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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 13/05/2020 Scarica PDF

Le sanzioni tributarie nel fallimento

Simone Francesco Marzo, Avvocato in Lecce


Sommario: 1. Premesse; 2. Il principio di personalità delle sanzioni tributarie amministrative; 3. Il preteso contrasto tra l’ammissione al passivo fallimentare del credito sanzionatorio ed il principio di personalità; 4. (segue) critica di tale tesi; 5. (segue) il rilievo della natura privilegiata del credito sanzionatorio; 6. La dubbia natura concorsuale delle sanzioni irrogate in pendenza del fallimento; 7. Conclusioni.

     

1. Premesse

Tra i numerosi interrogativi che immediatamente si pongono a chiunque si trovi ad affrontare la “questione fiscale delle procedure concorsuali[1] ve n’è uno da tempo al centro di un vivace dibattito dottrinale e, più recentemente, portato anche all’attenzione dei Giudici di legittimità[2], riguardante il trattamento da riservare nell’ambito del fallimento[3] al credito vantato dall’Ente impositore a titolo di sanzioni pecuniarie amministrative comminate al debitore in conseguenza della violazione di norme tributarie.

Il tema è di grande rilevanza pratica, soprattutto in seguito alla modifica dell’art. 2752 c.c. per opera dell’art. 23, comma 37, d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla l. 15 luglio 2011, n. 111, che riconosce oggi il privilegio generale sui beni mobili del debitore anche al credito vantato dallo Stato a titolo di sanzioni, oltre che per le imposte “dovute secondo le norme in materia di imposta sul reddito delle persone fisiche, imposta sul reddito delle persone giuridiche, imposta sul reddito delle società, imposta regionale sulle attività produttive ed imposta locale sui redditi[4]. La questione presenta tuttavia anche un notevole interesse sistematico, principalmente in considerazione delle molteplici interrelazioni che presenta, da un lato, con alcuni dei principi sottesi al sistema punitivo tributario delineato dal d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 e, dall’altro, con quelli propri della disciplina dell’insolvenza dell’impresa.

In sintesi, il problema riguarda il credito sanzionatorio conseguente a violazioni tributarie commesse dal contribuente quando era ancora in bonis; da più parti, in dottrina, è stato infatti messo in dubbio il carattere “concorsuale” di detto credito, e quindi la possibilità che lo stesso possa concorrere con gli altri crediti sul patrimonio del debitore (contribuente) a carico del quale sia stato dichiarato il fallimento o, per il futuro, sia stata aperta la liquidazione giudiziale.

Le ragioni addotte a sostegno di tale assunto sono diverse: alcune riguardano il credito sanzionatorio in quanto tale, e si appuntano sul prospettato contrasto tra la partecipazione del credito sanzionatorio al concorso aperto sul patrimonio del debitore ed il principio di personalità che dovrebbe informare il sistema punitivo tributario; altre riguardano i soli crediti sanzionatori irrogati dopo l’apertura della procedura di insolvenza (ma pur sempre connessi a violazioni compiute anteriormente), e si fondano sull’affermato carattere propriamente costitutivo dei provvedimenti sanzionatori.

Anticipando i risultati cui condurrà la presente indagine, si può sin d’ora rilevare come il primo ordine di considerazioni, nonostante il consenso incontrato da una parte tutt’altro che irrilevante della dottrina, abbia in realtà fondamenta giuridiche assai fragili, e come ciò abbia consentito alla giurisprudenza di legittimità di confutarle agevolmente; più dubbia appare invece la seconda questione, collegata all’affermata natura costitutiva dell’atto di irrogazione delle sanzioni.

 

2. Il principio di personalità delle sanzioni tributarie amministrative

La disciplina delle sanzioni tributarie non penali scaturita dalla complessiva riforma della materia operata negli anni 1996-1997[5] è, come notato in dottrina, frutto di “una scelta chiara a favore di un regime di marca sostanzialmente penalistica[6], delineando un sistema nel quale alla sanzione viene attribuita la natura afflittiva tipica di quella penale[7]. Coerente con tale impostazione appare dunque l’aver improntato anche il sistema punitivo tributario non penale[8] ai principi propri dell’ordinamento penale, a cominciare dal principio di personalità.

