per l’emergenza sanitaria.

La vicenda determinerà una grande crisi economica non strutturale che, come nei cicli storici precedenti, produrrà poi grande sviluppo per quei Paesi e quelle Imprese che abbiano saputo usare un approccio “resiliente”.

L’espressione è mutuata dalla tecnologia dei materiali intesa come attitudine degli stessi ad assorbire energia in conseguenza delle deformazioni elastiche e plastiche fino alla rottura[2]. Nel nostro caso indica la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare efficacemente la vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che l’evento dinamico dell’esistenza offre senza, si badi bene, alienare la propria identità[3].

Sono resilienti quelle persone e quelle imprese che, immerse in circostanze avverse, riescono, nonostante tutto e talvolta contro ogni previsione, a fronteggiare efficacemente le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria organizzazione e persino a raggiungere mete importanti ed imprevedibili prima degli eventi negativi[4].

Affinché vi sia resilienza, è tuttavia richiesta una strategia preventiva e, al contempo, una strategia reattiva, alle quali devono corrispondere drivers consolidati e non assetti completamenti nuovi, come ad esempio quelli delineati dal “Codice della crisi e della insolvenza”, la cui entrata in vigore, a nostro avviso, va rinviata al futuro, neppure prossimo[5].

D’altra parte il segnale è già arrivato dal rinvio per decreto di alcune parti e per alcune imprese della nuova normativa, specie per quanto concerne l’allerta, i cui indici sono inevitabilmente deformati dalla situazione eccezionale, che si somma alle già note criticità manifestate per l’attuazione delle misure da parte di imprese ancora non ben organizzate al riguardo e che dovranno indirizzare le proprie energie cognitive ad altro[6].

La resilienza in casi del genere è appunto di tipo “cognitivo” e richiede un contesto normativo ed identitario consolidato in quanto occorre riadattare l’esperienza e la conoscenza consolidata. Si tratta della capacità non tanto di resistere alle deformazioni, quanto di capire come possano essere ripristinate le proprie condizioni di conoscenza ampia, scoprendo una dimensione che renda possibile la propria struttura rendendola “invulnerabile”[7].

Vi sono processi economici e sociali che, in conseguenza del trauma costituito da una catastrofe, cessano di svilupparsi restando in una continua instabilità e, alle volte, addirittura collassano, estinguendosi; in altri casi, al contrario, sopravvivono e, anzi, proprio in conseguenza del trauma, con funzioni catartiche, trovano la forza e le risorse per una nuova fase di crescita e di affermazione in quanto capaci di programmare e gestire la reazione e talora persino la mutazione genetica.

Ma proviamo ad immaginare una strategia di resilienza specie per quelle imprese sane, che all’improvviso hanno perduto le proprie certezze e la dinamica dei propri cicli produttivi (e finanziari) e che non solo possono trovarsi sul baratro dell’incapacità di adempiere alle proprie obbligazioni ma divenire facili prede, a prezzi da saldo, di altre imprese concorrenti, specie straniere.

Un processo di adattamento dinamico - che consenta agli imprenditori di continuare a guardare al futuro nonostante le difficili condizioni del mercato e nonostante le circostanze terribili che si vedono costretti ad affrontare - può persino passare attraverso scelte apparentemente drammatiche, in realtà catartiche, come l’auto-fallimento. Questa capacità di “rimbalzo” di fronte alla inimmaginabile avversità dipende dalle risorse organizzative dell’imprenditore, dalla tempestività, dalla sua interazione con l’ambiente e dalla lucidità nel disvelare tutta la c.d. piramide degli eventi che hanno concorso a danneggiare il sistema, arrivando alla base e sanando non solo gli eventi anomali, ma anche quelli che potrebbero diventarlo [8].

Per eliminare tutte le inefficienze di una crisi improvvisa e devastante, ossia quelle ex ante dei c.d. gatekeepers, quelle intermedie in cui si commettono i principali errori e quelle ex post delle procedure concorsuali di durata e costi incompatibili con la riallocazione dei valori aziendali[9], occorre innanzitutto segregare tempestivamente il complesso produttivo in modo che sia funzionante e funzionale ad altro soggetto giuridico che abbia il medesimo assetto proprietario mediante un affitto virtuoso dell’azienda o di suoi rami, subito dopo richiedere l’auto-fallimento da parte del soggetto giuridico locatore ed infine realizzare ad opera dell’affittuario un concordato fallimentare diretto all’acquisto dell’azienda o, meglio ancora, alla fusione semplificata con la società tornata in bonis.

Il programma può avere nel suo sviluppo della varianti di “second best” che tuttavia non ne mutano la ratio complessiva che è quella di separare subito le passività dall’attività di impresa che deve proseguire con una strategia di contenimento delle morti delle imprese, laddove il fallimento della società meramente locatrice non determina chiusure di esercizi economici.

Il tutto in modo da avere una sorta di start up dotata però dell’intero corredo aziendale e cognitivo consolidato ma priva di debiti e pendenze da allocare in una bad company destinata alla lenta liquidazione od all’immediato fallimento.

Questo programma vale soprattutto per le imprese sane che abbiano subìto per effetto di traumi congiunturali, come quello della pandemia, un improvviso arresto del ciclo finanziario e produttivo e per le quali la velocità di reazione basata sulla conoscenza dell’azienda ed il mercato di riferimento siano decisivi. In questi casi l’asimmetria informativa ed il plusvalore dato dalla continuità aziendale (spesso sottovalutato) acquistano un ruolo diverso da quello ordinario che può essere valorizzato da norme speciali, ma che cercheremo di incanalare già nell’attuale assetto normativo, a partire dalla interpretazione evolutiva dell’art. 124 comma 1, ult. parte, sulla legittimazione temporale alla presentazione di una proposta di concordato fallimentare.

Nello speciale quadro fattuale delineato, questa forma di circolazione sui generis dell’azienda, per una serie di circostanze, configura una situazione tipo in cui l’interesse dell’economia alla continuità, alla salvaguardia dei valori produttivi e dell’occupazione può armonizzarsi con l’interesse dei creditori[10].

 

2. Affitto dell’azienda alla newco, auto-fallimento e concordato fallimentare come programma catartico di “restart”

L’affitto di azienda stipulato dall’imprenditore ancora in bonis, al fine contrattualmente dichiarato di segregare il complesso produttivo dai debiti, è un’operazione che la giurisprudenza ha avallato, tant’è che il codice della crisi e della insolvenza l’ha espressamente previsto come modalità di continuità indiretta nel concordato preventivo a norma dell’art. 84 comma 2, tacitando l’annoso dibattito[11].

In verità si è registrata in passato una generalizzata tendenza a considerarlo comunque “distrattivo” o “depauperativo” di per sé. Viceversa, a nostro avviso, esistono da un lato tutti gli strumenti per sanzionarne l’abuso realizzato in violazione dei criteri di corretta gestione imprenditoriale e societaria della crisi, mentre dall’altro lato deve esserne valorizzato ed incentivato l’uso virtuoso specie in una situazione eccezionale come quella prodotta dalla vicenda “coronavirus” che può determinare una oggettiva ed incolpevole impossibilità di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni.

Il fatto che lo strumento venga strategicamente inserito in un piano, che eventualmente anticipi e suggerisca il programma di liquidazione del curatore, non fa certo smarrire all’istituto la sua tipicità, così come concepita dall’ordinamento[12].L’occasione da cui trae origine il contratto e le ragioni programmatiche dello stesso non incidono sugli elementi essenziali che rimangono quelli “propri” di un affitto di azienda[13].

Gli eventuali abusi od asimmetrie non incidono sulla causa e sulla qualificazione del negozio, ma al contrario possono determinare una sperequazione nell’assetto degli interessi sicuramente valutabile dal curatore nel recedere o dal giudice delegato nel non riconoscere l’indennizzo previsto dalla legge. Strumenti di cui gli organi della procedura sono dotati e che appunto devono indurre il debitore a concepire un assetto programmatico virtuoso laddove voglia perseguire il programma delineato e che comunque escludono che ogni intento distrattivo possa realizzarsi o addirittura concepirsi, proprio in quanto dichiarato[14].

Infatti la riforma del 2006, nell’uscire dall’agnosticismo normativo che aveva riguardato la materia, ha non solo dato all’azienda, al ramo (e persino all’universalità di beni aziendali non costituenti compendio autonomo) una centralità nelle norme sulla liquidazione riallocativa dell’attivo (artt. 104 ss.), ma ha affrontato espressamente anche la questione del contratto di affitto preesistente, introducendo lo strumento spartiacque del recesso[15].

L’art. 79, l. fall., sancisce che “il fallimento non è causa di scioglimento del contratto di affitto d’azienda, ma entrambe le parti possono recedere entro sessanta giorni, corrispondendo alla controparte un equo indennizzo, che, nel dissenso tra le parti, è determinato dal giudice delegato, sentiti gli interessati. L’indennizzo dovuto dalla curatela è regolato dall’articolo 111, n. 1”.

Il legislatore, in realtà, ha preso atto che il fenomeno ha un particolare rilievo in sede concorsuale in quanto il contratto può essere stipulato dall’imprenditore in crisi nell’ambito di un programma diretto a “lasciare” i debiti alla procedura ed a permettere la prosecuzione dell’attività d’impresa ad una persona giuridica terza, anche con il medesimo assetto proprietario. E lo ha regolamentato proprio al fine di neutralizzarne ogni valenza distrattiva e gli organi della procedura (e aggiungerei i pubblici ministeri) devono coglierne la valenza decisiva e distinguere bene e con la doverosa sensibilità la fisiologia dalla potenziale patologia che è stata praticamente disinnescata col recesso legale che può essere accompagnato da pressochè automatici provvedimenti cautelari[16].

Tale programma può essere infatti concepito in modo virtuoso, dichiarato e “resiliente”, al fine di consentire una gestione ponte propedeutica ad evitare soluzioni di continuità dell’attività economica sullo sfondo di una definizione concordataria (preventiva o appunto fallimentare) della crisi, od in modo “abusivo” o persino “simulato”, al fine semplicemente di sottrarre alla massa le scelte di gestione dell’impresa e conseguentemente di amministrazione del patrimonio fallimentare, con un canone inadeguato e clausole contrattuali sfavorevoli alla curatela, quale prospettico avente causa .[17]

La espressa disciplina della fattispecie dettata dalla legge fallimentare vigente accentua la prima opzione di utilizzo tipico, in funzione di una rapidissima definizione concordataria (a guisa di bad company), garantita eventualmente dal prezzo di vendita dell’azienda all’affittuario oltre che dai canoni di locazione, come mera variante alternativa al modello base.Si è evidenziato che “ristrutturazione e infungibilità sono due facce della stessa medaglia, in altri termini, e ad essa mal si attaglia la rigidità della procedura selettiva basata su una gara le cui regole siano preformalizzate, spesso al buio, dagli organi concorsuali. La regola, nondimeno, è vincolante in funzione di una ideologica concezione dell’interesse dei creditori, benché, alla prova pratica, essa possa in concreto rivelarsi assai più pregiudizievole che non conveniente per gli stessi creditori in quanto capace di accentuare la leva della speculazione al ribasso sul prezzo e l’esclusione degli organi della procedura dall’area delle decisioni future che, aggiudicatasi l’azienda, l’acquirente compirà in beata solitudine”[18].

Tutto ciò anche in considerazione del fatto che il concordato fallimentare, può essere, oltre che una mera modalità subprocedimentale di chiusura del fallimento, una variante procedimentale del modello liquidatorio base, rappresentando una possibile alternativa allo stesso per la gestione e la sistemazione dell’insolvenza che sia stata accertata in via giudiziale, da attuare subito dopo tale accertamento.

La previsione della facoltà di recesso indennizzato - in cui l’eventuale valutazione del giudice va condotta sul piano dell’equilibrio delle prestazioni con riferimento al margine di guadagno che la parte si riprometteva di trarre dalla esecuzione del contratto - consente nella modalità di utilizzo, per così dire fisiologica, anche una corretta programmazione della fattibilità economica della sistemazione concordataria dopo il fallimento, anche a beneficio di eventuali finanziatori terzi.

Il tutto al fine di evitare quelle interruzioni improvvise dell’attività di impresa, esiziali, derivanti dalla riluttanza del mercato a contrattare con imprese in procedura concorsuale (anche in caso di concordato preventivo c.d. con continuità) o dal tempo necessario alla selezione ed alla contrattazione per un affitto successivo, visto che la gestione sostitutiva processuale realizzata attraverso l’esercizio provvisorio, rimane un’ipotesi eccezionale[19].

Nella situazione prodotta dal coronavirus molte imprese, già spesso sottocapitalizzate e con problemi pregressi di sottocapitalizzazione, si trovano ad affrontare una situazione che ha interrotto bruscamente i propri cicli, produttivi e finanziari, provocando una situazione cui reagire con una segregazione immediata del complesso produttivo dal titolare del patrimonio, inteso come insieme di attività e passività. Il passaggio successivo è l’autofallimento del soggetto locatore in funzione di un concordato fallimentare “premeditato” (o come “second best” di un preventivo) e la prosecuzione dell’impresa con la newco-start up affittuaria e aspirante concordataria.

 

3. I vantaggi competitivi del concordato fallimentare assistito da garanzie o finanziamenti pubblici rispetto al concordato preventivo in continuità indiretta e comunque come variante di “second best”

L’idea di un concordato fallimentare “del giorno dopo” è d’altra parte stata chiaramente concepita dal Legislatore della riforma del 2006 che, nel delineare il contenuto del programma di liquidazione, aveva collocato non a caso ai primi posti innanzitutto: a) l’opportunità di disporre l’esercizio provvisorio dell’impresa, o di singoli rami di azienda ai sensi dell’art. 104, ovvero l’opportunità di autorizzare l’affitto dell’ azienda, o di rami, a terzi ai sensi dell’articolo 104 bis; b) la sussistenza di proposte di concordato ed il loro contenuto.

Il programma di liquidazione è un atto a formazione progressiva e plurisoggettivo alla cui genesi tuttavia non contribuisce il giudice delegato e nel quale il curatore può tener conto della strategia dichiarata dal fallito. Il controllo del giudice delegato si sposta a valle e diviene controllo di conformità sui singoli atti della liquidazione, e ciò avvalora l’intenzione del legislatore di attribuire al programma una funzione strategica, in linea con l’inciso riguardante le finalità di indirizzo, a differenza della funzione meramente ricognitiva, propria della relazione ex art.33 l. fall.[20]

Il programma può indirizzare verso modalità alternative di definizione della procedura: l’indicazione di cui all’art. 104 ter, lett b, l. fall., in merito appunto alla sussistenza di proposte di concordato e implica che il curatore esponga tale possibilità pubblicizzandola quale pregiudiziale alternativa liquidatoria, alla quale possono comunque accedere altri soggetti interessati con ulteriori proposte di concordato migliorative, visto che le stesse potrebbero essere più di una (anche se il decreto correttivo non contempla più la possibilità della votazione contemporanea su più proposte ex art. 125, comma 3, l.fall.). La parallela abrogazione con il correttivo del secondo periodo, del quarto comma, dell’art. 104 ter, l. fall., (che esclude nella nuova versione che il programma possa tener luogo delle singole autorizzazioni eventualmente necessarie per l’adozione di atti o l’effettuazione di operazioni contemplate nel piano) diventa ultroneo un programma di tipo “regolamentare”, lo rende un manifesto delle linee strategiche da seguire nella gestione della procedura, che evidentemente deve stabilire in che modo si vogliono massimizzare i valori aziendali funzionanti o funzionali.

E’ evidente che il riferimento alla sussistenza di proposte di concordato fallimentare, da indicare nel programma all’indomani del fallimento, non può che riguardare quella variante procedimentale del modello liquidatorio base, programmato dallo stesso imprenditore insolvente, sulla base di un driver strategico di resilienza dell’impresa che sia stata affittata subito prima ad un soggetto giuridico diverso ma con il medesimo assetto proprietario[21], senza escludere che possano parteciparvi subito o successivamente eventuali partners terzi, industriali o finanziari.

C’è di più, la proposta di concordato fallimentare “del giorno dopo” può essere assistita da quel nuovo sistema di garanzie pubbliche introdotte dalla decretazione d’urgenza e che potrà ulteriormente essere affinata nei prossimi mesi.

La newco-start up infatti non soffre di tutti i limiti esistenti nell’ordinamento comunitario e nel sistema bancario agli aiuti di stato alle imprese in crisi che rendono impossibili erogazioni di garanzie o finanziamenti pubblici a società in concordato preventivo, anche a seguito delle deroghe prodotte dalla vicenda coronavirus[22].

Un esempio è nel comma 9, dell’articolo 49 del decreto “Curaitalia”[23], in cui si prevede che il Mef può emanare provvedimenti di natura non regolamentare con i quali individuare nuove misure a favore delle imprese come finanziamenti agevolati alle stesse e garanzie “primarie” anche a favore di banche per l’erogazione di nuova finanza.

Orbene una misura specifica può essere quella rivolta a sostenere questo modello di salvataggio delle imprese ed a proteggerle da competitor stranieri a guisa di un intervento di “golden power” dello Stato.A rischio sono infatti le aziende private e i settori produttivi nei quali si addensa quell’interesse strategico nazionale in cui si sostanzia il centro gravitazionale della moderna idea di democrazia economica, e, quindi, nel senso più alto dell’espressione, di sovranità [24].

Una linea specifica di interventi e garanzie potrebbe essere diretta a consentire il completamento del programma di riacquisto dell’azienda affittata, mediate il finanziamento del concordato fallimentare, a guisa di vero e proprio “investimento” e quindi fuori anche dagli ulteriori limiti agli aiuti di stato che hanno margini molti più ampi rispetto alle erogazioni di mera liquidità per la continuità finanziaria[25].

La newco-start up avente i medesimi assetti proprietari della fallita può essere partecipata anche da soggetti terzi, industriali o finanziari, anzi l’obiettivo vero è che l’operazione possa favorire l’ingresso di finanziatori nella start up affittuaria che propone il concordato fallimentare. Ma proprio per favorire questa resilienza “assistita” l’unica strategia tempestiva che consente la reale continuità reattiva deve partire da chi ha organizzato l’impresa che ha il tipico vantaggio competitivo della conoscenza dell’azienda.

Ecco che il programma “resiliente”,che consenta la gestione ponte mediante affitto, può trovare il tassello finale nel concordato fallimentare a garanzia pubblica “del giorno dopo” che non incorre nel divieto di aiuti di stato alle imprese in crisi, propedeutico ad un “fresh start” o ancora meglio ad un “restart without limits”.

La necessaria rapidità della reazione programmata fa preferire la soluzione dell’affitto e del successivo auto-fallimento del locatore al “lungo calvario” del concordato in continuità (anche indiretta)[26] ed alle sue “pastoie burocratiche” che sottopongono la gestione a stress ed a sprechi di energia che invece la “liberazione” mentale ed organizzativa del fallimento elimina consentendo di profondere tutte le risorse nell’attività produttiva. D’altra parte questo tipo di concordato non ha dato i risultati sperati e statisticamente gli insuccessi sono stati assolutamente preponderanti, come dimostra il nuovo assetto del codice della crisi e i numerosi aggiustamenti precedenti.

Chiaramente non è escluso che il programma possa essere realizzato attraverso un concordato preventivo che ha tuttavia evidenziato gravi limiti: perlariluttanzadel mercatoacontrattareconimprenditoriindefault, per la difficoltà di operare sotto il rigido controllo di più organi perdippiù preoccupati dalle loro responsabilità (in particolare per quanto riguarda il commissario giudiziale trasformato in un sindaco con doveri di controllo anche contabile) e da ultimo per i limiti posti dai correttivi ad un concordato di tipo liquidatorio anche quando alla men peggio camuffato da procedura “mista” ed alla necessità di procedure competitive [27].

Talora si è giustamente parlato di abuso dello strumento del concordato preventivo[28] che in verità si è spesso configurato più come un abuso dei consulenti che di una scelta dell’imprenditore, che viene erroneamente indotto a ritenere che il concordato abbia effetti salvifici, specie dalle conseguenze penali della dichiarazione dell’insolvenza (a parte lo spossessamento attenuato che, come visto, con l’affitto si evita). In verità supposizione infondata che condiziona anche molti pubblici ministeri che restano convinti della maggiore “afflittività” sostanziale a prognosi postuma[29].

Infatti la giurisprudenza di legittimità più recente, chiamata a pronunciarsi sull’applicabilità al concordato preventivo delle norme penali in materia di bancarotta e sulla sollevata questione di legittimità per violazione dell’art. 3 della Cost., in relazione alla differenza dei presupposti e caratteristiche delle due procedure, ha rigettato la questione di legittimità costituzionale osservando che “rientra nei poteri discrezionali del legislatore equiparare quoad poenam situazioni concretamente diverse ma aventi la medesima finalità della tutela dei creditori a fronte dell’attività del debitore non ancora impossibilato del tutto alla fisiologica estinzione delle proprie obbligazioni” ed ha ribadito la parificazione del decreto di ammissione al concordato preventivo alla sentenza dichiarativa di fallimento, assumendo la stessa funzione e svolgendo la stessa efficacia nelle fattispecie di bancarotta fraudolenta [30].

La Suprema Corte ha affermato che le condotte distrattive poste in essere prima dell’ammissione al concordato preventivo rientrano, anche nel caso in cui la società non sia poi stata dichiarata fallita, nell’ambito previsionale dell’art. 236, comma secondo, l.fall., il quale, in virtù dell’espresso richiamo all’art. 223 l. fall., punisce i fatti di bancarotta previsti dall’art. 216, l. fall., commessi da amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società fallite [31].

L’art. 236 comma 2°, l. fall., quindi punisce i titolari di cariche sociali che si siano resi responsabili di condotte di bancarotta commesse nella gestione di società ammesse al concordato preventivo, anche se poi non sfociato nel fallimento. Il giudice di legittimità ha precisato che ove si accogliesse la tesi secondo cui la punibilità della bancarotta nelle procedure concorsuali “minori” dipendesse dall’effettiva successiva instaurazione di quella fallimentare, si affermerebbe una interpretatio abrogans del dettato dell’art 236 L.F., il quale, invece, rivela la volontà del legislatore di punire, per l’appunto, in maniera autonoma, le condotte di bancarotta commesse nelle diverse procedure concorsuali, al fine di evitare che restino imputati gravi comportamenti verificatisi prima ed anche in assenza del fallimento.In definitiva, l’autonomia della fattispecie in esame dalle altre ipotesi di bancarotta contemplate dalla legge fallimentare, con le quali sostanzialmente condivide l’oggetto giuridico, si caratterizza per il particolare disvalore della modalità d'offesa selezionata dalla norma incriminatrice, individuato nella consumazione delle tradizionali condotte di bancarotta nell’ambito delle singole procedure concorsuali pre fallimentari. 

Anzi il concordato preventivo può talora produrre effetti ancora peggiori del fallimento (il danno oltre la beffa) visto che per la suprema Corte è configurabile il delitto di bancarotta fraudolenta anche in caso di distrazione o dissipazione di beni la cui cessione sia stata espressamente prevista in un piano approvato dai creditori ed omologato dal Tribunale, nell’ipotesi di indebito uso della procedura concordataria in frode al ceto creditorio per la realizzazione di un interesse illecito del proponente, mediante una chiara ed indiscutibile manipolazione della realtà aziendale, tale da falsare il giudizio dei creditori e orientarli in maniera presumibilmente diversa rispetto a quella che sarebbe conseguita ad una corretta rappresentazione [32]. Il giudice di legittimità, partendo dalla premessa che l’art. 236 cit., nel prevedere l’applicazione degli artt. 223 e 224 legge fall. “nel caso di concordato preventivo”, si riferisca non solo ai fatti commessi ante procedura, ma anche ai fatti commessi “attraverso la procedura” in qualsiasi fase [33], indebitamente piegata a fini illeciti, ha precisato che per configurare il delitto di bancarotta occorre che il piano sia congegnato in maniera frodatoria, per la realizzazione di interessi diversi da quelli sottesi alla normativa concordataria, pensata e voluta dal legislatore per favorire il risanamento delle imprese o la loro liquidazione.

Ma una volta delineati gli scenari complessivi passiamo ad approfondire le numerose problematiche tecniche poste dal programma.

 

4. La fenomenologia della fattispecie scrutinata

Il contratto di affitto dell’azienda concepito in funzione del successivo auto-fallimento deve presentare caratteristiche idonee (e virtuose) in modo da reggere alla configurazione di patologie a seguito della dichiarazione di fallimento ed innanzitutto deve essere espressamente dichiarato come funzionale al detto programma nel contratto stipulato. Deve ovviamente trattarsi di un contratto validamente concluso tra le parti con forma scritta ad probationem (art. 2556 c.c.), salva l’osservanza delle particolari formalità previste nel caso di godimento ultranovennale dei beni immobili (art. 2643 c.c.) ovvero dei marchi (art. 138, d.lgs. n. 30/2005); deve essere stato depositato per l’iscrizione nel Registro delle Imprese (art. 2556, comma 2, c.c.) dopo essere stato stipulato nella forma della scrittura privata autenticata ovvero dell’atto pubblico e deve essere “opponibile” al Fallimento, secondo la particolare disciplina di cui all’art. 45, l.fall., e le formalità che vedremo meglio di seguito.

Il legislatore non chiarisce, all’art. 79 l. fall., se la disposizione riguarda il fallimento dell’affittuario oppure quello del locatore o entrambe le fattispecie, anche se ai nostri fini interessa la seconda. Se si propendesse per la soluzione riferita al solo fallimento del locatore si potrebbe prescindere dai connessi problemi di esercizio provvisorio dell’impresa, in quanto la continuazione automatica nel caso di fallimento dell’affittuario integra appunto un’ ipotesi di esercizio provvisorio, che se considerata fuori dall’ambito della disciplina di cui all’art. 104, l. fall., lascerebbe spazio al solo recesso cui il curatore sarebbe obbligato in ogni caso.

Invero, il sistema generale di cui all’art. 72, l. fall., è stato ideato per il caso in cui l’esecuzione del rapporto può essere sospesa senza pregiudizio. Nell’affitto, viceversa, il legislatore è partito dalla considerazione che la sospensione improvvisa del contratto, con la conseguente interruzione dell’attività economica, può determinare conseguenze gravi in ordine alla custodia dei beni ed alla conservazione dell’organizzazione aziendale e dell’avviamento, con pregiudizio dell’affittuario e impoverimento della massa attiva[34].

La prosecuzione è di regola utile nel breve periodo, mentre ostacola la liquidazione se si protrae a lungo, sottraendo peraltro, sia pur temporaneamente, alcuni beni al potere di disposizione del curatore, non essendo prevista una fase di sospensione.

In ogni caso qualsiasi sia la scelta del curatore, ed a prescindere dallo specifico contenuto precettivo dell’art. 72 l. fall., si deve ritenere che tale scelta configuri un atto di straordinaria amministrazione rimesso alla previa autorizzazione del comitato dei creditori e, se di valore superiore a cinquantamila euro, qualora non già approvato dal giudice delegato nel piano di liquidazione di cui all’art. 104-ter l.fall., soggetto anche ad una preventiva informazione al giudice delegato a norma dell’art. 35 l. fall. Quest’ultimo evidentemente deve in sostanza approvare, anche implicitamente, la decisione assunta dal curatore, in quanto altrimenti, a prescindere dalla necessità o meno di specifica autorizzazione, dispone di poteri giurisdizionali tali da inibire l’esecuzione della scelta [35].

In caso di fallimento del locatore, il curatore dovrà dunque sottoporre la sua scelta di recedere o meno dal contratto di affitto di azienda al comitato dei creditori e al giudice delegato, partendo, nella valutazione comparativa, dal presupposto che per il contratto endofallimentare l’art. 104 bis, l. fall., contempla una serie di condizioni minime. Anche se va escluso che al curatore sia preclusa l’autorizzazione a proseguire il contratto di affitto di azienda che non abbia i c.d. requisiti minimi di cui all’art. 104 bis l.fall., come va escluso che tali previsioni possano costituire norme imperative modificative in via automatica delle clausole del contratto pendente.

E’ chiaro che laddove all’origine della procedura vi sia la strategia del concordato “del giorno dopo” ad opera dell’affittuario dell’azienda delineato nell’istanza di autofallimento ed il curatore lo recepisca nel programma di liquidazione, l’autorizzazione al programma potrà configurare la coeva approvazione di tutte le attività conseguenti specie se delineate in tutti i singoli particolari.

 Analogamente, in caso di fallimento dell’affittuario, il curatore deve esercitare la facoltà di continuazione o recesso dal contratto di affitto di azienda anche in virtù di quanto disposto dall’art. 104, l.fall., dettato in tema di esercizio provvisorio dell’impresa. Tuttavia questo significa, in caso di continuazione, che l’esercizio dovrebbe soggiacere alle regole del contratto di affitto di azienda (a cominciare dalla durata, dall’opportunità della prosecuzione rimessa in ogni momento al comitato dei creditori, dall’applicazione, in caso di cessazione, della disciplina dei rapporti giuridici pendenti). Ma ciò va sicuramente escluso e quindi occorre ritenere che sia preclusa la possibilità di prosecuzione del contratto preesistente laddove il fallito sia l’affittuario, rimanendo in tal caso solo la possibilità di recedere [36].

In applicazione del sistema complessivo nel caso in cui il curatore, infine, scelga di subentrare nel contratto occorre prima di tutto rispettare il principio generale posto dall'art. 1372 comma 1 c.c., sì che, non potendo il contratto essere sciolto se non per cause disposte dalla legge, il curatore che succede nel contratto posto in essere dal fallito non può subentrarvi solo parzialmente, ma si sostituisce nell’esercizio di tutti i diritti e nell’attuazione di tutte le obbligazioni contrattuali, così come definiti dalle parti originarie e trovati nel patrimonio appreso all’attivo fallimentare[37].

 

5. L’opponibilità al fallimento dell’affitto preesistente

E’ ovvio che tutto quanto detto presuppone che il contratto di affitto preesistente sia opponibile alla procedura fallimentare a norma dell'art. 45, l. fall., altrimenti al curatore basterà, per sciogliersi dal vincolo contrattuale, avvalersi degli ordinari rimedi previsti in tema di inopponibilità di un atto compiuto dal fallito. Difatti l’art. 45 prevede l’inopponibilità degli atti per i quali non siano state rispettate, prima della declaratoria di fallimento, le formalità previste dalla legge per renderli opponibili ai terzi.

Al riguardo va preliminarmente osservato che l’art. 6 della legge n. 310 del 12 agosto 1993, modificò il secondo comma dell’art. 2556, c.c., sancendo che i contratti aventi per oggetto il trasferimento della proprietà di un’azienda, oppure la sua concessione in godimento, quando vengono conclusi tra imprese soggette a registrazione, devono essere depositati, in forma pubblica o per scrittura privata autenticata, per l’iscrizione nel registro delle imprese [38].

Al fine di ottenere l’iscrizione, quindi, i contratti traslativi devono avere i requisiti di forma. L’esecuzione della formalità pubblicitaria è affidata al notaio che ha ricevuto o autenticato l’atto e che è tenuto in via principale a richiedere nei trenta giorni l’iscrizione, salva legittimazione secondaria e concorrente delle parti interessate col suo consenso [39]. La forma da osservare per la circolazione dei beni immobili e mobili registrati facenti parte dell’azienda, viene dunque a coincidere con quella richiesta per conseguire l’iscrizione nel registro delle imprese di qualsiasi contratto sull’azienda, anche se costituita di soli beni mobili. Anche se tale coincidenza non comporta che la forma richiesta per l’iscrizione sia ad substantiam o meglio lo sarà solo nei casi in cui essa è prescritta anche per la circolazione dei singoli beni. Pertanto, il contratto di trasferimento concluso in forma di semplice scrittura privata sarà comunque valido tra le parti, mentre risulterà inopponibile ai terzi. Ciò anche perché l’ufficio del registro delle imprese rifiuterà l’iscrizione di atti stipulati senza le forme richieste [40].

C’è da chiedersi se l’efficacia dell’iscrizione della vicenda circolatoria dell’azienda e, quindi, l’opponibilità dell’atto di trasferimento al terzo può avere come conseguenza giuridica la inopponibilità, per converso, al soggetto che ha iscritto per primo, di un successivo atto traslativo [41]. La questione si pone in quanto l’art. 2556, c.c., non disciplina il criterio di soluzione dei conflitti [42]. Ci pare che sia corretto ritenere, con la migliore dottrina, che, per ragioni di sicurezza del traffico commerciale che il registro delle imprese tende a soddisfare come strumento di trasparenza e informazione del mercato, l’efficacia dichiarativa dell’iscrizione del primo atto di trasferimento dell’azienda, sia sufficiente a risolvere eventuali conflitti tra il primo atto traslativo e gli altri atti successivi della stessa azienda[43].

Tuttavia, riteniamo che ciò non valga per il trasferimento, in proprietà o godimento, di quei beni aziendali per cui è richiesta una forma particolare (problema speculare all’opponibilità al fallimento). In tal caso va applicata la legge di circolazione dei singoli beni secondo la loro natura giuridica risolvendosi il conflitto tra acquirenti secondo la priorità della pubblicità richiesta per le singole fattispecie [44]. Non è infatti ipotizzabile che l’iscrizione nel registro delle imprese possa prevalere o sostituire la trascrizione nel trasferimento della proprietà o del godimento ultranovennale di un immobile. Quindi non si tratta di un problema di applicazione della legge di circolazione dei singoli beni, ma di un problema di corretta applicazione dei regimi pubblicitari vigenti. Vero è che questa impostazione, talvolta, non è in grado di per sé di risolvere i conflitti, tuttavia se si parte dal presupposto che la res azienda è un bene diverso dalle sue singole componenti materiali ed immateriali, e che per l’esercizio dell’attività economica non occorre la titolarità dei beni e rapporti costituenti il complesso ma la mera legittima disponibilità, allora si comprende che la iscrizione nel registro delle imprese può avere una efficacia dirimente. [45]

D’altra parte non a caso l’art. 2559, comma 1, c.c., sancisce che la cessione dei crediti relativi all’azienda ceduta, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione, ha effetto nei confronti dei terzi al momento dell’iscrizione dell’atto traslativo nel registro delle imprese. Non può essere al contrario condivisa l’impostazione di chi ritiene che la pubblicità commerciale non possa sostituire alcuno degli indici di appartenenza delle componenti aziendali (ivi compreso il possesso per i beni mobili) in quanto sarebbe contraria alle sue finalità istituzionali [46].

In ogni caso, mentre nell’esecuzione individuale si prescinde dall’esistenza di diritti personali di godimento sul bene, in quanto tali diritti in nessun modo impediscono che il bene venga pignorato e alienato coattivamente, nel fallimento c’è lo spossessamento immediato del debitore ed occorre stabilire quando il rapporto sia opponibile.

A tal fine non soccorre la pubblicità commerciale che, come visto, non è sempre in grado di risolvere il conflitto fra l’affittuario e l’aggiudicatario o l’acquirente dei beni aziendali. Sono viceversa applicabili i criteri che regolano l’opponibilità della locazione di ciascuno di quei beni, secondo quanto stabilisce l’art. 2923 c.c.: l’affittuario può “opporre il suo diritto di godimento sul bene trasferito coattivamente se, trattandosi di un mobile, l’affitto ha data certa anteriore al pignoramento; se, trattandosi di un immobile, l’affitto avente durata ultranovennale è stato tempestivamente trascritto nei registri immobiliari; alla tempestiva trascrizione è subordinato anche l’acquisto di un diritto personale di godimento su un marchio” [47].

Riguardo alle obbligazioni che l’affittuario assume spendendo la ditta del locatore queste gravano soltanto sullo stesso purchè l’affitto (od almeno la cessazione dell’impresa del locatore) sia stato iscritto nel registro delle imprese. Altrimenti, ferma restando la responsabilità dell’affittuario, questi crediti concorrono nel fallimento, in quanto il fallimento, salva l’azione di regresso verso l’affittuario, non può eccepire la stipulazione del contratto di affitto non iscritto[48].

Problema collaterale è poi quello che si pone nel caso in cui l’azienda affittata dal fallito non comprenda immobili, e vi sia la responsabilità del fallimento del conduttore nei confronti del locatore ex art. 36, legge 392 del 1978 (che aveva ceduto il contratto di locazione insieme all’affitto); in tale eventualità l’impossibilità di sciogliersi dal contratto di locazione e liberare i locali, a causa della persistente occupazione dell’affittuario di azienda, comporta il maturare di onerosi crediti prededucibili che possono costringere il curatore a transazioni non sempre vantaggiose per la massa; così come anche in assenza di un affittuario, l’onere della locazione può in concreto superare, con il decorso del tempo e il mancato reperimento immediato di un acquirente, il vantaggio dell’esistenza di una licenza collegata all’esercizio e il valore di un avviamento effettivamente esistente, costringendo alla dispersione i beni aziendali [49].

 

6. La sorte dei rapporti pendenti in caso di retrocessione dell’azienda affittata

La legge nulla dice in ordine ai rapporti pendenti in caso di retrocessione dell’azienda o di un suo ramo, a seguito di recesso del curatore o comunque di cessazione del contratto di affitto preesistente, che viceversa vanno valutate ai fini dell’impatto sulla programmazione delineata.

In realtà l’articolo 104 bis, ult. comma, l. fall., prevede che in caso di affitto endoconcorsuale la retrocessione al fallimento di aziende o rami di azienda, non comporti la responsabilità della procedura per i debiti maturati sino alla retrocessione in deroga espressa alla disciplina dettata dagli artt. 2560 e 2112 c.c.,.

Le ragioni che hanno ispirato la disposizione e la natura della procedura ci fanno propendere per un’ applicazione della norma anche ai contratti preesistenti oltre che a quelli endoconcorsuali. Gli effetti dell’applicazione della regola dell’accollo cumulativo ex lege per i debiti da rapporto di lavoro dipendente anche non risultanti dalle scritture contabili, renderebbero altrimenti difficilmente praticabile ogni prosecuzione del contratto preesistente.

La vera deroga è infatti quella all’art. 2112, c.c., in quanto l’art. 2560, c.c., è già inapplicabile all’affitto[50] e la sua previsione serve tutt’al più a dirimere questioni di valenza marginale sorte in tema di debiti tributari e previdenziali [51]. E lo stesso vale per la disposizione di cui all’ultima parte dell’art. 104-bis laddove il legislatore sancisce che ai rapporti pendenti al momento della retrocessione dell’azienda in capo al fallimento si applichi la disciplina di cui alla sezione IV del Capo III del titolo II della legge fallimentare. Invero il comma 6, dell’art. 104 bis, l. fall. non distingue tra rapporti pendenti proseguiti dall’affittuario, ma non ancora interamente eseguiti al termine dell’affitto e contratti stipulati ex novo dall'affittuario, ma rimasti ancora ineseguiti, totalmente o parzialmente, al momento della retrocessione.

Ciò significa che al curatore vengono attribuite esattamente le stesse prerogative che aveva al momento della dichiarazione di fallimento ex art. 72 ss., l. fall., salvo i casi di prosecuzione o scioglimento automatico. [52]

Per i contratti, secondo l’orientamento prevalente ante riforma, la disciplina dettata dagli artt. 2558 e 2112, c.c., andava applicata anche nell’ipotesi di retrocessione dell’azienda, ancorchè non espressamente disciplinata dal legislatore [53]. In particolare per la Suprema Corte si realizzava il subentro purchè si trattasse di contratti non eccedenti la potenzialità produttiva dell’azienda valutata al momento della conclusione del contratto di affitto, o i poteri di gestione attribuiti pattiziamente all’affittuario[54], e purchè la restituzione dell’azienda fosse collegata direttamente alla volontà delle parti ovvero ad un fatto che queste avessero espressamente previsto e in relazione al quale avessero potuto disporre circa la sorte dei contratti (a prestazioni corrispettive inerenti all’azienda) ancora non interamente eseguiti al suo verificarsi [55].

Si tratta evidentemente di limiti direttamente connessi agli obblighi legali dell’affittuario di non alterare le caratteristiche fondamentali dell’azienda [56] validi anche in sede fallimentare, sempre che il punto non sia stato oggetto di specifica pattuizione nel contratto[57]. Infatti, a differenza di quanto accade per i debiti, per le fattispecie disciplinate dall’art. 2558, c.c., è consentito il patto contrario in modo da escludere convenzionalmente il subentro della curatela nei contratti in corso, che potrebbero essere onerosi o pregiudizievoli per la procedura.

Passando ai debiti contratti dall’affittuario verso i lavoratori, a seguito della restituzione dell’azienda al fallimento, come detto, va esclusa ogni responsabilità del fallimento stante la deroga espressa alle norme di cui all’art. 2112, c.c., (art. 104 bis, ult. comma, l. fall.).

Riguardo invece alla prosecuzione del rapporto, a seguito di retrocessione, questa è di regola indirettamente sancita da una norma imperativa nell’interesse del lavoratore, per cui la pattuizione contraria sarebbe inopponibile al terzo[58]. In caso di scadenza, risoluzione del contratto di affitto, recesso dell’affittuario o comunque mancata acquisizione dell’azienda da parte di quest’ultimo, i rapporti di lavoro, per effetto della retrocessione, si ritrasferiscono al locatore-fallimento in quanto inerenti all’azienda [59]e poi eventualmente ad un nuovo affittuario, o all’aggiudicatario.

La fattispecie regolata dall’art. 2112, c.c., infatti, ricorre anche nell’ipotesi di restituzione dell’azienda al fallimento purchè rimangano immutati l’organizzazione dei beni aziendali e lo svolgimento della medesima attività [60].

Non può essere perciò condivisa la tesi di chi in passato ha sostenuto che i rapporti di lavoro non potrebbero essere ritrasmessi alla curatela, in quanto nell’ipotesi di retrocessione funzionerebbe la deroga, visto che altrimenti la procedura dovrebbe procedere al licenziamento dei dipendenti con conseguente responsabilità per l’erogazione dell’indennità di preavviso e diverrebbe comunque solidalmente responsabile per i debiti, per retribuzioni maturate in costanza di affitto e per trattamento di fine rapporto [61]. In realtà, a parte il fatto che adesso la novella esclude espressamente ogni ipotesi di accollo dei debiti, il diritto al mantenimento del rapporto di lavoro (anche a seguito del trasferimento dell’azienda) espressamente affermato dall’art. 2112 c.c., ha natura pubblicistica e tende a prevalere sull’interesse, anch’esso pubblicistico, dei creditori [62]. Inoltre, vero è che il subentro della procedura potrebbe potenzialmente danneggiare la massa, tuttavia il curatore in concreto dispone di strumenti che impediscono la maturazione di oneri passivi. Infatti, quale successore nel rapporto di lavoro dipendente, potrà provvedere a seconda dei casi a richiedere l’intervento di integrazione salariale straordinaria, a collocare in mobilità il personale eccedente rispetto alla potenzialità produttiva del complesso o a licenziare, sempre previo esperimento delle eventuali procedure richieste dalle dimensioni dell’azienda.

La curatela, in tal caso, si troverebbe d’altra parte nella stessa situazione in cui normalmente versa all’apertura del fallimento laddove l’impresa ha dipendenti ancora in carico [63], e quindi agirebbe in conformità con la disposizione secondo cui “ai rapporti pendenti al momento della retrocessione si applicano le disposizioni di cui alla Sezione IV del Capo III del Titolo II” (art. 104 bis, ult. comma, ult. parte, l. fall.,).


7. Il recesso ed i rimedi alternativi a garanzia della fisiologia del programma

Il legislatore, come visto, dopo aver sancito la regola della continuazione del rapporto preesistente, contempla un diritto di recesso per entrambe le parti entro sessanta giorni dalla dichiarazione di fallimento[64], corrispondendo un indennizzo equo, determinato nel dissenso delle parti, dal giudice delegato sentiti gli interessati. La qual cosa attenua tutti i pericoli per le parti nel programma che stiamo delineando ed incentiva alla buona fede e correttezza nella stipula del contratto di affitto.

La comunicazione hanatura recettizia, nel senso che si perfeziona solo quando entra nella sfera di effettiva conoscenza del destinatario e deve pervenire entro un termine di carattere sostanziale e perentorio che decorre dalla pubblicazione della sentenza di fallimento[65]. La determinazione giudiziale deve essere con ogni probabilità fatta con decreto motivato suscettibile di reclamo ex art. 26 l.fall. e successivo gravame tenuto conto che incide su diritti soggettivi [66].

Viceversa è ovvio che l’accordo bonario configura atto di straordinaria amministrazione (ex art. 35 l.fall.), i cui effetti incidono direttamente sulla massa attiva, e quindi il curatore dovrà essere autorizzato dal comitato dei creditori, previa informativa al giudice delegato, alla conclusione della transazione.

Il giusto compenso contemplato nel vecchio testo dell’art. 80 era considerato una sorta di indennizzo a favore del locatore per l’anticipata fine del contratto [67].

Il legislatore della riforma del 2006 ha modificato il testo dell’art. 80, sostituendo alla locuzione “giusto compenso” la stessa utilizzata per il contratto di affitto di azienda, cioè “equo indennizzo” per l’anticipato recesso[68]. Occorre chiedersi se la nuova terminologia introdotta (tanto nell’art. 80, quanto nell’art. 79) integri un concetto differente dal vecchio e se, pertanto, sia utilizzabile la giurisprudenza formatasi sotto il vecchio testo dell’art. 80, l.fall.[69], dovendosi quindi fare riferimento a criteri diversi dal ristoro indennitario per l’anticipata risoluzione, da parametrarsi ai margini di guadagno attesi dalla naturale prosecuzione del contratto.

Invero il legislatore all’art. 104 bis, comma 3, seconda parte, l. fall., prevede un diritto di recesso dall’affitto endoconcorsuale a favore del solo curatore con la corresponsione stavolta di “un giusto indennizzo” (che evoca come visto l’art. 42, Cost.), non rimesso in questo caso al giudice delegato.

In tutte e due le ipotesi si tratta di indennizzi, con una natura evidentemente diversa dal risarcimento dei danni, in cui la valutazione del giudice va condotta sul piano dell’equilibrio delle prestazioni con riferimento al margine di guadagno che la parte si riprometteva di trarre dalla esecuzione del contratto [70].

Tuttavia, premesso che il giusto non può essere iniquo e che l’equo non può essere ingiusto, il riferimento terminologico (che evoca quello dell’equo compenso di cui all’art. 1526, c.c.[71]) e la previsione di una eventuale determinazione del giudice delegato, fanno ipotizzare che l’indennizzo nel caso di recesso dall’affitto preesistente risenta di un criterio dicalcolo equitativo più che meramente economico e di lucro [72]. In ogni caso è ovvio che l’indennizzo, qualsiasi sia il criterio di determinazione, va riconosciuto in prededuzione ai sensi dell’articolo 111 n. 1, l.fall.,[73].