Inteso nella sua accezione più tradizionale, il principio di personalità impone la necessaria riferibilità dell’illecito e della conseguente sanzione alla sola persona fisica autrice della violazione[9]; ciò vuol dire che la sanzione tributaria non penale dovrebbe colpire soltanto la persona fisica, che sia capace di intendere e di volere, e che abbia materialmente posto in essere, con dolo o colpa, la condotta illecita[10].

La legge delega n. 662/1996, sul punto, era molto chiara: l’art. 1, comma 133, primo comma, lett. b), disponeva infatti che, nel riformare la disciplina in tema di sanzioni tributarie non penali, il Governo avrebbe dovuto prevedere la “riferibilità della sanzione alla persona fisica autrice o coautrice della violazione secondo il regime del concorso adottato dall’articolo 5 della legge 24 novembre 1981, n. 689”, nonché la “intrasmissibilità dell’obbligazione per causa di morte[11]. Con altrettanta chiarezza, i criteri direttivi appena indicati hanno apparentemente trovato attuazione nel corpo del d.lgs. n. 472/1997: l’art. 2, secondo comma prevede infatti che “La sanzione è riferibile alla persona fisica che ha commesso o concorso a commettere la violazione”; l’art. 5, comma 1, primo periodo, dispone inoltre che “Nelle violazioni punite con sanzioni amministrative ciascuno risponde della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”; infine, l’art. 8 del medesimo decreto sancisce che “L’obbligazione al pagamento della sanzione non si trasmette agli eredi”.

In realtà, attenendosi alla fermissima giurisprudenza costituzionale, che circoscrive alle sole sanzioni penali in senso stretto l’ambito di rilevanza del principio della personalità della pena ritraibile dall’art. 27 Cost.[12], la scelta di trasporre tale principio nel settore dell’illecito amministrativo in generale, ed in quello tributario in particolare, non poteva ritenersi doverosa sotto il profilo costituzionale[13]. Ed in effetti, già nell’originario impianto del d.lgs. n. 472/1997 vi erano elementi di ambiguità tali da consentire di intravedervi una certa “diluizione”[14] della matrice personalistica della sanzione tributaria non penale, non tanto nelle norme che estendono a terzi soggetti la responsabilità per l’adempimento della sanzione amministrativa[15], quanto soprattutto in quelle che limitano la possibilità per il terzo responsabile di agire in regresso nei confronti dell’autore dell’illecito; tanto era infatti originariamente disposto dall’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 472/1997, e continua tuttora ad essere previsto dal riformulato art. 11, primo comma, del medesimo decreto[16], per l’ipotesi in cui la violazione sia stata commessa senza dolo o colpa grave “dal dipendente o dal rappresentante legale o negoziale di una persona fisica nell'adempimento del suo ufficio o del suo mandato ovvero dal dipendente o dal rappresentante o dall’amministratore, anche di fatto, di società, associazione od ente, con o senza personalità giuridica, nell'esercizio delle sue funzioni o incombenze”. Istituendo un meccanismo in forza del quale l’onere economico della sanzione resta a carico di un soggetto diverso dall’autore dell’illecito, infatti, tali norme costituivano e costituiscono tuttora una rilevante deviazione dal principio della personalità della sanzione[17].

Una deviazione ancora più clamorosa dall’anzidetto principio si è poi concretizzata per effetto dell’art. 7, primo comma, d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito in l. 24 novembre 2003, n. 326, il quale dispone testualmente che “Le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica”. Come osservato in dottrina, infatti, tale norma realizza una totale “estromissione sul versante sanzionatorio delle persone fisiche che hanno materialmente agito[18], ponendo l’intero onere delle sanzioni direttamente ed unicamente a carico della società o dell’ente personificato, senza alcuna possibilità di rivalersi sull’autore dell’illecito, nemmeno nelle ipotesi in cui questi abbia agito con dolo o colpa grave[19].