Il giudice nella formulazione del giudizio di equità deve scrutinare tutte quelle “anomalie ed asimmetrie del sinallagma” contrattuale, proprio al fine di valorizzare quella logica virtuosa del programma da noi delineato e sanzionare la logica abusiva. Senza ricorrere ad opinabili classificazioni dello schema contrattuale originario, il Giudice delegato potrà recuperare, nell’ambito dell’ampio giudizio di equità che la norma gli affida, tutte le particolarità e le eventuali anomalie del caso concreto, in modo da poter pervenire alla determinazione ovvero anche al diniego della richiesta indennità. A tal fine potranno avere rilievo anche eventuali vizi genetici del contratto di affitto di azienda, quali la sua nullità o inopponibilità al fallimento, così come la sussistenza di fondati elementi per ritenerlo revocabile ex art. 67 l.fall. ovvero ex art. 2901 c.c.[74]

In buona sostanza ogni elemento della singola fattispecie deve essere attentamente valutato per ristabilire il “giusto” equilibrio tra i contrapposti interessi economici della massa e del contraente in bonis ed il giudice delegato, proprio in quanto conosce l’intera procedura potrà e dovrà valutare la buona fede contrattuale e la fisiologia dell’intero programma divisato[75].

Ferma restando la disciplina di cui all’art. 79, l. fall., in ogni caso il contratto di affitto di azienda, incidendo negativamente sul valore del bene cui inerisce, rientra nel novero degli atti idonei, di per sé, ad alterare in peius la garanzia patrimoniale del debitore, ed è, pertanto,soggetto a revocatoria, in caso di successivo fallimento del locatore, qualora sussistano le altre condizioni richieste dall’art. 67, l. fall.,[76]. L’azione non ha la funzione di riacquisire alla massa un bene fuoriuscito né di recuperare i redditi che l’azienda avrebbe, ma ha lo scopo di far cessare il rapporto ed evitare che il contratto preesistente (a prescindere dalla adeguatezza del canone) comprometta il valore di realizzo della vendita unitaria e comunque dei singoli beni aziendali [77].

Nonostante la procedura abbia il diritto di recesso e gli ordinari rimedi (anche cautelari ex artt. 670 e 700, c.p.c.) quali le azioni revocatorie, di simulazione, di nullità dei contratti di affitto stipulati dal fallito[78], nella pratica è evidente che una situazione di occupazione può indurre comunque la curatela alla ricerca di accordi transattivi, nella prospettiva di una cessione comunque preferibile per la massa rispetto ad un incerto contenzioso. In ogni caso ciò conferma che per riuscire il programma dell’affitto con successivo concordato deve fondarsi su valori congrui ed economicamente ineccepibili e su un approccio complessivamente virtuoso, ivi compresa la possibilità di clausole contrattuali che deroghino a favore della curatela la previsione normativa[79].

Peraltro, si è osservato che l’affitto può essere attaccato anche con il rimedio speciale di cui all’art. 2923, comma 3, c.c., per effetto del quale la parte “…non è tenuta a rispettare la locazione qualora il prezzo convenuto sia inferiore di un terzo al giusto prezzo o a quello risultante da precedenti locazioni”. L’istituto non rientra nell’alveo della revocatoria anche se svolge una funzione affine e complementare (come peraltro avviene, in fattispecie diverse, anche ad opera dell'art. 56, comma 2, l. fall., e dell’art. 524 c.c.) [80]: la diposizione fissa uno dei criteri di opponibilità della locazione e mira a far dichiarare l’inopponibilità dell’atto per mancanza di un requisito, come potrebbe essere la data certa. In questo contesto l’azione spetta al curatore fallimentare in quanto “la norma fissa un criterio di opponibilità del contratto, e poiché, al sopraggiungere del fallimento, l’opponibilità della locazione va accertata subito e nei confronti dell’ufficio fallimentare, piuttosto che soltanto dopo la vendita coattiva e nei confronti dell’acquirente. Pertanto, benché sia letteralmente disposto a favore dell'acquirente, al sopraggiungere del fallimento, l’art. 2923, comma 3, c.c., va applicato in capo al curatore e non in capo all’acquirente dell’azienda” .

La consapevolezza di tutti gli strumenti e le prerogative delle parti devono servire a consolidare una cultura fisiologica dell’operazione ed anche a trovare aggiustamenti in corso durante il fallimento per raggiungere un equilibrio tra gli interessi in gioco.

 

8. Alcuni profili processuali della fattispecie

La determinazione ope judicis dell’in­den­nizzo in caso di recesso non deve aver luogo secondo la procedura di verifica del passivo, ma con provvedimento del giudice delegato ex art. 25 l. fall.[81], soggetto evidentemente al reclamo dinanzi al tribunale a norma dell’art. 26 l. fall. [82].

Infatti, visto che la norma non indica precisamente il procedimento da seguire e considerato che il recesso dall’affitto trova la sua ratio nell’intervenuto fallimento di una delle parti del contratto, cui seguono le esigenze di celerità e deformalizzazione tipiche della procedura concorsuale, l’e­quo indennizzo va determinato secondo uno degli schemi processuali contemplati dalla legge fallimentare e non certo attraverso un ordinario giudizio di cognizione, sostanzialmente esterno alla procedura, anche perché il legislatore ha individuato nel giudice delegato, per competenza funzionale, l’organo deputato a decidere.

È comunque principio generale che ogni provvedimento attribuito alla com­petenza funzionale del giudice delegato, diverso da quelli pronun­ciati per l’accerta­men­to del passivo (o diverso da quelli per i quali è specificamente stabilito altro particolare regime), ha una stessa comune disciplina, integrando uno dei provvedimenti rientranti nel quadro dell’art. 25 l. fall.. Il rinvio all’art. 111 l. fall. è diretto soltanto ad individuare il rango del credito del terzo, e non già a richiamare e rendere applicabili gli artt. 92 e ss. l. fall., .

D’altra parte l’art. 79 l. fall. statuisce che a provvedere è «il giudice delegato» e non sarebbe armonico, neppure sul piano sistematico, che a determinare l’equo indennizzo sia il giudice della verifica del passivo, che non potrebbe determinare secondo un criterio di equità. Il giudizio previsto dall’art. 79 è un giudizio tipico e speciale, che attribuisce al giudice delegato una compe­tenza spe­cifica, distinta ed indipendente dai compiti che gli sono assegna­ti dalla leg­ge nella formazione dello stato passivo come giu­di­ce del concorso. Tant’è che la norma sancisce che il giudice provvede «sentiti gli interessati», regola che non avrebbe alcun senso al­l’in­terno del procedimento di verifica del passivo ove la dialettica fra gli «interessati» è tipizzata nelle note ed articolate scansioni temporali inderogabili. Anzi nel procedimento di verifica gli «interessati» non sono solo le parti del contratto ma in astratto anche tutti i creditori del fallito, in quanto portatori di un interesse che ha carattere autonomo, e non già adesivo-dipendente, per quanto dispo­ne l’art. 98, 3° co., l. fall, nonché il fallito stesso per quanto afferma l’art. 95, ult. co., l. fall.[83]. Il procedimento di verifica è inoltre costituito da una sequenza bifasica e solo nella seconda fase, che si apre con le impugnazioni, diviene giurisdizionale, con la conseguenza che esso non è costruito come riforma del procedimento di prime cure, né sono precluse nuove prove o nuove eccezioni [84].

Va inoltre rilevato che l’art. 79, partendo dal presupposto che un contratto di affitto d’azienda non rimanga insensibile al fallimento, attribuisce sia al contraente in bonis sia al contraente fallito il diritto di recedere. Si deve ritenere che tale diritto vada riconosciuto sia che il fallimento riguardi l’affit­tua­rio sia che il fallimento riguardi invece il locatore. Se si propende per questa impostazione è sempre il giudice delegato l’organo giudiziario funzionalmente competente a determinare – ove le parti non si accordino – l’indennizzo, e ciò sia quando questo competa al terzo sia quando questo spetti al fallimento. Ciò significa che il giudizio è diretto a risolvere un conflitto con una decisione che può determinare sia un debito sia un credito del fallimento. Visto che la legge non introduce distinzioni in funzione del contenuto della decisione del giudice delegato , il procedimento da seguire per la determinazione del­l’in­dennizzo non può che essere lo stesso nelle due diverse ipotesi. E non potendo certo un credito del fallimento essere accertato in seno al procedimento di verifica del passivo, è abbastanza logico concludere nel senso che l’indennizzo non può mai essere determinato secondo le regole di cui agli artt. 92 e segg. l. fall.

E’ opportuno, infine, ricordare che con riferimento al “vecchio” art. 80 l. fall - riguardante il contratto di locazione immobiliare [85] - la Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi in passato nella linea sopra individuata, laddove aveva statuito che la norma «nel disporre che il curatore può recedere in ogni tempo dal contratto di locazione stipulato dal conduttore fallito e che, in caso di recesso, spetta al locatore un giusto compenso, il quale, in difetto di accordo fra le parti è determinato dal giudice delegato, devolve alla competenza funzionale di quest’ultimo qualsiasi controversia al riguardo, sia essa attinente soltanto al quantum della prestazione – avente un carattere so­stan­zialmente indennitario – sia essa relativa all’an»[86]. Si tenga conto peraltro che tale orientamento è ancora più emblematico se si considera che quella disciplina riguarda solo l’ipotesi del debito del fallimento e non del credito e quindi la soluzione del procedimento di verifica del passivo avrebbe avuto maggiore senso.

In mancanza, prima della riforma, di una disciplina positiva dell’istituto dell’affitto di azienda stipulato prima della dichiarazione di fallimento, la giurisprudenza prevalenteaffermava peraltro che il fallimento del locatore non determinasse lo scioglimento o la sospensione del contratto di affitto che proseguiva col curatore in applicazione analogica proprio dell’art. 80, l. fall., [87], anche se alcune corti di merito propendevano per la sospensione [88]ed altre ancora per l’applicazione del principio normativo di cui all’art. 72, l. fall., con la conseguente libertà di scelta tra l’esecuzione e lo scioglimento, sul presupposto che la norma costituisse una regola di generale applicazione a tutti i rapporti negoziali in corso [89].

Vi era poi chi sosteneva la tesi del subentro del fallimento nel contratto solo in caso di espressa dichiarazione del curatore, escludendo la continuazione per facta concludentia [90]. La prosecuzione del rapporto comportava, in caso di retrocessione dell’azienda, che il curatore subentrasse, salvo eventuale patto contrario, nei contratti stipulati dall’affittuario ex art. 2558 c.c. e nei rapporti di lavoro e negli obblighi sanciti dall’art. 2112, c.c. Inoltre in caso di restituzione dell’azienda, con riferimento ai contratti che retrocedevano ex art. 2558 c.c., si riteneva inapplicabile la disciplina dei rapporti giuridici pendenti di cui agli artt. 72 ss l.fall., che essendo di carattere eccezionale esigeva la preesistenza dei rapporti al fallimento: per l’effetto si riteneva che il curatore subentrasse in detti contratti senza alcuna possibilità di sciogliersi dal vincolo creato dall’affittuario [91]. Veniva correttamente replicato che l’applicazione del vecchio art. 80, l. fall., all’affitto di azienda comportasse conseguenze non del tutto coincidenti con quelle che si hanno nella più semplice fattispecie della locazione immobiliare: infatti, finché l’affitto è in corso, delle scorte e forse anche di altri beni, pur appartenenti al locatore, “può disporre soltanto l’affittuario e non il locatore prima e il curatore poi.

Dunque, se il contratto continua con il fallimento, vi sono beni facenti parte dell'attivo fallimentare ma temporaneamente non liquidabili. Inoltre, dal contratto di affitto può sorgere un debito di conguaglio ai sensi dell’art. 2561, ultimo comma, c.c., che, se vi è subingresso automatico, dovrebbe essere pagato alla scadenza in prededuzione; ancora, i debiti contratti dall’affittuario anteriormente al fallimento possono gravare sul passivo fallimentare; e infine, la presenza dell’affitto rende inapplicabile una parte delle norme sui rapporti in corso di esecuzione”. Tutto ciò non avviene allorché oggetto della locazione è un bene singolo e non un’azienda[92].

Secondo altro orientamento, quindi, al contratto di affitto di azienda pendente, si sarebbe dovuta applicare la regola della sospensione del contratto con attribuzione al curatore della facoltà di subentro, in modo da tener conto anche dei rischi che la prosecuzione, a differenza della locazione immobiliare, avrebbe comportato per la massa, per effetto tra l’altro della responsabilità solidale derivante dall’art. 2112 c.c.[93]. In virtù del disposto dell’art. 1626, c.c., che prevede lo scioglimento del contratto, veniva proposta, in difetto di un’espressa previsione della legge fallimentare, l’applicazione dell’art. 81 l.fall. dettato per il contratto di appalto che sanciva lo scioglimento del contratto, salva la facoltà di subentro da parte del curatore, previamente autorizzato dal giudice delegato, in grado di offrire idonee garanzie per l’adempimento delle obbligazioni derivanti dall’affitto[94]. Non mancava infine l’ulteriore posizione minoritaria nel senso che il contratto di affitto comunque si sciogliesse automaticamente.

 

9. Prelazione legale e prelazione convenzionale all’acquisto dell’azienda affittata come variante del programma base

 Una riflessione merita la questione dell’eventuale riconoscimento del diritto di prelazione, legale [95] o convenzionale[96], all’acquisto dell’azienda al titolare di un contratto di affitto preesistente al fallimento. Quest’ultima infatti può rappresentare una variante al programma base descritto e come una sorta di “third best” all’opzione concordataria.

Prima della riforma del 2006 si doveva ritenere che qualora il diritto di prelazione fosse stato convenzionalmente riconosciuto all’affittuario dal conduttore poi fallito, il curatore aveva la possibilità di sciogliere il fallimento dal vincolo fino a quando il negozio non fosse stato concluso [97]. Qualora, invece il prelazionario avesse già comunicato prima del fallimento, mediante notifica o comunque con atto di data certa, la sua volontà di acquistare l’azienda, si configurava un rapporto opponibile al fallimento, anche se revocabile sussistendone le condizioni, in quanto lesivo degli interessi della par condicio creditorum.

Quanto alla prelazione legale. qualcuno affermava invece che “le norme di cui all’art. 3, comma 4, legge 223 del 1991 e all’art. 14 n. 1, legge 49 del 1985, potrebbero aver riprodotto una situazione del tutto transitoria nel senso che il diritto di prelazione deve essere concesso e può essere esercitato subito, all’interno delle procedure già aperte e non ancora concluse, al prezzo che, allo stato, risulta determinato dalla successione delle gare esperite per aziende che siano ancora nella disponibilità degli organi della procedura.... per il futuro, quando cioè questi diritti avranno esaurito la loro funzione transitoria, la qualità e lo status di affittuario (problematicamente, anche di gestore) deve preesistere all’apertura della procedura concorsuale; ciò è a dire che l’affittuario deve avere già assunto la sua posizione contrattuale prima che l’imprenditore, nel corso del contratto, sia fatto entrare ovvero entri da solo nella gabbia del dissesto. Se così non fosse non sarebbe ipotizzabile un affitto che, anche per via dell’esercizio della continuazione dell’impresa, fosse rivestito del diritto di prelazione di cui stiamo discutendo ed al quale, in tal caso, bisognerebbe dare un corrispettivo autonomo, con tutto quel che segue in sede formale (autorizzazione, gara, etc.) ed in sede sostanziale (stima, valutazione) trattandosi ovviamente di un atto di disposizione avente un oggetto incidente sulla proprietà, distinto e separato dal mero godimento, o dalla gestione” [98].

In realtà questa soluzione finiva con l’attribuire al soggetto fallendo il potere di scegliersi liberamente il proprio successore, reale o fittizio, impedendo agli organi della procedura di poter minimamente incidere sulla vicenda, salvo recesso indennizzato dal rapporto. E le distorsioni che situazioni del genere avrebbero potuto creare, avallando in pratica forme di operazioni speculative premeditate, possono agevolmente essere immaginate [99], in una prospettiva peraltro completamente opposta alla logica virtuosa da noi immaginata.

Il legislatore ha inteso, con le prelazioni, evidentemente, incentivare l’affitto dopo la dichiarazione di fallimento tutelando nei limiti del possibile la posizione dell’affittuario e gli investimenti dallo stesso effettuati [100].

La questione sembra definitivamente superata per il fatto che il diritto di prelazione a favore dell’affittuario, essendo regolato dalla norma che prevede l’affitto endofallimentare dell’azienda, si deve specificamente rivolgere esclusivamente all’imprenditore che ha ottenuto l’autorizzazione al godimento del complesso dei beni dell’impresa da parte del giudice delegato. La prelazione, sia legale che convenzionale, spetta soltanto ai soggetti che hanno stipulato il contratto di affitto dell’azienda con l’autorizzazione degli organi fallimentari, previa valutazione della convenienza della continuazione dell’attività e della capacità imprenditoriale dell’affittuario [101], e non a quelli che l’abbiano stipulato con il debitore, prima della dichiarazione di fallimento.

Questa conclusione emerge dal disposto del secondo comma dell’art. 104 bis, l. fall., laddove sancisce che la scelta di quest’ultimo «deve tenere conto, oltre che dell’ammontare del canone offerto, delle garanzie prestate e della livelli attendibilità del piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali, avuto riguardo alla conservazione dei livelli occupazionali». Inoltre la nuova norma, a differenza delle ipotesi di prelazione legale, non prevede alcun automatismo ma soltanto la mera “possibilità” che tale diritto sia convenzionalmente riconosciuto e previsto dallo stesso contratto di affitto.

Tali considerazioni, tuttavia, non valgono ad escludere che gli organi fallimentari, in talune occasioni, possano ritenere che l’affitto stipulato prima della dichiarazione di insolvenza, per evitare la cessazione dell’attività e la conseguente dispersione dei valori aziendali, possa essere meritevole non solo di prosecuzione ed eventualmente, previo parere del comitato dei creditori, di riconoscimento della prelazione convenzionale. Resta infatti il macro-problema degli investimenti e della valorizzazione del complesso produttivo cui l’affittuario è disincentivato non solo dal fatto che l’azienda non è sua ma anche dal pericolo di renderla ancora più appetibile ai terzi.

Nel quadro di queste garanzie il diritto di prelazione potrebbe essere riconosciuto all’affittuario scelto dal fallito sulla base di un patto autorizzato ex post dalla procedura.

Ma evidentemente questa ipotesi pure rientrante in un assetto fisiologico e simmetrico delle relazioni tra la procedura ed il soggetto terzo diviene un programma alternativo al concordato fallimentare esperito dallo stesso affittuario che può rappresentare in ogni caso una valida variante del caso concreto.

E’ stata infatti evidenziata la difficile compatibilità dell’affitto concorsuale con la libertà per l’affittuario di effettuare investimenti adeguati e funzionali all’inserimento del complesso affittato all’interno dei propri processi produttivi, inserimento retto tuttora dal principio dell’obbligo di salvaguardia del complesso nella sua individualità, funzionale alla sua “scorporabilità” e retrocedibilità alla procedura, al momento della cessazione del contratto.

In secondo luogo, per l’assoggettamento dello stesso affitto alla regola della selezione competitiva, che si accentua fino a sovrapporsi alla vera e propria gara per la vendita quando nell'affitto sia prevista la concessione all'affittuario di un diritto di prelazione ovvero quando siano riconosciuti diritti al trasferimento dell’azienda affittata (clausole di “put” e di “call”). Pertanto si è rilevato che regole del genere tendono a rendere l’affitto dell’azienda una modalità liquidatoria difficilmente praticabile in seno alla procedura e a rendere preferibile, appunto, che l’affitto venga stipulato tra l’imprenditore ancora in bonis e l’affittuario prima di ricorrere alla procedura concorsuale, subordinandolo al consenso del curatore, consenso che porterebbe con sé l’accettazione delle clausole essenziali del contratto, ivi inclusa la previsione del diritto di prelazione, ma non anche di quelle concernenti il diritto di acquisto da parte dell’affittuario, che postulerebbe la vanificazione del principio di selezione competitiva [102].

 

10. La legittimazione della società affittuaria start up con medesimo assetto proprietario alla presentazione del “concordato fallimentare del giorno dopo”

L’ultimo tassello del programma delineato è la presentazione da parte della società affittuaria, all’indomani del fallimento, della proposta di concordato fallimentare funzionale all’acquisizione dell’azienda o comunque al ritorno in bonis dell’impresa fallita, con la conseguente variante della fusione.

Si badi bene non escludiamo che la newco-start up costituita dai soci della fallita venga partecipata, originariamente o successivamente, da soggetti terzi, industriali o finanziari, anzi l’obiettivo vero è che il modello individuato possa incentivare l’interesse di finanziatori (pubblici o privati) ad investire in società senza debiti ma con il completo corredo produttivo ed informativo, per la riacquisizione dell’azienda a mezzo concordato a condizioni certe e predeterminate.

Tuttavia proprio per favorire l’ingresso di finanziatori (in particolare fondi specializzati), l’erogazione di garanzie pubbliche ed il finanziamento bancario di scopo occorre perseguire l’unico modello davvero tempestivo e resiliente possibile che non può che basarsi sul soggetto che ha organizzato l’impresa, ossia quell’imprenditore che ha impresso l’atto di destinazione, che ha organizzato quel complesso di beni e di rapporti funzionante e funzionale all’esercizio dell’attività economica e che appunto gode delle c.d. asimmetrie informative. [103]

L’operazione pone quindi un problema di legittimazione del proponente laddove abbia i medesimi “assetti proprietari” del fallito (soggetto di diritto) visto che, secondo una certa impostazione, ciò avrebbe i limiti temporali previsti nell’ultima parte del primo comma dell’art. 124, l. fall.,.

Prima di entrare nel merito della questione va fatta una premessa metodologica: l’interpretazione nel tempo di una norma non può che risentire della verifica applicativa delle ragioni per le quali fu concepita, in quanto tali ragioni possono essere errate oppure mutate nel tempo o, ancora, superate da una certa situazione (e quella del “coronavirus” è, al riguardo, emblematica). Tutto ciò, soprattutto se, come avvenuto nel caso della disposizione in esame, da molte parti si è richiesta l’abrogazione dei detti limiti temporali de iure condendo, i quali viceversa, a nostro avviso, già non si applicano, de iure condito, alla fattispecie che a noi interessa.

Come noto il legislatore della riforma del 2006 e del successivo correttivo, in continuità con la legge Prodi bis e la Marzano sulle grandi imprese insolventi[104], ha eliminato il monopolio del fallito nella legittimazione al concordato fallimentare, ammettendo anche uno o più creditori e qualunque «terzo» a presentarla, ed addirittura ponendo il fallito (e alcuni centri di imputazione a lui collegati) in una posizione di “retroguardia” rispetto agli altri possibili proponenti[105].

L’istituto riservato al fallito per la definizione «a stralcio» della propria posizione debitoria[106], è così divenuto semplicemente una tecnica di chiusura della procedura alternativa alla liquidazione, in una certa misura indifferente al soggetto proponente. Il fallito, tuttavia, non solo è stato messo in concorrenza con altri potenziali proponenti, ma è anche stato collocato in una posizione di “retroguardia”, in quanto non può presentare la propria proposta se non dopo il decorso di un termine dilatorio di un anno dalla dichiarazione di fallimento, mentre tutti gli altri hanno la possibilità di presentarla il giorno dopo la dichiarazione di fallimento[107].