In definitiva, nonostante la reiterata affermazione del principio di personalità, l’attuale sistema contempla ipotesi nelle quali la sanzione tributaria è posta a carico di soggetti diversi dalla persona fisica autrice dell’illecito, ed in taluni casi giunge addirittura a prevedere la limitazione o la totale esclusione di ogni responsabilità sanzionatoria, anche in via di rivalsa, di tale soggetto. Ciò induce in ultima analisi a poter fondatamente ritenere che il principio di personalità “pare oggi oggetto più di una enfasi retorica che della disciplina vivente[20].


3. Il preteso contrasto tra l’ammissione al passivo fallimentare del credito sanzionatorio ed il principio di personalità

I rapidi cenni al principio di personalità si sono resi necessari perché, come anticipato nelle premesse, una parte della dottrina ha sollevato il dubbio che proprio la vigenza di tale principio possa costituire un ostacolo insormontabile alla partecipazione del credito sanzionatorio vantato dall’Erario al concorso aperto sui beni del debitore insolvente nell’ambito della procedura fallimentare (o, per il futuro, di liquidazione giudiziale).

Secondo tale ricostruzione, in sintesi, l’ammissione del credito sanzionatorio al passivo della procedura e la conseguente partecipazione di tale credito al concorso aperto sulla massa attiva della stessa finirebbero “con il punire non più il soggetto autore della violazione, bensì i creditori, a decremento dei cui diritti soltanto va la pretesa avanzata da parte dell’Erario”, con la conseguenza che “la sanzione allora non assolve più a nessuna reale funzione afflittiva ma colpisce (del tutto irrazionalmente) soggetti assolutamente estranei alla condotta che si ritiene illecita[21].

A “puntuale conferma” di tali considerazioni la stessa dottrina ha richiamato il principio dell’intrasmissibiiltà agli eredi delle sanzioni tributarie non penali, sancito dall’art. 8, d.lgs. n. 472/1997[22], affermando che, a pena di realizzare “un’ingiustificata discriminazione tra due situazioni tra loro sostanzialmente speculari”, anche al fallimento dell’imprenditore (assunto alla stregua di “morte civile” dello stesso) dovrebbe correlarsi l’intrasmissibilità delle sanzioni tributarie non penali, stavolta in danno dei creditori concorrenti[23].

Quanti sostengono, nei termini appena sintetizzati, la contrarietà con il principio di personalità della partecipazione del credito sanzionatorio al concorso aperto sul patrimonio del debitore insolvente, riconoscono, d’altra parte, che la sanzione non può “essere elisa allorché intervenga il fallimento, a pena di vanificare completamente la funzione punitiva[24]; sulla base di tale presupposto, l’unica soluzione che consentirebbe di contemperare la “preponderante esigenza di evitare la traslazione dell’obbligazione sanzionatoria, in punto di fatto, su soggetti diversi dall’autore dell’illecito[25] con la necessità di non vanificare del tutto la funzione afflittiva propria della sanzione, consisterebbe nel differire l’esigibilità del credito sanzionatorio al momento del ritorno in bonis del contribuente fallito o, come anche è stato detto, nel “congelamento” del credito sanzionatorio in pendenza della procedura fallimentare[26].

 

4. (segue) critica di tale tesi

La tesi della presunta inesigibilità del credito sanzionatorio (o, come detto, del suo “congelamento”) nell’ambito del fallimento appare poco o per nulla convincente sotto diversi profili, alcuni dei quali soltanto sono stati messi in luce dalla Cassazione nelle due ordinanze che hanno esaminato l’argomento.

In primo luogo, è persino scontato che un astratto problema di compatibilità tra l’ammissione al passivo del credito sanzionatorio ed il principio di personalità, nella sua fondamentale accezione relativa alla riferibilità della sanzione alla sola persona fisica autrice della violazione, ha ragione di porsi soltanto con riguardo alle fattispecie nelle quali il ridetto principio trovi effettiva esplicazione; ed è certo che ciò non avvenga in alcun caso per le sanzioni “relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica” che, ai sensi dell’art. 7, primo comma, d.l. n. 269/2003, restano esclusivamente a carico della persona giuridica. Con riguardo al fallimento degli enti personificati, quindi, la tesi dell’inesigibilità del credito sanzionatorio in pendenza del fallimento perde ogni consistenza, venendo meno il presupposto astratto sul quale essa dovrebbe trovare fondamento[27].