Secondo gli interpreti il termine dilatorio iniziale mirava ad incentivare il fallito ad accedere alla procedura di concordato preventivo, esponendolo, in caso di inerzia e di fallimento, al rischio che altri si impadronissero legittimamente del suo patrimonio. Il debitore non avrebbe infatti sufficienti incentivi a proporre un concordato preventivo se potesse più facilmente ottenere lo stesso risultato (mediante il silenzio-assenso dei creditori, previsto dall’art. 128, 2° co.), subito dopo la dichiarazione di fallimento. Né d’altra parte altri potenziali interessati a proporre un concordato potrebbero efficacemente competere con il debitore, dato il vantaggio informativo di cui egli gode circa il valore reale del patrimonio aziendale [108].

La legge prevede infatti che il termine dilatorio iniziale di un anno dalla dichiarazione di fallimento e quello finale di due anni dal decreto di esecutività dello stato passivo si applichino non solo al fallito, sia esso persona fisica o giuridica, ma anche a società cui egli partecipi e a società sottoposte a comune controllo. La finalità sarebbe quella di evitare facili aggiramenti delle limitazioni imposte al fallito, che potrebbero essere attuati facendo presentare la proposta di concordato non a lui, ma a soggetti a lui collegati.

La disciplina che limita per i soggetti collegati al fallito il tempo della presentazione della proposta si applica alle società da lui partecipate e non solo controllate, anche destinate a divenirlo in conseguenza del concordato preventivo, sia come conseguenza diretta del medesimo, sia per effetto di un c.d. patto paraconcordatario [109].

La norma si applica altresì alle società sottoposte a comune controllo con il fallito, situazione che può verificarsi solo quando il fallito abbia forma societaria[110].

Orbene è evidente la mancata inclusione della stessa società controllante fra i soggetti collegati al fallito e quindi la lettera della norma consente senza dubbio a società che abbiano il medesimo assetto proprietario della fallita di presentare il c.d. “concordato del giorno dopo”, perché tali società, che nel nostro programma si sono rese affittuarie, non sono sottoposte letteralmente “a comune controllo con il fallito”.

In verità secondo alcuni primi commentatori ciò appariva come il frutto di una svista, che come tale andava corretta mediante l’interpretazione analogica[111] o attraverso il correttivo previsto dalla legge delega[112]. Al contrario il silenzio del legislatore a questo proposito non può affatto essere imputato a distrazione, ma dipende da una precisa e consapevole scelta[113], che è proprio nel modello che stiamo delineando.

Orbene il decreto correttivo, come noto, è stato emanato nel 2007 e, come altrettanto noto, il legislatore pur avvertito del problema interpretativo non ha inteso affatto modificare o precisare alcunchè, per la serie ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit.

Ma ancora più epifanica è circostanza che l’art. 240 CCII, che disciplina il contenuto della proposta di concordato nella nuova liquidazione giudiziale, riproduce per grandi linee l’art. 124, l.fall., e legittima a proporre il concordato ancora uno o più creditori, un terzo e il debitore. Il Codice della crisi e dell’insolvenza in particolare replica pedissequamente la disposizione in esame nell’ultima parte del comma 1 dell’art. 240, dove si continua a leggere: “La proposta non può essere presentata dal debitore, da società cui egli partecipi o da società sottoposte a comune controllo se non dopo il decorso di un anno dalla sentenza che ha dichiarato l'apertura della procedura di liquidazione giudiziale e purchè non siano decorsi due anni dal decreto che rende esecutivo lo stato passivo. La proposta del debitore è ammissibile solo se prevede l’apporto di risorse che incrementino il valore dell’attivo di almeno il dieci per cento”.

Orbene se è ipotizzabile una svista del legislatore del 2006, se è possibile una seconda leggerezza del correttivo del 2007, se diventa difficile pensare ad una superficialità dei redattori delle quattro novelle successive sulla base di una lettura controversa in dottrina e giurisprudenza[114], è invece certo che la pietra tombale alla interpretazione estensiva è la identica previsione di una norma passata attraverso il lungo dibattito e la defatigante sedimentazione della c.d. riforma Rordorf.Riforma che peraltro prevede, a conferma della ratio complessiva e delle ragioni sottese, la norma sull’apporto di risorse aggiuntive del debitore, la quale appare addirittura rendere ammissibile la presentazione della proposta sempre a quelle date condizioni[115].

Quanto al ricorso all’analogia, pure richiamata per veder applicata la norma, va eccepito che la stessa rappresenta in fondo una limitazione all’attività d’impresa e quindi alla libera concorrenza (quantomeno rispetto ai predetti soggetti che non siano il fallito) [116] o comunque è latamente sanzionatoria[117] e decadenziale [118] quindi non può che interpretarsi quale disposizione eccezionale e di stretta interpretazione. Tant’è che la disciplina non si applica neppure ai familiari ed ai congiunti del fallito.[119]

Anzi, proprio con riferimento alla ratio delle limitazioni alla proposta del fallito, le stesse motivazioni poste a base dei vantaggi competitivi del terzo e le norme che ne sono espressione, “costituiscono, oltre che il fondamento, anche il confine al quale deve arrestarsi la prevalenza del terzo rispetto al fallito”[120]. In questa prospettiva, se non vi è il rischio di “abuso” da parte dell’affittuario che intenda proporre immediatamente un concordato fallimentare, non sussiste ragione per impedirglielo, anche se ha la stessa compagine sociale della società fallita, perché questa limitazione si risolverebbe in un pregiudizio, piuttosto che in una tutela per la massa dei creditori.

D’altra parte le presunte ragioni alla base del limite temporale si sono rivelate del tutto infondate e non hanno certo incentivato concordati preventivi virtuosi, tant’è che lo strumento si è rivelato fallimentare con percentuali bassissime di successo. E se vogliamo, il divieto finisce col tradursi in una sorta di obbligo, più che un incentivo, a preferire la soluzione alternativa al fallimento (piani di risanamento, accordi di ristrutturazione, concordati preventivi) che contrasta con il c.d. aspetto negativo della libertà di impresa di rango costituzionale [121].

L’applicazione di questi anni ha dimostrato che il limite è piuttosto un disincentivo alla presentazione del concordato preventivo nella consapevolezza degli esiti spesso nefasti e della necessità del buon esito, visto che il fallito non ha la seconda chance di trasformare la proposta in concordato fallimentare e rischia di vedersi “soffiata” l’azienda da terzi[122], semmai concorrenti stranieri. Ipotesi che viceversa può rappresentare come visto una variante del modello base.

E quindi per una sorta di nemesi storica, in tempi in cui la tempestività dell’emersione della crisi è considerata l’obiettivo primario, le ragioni incentivanti producono l’effetto contrario di portare il debitore al moral hazard, ossia tentare il solito dannoso “tutto per tutto” invece di presentare un sano autofallimento.

Nella prassi si è poi osservato che laddove intervenga il fallimento e non ci sia quella continuità, che ad esempio l’affitto consente, l’impresa si disperde e non c’è più alcun interesse competitivo all’attività economica e la gran parte dei concordati proposti da terzi sono meramente liquidatori e speculativi.

Insomma la lettera della norma consente il concordato del giorno dopo alla società affittuaria e tutte le ragioni delineate avvalorano una interpretazione del modello divisato, senza che occorra una abrogazione dell’ultima parte del primo comma dell’art. 124 l. fall. (o dell’art. 240 CCII), pur auspicata da tanti.

La profonda ed inarrivabile informazione che ha il debitore della propria impresa non è un vantaggio concordatario da evitare in funzione di approcci ideologici che non hanno prodotto alcun risultato, ma l’unico modo per rendere l’impresa resiliente con una tempestiva strategia di reazione.

Tutto deve però avvenire alla luce del sole, in trasparenza ed in buona fede, come si addice all’era del coronavirus, senza usare i soliti fittizi prestanome o fiduciari e senza abusare del contratto.

L’affitto ad una newco con i medesimi assetti proprietari, propedeutico all’auto fallimento premeditato deve essere dichiarato ovunque come parte integrante del programma virtuoso da proporre agli organi del fallimento come soluzione, all’indomani dell’insolvenza, nell’interesse fondamentale dell’impresa che non è solo una proiezione dell’imprenditore [123], ma una realtà oggettivamente rilevante cui l’ordinamento accorda tutela ed assegna uno specifico ruolo [124]ed alla quale sono riferibili, in certi limiti, situazioni e rapporti autonomi rispetto a quelli che fanno capo all’imprenditore [125].

Si può obiettare che il ricorso massiccio a questo programma può moltiplicare esponenzialmente i fallimenti. Si è affermato che secondo lo scenario cauto, potrebbero entrare in crisi di liquidità 124 mila imprese (il 17,2% del campione), raggiungendo un picco a luglio. Successivamente, i casi di crisi causa da Coronavirus si ridurrebbero velocemente. Secondo lo scenario estremo, il numero di imprese salirebbe a 176 mila (il 33%) a fine anno. In entrambi i casi, il costo sociale di questi fallimenti sarebbe importante: i lavoratori a rischio sarebbero 2,8 milioni nello scenario cauto e 3,8 milioni in quello estremo. Nello scenario pessimistico le iniezioni per “salvare” tutte le imprese ammonterebbero a 80 miliardi: ai 30 spesi tra marzo e agosto secondo lo scenario base, se ne dovrebbero aggiungere altri 50 per far fronte al perdurare dell’emergenza. Le iniezioni necessarie salirebbero rispettivamente a 42 e 107 miliardi senza moratoria sui debiti[126]. Le proiezioni predisposte da molti economisti prevedono che nei prossimi 6/12/18 mesi potrebbero chiudere, fallire o portare i libri in tribunale quasi i 50 per cento delle imprese. Svizzera Spagna ed Austria hanno previsto la sospensione ed attenuazione degli atti esecutivi contro i debitori comprese le dichiarazioni di fallimento[127].

Orbene tutto è possibile de iure condendo anche che venga eliminata la fame nel mondo, ma tutto deve essere sostenibile. Creditori deriva dal latino credere ed i creditori devono poter credere nella sostenibilità del sistema. La sospensione può certo contenere la crisi, ma per sua natura è a termine. L’iniezione di liquidità è chiaramente necessaria e noi stessi abbiamo individuato in quale direzione deve andare cioè passare attraverso le normali dinamiche di mercato e di meritevolezza del salvataggio, senza dimenticare che le imprese italiane, cronicamente piccole e sottocapitalizzate[128], in molti casi hanno trovato nel coronavirus solo il culmine della citata piramide degli errori di Heinrich.

Anche perché è del tutto indimostrata la efficacia e la efficienza di una iniezione enorme di liquidità pur se fosse possibile nelle dimensioni monstre ipotizzate, senza considerare i comportamenti opportunistici o addirittura fraudolenti, fuori dal controllo di organi concorsuali.

In realtà nel nostro approccio si tratterà di fallimenti che non tolgono ma aggiungono imprese al mercato e le allocano in modo efficiente isolandole dai debiti, mediante il vaccino dell’affitto e la catarsi della procedura concorsuale, questa voltà sì in una sorta di “immunità di gregge”[129].



[1] Il saggio è in corso di pubblicazione sul prossimo numero della Rivista del Notariato, Giuffrè editore. La rivista ha cortesemente autorizzato la pubblicazione in versione digitale ed in anteprima in ilCaso.it, nello spirito di una comune e condivisa collaborazione su strumenti di ricerca che indaghino su possibili soluzioni urgenti per contenere sul piano economico-giuridico la gravissima crisi in atto.

[2] In fisica il termine indica “la capacità di un materiale di conservare, mantenere o recuperare la propria struttura dopo aver subito una deformazione o uno schiacciamento, di restituire l’energia assorbita in un’interazione ritornando allo stato di partenza”. Il termine deriva dal latino resalio che significa saltare indietro, rimbalzare, risalire sulla barca capovolta dalle onde del mare e in senso più ampio indica la riorganizzazione del proprio percorso di vita, la possibilità di trasformare un evento doloroso in un processo di apprendimento e di crescita.

[3] La diffusione del termine “resilienza” è certamente dovuta alla capacità del concetto di proiettare visioni pro-attive e positive e quindi di reagire in modo strategico rispetto a potenziali fattori di crisi (economici, ambientali, sanitari, sociali e di governo). Un’impresa resiliente continua a crescere ed evolversi con lo scopo di andare incontro ai bisogni e alle aspettative dei portatori di interesse. Questa si adatta con successo ai cambiamenti traumatici, anticipando i rischi, riconoscendo le opportunità e configurando prodotti e processi solidi.

[4] La resilienza organizzativa è definita come “la capacità di un’organizzazione di anticipare, prepararsi, rispondere ed adattarsi al cambiamento incrementale e ad inconvenienti improvvisi, con l’obiettivo di sopravvivere e prosperare”. Non si tratta solamente della gestione del rischio, ma soprattutto di una visione integrale della salute e del successo aziendale. Un’impresa che mira a prosperare nel mondo dinamico ed interconnesso ha bisogno di una resilienza organizzativa ricercata non solo nella singola prestazione ma soprattutto nel lungo termine. Essa è il risultato dell’interazione tra gli imprenditori e il loro ambiente; è un processo dinamico e in evoluzione attraverso il quale essi acquisiscono conoscenze, abilità e capacità per affrontare il futuro incerto con un atteggiamento positivo e creativo, assumendo decisioni tempestive per raggiungere gli obiettivi in ambienti sempre più incerti e competitivi. Le informazioni a loro disposizione sono spesso ambigue, incomplete o in continua evoluzione: in queste circostanze gli imprenditori resilienti mostrano un alto grado di tolleranza per l’ambiguità e per il rapido adattamento al cambiamento.

[5] Nello stesso senso: G. Corno - L. Panzani, Prevedibili effetti del coronavirus sulla disciplina delle procedure concorsuali, in ilcaso.it (secondo cui tale rinvio è in effetti giustificato dal fatto che sarebbe meglio che i tribunali, i professionisti e gli altri gestori della crisi d’impresa continuino ad avvalersi di norme che ben conoscono, piuttosto che dover contemporaneamente far fronte alla doppia sfida della crisi economica e di un nuovo sistema legislativo che nei primi mesi richiederà certamente un certo rodaggio).

[6] Gli obblighi di segnalazione della crisi d’impresa a carico degli organi di controllo e revisori legali dei conti, nonché dei creditori pubblici qualificati previsti dagli artt. 14 e 15 del D.Lgs. 14/2019 sono slittati al 15 febbraio 2021 per effetto della proroga di 6 mesi, contenuta nel d.l. 2 marzo 2020 n. 9 (“Misure urgenti per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”), ferma la possibilità per il debitore di avvalersi degli OCRI, quando saranno istituiti, anche a seguito del “suggerimento” da parte degli organi di controllo (e di revisione), ai sensi dell’art. 14, co. 1 del Codice della Crisi (al riguardo M. Irrera, Le misure di allerta ai tempi del coronavirus in dirittobancario.it/editoriali). Il rinvio è misura certamente necessaria, ma altrettanto evidentemente insufficiente. Al riguardo N. Abriani – G. Palomba, Strumenti e procedure di allerta: una sfida culturale (con una postilla sul Codice della crisi dopo la pandemia da Coronavirus), in Codice della crisi e dell’insolvenza, Approfondimenti di economia e diritto d’impresa, realizzato dal Gruppo di studio “Crisi d’impresa” istituito in seno all’Istituto per il Governo Societario, secondo cui “l’impianto che riguarda la segnalazione dell’insorgere della crisi, con i connessi obblighi che ricadono sull’organo amministrativo e sull’organo di controllo, àncora il procedimento al grado di diversità statistica, alla distanza dalla media – oltretutto – di dati prevalentemente retrospettivi. In relazione alle circostanze concrete che si possono manifestare, si considera che la statistica adottata rischia di perdere di significatività quando la gran parte degli operatori passano dalla condizione di non-crisi a quella di crisi: uno scenario nel quale si rovescia il mondo e, ove ci fossero, le imprese in ordinario funzionamento diventano le eccezioni”.

[7] La vulnerabilità, che è il contrario della resilienza, è una componente di un sistema in corrispondenza della quale le misure di sicurezza sono assenti, ridotte, o compromesse, il che rappresenta un punto debole e consente ad un eventuale aggressore di danneggiare il livello di sicurezza dell’intero sistema.

[8] Nella c.d. “Piramide degli errori” di Herbert William Heinrich (del 1931 e aggiornata da Frank E. Bird nel 1966) un incidente è solamente la punta della piramide di una serie molto più numerosa di errori ed eventi anomali che hanno concorso nel tempo a danneggiare il sistema. Questo sta ad indicare che per ogni incidente ci sono stati migliaia di piccoli segnali che lo potevano preannunciare. A questo punto, vi sono due modi diversi (ed opposti) di affrontare il problema, e rispecchiano la natura più o meno resiliente di un’organizzazione. L’organizzazione basata sulla “cultura della colpa” è caratterizzata da un velo che oscura i rischi e gli eventi anomali manifestatesi nel tempo, lasciando scoperti solamente gli episodi più gravi; è quindi un sistema che agisce soltanto quando l’incidente è avvenuto, ricercando i colpevoli. Al contrario, l’organizzazione resiliente toglie il velo e vede con limpidità tutta la piramide degli eventi che hanno concorso a danneggiare il sistema, arrivando alla base e sanando non solo gli eventi anomali, ma anche quelli che potrebbero diventarlo.

[9] La letteratura economica attribuisce al diritto delle imprese in crisi innanzitutto il compito di massimizzare il valore ex post dell’impresa mediante la riduzione dei tempi di svolgimento ed i costi (diretti ed indiretti) della procedura ed in secondo luogo mirando a riallocare i beni in modo ottimale e cioè secondo criteri che ne assicurino la massima valorizzazione. Si tenga conto che le procedure concorsuali sono costose, nel senso che consumano esse stesse una parte dell’attivo residuo, sottraendolo alla somma su cui i creditori possono soddisfarsi. Tra i costi indiretti della procedura concorsuale vi sono quelli derivanti dalla sostituzionenella funzione di controllo dell’impresa dell’organo giudiziario o amministrativo ai creditori, i quali sono direttamente e patrimonialmente interessati a far valere le prerogative riconosciute in caso di inadempimento e meglio informati. Gli altri due obiettivi sono quello di massimizzare l’efficienza ex ante e quello di garantire l’efficienza nella fase intermedia(pre-insolvency). Si tenga conto infatti che i c.d. costi di agenzia del debito sono quelli derivanti dal monitoraggio del proprietario-manager (monitoring), quelli necessari affinchè egli si vincoli credibilmente al rispetto del contratto con i creditori (bonding), nonché i costi del fallimento (bankruptcy costs) la cui incidenza aumenta all’aumentare del rischio di credito. Orbene nel caso di debiti contratti dall’impresa, l’agente può fare scelte che non sono indifferenti per il creditore, in quanto incidono sul valore atteso del suo claim ovvero sulla probabilità che il contratto di debito venga adempiuto. Dunque, in questo contesto, l’efficienza ex ante del diritto fallimentare riguarda le imprese in bonis ed esige misure che incentivino il management ad utilizzare i beni aziendali in modo efficiente e lo penalizzino opportunamente in caso di insolvenza, tenendo tuttavia conto che una punizione troppo severa può produrre effetti negativi scoraggiando l’iniziativa economica. Per essere efficiente ex ante la procedura deve garantire i creditori ed assicurare la massimizzazione dei ricavi, con effetti positivi sulla disponibilità a fornire credito. Ecco che la funzione del fallimento è collegata al ruolo dei creditori nell’impresa, in quanto costituisce uno degli strumenti di controllo degli stessi sulla gestione, o addirittura uno strumento di governance: in buona sostanza una forma di control transaction al pari delle O.P.A., delle fusioni, dei leveraged buyout o delle scalate ostili. Il ricorso all’indebitamento comporta per sua natura il rischio di fallimento e la perdita di controllo da parte della proprietà con l’attribuzione di poteri ai creditori od ai loro rappresentanti. Decisivo è l’obiettivo, c.d. dell’efficienza intermedia, che riguarda le imprese in crisi prima dell’avvio di procedure concorsuali nella fase di pre-insolvency ed esige misure che incentivino il debitore a rivelare tempestivamente lo stato di difficoltà, reagendo efficacemente senza assumere comportamenti eccessivamente azzardati per tentare di evitare il fallimento, scommettendo ad esempio le residue risorse dei finanziatori in attività molto rischiose (in tal modo danneggiando i creditori). Procedure troppo punitive possono favorire l’azzardo diretto a scongiurarle, ridurre gli investimenti poco rischiosi ed indurre il controllante a ritardarne l’avvio. Ciò spiega l’esistenza di disposizioni in diversi ordinamenti sul discharge, l’esdebitazione,l’exempt property ed ilconsenso sempre più ampio sull’opportunità di ricorrere alla sanzione penale solo per colpire i comportamenti più gravi connessi al dissesto (al riguardo mi permetto di rinviare per brevità a: F. Fimmanò, L’allocazione efficiente dell’impresa in crisi mediante la trasformazione dei creditori in soci, in Riv. soc., 2010, 150 s.)

[10] Si è correttamente evidenziato che “la cessione dell’azienda o di suoi rami autonomi può essere funzionale a un processo di ristrutturazione solo ad alcune condizioni: che essa sia in grado di eliminare le criticità che hanno inquinato il processo, attraverso un turn-around organizzativo, gestionale, proprietario, ecc.; che essa non disperda valori a causa del mutamento soggettivo del titolare (ad es. qualifiche; standing riconosciuto sul mercato; nazionalità, ecc.); che essa possa avvenire in franchigia di debito, con l’effetto quindi di confinare lo stesso (o perlomeno il debito non operativo) nella sfera patrimoniale del soggetto cedente e di liberarne la continuazione dei processi produttivi; che essa sia accompagnata dall’apporto, da parte del cessionario, di strumenti finanziari o tecnici idonei a supportare i processi, a garantirne la continuità e a conservarne la capacità reddituale; che essa possa accompagnarsi, almeno in certa misura, con interventi di razionalizzazione”(G. Meo, Ristrutturazione mediante circolazione dell'azienda e modelli competitivi, in Giur.comm., 2019, 430).

[11]In realtà già deve ritenersi ammissibile nel sistema concorsuale vigente come argomentato in: F. Fimmanò, Concordato preventivo in continuità e contratti « stipulati o da stipulare » con la pubblica amministrazione, in Riv. not.,, 2018, 451 s.; Id., I contratti in corso di esecuzione nel concordato preventivo, Quad. Gazz. For., n. 3, Napoli 2016, 14 s.; Id., Contratti d’impresa in corso di esecuzione e concordato preventivo in continuità, in Dir. Fall., 2014, I, 216 s. Sul tema più in generale : L. Mandrioli, Laffitto d’azienda nel concordato preventivo, in Giur. Comm., 2019, 357; F. Fimmanò, Affitto di azienda, concordato in continuità e fallimento del locatore, in Giur. it., 2012, 10, 2057; Id., Concordato preventivo e circolazione del ramo d’azienda, in Fallimento, 2008, 830 s.Cfr. ante riforma, cfr. A. Dimundo – A. Patti, I rapporti giuridici preesistenti nelle procedure concorsuali minori, Milano, 1999. La suprema corte da ultima ha affermato che “il concordato con continuità aziendale, disciplinato dall’art. 186 -bis l.fall., è configurabile anche qualora l’azienda sia già stata affittata o si pianifichi debba esserlo, palesandosi irrilevante che, al momento della domanda di concordato, come pure all’atto della successiva ammissione, l’azienda sia esercitata da un terzo anziché dal debitore, posto che il contratto d’affitto - sia ove contempli l’obbligo del detentore di procedere al successivo acquisto dell’azienda (cd. affitto ponte), sia laddove non lo preveda (cd. affitto puro) - assurge a strumento funzionale alla cessione o al conferimento di un compendio aziendale suscettibile di conservare integri i propri valori intrinseci anche immateriali (cd. intangibles), primo tra tutti l’avviamento, mostrandosi in tal modo idoneo ad evitare il rischio di irreversibile dispersione che l’arresto anche temporaneo dell’attività comporterebbe” (Cass. 19 novembre 2018, n. 29742 in Foro it., 2019, 1, I, 145; in Ilfallimentarista.it,con nota di L.A. Bottai.; in GiustiziaCivile.com con nota di F. Campagna).

[12] Non può condividersi pertanto quell’assunto di una certa giurisprudenza secondo cui nella fattispecie vi sarebbe la mancanza dello scopo di attribuire all’affittuario dell’azienda il diritto di utilizzarne le capacità produttive per trarne un utile imprenditoriale, e la causa del contratto, intesa quale funzione economico individuale, sarebbe quella di tentare una conservazione della continuità aziendale in vista di un imminente e previsto fallimento, che si sostituirebbe a quella tipica del contratto di affitto di azienda, impedendo l’applicazione della normativa tipica di cui all’art. 79. Tale scrutinio viene effettuato da questa giurisprudenza sulla base di una serie di clausole e contegni contrattuali, genetici e funzionali, non virtuosi, che a nostro avviso vanno valutati, anche nella loro asimmetria e sperequazione, in relazione alla valutazione dell’equo indennizzo e dell’eventuale mancato riconoscimento dello stesso a causa delle anomalie negoziali o se, del caso, della revocabilità del contratto stesso. La scelta invece di travolgere addirittura il contratto, e la disciplina fallimentare dello stesso, attraverso la causa del negozio è contraria innanzitutto allo spirito del sistema (Trib. Roma 15 maggio 2012, in Fallimento, 2012, 1352 s., con nota critica di F. Fimmanò, L’affitto di azienda programmato e stipulato dall’imprenditore in crisi in funzione del concordato preventivo, in Fallimento, 2012, 1352).

[13] Nell’affitto di azienda, deve farsi riferimento anzitutto al disposto dell’art. 2555 e dell’art. 1615 c. c. Ne consegue che l’istituto collega la funzione contrattuale della locazione (in base alla quale “una parte si obbliga a far godere all’altra parte una cosa mobile o immobile per un dato tempo verso un determinato corrispettivo”, ai sensi dell’art. 1571 cod. civ.), con la destinazione economica e produttiva propria del particolare bene locato, vale a dire l’azienda. Gli elementi essenziali rimangono l’affitto, vale a dire il diritto di godimento su una propria cosa attribuito all’altra parte, la natura della res (quindi, il complesso di beni e rapporti organizzato dall’imprenditore per l’esercizio dell’attività economica) , la durata temporanea ed il canone dovuto a titolo di corrispettivo.

[14] La Cassazione ha infatti ritenuto configurabile il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione in un caso in cui l’affitto d’azienda stipulato in previsione del fallimento dall’imputato (che risultava di fatto coinvolto nella gestione della società fallita e di quella affittuaria) aveva il solo scopo di determinare la inattività della società in decozione e di trasferire la disponibilità dei beni (Cass. penale sez. V - 13/02/2018, n. 16748, in CED Cass. pen. 2018).

[15] Al riguardo per brevità mi permetto di rinviare a: F. Fimmanò, L’affitto di azienda pendente in caso di dichiarazione   di fallimento,in Trattato di dir. fall e delle altre proc. conc., diretto da Vassalli, Luiso, Gabrielli,Vol. 3, Sezione VI, 320 s., Milano 2013; Id., Liquidazione programmata, salvaguardia dei valori aziendali e gestione riallocativa dell’impresa fallita, in Il nuovo diritto fallimentare, a cura di A. Jorio e M. Fabiani, Zanichelli editore, Bologna, 2010, 491 s.; L’affitto di azienda preesistente al fallimento nel correttivo, in Le nuove procedure concorsuali, a cura di S. Ambrosini, Torino, 2008, 135 s.

[16] A seguito del recesso “legale” della curatela il sequestro giudiziario verrà pressochè concesso in automatico non essendovi dubbi sugli effetti dello stesso e separando così l’efficacia reale del recesso stesso dalla parte risarcitoria o indennitaria da lasciarsi al giudizio di merito.

[17] Con riferimento a questa ipotesi mi permetto di rinviare a F. Fimmanò, La crisi delle società di calcio e l’affitto di azienda sportiva, in Dir. fall., I, 2006, 30 ove è richiamata una ordinanza, precedente alla riforma, del 16 luglio 2004 del Tribunale di Napoli, secondo cui “soluzioni come quella dell’affitto di azienda non potranno mai essere utilizzate come strumento per lasciare alla società locatrice la gran parte della debitoria esonerando la società sportiva…. dalla necessaria dimostrazione che la crisi economica in cui attualmente versa sia effettivamente transitoria e non irreversibile….se scopo della procedura concorsuale è quello di tutelare le ragioni dei creditori, secondo criteri ispirati dal principio della parità di trattamento, una linea diversa si risolverebbe…in un risultato di segno affatto opposto, paradossalmente favorendo, per una sorta di eterogenesi dei fini non trasparenti operazioni e speculazioni finanziarie in pregiudizio dei medesimi”.

[18] Così G. Meo, op.cit., 435. In tema cfr pure A. Patti, L’evoluzione normativa dell'affitto dell’azienda a rischio di depotenziamento “competitivo”, in Fallimento, 2017, 516, che evidenzia la virtuosità ed il largo utilizzo dell’affitto nella continuità d’impresa, in vista del risanamento di quest’ultima e di una sua nuova collocazione sul mercato.

[19] Con riferimento alla marginalità dell’istituto dell’esercizio provvisorio utilizzabile soprattutto per brevissimo tempo successivo alla sentenza di fallimento: F. Fimmanò, Prove tecniche di esercizio provvisorio riformato, in Giur. comm., 2007, I, 762 s.

[20] La relazione ex art. 33, ha una funzione meramente informativa alla luce della quale il giudice delegato e il P.M. (al quale la relazione va trasmessa) possono valutare le azioni da intraprendere a tutela del patrimonio e di perseguire i responsabili del dissesto in sede civile e penale (cfr. in tema G. D’Attorre- M. Sandulli, in La riforma della legge fallimentare, a cura di A. Nigro e M. Sandulli, sub art. 104 , Torino, 2006, 621). Qualche sovrapposizione può esserci nella parte in cui la relazione deve indicare “gli atti del fallito già impugnati dai creditori, nonché quelli che egli intende impugnare” (secondo comma art. 33), espressioni che, seppur finalizzate a fornire una rappresentazione della condotta del fallito, si ritrovano nelle “azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie” di cui alla lettera c) dell’art. 104 ter, 2° comma. In ogni caso non si può parlare di subordinazione del programma alla relazione o viceversa, anche soltanto sotto il profilo temporale (così L. Panzani, Programma di liquidazione, in Fallimento e altre procedure concorsuali, diretto da Fauceglia e Panzani, Torino 2009, vol. 2, 1150, che sottolinea che il programma, a riprova del carattere fondamentale, è atto indelegabile a differenza della relazione).

[21] Sull’individuazione e la valorizzazione dell’interesse del fallito nel fallimento e nei concordati fallimentari, vedi l’ampio studio di G. D’Attorre, I concordati “ostili”, Milano, 2012, 55 s.

[22] La Commissione Ue ha adottato un quadro temporaneo per consentire agli Stati membri di avvalersi pienamente della flessibilità prevista dalle norme sugli aiuti di Stato al fine di sostenere l'economia nel contesto dell'emergenza del coronavirus. Il quadro temporaneo prevede che gli Stati membri possano concedere cinque tipi di aiuti: i) sovvenzioni dirette, agevolazioni fiscali selettive e acconti: gli Stati membri potranno istituire regimi per concedere fino a 800 000 € a un’impresa che deve far fronte a urgenti esigenze in materia di liquidità; ii) garanzie di Stato per prestiti bancari contratti dalle imprese: gli Stati membri potranno fornire garanzie statali per permettere alle banche di continuare a erogare prestiti ai clienti commerciali che ne hanno bisogno. Queste garanzie di Stato possono coprire prestiti per aiutare le imprese a sopperire al fabbisogno immediato di capitale di esercizio e per gli investimenti; iii) prestiti pubblici agevolati alle imprese: gli Stati membri potranno concedere prestiti con tassi di interesse favorevoli alle imprese. Questi prestiti possono aiutare le imprese a coprire il fabbisogno immediato di capitale di esercizio e per gli investimenti; iv) garanzie per le banche che veicolano gli aiuti di Stato all’economia reale: alcuni Stati membri prevedono di sfruttare le capacità di prestito esistenti delle banche e di utilizzarle come canale di sostegno alle imprese, in particolare le piccole e medie imprese. Il quadro chiarisce che tali aiuti sono considerati aiuti diretti a favore dei clienti delle banche e non delle banche stesse e fornisce orientamenti per ridurre al minimo la distorsione della concorrenza tra le banche; v) assicurazione del credito all'esportazione a breve termine: il quadro introduce un'ulteriore flessibilità per quanto riguarda il modo in cui dimostrare che alcuni paesi costituiscono rischi non assicurabili sul mercato, permettendo così agli Stati di offrire, ove necessario, una copertura assicurativa dei crediti all'esportazione a breve termine. Il 23 marzo la Commissione ha avviato una consultazione pubblica urgente per appurare se, nell’attuale crisi risultante dall’emergenza del coronavirus, sia opportuno ampliare la disponibilità di un'assicurazione pubblica del credito all’esportazione a breve termine. La consultazione pubblica mira più specificamente a vagliare la disponibilità di una capacità privata di assicurazione del credito all'esportazione a breve termine per le esportazioni verso tutti i paesi ripresi nell'elenco dei “paesi con rischi assicurabili sul mercato” nella comunicazione del 2012 sul credito all’esportazione a breve termine. In funzione dei risultati della consultazione e considerati i pertinenti indicatori economici, la Commissione potrà poi decidere di depennare in via temporanea alcuni paesi dall'elenco dei “paesi con rischi assicurabili sul mercato”. Il quadro temporaneo sarà in vigore fino alla fine di dicembre 2020. Al fine di garantire la certezza del diritto, la Commissione valuterà prima di tale data se il quadro debba essere prorogato. Il quadro temporaneo integra le numerose altre possibilità di cui gli Stati membri già dispongono per attenuare l'impatto socioeconomico dell'emergenza del coronavirus, in linea con le norme dell'UE sugli aiuti di Stato. Il 13 marzo 2020 la Commissione ha adottato una comunicazione relativa a una risposta economica coordinata all’emergenza COVID-19 che illustra queste possibilità. Ad esempio, gli Stati membri possono introdurre modifiche di portata generale a favore delle imprese (quali il differimento delle imposte o il sostegno alla cassa integrazione in tutti i settori), che non rientrano nel campo di applicazione delle norme sugli aiuti di Stato. Possono inoltre concedere compensazioni alle imprese per i danni subiti a causa dell'emergenza del coronavirus o da essa direttamente causati (https://ec.europa.eu/italy/news/2).

[23] Decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 che, sotto il Titolo terzo (Misure a sostegno della liquidità attraverso il sistema bancario), sancisce all’art. 49 comma 9 che con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, possono essere previste ulteriori misure di sostegno finanziario alle imprese, anche attraverso il rilascio di finanziamenti a tasso agevolato e di garanzie fino al 90%, a favore delle imprese, o delle banche e degli altri intermediari che eroghino nuovi finanziamenti alle imprese. Il medesimo decreto disciplina le forme tecniche, il costo, le condizioni e i soggetti autorizzati al rilascio dei finanziamenti e delle garanzie, in conformità alla normativa europea in tema di aiuti di stato. Le risorse necessarie ai fini dell’attuazione delle suddette misure possono essere individuate dal decreto nell’ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente, nonchè ai sensi dell’articolo 126, commi 5 e 8, dello stesso decreto legge.

[24] M. Atelli, È il Golden Power l’antidoto contro gli effetti economici del virus, in formiche.net/2020/03/ ). La Golden Power, espressione che sta come noto a indicare i poteri speciali che gli Stati si riservano per proteggere, appunto, l’interesse strategico nazionale, anche attraverso veti preventivi a scalate poco rassicuranti perché senza sovranità economica sarà difficile conservare una effettiva sovranità politica.

[25] I provvedimenti adottati dal Governo con il d.l. 18/2020 nel prevedere interventi a favore delle imprese mantengono infatti esclusioni (e non potrebbero fare diversamente) per quelle che già si trovino in situazione di difficoltà. Così l’art. 49 nel prevedere una più favorevole disciplina del Fondo centrale di garanzia delle PMI deroga alle vigenti disposizioni del Fondo di cui all’art. 2, comma 100, lett. a), della legge 23 dicembre 1996, n. 662, ma precisa alla lettera g), insieme ad altre condizioni, che “Sono in ogni caso escluse le imprese che presentano esposizioni classificate come “sofferenze” o “inadempienze probabili” ai sensi della disciplina bancaria o che rientrino nella nozione di “impresa in difficoltà” ai sensi dell'art. 2, punto 18 del Regolamento (UE) n. 651/2014”. Così pure l’art. 55 modifica l’art. 44 bis del decreto legge 30 aprile 2019, n. 34, convertito con modificazioni, dalla legge 28 giugno 2019, n. 58, in tema di cessione a titolo oneroso di crediti nei confronti di debitori inadempienti e trasformazione in crediti di imposta delle imposte anticipate, prevede una disciplina più favorevole di quella attuale, ma esclude in ogni caso le società per le quali sia stato accertato lo stato di dissesto o il rischio di dissesto ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 16 novembre 2015, n. 180, ovvero lo stato di insolvenza.

[26] Cfr. E. Pagani, Tempi di adempimento ed affitto d’azienda nel concordato con continuità, in Giur. Comm., 2015, II, 158, secondo cui le maglie del disposto dell’art. 186-bis l. fall. possono essere allargate per ricomprendere l’affitto-ponte, ma non certo l’affitto fine a sé stesso”.

[27] La giurisprudenza ha infatti affermato che nella fase preconcordataria l’azienda ben può essere veicolata verso la cessione attraverso la stipulazione di un contratto di affitto di breve durata. Infatti l’affitto, non costituendo atto dismissivo ed essendo di breve durata nonché connotato dalla urgenza, è senza dubbio più compatibile con una procedura competitiva più snella e semplificata rispetto a quella contemplata nell’art 163 bis. La stipulazione di contratti ponte che prevedono la possibilità di risoluzione automatica in caso di mancata aggiudicazione da parte del contraente, rendono possibile la celebrazione della futura gara ex art 163 bis l. fall. per la cessione senza condizionarne l’esito e nel contempo consentono la continuazione dell’attività imprenditoriale e la valorizzazione dei cespiti impedendone lo svuotamento. Il principio della competitività deve comunque essere sempre salvaguardato anche nella fase del concordato con riserva in quanto principio cardine delle vendite concorsuali e coattive. È noto infatti che, con l’introduzione dell’art. 163-bis l. fall., il legislatore ha inteso porre fine al fenomeno delle proposte vincolate ed ha affermato un principio non derogabile che impone sempre la pubblicizzazione dell’offerta pervenuta al debitore e il procedimento competitivo mirato all'individuazione dell’acquirente nella prospettiva della ottimizzazione del realizzo nell'interesse dei creditori (Trib. Milano, 31 maggio 2018, in Ilsocietario.it, con nota di V. Palladino).

[28] Per un esame della fattispecie dell’abuso del concordato preventivo e per una rigorosa delimitazione della stessa, vedi, tra gli altri, G. D’Attorre, L’abuso del concordato preventivo, in Giur. comm., 2013, II, 1059 s.

[29] Purtroppo è ricorrente che intorno ad alcuni istituti si crei una suggestione generalizzata sulla potenziale portata criminale in sede concorsuale. Peraltro talora se ciò è vero sul piano delle intenzioni dell’agente, non si traduce viceversa in effettività sul piano delle regole dell’istituto per la mancanza dell’elemento materiale viste le responsabilità sussidiarie e solidali di tutte le società partecipanti. Il caso emblematico è quello della scissione che evoca un intento distrattivo ma che per le sue caratteristiche diventa concretamente inoffensivo. L’operazione viene spesso confusa con illeciti collegati rispetto ai quali la scissione è neutra (mi permetto al riguardo di rinviare per brevità a F. Fimmanò, Scissione societaria e tutela dei creditori involontari, in Riv. not. 2019, I, 40 s.)

[30] Cass. Pen., sez. V, n. 33320 del 18 maggio 2012, Valsecchi rel.; nello stesso senso Cass. Pen., sez.V, 21 Marzo 2016, in Ilcaso.it, Sez. Giurisprudenza, 14749.

[31] Cass. pen., sez. V, 11 dicembre, 2018, n. 13191; Cass. pen., sez. V, 16 maggio 2018, n. 50489; Cass. pen., sez. V, 2 dicembre 2015, n. 11921; Cass. pen., sez. V, 7 settembre 2015, n. 5010; Cass. pen., sez. V, del 28 maggio 2014, n. 26444, Rv. 259849, in Cass. Pen., 2015, 4, 1598. Trasponendo al concordato preventivo gli approdi cui è pervenuta la Corte di Cassazione in materia di bancarotta pre-fallimentare, il momento consumativo del delitto di bancarotta concordataria coincide con la data di emissione del decreto che ammette l’imprenditore societario al concordato preventivo, determinando la dichiarazione giudiziale non soltanto il c.d. “tempus commissi delicti” ma anche la localizzazione dell’illecito ai fini processuali nel luogo in cui si trova il Tribunale che ha emesso tale dichiarazione, e ciò indipendentemente dal fatto che il provvedimento giudiziale ricognitivo dello stato di crisi venga configurato come elemento costitutivo del reato o, come in talune recenti sentenze del giudice di legittimità, come condizione obbiettiva di punibilità (al riguardo G.G. Sandrelli, La riforma penale della legge fallimentare: i rimedi per la crisi di impresa, il concordato preventivo e le nuove fattispecie (art. 217 bis e 236 bis, l. fall.), in Archivio Penale, 2015, n. 2, 24 s). Ne consegue che ogni condotta penalmente rilevante antecedente al provvedimento di ammissione della società alla procedura di concordato preventivo viene ricondotta alla pronuncia giudiziale.

[32] Cass. pen., sez. V, n. 50675 del 6 ottobre 2016, Rv. 268595, Riv. pen., 2017, 2, 160 e in Ilcaso.it, Sez. Giuris-prudenza, 16363; Cass. pen. sez. V, 10 luglio 2018, n. 42591, Rv. 274175-02. Peraltro la normativa è pacificamente applicabile al concordato in continuità che non è una procedura diversa da quella base (Cass. Pen., sez. V., 3 settembre 2018, n. 39517, in ilcaso.it, sez. giurisprudenza, 22027; Cass. pen. sez. V Sent., 15 giugno 2018, n. 39517, Rv. 273842). Sulle modifiche alla normativa del 2015 e sull’applicazione agli accordi di ristrutturazione: G. P. Del Sasso, Fallimento e concordato preventivo (ii parte) - le modifiche alle disposizioni penali, in Giur. it., 2017, 2, 508. Sugli effetti prodotti dal Codice della crisi cfr. invece F. D’alessandro, La bancarotta da concordato preventivo e da accordi di ristrutturazione, in Diritto penale e processo, n. 9/2019.

[33] In tema di concordato preventivo, l’art. 236 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, fa salva espressamente l'applicabilità degli artt. 223 e 224 del medesimo decreto; ne consegue che ogni condotta rivolta a commettere i reati previsti dalle norme suddette, in qualunque momento posta in essere, prima dell'ammissione alla procedura concordataria, durante lo svolgimento della procedura o dopo la revoca del provvedimento di ammissione, diviene perseguibile dal giudice penale (Cass. pen., sez. V, 6 ottobre 2016, n. 50675, in Quot. Giur., 2017).

[34] Da questo angolo visuale non è condivisibile la critica di chi ha affermato che l’art. 79, l. fall. (già 80 bis) “più che attagliarsi al caso del fallimento (procedura rimasta anche nello spirito del legislatore riformatore una soluzione liquidatoria della crisi dell’impresa), parrebbe essere ispirato alla soluzione già prevista dalla normativa dell’insolvenza della grande impresa in crisi, nell’ambito della quale la prosecuzione delle attività imprenditoriali in capo agli organi di procedura in vista della realizzazione del programma di risanamento rappresenta la regola e non già l’eccezione” (A. Giovetti, sub Art. 80 Bis, in Il nuovo diritto fallimentare, a cura di A. Jorio, Vol. I, Torino, 2006, 1290 s.). Infatti la preesistenza di un contratto di affitto di azienda, a prescindere dalle sue caratteristiche, presuppone proprio che ci sia un’attività economica in corso e che quindi lo scioglimento del rapporto ne determina una oggettiva interruzione.

[35] Cfr. ad es. il disposto dell’art. 25 , co. 2, l. fall..

[36] Non appare condivisibile l’impostazione di chi invece sostiene che nell’ipotesi di fallimento dell’affittuario, la soluzione sarebbe quella di leggere il dettato dell’art. 79, l. fall. in combinato disposto con quanto previsto dagli articoli 104, 104 bis,104 ter, 35 l.fall., salvo applicare dette norme in termini tali da renderle a loro volta compatibili con la disciplina dell’eventuale subentro definitivo in un rapporto giuridico pendente. E pertanto, in caso di fallimento dell’affittuario, qualora l’esercizio provvisorio dell’impresa non sia stato autorizzato dal tribunale con la sentenza dichiarativa di fallimento, il curatore che non intendesse recedere dal contratto di affitto di azienda potrebbe sottoporre al giudice delegato e al comitato dei creditori oltre che tale scelta, altresì quella di autorizzazione all’esercizio provvisorio ai sensi del novellato art. 104 l.fall. da disciplinare, sotto il profilo sostanziale, non già a norma dell’art. 104 l.fall., bensì sulla base dello stesso contratto di affitto di azienda al cui rispetto il curatore sarebbe tenuto anche in assenza dei requisiti previsti dall’art. 104 l.fall. (A. Giovetti, op.loc.ult. cit.).

[37] Così ad esempio è opponibile alla curatela fallimentare la clausola compromissoria contenuta nel contratto stipulato dal fallito “in bonis” (Trib. Nocera Inferiore 14 giugno 2005, in Ilcaso.it, secondo cui non può essere accolta la tesi, espressamente sconfessata dalla Cassazione n. 11216/92 e Cass. 6165/2003, secondo cui il fallimento determina ex se l’automatica caducazione della clausola compromissoria sottoscritta dal contraente fallito. Il che - come pure ha sottolineato la giurisprudenza di legittimità - trova ulteriore riscontro nel disposto dell'art. 35 L.F. che, con l'attribuire al curatore la facoltà (previe le dovute autorizzazioni) di fare compromessi (per date controversie), conferma, appunto, per tabulas che non vi è, in linea di principio, incompatibilità fra fallimento e cognizione arbitrale).