Il tema in discussione potrebbe dunque riguardare, in astratto, soltanto le persone fisiche e gli enti non personificati, ancorché non si possa trascurare il fatto che, come già visto, anche per tali soggetti il principio di personalità delle sanzioni tributarie non penali soffra comunque rilevanti limitazioni.

Ciò detto, sembra innanzitutto insostenibile l’asserita equiparazione quoad effectum del fallimento (inteso quale “morte civile” dell’imprenditore decotto) alla morte dell’imprenditore, da cui taluno ha inteso dedurre l’applicabilità all’ipotesi in esame del principio di intrasmissibilità delle sanzioni sancito dall’art. 8, d.lgs. n. 472/1997. Come recentemente rilevato in dottrina[28], la teorica che vorrebbe equiparare il fallimento alla “morte civile” dell’imprenditore insolvente, facendone discendere il trasferimento del patrimonio di quest’ultimo ai creditori in virtù di una sorta di successione universale, è stata efficacemente criticata già nel vigore del codice di commercio[29]; il tentativo di dimostrare l’inesigibilità del credito sanzionatorio nel fallimento attribuendo centralità all’“evidenziato parallelismo tra la posizione degli eredi nella successione mortis causa e quella dei creditori concorsuali[30], appare perciò assolutamente anacronistico[31].

A prescindere da quale delle tante ricostruzioni teoriche prospettate si intenda accogliere per spiegare la peculiare condizione giuridica in cui vengono a trovarsi il debitore ed il suo patrimonio per effetto della dichiarazione di fallimento[32], è certo che sia i beni e i crediti dell’imprenditore, sia i suoi debiti, restino tali (restino, cioè, beni, crediti e debiti dell’imprenditore) anche in seguito all’apertura a proprio carico del fallimento, senza che a tale apertura possa correlarsi qualsivoglia effetto successorio, tantomeno in favore della massa dei creditori.

Alla luce di quanto appena rilevato, l’argomento in esame è stato agevolmente (e correttamente) superato dalla Corte di Cassazione alla quale, con particolare chiarezza nell’ordinanza n. 23322 del 2018, è stato sufficiente ricordare che nell’ipotesi del fallimento “non è applicabile analogicamente il principio dell’intrasmissibilità della sanzione agli eredi, di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 8, in primo luogo, dovendosi ritenere tassativa tale ipotesi d’intrasmissibilità e, in secondo luogo, non ricorrendo i presupposti della trasmissione in quanto il fallimento non equivale alla morte dell’imprenditore bensì costituisce una procedura concorsuale liquidatoria a carattere universale volta al soddisfacimento dei creditori dell’imprenditore il quale non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni (L. Fall., art. 5), senza che si verifichi alcun fenomeno successorio[33].

Escluso che in caso di fallimento del debitore possa trovare applicazione la regola dell’intrasmissibilità delle sanzioni tributarie agli eredi, ex art. 8, d.lgs. n. 472/1997, resta da verificare la fondatezza della principale ragione addotta a sostegno della tesi dell’inesigibilità delle stesse nel fallimento, e cioè quella secondo cui la loro ammissione al passivo integrerebbe una violazione del principio di personalità, determinando di fatto la traslazione sugli altri creditori concorrenti dell’onere delle sanzioni irrogate nei confronti del debitore insolvente.

La tesi, come già anticipato, non convince, per una molteplicità di ragioni. In primo luogo occorre rilevare che l’ammissione al passivo del credito sanzionatorio non è di per sé in grado di compromettere la possibilità di soddisfazione degli altri creditori; come giustamente osservato[34], tale compromissione si verifica, in via di fatto, soltanto nell’ipotesi in cui l’attivo fallimentare non sia sufficiente ad assicurare l’integrale pagamento di tutti i crediti concorrenti, ivi inclusi quelli sanzionatori. Soltanto in caso di insufficienza dell’attivo, infatti, l’ammissione del credito sanzionatorio determinerebbe di riflesso l’aumento della falcidia fallimentare, ovvero ciò che la tesi criticata ritiene integrare una lesione del principio di personalità delle sanzioni[35].

Ma anche nelle ipotesi (ragionevolmente frequenti) in cui l’attivo non sia sufficiente al pagamento dell’intero passivo fallimentare e nelle quali, quindi, all’ammissione del credito sanzionatorio consegua la diminuzione delle aspettative di soddisfazione dei creditori di rango inferiore, sembra davvero difficile ravvisare in tutto ciò un’effettiva lesione del principio di personalità della sanzione[36].

È chiaro che, data per ferma la consistenza dell’attivo, un aumento del passivo possa implicare per alcuni creditori concorrenti una maggiore falcidia fallimentare, con conseguente minore soddisfazione del proprio credito; è proprio tenendo conto di tale eventualità che gli artt. 98, comma 3, l.fall. e 206, comma 3, c.c.i., prevedono il rimedio dell’impugnazione, con cui ciascun creditore (oltre che il curatore) può contestare l’accoglimento della domanda proposta da altri creditori. Anche in questi casi, però, l’aumento della falcidia fallimentare rappresenta un mero effetto indiretto dell’ammissione del credito altrui, in conseguenza del quale i creditori ammessi ricevono concretamente di meno al momento del riparto; ciò, tuttavia, non perché essi siano chiamati a sopportare pro-quota il soddisfacimento del credito in ipotesi contestato bensì, più propriamente sul piano giuridico, perché il patrimonio del debitore fallito (e quindi, sul piano soggettivo, il debitore fallito) deve far fronte ad una massa debitoria più consistente.

Seppur regolati nell’ambito di una procedura giudiziale volta ad assicurare la migliore realizzazione del concorso, in definitiva, i pagamenti ricevuti dai creditori sono finalizzati ad estinguere obbligazioni che restano del debitore sottoposto al fallimento o alla liquidazione giudiziale, mediante il ricavato della liquidazione di un patrimonio che resta anch’esso del medesimo debitore. In altri termini, pure in pendenza del fallimento è sempre il debitore a subire l’onere economico della sanzione, ancorché, data l’incapienza del suo patrimonio, il sostenimento di tale onere si riflette sulla posizione dei creditori concorrenti in termini di maggiore falcidia fallimentare.

Per tale ragione, ancorché suggestiva, la tesi secondo cui l’ammissione al passivo fallimentare del credito sanzionatorio si porrebbe in contrasto con il principio di personalità posto (ambiguamente) alla base del sistema punitivo tributario, non trova alcun fondamento giuridico[37].

D’altro canto, a voler coerentemente seguire la tesi qui criticata, anche i crediti propriamente tributari dovrebbero ritenersi inesigibili nell’ambito della procedura fallimentare aperta a carico del contribuente. È pacifico, infatti, che il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. abbia un significato non soltanto sul piano oggettivo, disponendo che ogni prelievo fiscale trovi il proprio fondamento sulla manifestazione di una capacità contributiva effettiva, ma anche sul piano soggettivo, imponendo che ogni prelievo tributario gravi definitivamente soltanto sul soggetto cui è riferibile l’indice di capacità contributiva assunto a presupposto dell’imposizione[38]. In virtù dell’art. 53 Cost., in sostanza, ciascuno è tenuto a concorrere alle spese pubbliche soltanto in ragione della propria capacità contributiva, e non in ragione della capacità contributiva riferibile ad altri soggetti.

Alla luce di tali notazioni, è evidente che la tesi dell’inesigibilità del credito sanzionatorio nell’ambito della procedura fallimentare potrebbe essere estesa, per assurdo, anche ai tributi: anche l’ammissione al passivo del credito tributario strettamente inteso ha come conseguenza l’aumento della falcidia fallimentare per gli altri creditori concorrenti di rango inferiore, consentendo di affermare, nei termini “metagiuridici” ed assai approssimativi sin qui criticati, che i creditori concorrenti sarebbero chiamati a pagare una parte del debito tributario del fallito, in violazione del principio di capacità contributiva sancito dall’art. 53 Cost.; e ciò sarebbe, sempre per assurdo, tanto più grave considerando che il principio di capacità contributiva ha una sicura copertura costituzionale, la quale non consente quelle pur rilevanti deviazioni che, come visto in precedenza, soffre invece il principio di personalità delle sanzioni tributarie non penali, sfornito di un’altrettanta certa copertura costituzionale.