[38] Già prima l’art. 2556, comma 3, c.c., prevedeva per le imprese soggette a registrazione, e cioè per imprenditori commerciali non piccoli e società, l’obbligo dell’iscrizione nel registro delle imprese dei contratti aventi per oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento dell’azienda. Tuttavia la norma era tamquam non esset, stante la mancata attuazione del registro delle imprese con tutte le conseguenze e le distorsioni del caso. Ad esempio nel caso di affitto o usufrutto di azienda, l’assenza di pubblicità collegata all’obbligo del nuovo titolare di esercitarla sotto la ditta del dante causa, per ragioni di conservazione dell’avviamento, aveva addirittura portato una certa giurisprudenza a ritenere che il proprietario dell’azienda fosse responsabile per le obbligazioni assunte dall’affittuario o dall’usufruttuario (cfr. App. Napoli, 9 luglio 1953, in Riv. cir. comm., 1954, II, 351, con nota di A. Pavone La Rosa, Affitto di azienda e responsabilità per le obbligazioni contratte dall’affittuario nell’esercizio dell’impresa).

[39] Qualora l’iscrizione non venga richiesta, oppure venga eseguita tardivamente, il notaio andrà assoggettato non solo alle sanzioni, ora depenalizzate, di cui all’art. 2194, c.c., ma potrà anche essere ritenuto responsabile sul piano civile. Il notaio è chiamato a garantire non solo la legalità e l’autenticità del contratto, ma anche l’adempimento di quelle formalità pubblicitarie che rendono conoscibili e quindi trasparenti i contratti stessi, ivi compresa la comunicazione alla Questura competente per territorio dei dati relativi alle parti contraenti o loro rappresentanti, all’individuazione dell’esercizio e al prezzo della cessione. Peraltro, secondo la migliore dottrina, anche a seguito della legge 310 del 1993, la forma notarile si palesa solo relativamente necessaria: l’intervento del notaio come pure la stessa sussistenza dell’obbligo di un notaio, non può essere considerato requisito veramente costante e imprescindibile della fattispecie. E la Suprema Corte ha, d’altra parte, rilevato che a norma dell’art. 2556, c.c., è da escludere che per il trasferimento di un’azienda mobiliare sia richiesta la prova scritta a pena di nullità (Cass. civ., 4 giugno 1997, n. 4986).

[40] Secondo il migliore orientamento la necessità dell’iscrizione nasce per effetto della mera conclusione dell’atto traslativo, fissandosi il relativo obbligo in capo alle parti e la mancata iscrizione determina l’applicazione nei loro confronti della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 2194, c.c., mentre la forma notarile vale a costituire l’obbligo del notaio di procedere all’iscrizione (A.A. Dolmetta, Sulla forma notarile della cessione di azienda, in Aa.Vv., Cessione ed affitto d’azienda alla luce della più recente normativa, Milano, 1995, 74).

[41] In realtà si tratta di un problema che riguarda tutti i casi in cui l’iscrizione nel registro delle imprese ha ad oggetto non una vicenda organizzatoria del soggetto, tenuto all’obbligo di pubblicità, ma una vicenda circolatoria dei beni, come il trasferimento di una quota sociale.

[42] A differenza di quanto accade per l’art. 2564, c.c., che detta espressamente il criterio di soluzione di un conflitto tra ditte omonime.

[43] Così E. Bocchini, Manuale del Registro delle Imprese, Padova, 1999, 108; nello stesso senso A. Cerrai, La trasparenza nelle cessioni di aziende e nei trasferimenti di partecipazioni sociali, in Guida Normativa, dossier mensile, 1996. Contra: P. Spada, La legge Mancino e la circolazione della ricchezza imprenditoriale: forma degli atti e funzioni di polizia, in Riv. dir. comm., 1994, I, 287.

[44] Una certa dottrina invece ritiene applicabile questa soluzione anche a tutti gli altri beni, ed in particolare rileva che per i beni mobili vale il conseguimento del possesso (F. Laurini, Disciplina dei trasferimenti di quote di s.r.l. e delle cessioni di azienda, in Riv. Soc., 1993, 969).

[45] Mi permetto al riguardo di rinviare a F. Fimmanò, La pubblicità degli atti traslativi dell’azienda, in Il Registro Europeo delle Imprese – European Companies Registry a cura di E. Bocchini, Padova, 2003 n. 1, 125 s.

[46] In tal senso A. Pavone La Rosa, Il Registro delle Imprese, Torino, 2001, 122 s. Anche se l’autorevole dottrina riconosce poi in sostanza che il vero problema si pone per gli immobili, in quanto se dovesse prevalere la pubblicità attuata col registro delle imprese verrebbe gravemente svalutato il ruolo della pubblicità immobiliare, in quanto questa non sarebbe più in grado di assolvere alla funzione che le è propria tutte le volte che un bene immobile, mutuandone la destinazione (ad es. da uso abitativo a deposito merci) venga immesso in un complesso aziendale.

[47] R. Vigo, Effetti del fallimento del locatore sull’affitto d’azienda, in Giur. comm., 1998, I, 79.

[48] R. Vigo, op. loc. ult. cit., evidenzia che “per contro è possibile eccepire che il creditore aveva conoscenza dell'affitto dell’azienda, benché il contratto non sia stato pubblicato nel registro delle imprese”.

[49] M. Guernelli, La cessione di azienda nel fallimento, in Dir. fall., 1997, I, 1183.

[50] Per mera completezza va segnalato che esiste una pronuncia isolata della Cassazione ritenuta dalla dottrina assolutamente fuorviante secondo cuiin caso di retrocessione dell’azienda dall’affittuario al concedente a seguito di cessazione dell’affitto si applicherebbe la norma di cui al secondo comma dell’art. 2560 c.c., come indirettamente confermato nell’ultimo comma dell’articolo 104 bis l. fall.”, con la conseguenteresponsabilità cumulativa anche nel caso in cui si tratti di debiti cristallizzati non derivanti dalla successione nei contratti. Orbene la decisione stravolge l’orientamento consolidato precedente e lo fa senza un particolare approfondimento e sulla base del mero argomento a contrario di cui all’art. 104 bis della l. fall. Questa impostazione si tradurrebbe infatti nella sostanziale inutilizzabilità nella pratica del contratto di affitto di azienda, in quanto l’affittante sarebbe esposto a tutte le obbligazioni contratte dall’affittuario, eliminando ogni efficacia segregativa che ha caratterizzato l’uso dell’istituto. Ciò senza considerare gli effetti dirompenti sui numerosissimi rapporti in corso nel sistema economico, stipulati anche in fase fisiologica dell’impresa e non solo in funzione delle procedure concorsuali, sulla base della communis opinio in tema di responsabilità, trattandosi di una circolazione inversa. L’interpretazione, peraltro, pur riguardando il caso della retrocessione, sarebbe a questo punto applicabile - portando alle estreme conseguenze il principio affermato - anche a contrario all’affitto di azienda in genere, visto che la logica applicativa delle norme è la stessa. Si è sempre ritenuto infatti che la disciplina dei debiti ed in particolare dell’accollo cumulativo ex lege non fosse affatto applicabile al contratto di affitto visto che nell’art. 2561 c.c. («usufrutto dell’azienda»), richiamato dall’art. 2562 c.c. («affitto dell’azienda»), non v’è alcun riferimento (neppure implicito) alle regole dell’art. 2560 c.c. (dove si parla di «alienante» e di «acquirente» dell’azienda). In secondo luogo nessuno ha mai dubitato del carattere eccezionale del secondo comma di questa disposizione con la conseguente inapplicabilità per analogia a fattispecie diverse da quella prevista. Lo stesso dicasi per le applicazioni estensive che trovano un argine impenetrabile nella diversità di sistema delle due situazioni giuridiche, non potendo un trasferimento temporaneo poter essere trattato allo stesso modo di una alienazione definitiva. La Cassazione nella sentenza fonda - senza entrare nel merito del consolidato orientamento e delle relative ragioni - questo principio errati sulla norma dettata nel 2006 in caso di affitto endoconcorsuale, che ha ragioni completamente diverse.Il comma 6 ,dell’art. 104 bis, l. fall., sancisce infatti che «la retrocessione al fallimento di aziende, o rami di aziende, non comporta la responsabilità della procedura per i debiti maturati sino alla retrocessione, in deroga a quanto previsto dagli articoli 2112 e 2560 del codice civile». In verità già prima della riforma del 2006 si riteneva che la vendita fallimentare dell’azienda avesse effetto purgativo, salvo accollo volontario (totale o parziale), a titolo di prezzo ed analogamente nessun debito si riteneva accollato al fallimento-concedente in caso di affitto (fino ad allora previsto solo dalla prassi fallimentare) salvo per il subentro nei contratti stipulati per l’esercizio dell’impresa. Tuttavia per eccesso di zelo ed al fine di evitare il grave pericolo di un indebitamento della procedura a danno dei creditori concorsuali (che infatti faceva preferire l’affitto all’esercizio provvisorio), il legislatore dettò la norma “pleonastica” di deroga agli artt. 2112 e 2560 c.c. Ciò in quanto per i debiti verso i lavoratori l’art. 2112, 5° comma, c.c. prevede una responsabilità dell’af­fit­tuario solidale a quella dell’affittante per tutti i debiti dei lavoratori maturati al momento dell’af­fit­to e, specularmente, al termine del contratto, una responsabilità dell’affittante solidale a quella dell’affittuario per i debiti da quest’ultimo assunti nel­­l’e­ser­cizio dell’a­zien­da nel corso dell’affitto. Quanto alla deroga all’art. 2560 c.c. nasceva dai dubbi applicativi riguardanti solo alcuni debiti tributari, amministrativi e previdenziali. Comunque l’orientamento prevalente è nel senso dell’inapplicabilità di queste disposizioni speciali all’affitto di azienda ed in particolare alla retrocessione, ma al fine di evitare ogni pericolo fu dettata la norma che abbiamo definito pleonastica per i debiti e che viceversa lascia questioni aperte per i contratti in corso di esecuzione (si tratta di Cass., 9 ottobre 2017, n. 23581, in Riv. not., 2018, II, 114, con nota critica di F. Fimmanò, La sorte dei debiti e dei contratti nella circolazione inversa dell’azienda; ed in Fallimento, 2018, 27 s.; con nota critica di F. Fimmanò, Retrocessione dell’azienda affittata e responsabilità del concedente per i debiti dell’affittuario).

[51] Cfr. al riguardo F. Fimmanò, Gli effetti della vendita, in F. Fimmanò – C. Esposito, La liquidazione dell’attivo fallimentare, Milano, 2006, p. 134. Quanto detto per i debiti derivanti da rapporti di lavoro non vale per quelli contratti nei confronti degli istituti previdenziali per l’omesso versamento dei contributi obbligatori, esistenti al momento del trasferimento, che costituiscono, come ha correttamente rilevato la Suprema Corte debiti inerenti all’esercizio dell’azienda e restano soggetti alla disciplina generale dettata dall'art. 2560. c.c.,. Per questi debiti, infatti, non può operare l’art. 2112, comma 2, prima parte, c.c., sia perché la solidarietà è limitata ai soli crediti di lavoro del dipendente e non è estesa ai crediti di terzi, quali devono ritenersi gli enti previdenziali, sia perché il lavoratore non ha diritti di credito verso il datore di lavoro per l’omesso versamento dei contributi obbligatori (oltre al diritto al risarcimento dei danni nell'ipotesi prevista dall'art. 2116, comma 2, c.c.), restando estraneo al c.d. rapporto contributivo, che intercorre tra l'ente previdenziale e il datore di lavoro (Cass. 16 giugno 2001, n. 8179, in Riv. it. dir. lav., II, 2002, 119 con nota di Albi, in Dir. prat. soc., 2002, f. 6, p. 72, con nota di Dell’Arte, in Riv. giur. lav., 2002, II, 526 con nota di De Paola). In tal senso cfr. anche A. Bonaiuto, Il trasferimento dell’azienda e del lavoratore, Padova, 1999, 139. Unica eccezione è contenuta nell'art. 15, d.P.R. n. 1124 del 1965 che, in materia di assicurazione contro gli infortuni del lavoro e le malattie professionali prevede che, in caso di trasferimento d'azienda, l’acquirente è solidalmente obbligato (salvo regresso) con l’alienante per i premi e i relativi accessori che si riferiscono all’anno in corso e ai due precedenti. Tale disposizione trova applicazione a prescindere dal fatto che tali crediti risultino o meno dai libri contabili (Cass., sez. lav., 29 marzo 1995, n. 3752; cfr: Cass., sez. lav., 29 gennaio 1992, n. 906, secondo cui in caso di usufrutto e di affitto d'azienda non si avrebbe la solidarietà dell’alienante e dell’acquirente, poiché in tali casi la tutela dei crediti dell'ente assicuratore è fornita dalla previsione nel privilegio di cui all'art. 33 del citato d.P.R.).

[52] In tema mi permetto di rinviare a F. Fimmanò, Art. 104 bis, in Il nuovo diritto fallimentare a cura di A. Jorio, Torino, 2006, Vol II, par. 7.

[53] L. Panzani, Affitto d’azienda e procedure diverse dall’amministrazione straordinaria, in Fallimento, 1998, 925; A. De Martini, L’usufrutto d’azienda, Milano 1950, 440. Secondo A. Bassi, Riflessioni sull’affitto di azienda e sull’affitto di opificio nel fallimento, in Riv. dir. civ., 1982, I, 349, invece per i contratti stipulati ex novo dall’affittuario è da ipotizzare più che il subentro puro e semplice del fallimento, che potrebbe essere molto gravoso per la massa, un sistema analogo a quello previsto dagli artt. 72 e ss., l. fall., per i rapporti giuridici preesistenti, sistema che consente al curatore di effettuare scelte più opportune e, nei casi non previsti, l’applicazione della regola della sospensione. Retrocedono invece tutti i rapporti contrattuali preesistenti e sopravvissuti al fallimento nei quali l’affittuario è succeduto.

[54] Cass. 29 gennaio 1979, n. 632, in Foro it., 1979, I, 1818, con nota di A. Jannarelli; in Giust. civ., 1979, I, 488; e in Riv. dir. comm., 1982, II, 145, con nota contraria di F. Chiomenti, in Nuova giur. civ., 1993, I, p. 1, con nota di G. Verdirame, Successione nei contratti e divieto di concorrenza al termine dell'affitto di azienda, in Giust. civ., 1979, I, p. 488. Nel caso di specie si trattava di risoluzione per inadempimento dell'affittuario e, pertanto, la Cassazione ha escluso che fosse applicabile l'art. 2558, c.c.,. Nello stesso senso, seppur con riferimento ai rapporti di lavoro, la Cassazione (Cass. 20 aprile 1985, n. 2644; Cass. 17 aprile 1990 n. 3167; Cass. 13 giugno 1990, n. 5739; In particolare Cass. 7 luglio 1992, n. 8252, in Giur. it., 1993, I, 1, 70 s. ed in Dir. prat. lav., 1992, 3235), ha rilevato che poichè la disciplina dettata dall’art. 2112 deve essere applicata anche all’ipotesi di restituzione dell’azienda dal concessionario al concedente, purchè quest’ultimo utilizzi i beni in funzione dell’esercizio dell’attività di cui gli stessi sono strumento, l’ipotesi prevista dal suddetto articolo di legge si realizza (ove si accerti che l’organizzazione dei beni, che costituisce l’oggetto dell’attività imprenditoriale, rimanga immutata e che venga svolta la medesima attività) anche se il concedente, anzichè proseguire direttamente l’attività già in precedenza esercitata dal concessionario, sostituisca a quest’ultimo, senza soluzione di continuità, un altro soggetto pure in qualità di concessionario, dovendosi in tal caso ritenere una indiretta utilizzazione dei beni da parte del concedente a mezzo del nuovo concessionario, proprio in funzione di quella determinata attività di cui l’azienda è strumento. Già, App. Bologna 8 luglio 1959, in Riv. dir. lav., 1961, II, 261 (con nota adesiva di G. Cottino, Restituzione dell’azienda al locatore, nuova concessione in affitto e responsabilità per i debiti di lavoro), osservava che in generale, il fatto che si contempli espressamente il solo passaggio di proprietà dal venditore all’acquirente, cioè ipotesi normale, non dovrebbe escludere che nella parola trasferimento possa ricomprendersi il caso di un ritorno della proprietà dell’acquirente al venditore per risoluzione ad esempio. La ratio della norma non muta: il silenzio del legislatore non dovrebbe aver altro significato che non sia quello di ottenere la regolamentazione di un’ipotesi anomala, ricavabile però dalla disciplina della legge.

[55] Questa seconda condizione è stata criticata in quanto la successione nei contratti è indifferente al titolo (convenzionale o legale) alla stregua del quale si trasferisce l'azienda, come dimostrano i casi dell'usufrutto legale, dell'acquisto mortis causa, etc. (A. Jannarelli, op. loc. ult cit.).

[56] I limiti fissati pattiziamente non possono essere invocati con riferimento all’art. 2112, c.c., ed è in verità assai dubbio che possano esserlo quelli derivanti in qualche modo dagli obblighi di legge, considerato il carattere imperativo della norma a tutela del lavoratore.

[57] Cfr. tra le altre Cass., 26 febbraio 1994, n. 1975, in Mass. giur. lav., 1994, p. 255; sull’opportunità della previsione di clausole di salvaguardia per la procedura, cfr. P. Liccardo, op. cit., 662, n 6.

[58] Così giustamente L. Panzani, Affitto d’azienda cit., 925. Sul punto anche R. Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento d’azienda, in Commentario al codice civile diretto da P. Schlesinger, Milano 1993, p. 45 s. In una fattispecie concreta la Cassazione ha escluso il subentro in virtù di accordi intervenuti tra le parti (cfr. Cass. 26 febbraio 1994, n. 1975, in Mass. giur. lav., 1994, 255).

[59] Al riguardo A. Minervini, Imprese cooperative e trasferimento d’azienda, Milano, 1994, p. 18; P. Liccardo, Fallimento e metodologie di acquisizione dell’azienda affittata, cit., 663.

[60] Cass. 7 luglio 1992, n. 8252, cit., 70 s. in Riv. it. dir. lav., 1993, II, 589 con nota di A. Angelini, Sostituzione dell’affittuario di beni aziendali: il concedente è sempre responsabile ex art. 2112, cod. civ.; Cass. 19 agosto 1991, n. 8907, in Riv. giur. lav., 1992, 502 con nota di M. Mc Britton. Si è in particolare osservato che la fattispecie del trasferimento d’azienda regolata dall’art. 2112 c.c. ricorre anche nell’ipotesi di restituzione dell’azienda dall’affittuario della stessa al suo concedente, purchè quest’ultimo utilizzi i beni in funzione dell’attività di cui gli stessi sono strumento; la disciplina prevista da detta norma trova pertanto applicazione - ove rimanga immutata l’organizzazione dei beni aziendali, con lo svolgimento della medesima attività - qualora il concedente, anzichè proseguire direttamente l’attività già in precedenza esercitata dall’affittuario, sostituisca a questi senza soluzione di continuità un altro soggetto nella stessa posizione, configurandosi in tal caso un’indiretta utilizzazione del complesso aziendale da parte del concedente a mezzo dell’affittuario - nella fattispecie, in attuazione del disposto dell’art. 2112 c.c., il pretore, mentre ha affermato l’esistenza di una responsabilità solidale tra il precedente affittuario, il concedente e il nuovo affittuario per i crediti maturati dai lavoratori alle dipendenze del primo affittuario, ha ordinato al nuovo affittuario la reintegrazione dei lavoratori nel loro posto di lavoro sul rilievo della continuazione con tale soggetto del rapporto di lavoro intercorso con il precedente affittuario (Pret. Siracusa, 7 agosto 1995, in Riv. Critica Dir. Lav., 1996, 447). E ciò ancorchè l’obbligazione retributiva dell’affittuario non risulti dalle scritture contabili, posto che, ai sensi dell’art. 2112 c.c., l’obbligazione solidale sorge per il solo fatto del trasferimento dell’azienda (Pret. Milano, 30 aprile 1997, in Lavoro nella Giur., 1997, 768, in Orient. Giur. Lav., 1997, 416). Sul tema cfr. anche C. Bonci, Ritorno dell’azienda al locatore: successione ope legis nei rapporti di lavoro e intervento dell’affittuario nel procedimento d’urgenza, in Riv. giur. lav., 1992, 254.

[61] Per M. Guernelli, La cessione di azienda nel fallimento, in Dir. fall., 1997, I, 1188, invece, in caso di cessazione del rapporto di affitto in corso di procedura con soluzione di continuità rispetto ad una successiva eventuale cessione, il fallimento non risponde dei debiti neppure di lavoro, stipulati dall’affittuario e inerenti l’esercizio dell’impresa, in quanto non si verifica la sostituzione di un imprenditore con un altro, neppure a ritroso. Il terzo acquirente subentra nei contratti in corso dell’affittuario solo qualora vi sia passaggio diretto tra l’una gestione e l’altra.

[62] Secondo L. Panzani, Affitto d’azienda cit., 925, nella fattispecie non v’è alcuna norma o principio che consenta di risolvere il conflitto di interessi a favore dei creditori. Il legislatore ha inteso, ad esempio, incentivare, con la deroga di cui all’art. 47 della legge 428 del 1990, la circolazione endoconcorsuale per favorire la conservazione di posti di lavoro, mentre in caso di retrocessione questa motivazione di fondo non c’è, atteso che la conservazione dei posti di lavoro sarà legata esclusivamente alla possibilità di cedere o affittare l’azienda ad un nuovo imprenditore.

[63] In tal senso M. Mastrogiacomo, L’affitto d’azienda nel fallimento, in Fallimento, 1996, 946.

[64] Il Tribunale Roma (7 luglio 2011 - - Est. De Palo, in ilcaso.it) ha affermato che poiché l'atto negoziale con il quale il curatore, ai sensi dell'articolo 79, legge fallimentare, comunica il recesso dal contratto di affitto di azienda ha indiscutibilmente natura recettizia, la comunicazione deve pervenire al destinatario nel termine di 60 giorni dalla pubblicazione della sentenza di fallimento. Ha natura perentoria il termine di 60 giorni previsto dall'articolo 79, legge fallimentare, concesso al curatore per recedere dal contratto di affitto di azienda pendente alla data di dichiarazione di fallimento. Tale termine è ispirato infatti sia a finalità di carattere generale di miglior conservazione del patrimonio aziendale, sia di carattere particolare di tutela di un contraente soggetto all’insindacabile diritto potestativo di scioglimento riconosciuto all’altro contraente: appare cioè evidente che esso tenda a circoscrivere temporalmente un regime d’incertezza sulla stabilità del rapporto pregiudizievole sotto entrambi i profili. Ciò vale tanto più ove si consideri che nel caso dell’affitto di azienda l’art. 79 omette di prevedere a favore del contraente non fallito – onde ovviare a tale incertezza – una facoltà di costituzione in mora del curatore analoga a quella disciplinata in via generale dal secondo comma dell’art. 72 per i rapporti pendenti alla data del fallimento (la cui esecuzione resta come noto sospesa sino a quando il curatore, con l’autorizzazione del comitato dei creditori dichiara di subentrare nel contratto in luogo del fallito ovvero di sciogliersi dal medesimo. Né appare plausibile in altra prospettiva ritenere che un tardivo esercizio del recesso – ferma restando la sua efficacia sul piano contrattuale – potrebbe comunque trovare adeguato rimedio compensativo in sede di determinazione dell’equo indennizzo contestualmente previsto dall’art. 79. Quest’ultimo non ha infatti natura propriamente risarcitoria e potrebbe essere esclusivamente parametrato – sul piano equitativo – ai margini di guadagno atteso (in questo caso dall’affittuario) sul presupposto della naturale prosecuzione del rapporto. Deve peraltro concludersi nella fattispecie che il mancato rispetto del termine abbia inevitabilmente comportato per la curatela una decadenza dal diritto di recesso ed una stabilizzazione del rapporto sino alla naturale scadenza (salve differenti facoltà eventualmente previste nel contratto o – ricorrendone i presupposti – possibili iniziative sul piano giudiziario a tutela dei creditori).