     

5. (segue) il rilievo della natura privilegiata del credito sanzionatorio

Come anticipato, la tesi del “congelamento” delle sanzioni tributarie in pendenza della procedura fallimentare e della loro pretesa esigibilità unicamente nei confronti del debitore tornato in bonis è stata sottoposta al vaglio dei giudici di legittimità. In entrambe le occasioni il ricorrente[39], oltre a richiamare l’azzardato (a parere di chi scrive) parallelismo tra fallimento e morte del debitore ed invocare il principio dell’intrasmissibilità delle sanzioni, aggiungeva che gli argomenti addotti a sostegno della tesi ivi sostenuta non sarebbero contraddetti dal riconoscimento ad opera dell’art. 2752 c.c.[40] del privilegio generale sui mobili anche per il credito sanzionatorio; tale previsione, infatti, secondo la tesi difensiva del curatore ricorrente, “opererebbe su un pian distinto da quello concernente la formazione dello stato passivo fallimentare”, e cioè “nell’ambito delle sole procedure esecutive di carattere non concorsuale, nelle quali non si dà luogo alla liquidazione dell'intero patrimonio del debitore[41]. Anche tale assunto appare però del tutto privo di fondamento.

Il privilegio, ivi compreso quello che assista un credito di natura tributaria[42], consiste nel diritto del creditore che ne è titolare di soddisfarsi sul patrimonio del debitore con preferenza rispetto ai creditori chirografari o assistiti da privilegio di rango inferiore[43]; uno dei connotati tipici del privilegio, quale causa legittima di prelazione idonea, ai sensi dell’art. 2741, comma 2, c.c., a derogare alla regola della par condicio creditorum sancita dal precedente comma del medesimo articolo, è dunque proprio quello della relatività: il privilegio, in sostanza, “è criterio di preferenza che postula un concetto di relazione tra il credito preferito e quello (egualmente meritevole di tutela ma nel confronto) sacrificato[44]. Si comprende perciò che uno dei presupposti perché il privilegio possa esplicare la propria funzione è costituito proprio dal concorso di più creditori sui beni del debitore, poiché soltanto ricorrendo tale condizione si può ontologicamente individuare una relazione tra credito (e creditore) preferito e credito (e creditore) sacrificato[45]; ed è altrettanto evidente che il problema del concorso dei creditori sul patrimonio del debitore si pone principalmente quando il patrimonio del comune debitore sia insufficiente a soddisfare tutte le obbligazioni, poiché proprio in detta ipotesi diviene essenziale stabilire il criterio in base al quale distribuire tra i creditori le insufficienti risorse di cui dispone il debitore. È per queste ragioni che, proprio nel fallimento, cioè nella procedura in cui il concorso dei creditori trova la sua più piena realizzazione[46], la funzione dei privilegi rileva in maniera ancor più marcata[47].

Alla luce di tali (invero pacifiche) considerazioni, ritenere che la norma sul privilegio del credito sanzionatorio dovrebbe trovare applicazione nelle sole “procedure di carattere non concorsuale”, significa in sostanza tradire la stessa funzione del privilegio. Appare anzi comprensibile che, nelle due ordinanze pronunciate in subiecta materia, la Cassazione abbia individuato anche nella previsione che estende ai crediti sanzionatori il privilegio generale sui beni mobili del debitore un ostacolo all’accoglimento della tesi del “congelamento” delle sanzioni tributarie nel fallimento[48].