[65] Trib. Roma, 7 novembre 2011, in dejure. Si è rilevato che la natura decadenziale del termine risulta, implicitamente ma inequivocabilmente, dalla funzione che esso è destinato ad assolvere, consistente nella fissazione definitiva degli effetti e delle conseguenze della fattispecie del subentro automatico in una materia nella quale la certezza dei rapporti giuridici è particolarmente avvertita, implicando la vicenda successoria il trasferimento di una pluralità di rapporti giuridici che coinvolgono soggetti terzi (U. Gentili, Art. 79 L. Fall. Contratto di affitto di azienda, in Trattato delle procedure concorsuali, diretto da Ghia, Piccininni e Severini I, Torino, 2010, 548).

[66] E’ viceversa da escludere che la controversia fra il curatore e il terzo comporti la determinazione dell’indennizzo attraverso il procedimento di verifica dei crediti.

[67] Cfr. U. Azzolina, Il Fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, 1961, 1243.

[68] Per la Cassazione peraltro restrittivamente riferibile ai soli beni immobili e non ai mobili registrati (Cass. 8 novembre 2019, n. 28962, in Giust. Civ. Mass., 2019). La ratio legis che presiede alla modifica normativa è ravvisabile nella «eliminazione degli effetti negativi, con evidente riduzione del valore del bene, risultante dall'esistenza di un vincolo ritenuto eccessivo ed individuato in una durata di quattro anni residui». A fronte di un immobile locato prima della dichiarazione di fallimento ed entrato a far parte della massa attiva, la scelta del curatore di recedere dalla locazione in essere è frutto di una delicata valutazione economica. Se è vero, come afferma la relazione ministeriale, che il vincolo locatizio può incidere negativamente sull’attivo realizzabile in sede di vendita, deprimendo il valore di mercato dell'immobile, è anche vero che, fino a quando non si pervenga a staggire il bene, la locazione dell'immobile, soprattutto quando il godimento riguardi un bene con destinazione commerciale, può rappresentare una ragguardevole entrata patrimoniale a beneficio della curatela.

[69] Cfr. Cass.26 gennaio 1999, n. 694, in Fallimento, 2000, 70 s.

[70] Cass. 23 marzo 2001, n.4208, in Mass. Giur. It., 2001; Cass. 3 giugno 1991, n. 6237 in Mass. 1991; Cass., 30 ottobre 1990, n. 10520 in Mass., 1990.

[71] Secondo Trib. Milano, 12 maggio 1986, in Riv. it. leasing, 1987, 490 “L’equo compenso, testualmente distinto dal risarcimento del danno, ha mera funzione riparatoria e non comprende quindi la rifusione del lucro cessante”.

[72] Al riguardo Cass. 20 ottobre 1956, n. 3767, in Monit. Trib., 1957, 617. Quanto al danno emergente si è ritenuto opportuno considerare i costi sopportati per la gestione dell’azienda e non più recuperabili in quanto ormai incorporati nella stessa, quali l’acquisto di materiali giacenti in magazzino ovvero le migliorie non più separabili, i costi di pubblicità e tutti gli altri ammortizzabili nel tempo (Trib. Udine 3 maggio 2013, in ilcaso.it), i danni derivanti dall’interruzione delle lavorazioni in corso, il valore di costo dei prodotti ancora invenduti, le eventuali penali da pagare a terzi (F. Murino, Le vicende dell’affitto di azienda nel fallimento, in G. Fauceglia - L. Panzani, Fallimento e altre procedure concorsuali, Torino, 2009, II, 834). Non si sono ritenuti pregiudizi indennizzabili la perdita dell’avviamento, che in quanto intrinseca all’azienda si trasferisce insieme alla sua titolarità (C. Miele, Contratto d’affitto d’azienda, in M. Ferro (a cura di), La Legge fallimentare-Commentario, Padova, 2007, 607; contra C. Martone, Locazione e affitto, in L. Guglielmucci (a cura di), I contratti in corso di esecuzione nelle procedure concorsuali, Padova, 2006, 377), ed i danni derivanti dalla mancata prosecuzione di contratti ove vi sia stata manifesta negligenza da parte dell’affittuario nell’accettazione di ordini e commesse successive alla dichiarazione di fallimento, stante la possibilità di recesso anticipato da parte del curatore.

[73] Secondo la giurisprudenza “nella determinazione dell’equo indennizzo di cui all’art. 79 l.fall. non può tenersi conto, quale danno emergente, dell’anomalo pagamento anticipato di tutti o di gran parte dei canoni di locazione, potendo invece tale pretesa creditoria essere fatta valere mediante insinuazione al passivo in chirografo, quale indebito oggettivo. Nè può tenersi conto, quale lucro cessante, di un’astratta e semplicistica previsione di futuri utili, dovendosi invece considerare le condizioni economiche delle parti e le particolarità del caso concreto, come la conclusione del contratto di affitto di azienda pochi mesi prima della presentazione di una domanda di concordato in bianco, non seguita dal deposito nel termine assegnato della proposta definitiva” (Cass. 10 ottobre 2019, n. 25470 in Giust. Civ. Mass., 2019; Trib. Udine 11 settembre 2017, in Fallimento, 2018, 214 s. con nota di P. Genoviva, Questioni procedurali e di merito in tema di equo indennizzo per recesso anticipato dal contratto di affitto di azienda; che evidenzia come ultimo e residuale criterio, ma pur sempre utile parametro per la determinazione dell’indennità, sarà poi l’ammontare del canone periodico contrattualmente previsto, sempre che lo stesso sia adeguato al valore di mercato dell’azienda e non invece frutto di “sospette” pattuizioni anteriori alla dichiarazione di insolvenza. È proprio questo infatti il criterio residuale cui ricorre il tribunale di Udine, commisurando l’indennizzo ad un’annualità del canone di affitto, dopo aver considerato in via equitativa le “condizioni economiche” delle parti (in particolare quelle del fallimento, il cui attivo si appalesa insufficiente al pagamento integrale dei creditori privilegiati) e la genesi del contratto, stipulato sette mesi prima della presentazione di una domanda di concordato preventivo “in bianco”, cui non faceva seguito nel termine assegnato il deposito della proposta definitiva.

[74] Nei casi in cui l’affitto d’azienda viene utilizzato come mezzo per distrarre utilità all’attivo fallimentare può far intravedere la ricorrenza del motivo illecito comune ad entrambi i contraenti (locatore poi fallito e conduttore), rilevante ex artt. 1418, comma 2, e 1345 c.c., (così C. Miele, op. cit., 605).

[75] Come già abbiamo potuto rilevare nel commento a Trib. Roma 15 maggio 2012, cit., con nota di F. Fimmanò, L’affitto di azienda programmato cit, condiviso in pieno da P. Genoviva, op.cit., 221.

[76] Sulla revocatoria dell’affitto di azienda cfr., tra le altre, Cass., 17 gennaio 2001, n.571, in Fallimento, 2001, 1320, con nota di A. Rusinenti; Trib. Bologna 22 gennaio 1991, in Fallimento, 1991, 529; Tribunale Verona 28 febbraio 1991, in Fallimento, 1991, 1189.

[77] In conseguenza della revoca, “l’affittuario deve restituire il bene al fallimento in anticipo rispetto alla scadenza pattuita, e deve corrispondere i frutti del bene. Vi è da ritenere, anzi, che è applicabile la regola fissata dall'art. 1591 c.c., per la quale il conduttore in mora è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno" (R. Vigo, op.cit., 88).

[78] Al riguardo: C. Miele, op. cit., 604. Nè il mancato esercizio del diritto di recesso costituisce una sorta di sanatoria per gli eventuali vizi genetici del contratto (M. Ravinale, Affitto d’azienda, in O. Cagnasso - L. Panzani (a cura di), Crisi d’impresa e procedure concorsuali, Milano, 2016, I,1433).

[79] Secondo una certa giurisprudenza di merito è, infatti, ammissibile la deroga contrattuale della disposizione di cui all’art. 79 l. fall. in un’ottica di “rafforzamento” della tutela dei creditori, con l’ampliamento della facoltà di recesso in favore della curatela nell’ambito di contratto d’affitto d'azienda concluso dalla società in crisi (Trib. Rimini, 24 marzo 2015, in Riv. dei Dott. Comm., 2015, 2, 283).

[80] R. Vigo, op. loc. ult. cit, (che richiama G.A. Micheli, Dell’esecuzione forzata, nel Commentario del cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1972, p. 138, S. Mazzamuto, L'esecuzione forzata, nel Trattato di dir. priv., diretto da P. Rescigno, 20, Torino, 1985, 240), per il quale il fallimento si può avvalere della clausola che consente all’acquirente di "intimare licenza al conduttore" (art. 2923 c.c., ultimo comma). All’affittuario licenziato in forza della clausola suddetta non spetta il risarcimento del danno. Così stabilisce l’art. 1603 c.c., al quale fa rinvio l’art. 2923, ultimo comma, c.c. La legge consente, tuttavia, che sia stabilito il patto contrario.

[81] Una certa giurisprudenza di merito (Trib. Roma 15 maggio 2012, cit., con nota di F. Fimmanò, L’affitto di azienda programmato e stipulato cit.,, 1352 s.) richiama un provvedimento del giudice delegato del medesimo Tribunale del 16-17 luglio del 2008, secondo cui l’art. 79 l. fall., nel contemplare la facoltà di recesso da esercitarsi entro sessanta giorni per entrambe le parti del contratto di affitto di azienda pendente all’atto della dichiarazione di fallimento, prevede l’obbligo di indennizzo a carico della parte che eserciti detto recesso. La norma statuisce che l’indennizzo è determinato dal giudice nel dissenso delle parti, sentiti gli interessati, ed inoltre che, nel caso in cui sia la curatela a recedere dal contratto, il relativo credito per l’in­den­niz­zo della controparte è un credito prededucibile. Secondo il giudice tuttavia la norma disciplina l’ipo­te­si, per così dire, fisiologica, del mero dissenso delle parti sulla entità del­l’in­den­nizzo da riconoscersi alla controparte, essendo poi, il provvedimento che venga a determinare la misura della indennità dovuta, reclamabile ex art. 26 l. fall. Il riferimento all’art. 111, n. 1, l. fall. deve infatti intendersi qua­le richiamo alla natura prededucibile del credito, ma non alla relativa disciplina delle modalità di accertamento di cui all’art. 111 bis l. fall., norma che infatti non è richiamata dall’art. 79 l. fall. In definitiva, dunque, in caso di mancato accordo tra curatela e società affittuaria (o affittante, a secondo dei casi) sulla misura dell’indennizzo, dovrebbe essere il giudice delegato a provvedere, sentite le parti. Nella fattispecie, tuttavia, la curatela contestava in radice il diritto della ricorrente all’indennizzo per una serie di ragioni, la cui fondatezza, secondo il giudice delegato, non potrebbe che essere vagliata secondo le modalità di accertamento di cui al capo V della legge fallimentare e ciò in quanto si dovrebbe intendere come limitato lo strumento più snello di cui all’art. 79 alle ipotesi di mero disaccordo delle parti sulla misura della indennità spettante. In realtà il dictum è condivisibile solo nella prima parte. Il Tribunale condivide l’assunto del giudice delegato secondo cui laddove venga contestato in radice il diritto della ricorrente all’indennizzo per una serie di ragioni, la relativa fondatezza vada vagliata secondo le modalità di accertamento di cui al capo V della legge fallimentare (e nello stesso senso Trib. Udine 11 settembre 2017, cit., 214 s). Anzi, proprio il richiamo all’art. 111 conferma che il credito da indennizzo ex art. 79 non è da accertare in sede di verifica del passivo. Se, infatti, si considera che la norma richiama solo l’art. 111 l. fall. (col­locato nel capo VII) e non le norme del capo V, ciò va interpretato nel senso che il legislatore non ha voluto richiamare le disposizioni degli artt. 92 e segg. In particolare, non è condivisibile argomentare che laddove la curatela contesti in toto l’indennizzo, la materia esca dall’alveo del procedimento tipico, ma deformalizzato, di cui all’art. 79 l. fall. Affermare che l’affittuario che subisce il recesso non deve avere alcun indennizzo è una posizione di parte che rientra evidentemente nel concetto “di dissenso sulla entità dell’indennizzo”. C’è una parte che sostiene di dover avere un certo importo e l’altra che sostiene, sulla base dell’equilibrio delle prestazioni e del contenuto specifico del contratto, che deve avere un indennizzo pari a zero. Il giudice delegato dovrà stabilire un indennizzo, che non a caso è definito equo, o se del caso, alla luce della istruzione probatoria e dei profili genetici ed esecutivi del rapporto, stabilire che non è dovuto alcun indennizzo. Non può essere dirimente rispetto al procedimento di accertamento giudiziale del credito prededucibile, il fatto che la parte che ha esercitato il recesso ritenga o non ritenga di dovere l’indenizzo, e che probabilmente, nella logica dell’interesse di parte, spesso affermerà nella pratica di non dover riconoscere niente, specie in caso di affitto di azienda del tipo in esame. Dunque il giudice delegato doveva provvedere e la sua decisione poteva essere eventualmente reclamata ex art. 26 l. fall.

[82] C. Martone, Locazione e affitto, op.cit.,377; F. Dimundo, La sorte dei contratti pendenti. Contratti che continuano salva diversa decisione del curatore, in Il diritto fallimentare riformato. Commentario sistematico a cura di Schiano di Pepe, Padova, 2007, 263; Murino, op.cit., Torino, 2009, vol. 2, 834; R. Riedi, Gli effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti, nel volume collettaneo Il diritto processuale del fallimento, Torino, 2008, 180 ss.; F. Fimmanò, Gli effetti del fallimento sull’affitto di azienda preesistente, nel volume a cura F. Di Marzio, Contratti in esecuzione e fallimento. La disciplina dei rapporti pendenti nel nuovo diritto concorsuale, Milano, 2007, 235; Id., L’affitto di azienda preesistente al fallimento, nel volume a cura di Ambrosini, Le nuove procedure concorsuali. Dalla riforma «organica» al decreto correttivo», Bologna, 2008, 143; L. Mandrioli, Il contratto di affitto di azienda, in La riforma organica delle procedure concorsuali a cura di S. Bonfatti e L. Panzani, Milano, 2008, 297.

[83] Al riguardo M. Fabiani, Accertamento del passivo fallimentare e riforme processuali, in Foro it., 2010, I, 476.

[84] Trib. Firenze, 5 dicembre 2007, in Foro it., 2008, I, col. 633; Trib. Milano 4 marzo 2008, in Giur. it., 2008, 1156; Trib. Milano, 9 gennaio 2009 e Trib. Rimini 28 novembre 2008, in Fallimento, 2009, 694; Trib. Sulmona 30 giugno 2010, in Fallimento, 2011, 55; Cass. 25 febbraio 2011, n. 4708, in Foro it., Mass. 2011, 181 («in tema di opposizione allo stato passivo del fallimento, anche nella disciplina prevista dal d.lgs. n. 169 del 2007, come nel regime intermedio, successivo al d.lgs. n. 5 del 2006, per la produzione di documenti a sostegno del­l’i­stanza di ammissione al passivo non trova applicazione il divieto di cui all’art. 345 cod. proc. civ., versandosi in un giudizio diverso da quello ordinario di co­gnizione e non potendo la predetta opposizione essere qualificata come un appello, pur avendo natura impugnatoria; tale rimedio, infatti, mira a rimuovere un provvedimento emesso sulla base di una cognizione sommaria e che, se non opposto, acquista efficacia di giudicato endofallimentare ex art. 96 l. fall, segnando solo gli atti introduttivi ex artt. 98 e 99 l. fall., con l’onere di specifica indicazione dei mezzi di prova e dei documenti prodotti, il termine preclusivo per l’arti­co­la­zione dei mezzi istruttori»). Conforme la dottrina, unanime nell’av­ver­tire che nel novellato assetto della legge fallimentare l’ampia apertura ai nova vale per ogni eccezione e contestazione così come per le prove, posto che alla luce dell’art. 99 l. fall. le preclusioni che pur si vogliano opporre nella fase sommaria della verifica del passivo non si trascinano nella fase impugnatoria dell’op­po­sizione allo stato passivo: cfr. G. Costantino, sub artt. 98-99, in La riforma della legge fallimentare a cura di Nigro e Sandulli, Giappichelli, Torino, 2006, 568; M. Fabiani, Diritto fallimentare. Un profilo organico, Bologna, 2011, 416; C. Ferri, La formazione dello stato passivo nel fallimento: procedimento di primo grado e impugnazioni, in Riv. dir. proc., 2007, 1270; R. Sdino, L’ac­cer­ta­mento del passivo, nel volume a cura di P. Celentano e E. Forgillo, Fallimento e concordati, Torino, 2008, 658-679.

[85] «Contratto di locazione di immobili. - Il fallimento del locatore non scioglie il contratto di locazione d’immobili e il curatore subentra nel contratto. In caso di fallimento del conduttore, il curatore può in qualunque tempo recedere dal contratto, corrispondendo al locatore un equo indennizzo per l’anticipato recesso, che nel dissenso fra le parti, è determinato dal giudice delegato, sentiti gli interessati. Il credito per l’indennizzo è regolato dall’art. 111, 1° co., n. 1, e dall’art. 2764 del codice civile».

[86] Cass., 3 giugno 1991, n. 6237, in Foro it., Rep. 1991, voce Fallimento, n. 449.

[87] In tal senso incidentalmente Cass. 28 aprile 1993 n. 5012, in Fallimento, 1993, 1123, secondo cui nella specie “è dedotto un contratto di affitto di azienda della cui sostanziale identità strutturale e funzionale con la fattispecie contrattuale della locazione di immobili cui si riferisce l’art. 80, l. fall., non può dubitarsi”. Nello stesso senso: G.C. Rivolta, L'affitto e la vendita dell'azienda nel fallimento, Milano, 1973, 400 (che argomenta anche dall’art. 1626 c.c., laddove è previsto che l'insolvenza dell'affittuario e non anche quella del locatore comporta lo scioglimento del contratto); L. Guglielmucci, Effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti, nel Commentario Scialoja e Branca, La legge fallimentare, a cura di Bricola, Galgano, Santini, sub artt. 72-83, 80, Bologna-Roma, 1979, 93. Sull’argomento cfr. P. Liccardo, Fallimento e metodologie di acquisizione dell’azienda affittata, in Fallimento, 1997, 661 s.; R. Vigo, op.cit., 79.

[88] Trib. Napoli, 31 marzo 1994, in Fallimento, 1994, 884; Trib. Perugia 26 giugno 1988, ivi, 1989, 342; Trib. Chieti 5 settembre 1986, ivi, 1987, 631.

[89] Trib. Bologna, 22 gennaio 1991, in Fallimento, 1991, 529; Trib. Parma, 31 maggio 1997, in Giur. it., 1998, 2120, secondo il quale peraltro in caso di esercizio della facoltà di scioglimento del contratto di affitto d'azienda ex art. 72 l.fall. è ammissibile la richiesta cautelare ante causam ex art. 700 c.p.c. di riconsegna immediata alla curatela fallimentare dei beni aziendali.

[90] G.U. Tedeschi, Le procedure concorsuali, Torino, 1996, 609.

[91] Così L. Panzani, Affitto di azienda, in I rapporti giuridici pendenti, Milano, 1998, 39.

[92] Sicché l’estensione dell’art. 80, l. fall., era opinabile specie muovendo dall’assunto che la legge disponeva la continuazione del contratto di locazione immobiliare a carico del fallimento in quanto favorevole agli interessi della massa (R. Vigo, op. cit., 82 il quale rileva che “la dottrina che ha suggerito l'applicazione estensiva dell'art. 80 l. fall. muove da una premessa diversa e convincente. Invero, le norme sui rapporti giuridici preesistenti non riservano al contraente in bonis un trattamento deteriore rispetto a quello disposto per gli altri creditori, ma mantengono gli equilibri che sono costruiti nell’esecuzione forzata singolare fra lo stesso contraente e il creditore istante. Il fondamento dell’art. 80, l. fall., sta nel principio emptio non tollit locatum, che opera nel fallimento così come opera nei confronti di colui che acquista il bene locato in seguito alla esecuzione forzata singolare. È vero che il legislatore ha enunciato la regola del subingresso automatico con riferimento alla locazione immobiliare. Presumibilmente ciò è avvenuto perchè questa è la fattispecie di locazione più frequente, alla quale si era pensato anche anteriormente all’emanazione della legge fallimentare. Peraltro, nel diritto comune quel principio opera sicuramente anche per ogni altra locazione, e non vi è ragione di non farne applicazione nel fallimento, art. 1625 c.c.”.

[93] C. Proto, Rapporti che proseguono ex lege con la massa, in G. Fauceglia - L. Panzani, Il Fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, 1999, Vol. II, 350. Per la tesi che riconosce al curatore una facoltà di subentro cfr. Trib. Monza, 27 gennaio 1998, in Fallimento, 1998, 5333; Trib. Genova 7 giugno 1994, Fallimento, 1994, 1303; Trib. Napoli, 31 marzo 1994, ivi, 1994, 884; Trib. Bologna, 21 gennaio 1991, Fallimento, 1991, 529; Trib. Chieti 5 settembre 1986, Fallimento, 1987, 631.

[94] A. Jorio, Le crisi d’impresa, il Fallimento, Milano, 2000, 547 s.

[95] Già prima della riforma erano riconosciute prelazioni legali per gli affittuari di aziende in crisi socialmente rilevanti (con più di 15 lavoratori dipendenti)e aziende gestite da cooperative di lavoratori dipendenti. In questi casi è riconosciuto all’affittuario un diritto di prelazione nella vendita coattiva (art. 3 comma 4, l. 223 del 1991 ed art. 14, l. 49 del 1985; art. 3 comma 6, l. n. 67 del 1987 relativa all’acquisto di testate giornalistiche) in quanto la legge ha creato una situazione di privilegio per soggetti dotati di peculiari requisiti di meritevolezza, in presenza di una serie di condizioni.

[96] “Il diritto di prelazione a favore dell’affittuario può essere concesso convenzionalmente, previa espressa autorizzazione del giudice delegato e previo parere favorevole del comitato dei creditori. In tal caso, esaurito il procedimento di determinazione del prezzo di vendita dell’azienda, o del singolo ramo, il curatore, entro dieci giorni, lo comunica all’affittuario, il quale può esercitare il diritto di prelazione entro cinque giorni dal ricevimento della comunicazione” (art. 104 bis, comma 5, l. fall.).

[97] Lo stesso problema si pone per tutte le clausole strutturalmente incompatibili con la procedura fallimentare, quali il patto di temporanea inalienabilità, l’opzione di vendita ovvero la clausola compromissoria (al riguardo G. Bozza, Arbitrato e fallimento, in Fallimento,1993, 477). L’opzione di vendita vanifica il sistema di individuazione dell’acquirente, come definito dagli artt. 105 ss.; il patto di inalienabilità contrasta con il principio di urgenza che anima la procedura nella sua fase liquidatoria. Il rimedio consisterà nello scioglimento ed eventuale conclusione del contratto laddove si privilegi l’opzione ex art. 72, l. fall., ovvero nell’accertamento dell’inefficacia parziale delle sole clausole incompatibili, se non tali da far cadere l’intero negozio (cfr. P. Liccardo, op. cit., p. 668; M. Guernelli, op. cit., 1187).

[98] Questa era la posizione isolata ed inadeguatamente motivata di D. Di Gravio, Il diritto di prelazione dell’affittuario nella legge, cit., in Dir. fall., 1993, I, 215; Id., La prelazione degli affittuari nelle vendite fallimentari, ibidem, I, p. 908 s. Per A. Caiafa, La vendita dell’azienda all’affittuario, in Dir. lav., 1993, p. 434; Id., L’affitto d’azienda e i rapporti di lavoro, in Dir. fall., 1993, 627, invece, il diritto di prelazione sussisterebbe sia in caso di affitto concesso dagli organi della procedura, sia nell’ipotesi di preesistenza del rapporto stesso, ferma restando la possibilità, per gli organi concorsuali, apertasi la procedura, di subentrare, o meno, nel contratto di affitto in relazione a quanto previsto dall'art. 72 l. fall., o di chiederne la revoca laddove lo ritengano lesivo degli interessi della par condicio creditorum, perchè concluso ad un prezzo evidentemente sproporzionato. Ciò varrebbe anche nell’ipotesi di contratto stipulato nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, in quanto dovrebbe essere sempre il giudice delegato ad autorizzare la proposizione dell’azione per la pronuncia di inefficacia del negozio, dal momento che se il contratto è stato concluso ad un prezzo equo possiede, sostanzialmente, la qualità di conservare i valori dell’azienda ed, al tempo stesso, consente di preservare intatto l’interesse primario della massa dei creditori.

[99] Ed in verità di distorsioni in passato se ne sono viste: un certo orientamento giurisprudenziale ha persino ammesso che il curatore affittasse l’azienda ad un imprenditore che a sua volta avrebbe affidato, sotto la sua responsabilità, la gestione materiale al fallito, che ritornato in bonis, a seguito di un concordato fallimentare, avrebbe recuperato la sua azienda senza che ci fossero stati i danni normalmente provocati dall’interruzione dell’attività. Ed in tal caso si è addirittura ritenuto valido, anche se inopponibile alla massa, il patto con cui il fallito si impegnava a sollevare il terzo affittuario da tutte le obbligazioni assunte nella gestione (al riguardo cfr. Cass. 18 gennaio 1982 n. 324, in Foro it., 1983, I, 2263 s.). Orbene, è abbastanza logico pensare che il contratto di assunzione del rischio da parte del fallito celasse un patto fiduciario diretto a fare del fallito il vero imprenditore anche se occulto. Come è abbastanza logico, nell’ammettere che la prelazione all’acquisto nasca anche a favore dell’affittuario scelto dal fallito, spesso si metterebbe in condizione il fallito di affittare l’azienda ad un suo fiduciario e quindi a se stesso, consentendogli non solo la prosecuzione dell’attività ma anche il riacquisto a condizioni privilegiate.

[100] Secondo un certo orientamento (V. Sparano, Il trasferimento di azienda, affitto e cessione, nelle procedure concorsuali, nota a Trib. Roma 2 aprile 1994, in Dir. fall. 1994, II, 1201) "per l’esercizio del diritto di prelazione deve già essere in atto l’affitto dell’azienda a carattere operativo in quanto la legge privilegia non l’atto, ma l’assunzione della gestione, il che significa l’effettività del subentro".

[101] Cfr. in tal senso già prima della riforma: F. Fimmanò, Fallimento e circolazione dell’azienda socialmente rilevante, Milano, 2000, 167 s.; Trib. Siena 7 ottobre 1991, in Dir. fall., 1991, 993 ed in Fallimento, 1991, 511 s. con nota favorevole di Naldini; Trib. Bologna, 13 luglio 1992, citato in D. Di Gravio, Il diritto di prelazione dell’affittuario nella legge 23 luglio 1991, n. 223, in Dir. fall., 1993, I, 205; e indirettamente Trib. Aosta 7 febbraio 1994, in Dir. fall., 1995, II, 892 s. Conforme in dottrina: M. Mastrogiacomo, Il diritto di prelazione dell’affittuario nella l. 223 del 1991, in Dir. fall., 1993, I, 223; U. Apice, Le procedure concorsuali e le esigenze di conservazione dell’impresa, ibidem, 201; ID., Modi e termini nell’esercizio del diritto di prelazione, in Dir. fall., 1993, I, 611; C. De Martini, La prelazione dell’affittuario di azienda nel corso delle procedure concorsuali, ibidem, 260; F. Severini, Il diritto di prelazione concorsuale dell’affittuario di azienda, ibidem, in Diritto Fallimentare, a cura di I. Greco, Vol. III, Milano, 1995, 448; D. Manente, Profili della prelazione dell’affittuario nella vendita fallimentare d’azienda, in Foro pad., 1998, II, 2 s.

[103] L’attività dell’imprenditore di coordinamento ed organizzazione dei fattori della produzione (capitale, fisso e circolante, e lavoro) nelle dimensioni e nelle proporzioni più idonee ed efficaci per il miglior risultato economico produttivo, è ciò che imprime il soffio vitale al mero complesso di beni isolati (F. Fimmanò, La gestione dell’impresa nell’ambito del fallimento, in A. Jorio – B. Sassani, Trattato delle procedure concorsuali, III, Milano, 2016, 30 s.).

[104] Al riguardo: F. Fimmanò, Il concordato straordinario, in Giur. comm., 2008, I, 968. La ristrutturazione mediante concordato della grande impresa in amministrazione straordinaria, in Dir. fall., 2010, n. 3-4, 328 s.

[105] Sul punto, anche per riferimenti storici, vedi G. D’Attorre, I concordati “ostili”, cit., 44 s.

[106] Nel sistema previgente accadeva spesso che il fallimento era voluto per fiaccare i creditori e chiedere successivamente un concordato con l’abbuono di molti debiti (A. Bassi, Lezioni di diritto fallimentare, Bologna, 2009, 202).

[107] Il fallito è inoltre sottoposto ad un ulteriore limite, in quanto non può avanzare proposte dopo che siano decorsi due anni dalla chiusura della fase sommaria dell’accertamento del passivo. Il termine in questo caso mirerebbe invece ad impedire che il fallito possa approfittare delle lungaggini della procedura per avanzare proposte scarsamente convenienti per i creditori, spingendolo invece a formulare proposte convenienti e tempestive.

[108] Così L. Stanghellini, Art. 124, in Il nuovo diritto fallimentare a cura di A. Jorio, Torino, 2006, Vol II, 1954 s. che peraltro condivide G. Schiavon, Il nuovo concordato fallimentare: legittimazione, contenuti della proposta, modalità, i tempi della sua presentazione, l’assuntore, in M. Fabiani - A. Patti (a cura di), La tutela dei diritti nella riforma fallimentare. Scritti in onore di G. Lo Cascio, Milano, 2006, 211 ss., spec. 217 ss., secondo cui le ipotesi in cui è concretamente praticabile una rapida iniziativa concordataria di terzi sono quelle di fallimenti che seguono precedenti tentativi di accesso, da parte del debitore, a concordati preventivi non andati a buon fine, con la conseguenza che il debitore potrebbe indursi a chiedere il concordato preventivo solo nei casi in cui il successo sia sostanzialmente sicuro, evitando di denunziare tempestivamente la crisi in tutti gli altri casi. Nello stesso senso G. D’Attorre, I concordati “ostili”, cit., 50 s.

[109] La finalità è, come detto, quella di evitare che la concorrenza sul patrimonio del fallito sia falsata dalla presenza di soggetti avvantaggiati dal contributo informativo fornito da costui, ed in quest’ottica il fatto che egli venga a partecipare al capitale della società proponente è sufficiente indizio della presenza di un indebito vantaggio concorrenziale per quest’ultima. Le società controllate, fra l’altro, se costituite in forma di s.p.a. o s.r.l., potrebbero in teoria presentare la proposta di concordato nel fallimento del soggetto controllante anche senza il voto assembleare del curatore di tale fallimento, in quanto il potere di autorizzare la presentazione di proposte di concordato è stato attribuito agli amministratori: art. 152, 2° co., lett. a). La norma, dettata per la presentazione di proposte di concordato relative al fallimento della stessa società, si applica a maggior ragione per le proposte di concordato relative al fallimento di terzi (così L. Stanghellini, op.cit., 1961, secondo cui più in generale, è da ritenere che, quando il proponente, nonché l’eventuale assuntore, sia da ritenere collegato al fallito o sia un soggetto a lui interposto, e più in generale quando il fallito tragga un’utilità dalla presentazione della proposta, ad esempio mediante un patto paraconcordatario, la proposta sia legittima, ma possa essere presentata solo all’interno della finestra temporale prevista dall’art. 124, 1° co., ult. parte , e, non possa prevedere la cessione delle azioni revocatorie e della massa).

[110] L’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 124 l.fall. costituisce oggettivamente norma particolarmente vaga, mentre il fenomeno del controllo societario risulta disciplinato diversamente nell’attuale sistema positivo, in ragione della rilevanza che lo stesso assume in ciascuno dei possibili contesti di riferimento (sulla nozione di comune controllo nell’ambito delle soluzioni negoziali della crisi d’impresa, cfr. S. Leuzzi, Le esclusioni dal voto e dal calcolo delle maggioranze, in La nuova legge fallimentare, a cura di F. Santangeli, Milano, 2016, 236 ss.).

[111] Testualmente E. Bertacchini, Proposta di concordato, in A. Nigro – M. Sandulli (a cura di), La riforma della legge fallimentare, Torino, 2006, 766 ss., spec. 769 e 771. Nello stesso senso: M. Fabiani, Il concordato fallimentare, in, Il processo di Fallimento, Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, Vol. 2, Torino, 2014, 963; E. Bran – A. Marcone – G. Garesio, Il concordato fallimentare, in Fallimento e le altre procedure concorsuali, diretto da L. Panzani, II ed., IV Torino, 2014 (anche con riferimento al caso in cui una delle società collegate venga indicata dal terzo proponente come assuntore). Secondo questa impostazione le finalità perseguite dalla riforma dovrebbero impedire che attraverso lo schermo societario si possano aggirare i rigorosi limiti temporali imposti, e si è proposta un’interpretazione estensiva della norma, secondo cui sarebbero vincolati alla finestra temporale anche i soggetti societari in cui il fallito abbia la partecipazione di minoranza e quelli destinati a divenirlo per effetto del concordato . Questa interpretazione estensiva, fondata sulla analogia della situazione di fatto e sui rischi di aggiramento del divieto di cui si è detto, come visto è esclusa tuttavia dal legislatore.

[112] Comunque la questione resta controversa, come ricorda G. Buccarella, Il concordato fallimentare, coattivo e straordinario, Milano, 2016,26. In tema cfr anche G. MinutoliC. Blatti, Sub art. 124, in Commentario Ferro, 1712; A. Perrino, Il nuovo concordato fallimentare, in Foro It., 2006, V, 200; S. Sanzo, La nuova normativa in materia di concordato fallimentare: le incertezze sulla disciplina transitoria e le prospettive del decreto correttivo, in Fallimento, 2008, 926; S. Pacchi, Il concordato fallimentare, in G. Fauceglia - L. Panzani (a cura di), Fallimento e altre procedure concorsuali, Torino, 2009, 1378; A. Danovi - F. D’Aquino, Il concordato fallimentare, in A. Jorio – B. Sassani, Trattato delle procedure concorsuali, V, Milano, 2017, 38).

[113] Così correttamente A. La Malfa, Concordato fallimentare. Chiusura del fallimento e i suoi effetti, in L. Ghia - C. Piccininni - F. Severini (a cura di) Trattato delle procedure concorsuali, Milano, 2011, 14. Nello stesso senso: F. Casale, Il concordato fallimentare delle società, in Riforme della legge fallimentare, a cura di A. Didone, Torino, 2009, 1602); L. Mauri, Natura mista e complessa del concordato fallimentare, in Dir. prat. soc., 2010, 64.

[114] In giurisprudenza non si rinvengono precedenti specifici sulla questione, se non una pronunzia di merito che estende la limitazione temporale di cui al citato art. 124 l.fall. alla società controllante (ex art. 2359 c.c.) di quella fallita, interpretando estensivamente la disposizione (cfr. Trib. Mantova 29 maggio 2007, in ilcaso.it). V’è poi una giurisprudenza di merito (Trib. di Ragusa 15 marzo 2018 (in Fallimento, 2019, 654 che tuttavia riguarda una controllante società di fatto come tale fallita con le persone fisiche) secondo cui la sussistenza di una situazione di comune controllo, rilevante ai fini della applicazione delle limitazioni temporali di cui all’art. 124, comma 1, ultimo periodo, l.fall., va valutata secondo i criteri stabiliti dall’art. 2359 c.c., così che va dichiarata inammissibile la proposta di concordato fallimentare presentata, oltre i limiti temporali fissati dallo stesso art. 124 l.fall., da una società che sia sottoposta, insieme a quella fallita, al comune controllo di una società di fatto esistente tra le persone fisiche socie di entrambe le società ed avente ad oggetto l’esercizio dell’attività di holding (nella specie ritenuta esistente tra le persone fisiche congiuntamente socie della proponente il concordato per il 60% dell’intero capitale sociale e della società fallita per il 100% del capitale sociale, aventi per oggetto attività di holding con indirizzo, coordinamento e controllo delle prime). In dottrina, nonostante la genericità della norma, si è talora ritenuto che la valutazione circa la sussistenza di una situazione di comune controllo, rilevante ex art. 124 l.fall., debba essere effettuata secondo la definizione offerta dall’art. 2359 c.c. (v. L. Guglielmucci, Sub art. 124 l.f., in Codice commentato del fallimento, (diretto da) G. Lo Cascio, Milano, 2013, 1610) e, secondo alcuni, in base ai vincoli contrattuali di cui al n. 3 del comma 1 della anzidetta disposizione (L. D’Orazio, Le procedure di negoziazione della crisi dell’impresa, Milano, 2013, 625). Secondo un’altra impostazione tra le società sottoposte a comune controllo devono farsi rientrare anche le società facenti parte dello stesso gruppo cui appartiene la società fallita (F. S. Filocamo, La proposta di concordato fallimentare, in A. Jorio (a cura di), Fallimento e concordato fallimentare, Milano, 2016, 2451) e quelle sottoposte, insieme alla stessa fallita, a direzione e coordinamento di un altro soggetto giuridico ex artt. 2497 ss. c.c. (v. C. Blatti e G. Minutoli, op.cit., 1722. Ne dubita A.M. Perrino, Il concordato fallimentare, in P. Celentano - E. Forgillo (a cura di), Fallimento e concordati, Milano, 2008, 1033).

[115] Una volta che ai sensi dell’art. 240 CCII la proposta del debitore è ammissibile solo se prevede l’apporto di risorse che incrementino il valore dell’attivo di almeno il dieci per cento, vi è da chiedersi se tali ragioni permangano, dato che da una parte appare di tutta evidenza come sia ben possibile che il ritardo nel deposito della domanda dipenda dal comportamento di un terzo (da colui che fornisce le risorse necessarie al deposito della domanda), dall’altra l’incremento dell’attivo rende sicuramente conveniente la proposta per i creditori (G.B. Nardecchia, Il concordato nella liquidazione giudiziale, in Fallimento, 2019, 1247). Possono ancora proporre il concordato un creditore o un terzo e, al fine di accelerare i tempi di chiusura, la domanda può essere depositata anche prima che lo stato passivo sia stato reso esecutivo, a condizione che sia stata tenuta dal debitore una contabilità che consenta al curatore (unitamente alle informazioni che può assumere,) di predisporre un elenco provvisorio di creditori dotato di un grado di affidabilità idoneo a farlo approvare dal giudice delegato. Ipotesi che sinora non ha avuto grande successo ma che in futuro potrebbe trovare più spazio a fronte del prevedibile allungamento dei tempi di definizione dello stato passivo dettati dell’allargamento delle ipotesi di attrazione nel rito speciale delle pretese fatte valere a vario titolo nei confronti del debitore.

[116] A. Pezzano, Esercizio provvisorio e concordato fallimentare: un propizio connubio per il futuro concorsuale, in ilcasoit, 1 novembre 2016.

[117] Così la definisce V. Zanichelli, I concordati giudiziali, Torino, 2010, 366.

[118] G. Buccarella, Il concordato fallimentare cit., 26. Si è altresì evidenziato che non ha nessun senso prevedere limiti temporali alla legittimazione del fallito, delle società cui egli partecipi o soggette al comune controllo, in un sistema nel quale il fallito è l’imprenditore in senso giuridico-formale e non l’imprenditore in senso economico L. Guglielmucci – G. Minutoli, Sub art. 124 l.f., in Codice commentato del fallimento, (diretto da) G. Lo Cascio, III ed., Milano, 2015, 1574.

[119] V. Zanichelli, op.ult.cit, 366. Anche se qualcuno la ritiene applicabile in presenza di legami economici certi con questi ultimi, sotto forma di partecipazioni comuni in società di persone, regolari o non, o di controlli societari (M. Di Lauro, Il nuovo concordato fallimentare, Padova, 2011, 31. Ma è evidente che in questo caso come nel caso della supersocietà di fatto tra persone fisiche e persone giuridiche e della estensione del fallimento ai soci la questione si pone in modo completamente diverso e ben più complesso (sul tema da ultimo F. Fimmanò, La supersocietà di fatto tra società a responsabilità limitata alla luce del codice della crisi, in La società a responsabilità limitata: un modello transtipico alla prova del Codice della Crisi, Studi in onore di O. Cagnasso, Torino, 2020, 91 s.).

[120] G. D’Attorre, I concordati “ostili”, cit., 53-54., sia pur con riferimento al collegato tema delle proposte di terzo “espropriative” rispetto al fallito.

[121] G. Buccarella, op. cit., 27 – 28 (secondo cui tale obbligo potrebbe dar luogo ad una responsabilità degli amministratori azionabile ex art. 146 dal curatore, nonché dai singoli creditori anche alla luce degli ordinamenti stranieri su cui G. Guizzi, Responsabilità degli amministratori e insolvenza: spunti per una comparazione tra esperienza giuridica italiana e spagnola, in Riv. dir. impr., 2010, 227 s.).

[122] In tema M. Fabiani, Le misure cautelari tra tutela del credito e nuovo fallimento come tecnica di conquista dell’impresa insolvente, a cura di G. Palmieri, Torino 2009,67.

[123] G. C. Rivolta, Gli atti di impresa, in Riv. dir. civ., 1994, 107 s., tende a scindere gli atti di impresa dalla titolarità dell’azienda, così come dall’esercizio dell’impresa, dalla sua direzione, dal governo, dal controllo, dalla sovranità, dall’assunzione del rischio, dalla spendita del nome: l’imputazione dell’attività imprenditoriale non è altro che il riflesso e la conseguenza dell’imputazione degli atti di impresa.

[124] D’altra parte già il datato progetto di riforma della legge fallimentare elaborato da Renzo Provinciali, Francesco Ferrara e Luigi Bianchi d’Espinosa (in Dir. fall., 1971, I, 148 s.) evidenziava che il baricentro del fallimento andava spostato dall’imprenditore all’impresa secondo un modello di ispirazione tipicamente francese.

[125] Questa moderna visione dell’impresa è comunque diversa da quella c.d. istituzionalistica, secondo cui essa sarebbe un soggetto distinto dalla persona dell’imprenditore e dotata di autonoma rilevanza per il diritto, pur, secondo alcuni, rimanendo oggetto di diritti (al riguardo si veda: F. Santoro Passarelli, L’impresa nel sistema del diritto civile, in Riv. dir. comm., 1942, I, 376 s.; ID., Soggettività dell’impresa, in Impresa e Società. Scritti in memoria di A. Graziani, V, Napoli, p. 1772 s.; A. Asquini, Profili dell’impresa, in Riv. dir. comm., 1943, I, 1 s.; L. Spagnolo Vigorita, Gli usi aziendali, Napoli, 1961 41 s.; V. Panuccio, Teoria giuridica dell’impresa, Milano, 1974, 63 s.; G. Santini, Le teorie sull’impresa, in Riv. dir. civ., 1970, I, 429 s.; G. Oppo, Realtà giuridica globale dell’impresa nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. civ., 1976, I, 599). A metà degli anni ‘80 fu elaborato un progetto di “Statuto dell’impresa” in cui venivano enunciati i principi che avrebbero dovuto presiedere alla disciplina della temporanea difficoltà e dell’insolvenza. Per lo Statuto, le procedure liquidatorie dovevano essere regolate in modo da preservare in tutto o in parte l’integrità del complesso aziendale ove ne fossero sussistite le condizioni (al riguardo M. Sandulli, La crisi economica dell’impresa, in Giur. comm., 1986, I,973 s.).

[126] F. Schivardi, Come evitare il contagio finanziario alle imprese, in la voce.info, realizzato in collaborazione con l’ufficio studi cerved know.cerved.com/news/covid-19-e-sostenibilita-delle-imprese/. Uno degli effetti più evidenti del lockdown delle attività imprenditoriali è quello di avere messo in ginocchio aziende che prima non presentavano, almeno apparentemente, problemi di continuità aziendale.

[127] Invero anche in Italia l’art. 83 del d.l 17 marzo 2020, n. 18, al comma 2, ha sospeso sino al 15 aprile 2020 i termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali. Tra questi termini sono compresi i termini per la proposizione dei procedimenti esecutivi, anche se ai sensi del terzo comma della norma rimane possibile chiedere la dichiarazione di urgenza nei casi in cui la ritardata trattazione può produrre grave pregiudizio alle parti e quindi ai creditori. Dopo il 15 aprile la disciplina di legge prevede che i capi degli uffici giudiziari diano disposizioni di carattere generale per lo svolgimento delle udienze da tale data sino al 30 giugno, adottando possibilmente modalità da remoto e telematiche. Non vi è quindi una moratoria di carattere generale per le azioni esecutive per il periodo successivo al 15 aprile. Ciò perché l’art. 83 del d.l. 18/2020 muove dalla finalità di evitare il sovraffollamento degli uffici giudiziari (G. Corno - L. Panzani, op.cit, in ilcaso.it, 4).

[128] Il recente statement dell’executive committee di CERIL - Conference on European Restructuring and Insolvency Law, redatto da due noti studiosi come Bob Wessels, e Stephen Madaus, (pubblicato il 20 marzo 2020, in ceril.eu, richiamato in G. Corno - L. Panzani, op.cit, in ilcaso.it, 1) individua quattro aree nelle quali i legislatori dovrebbero valutare di intervenire, quali la finanza ponte; la sospensione dei doveri di accesso a procedure di insolvenza basato su impossibilità di far fronte alle proprie obbligazione; misure a supporto della sopravvivenza di imprese e dei loro dipendenti; norme che consentono di “ibernare” le piccole medie imprese che presentano insufficienti flussi di cassa dovuti al blocco derivante dalla situazione. Ma al tempo stesso il rapporto evidenzia che la semplice moratoria non è sufficiente perché in questo modo si evitano le azioni esecutive, ma si producono gli effetti connessi con l’inadempimento degli obblighi di pagamento; che l’ibernazione non può essere totale e che infine per le piccole imprese, che in Italia sono la maggior parte, la liquidità offerta in forma di possibilità di accesso al credito non è utile perché si tratta di imprese che non possono alzare ulteriormente il proprio livello di indebitamento.

[129] Ciò anche sul piano dell’approccio penalistico visto che nascerebbe una nuova cultura della trasparenza nel salvataggio ed in fin dei conti sarebbe un fenomeno tanto generalizzato da determinare una diversa sensibilità all’impresa anche in settori del diritto meno abituati a tale approccio.



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