Se la legge ha riconosciuto[49] anche al credito sanzionatorio il privilegio generale sui beni mobili del debitore, l’ha fatto evidentemente perché ha inteso accordare al titolare di detto credito la preferenza rispetto ai crediti chirografari ed agli altri crediti privilegiati di rango inferiore[50]; per le ragioni appena indicate, inoltre, tale finalità ha un senso soltanto nell’ambito delle procedure esecutive nelle quali vi sia il concorso di più creditori sui beni del comune debitore, e precipuamente nelle ipotesi in cui la procedura esecutiva si innesti sull’accertato stato di insolvenza del debitore medesimo. Riconoscere il differimento dell’esigibilità delle sanzioni tributarie in pendenza del fallimento, quindi, sarebbe palesemente contrario a tale finalità ed alla ratio stessa dell’attribuzione del rango privilegiato al credito in questione, dando luogo ad un’arbitraria degradazione di un credito privilegiato in un credito sostanzialmente postergato, cioè destinato ad essere soddisfatto soltanto subordinatamente alla previa soddisfazione di tutti gli altri crediti vantati verso il comune debitore.


6. La dubbia natura concorsuale delle sanzioni irrogate in pendenza del fallimento

Anche nelle ipotesi in cui trova effettiva esplicazione sotto il profilo dell’imputazione soggettiva delle sanzioni tributarie non penali, il principio di personalità non osta quindi alla partecipazione del credito sanzionatorio al concorso aperto sul patrimonio del debitore dalla sentenza di fallimento o di liquidazione giudiziale. Tale prima conclusione, peraltro, non risolve tutti i dubbi connessi al tema in oggetto.

Come appena detto, la sentenza dichiarativa di fallimento (o di apertura della liquidazione giudiziale) apre il concorso dei creditori sul patrimonio del debitore, conferendo ad essi il diritto di partecipare alla distribuzione di quanto ricavato dalla liquidazione di detto patrimonio. Occorre tuttavia considerare che i soggetti in favore dei quali la legge prevede la possibilità di partecipare al concorso sono soltanto coloro che si trovano ad essere creditori al momento dell’apertura della procedura: il principio comunemente detto della “cristallizzazione” della massa passiva, sotteso a numerose norme della legge fallimentare e del codice della crisi e dell’insolvenza, esclude infatti che sul patrimonio appreso alla procedura possano trovare soddisfazione coloro che sono divenuti creditori in un momento successivo alla sentenza di fallimento o di apertura della liquidazione giudiziale[51], con l’eccezione dei crediti prededucibili.

L’ammissione al passivo del credito sanzionatorio, come l’ammissione di ogni altro credito non prededucibile, è dunque subordinata all’accertamento della sua natura concorsuale, e ciò richiede l’esatta individuazione del momento di origine del credito medesimo, onde accertarne l’anteriorità rispetto alla dichiarazione di fallimento o di apertura della liquidazione giudiziale. Proprio tale ultimo aspetto presenta, con riguardo al credito sanzionatorio tributario, profili di incertezza di notevole rilevanza.

Come rilevato in dottrina, il problema relativo all’individuazione del momento in cui l’obbligazione tributaria viene a giuridica esistenza presenta uno stretto collegamento con quello, sia pure distinto, concernente l’individuazione della fonte della medesima obbligazione[52], innestandosi perciò nel più ampio dibattito sulla natura dichiarativa o costitutiva dell’accertamento tributario.

Senza addentrarsi in questa sede in tale complessa questione, è necessario soltanto dare atto di come la giurisprudenza di legittimità sia da sempre fermamente orientata nella direzione indicata dalle ricostruzioni teoriche dichiarativiste, collocando temporalmente l’insorgenza dell’obbligazione tributaria già nel momento nel quale si verifica il relativo presupposto, a prescindere da quello del suo successivo accertamento[53]. Ciò posto con riguardo al debito tributario propriamente detto, in dottrina sono stati sollevati dubbi sulla possibilità di trasporre sic et simpliciter la medesima conclusione con riguardo al credito sanzionatorio, poiché “la natura costitutiva del provvedimento sanzionatorio sembrerebbe proprio innegabile[54].

A dimostrazione della natura costitutiva del provvedimento sanzionatorio[55] la dottrina citata ha rilevato che “mentre l’an della potestà sanzionatoria è vincolato, nel senso della doverosità dell’esercizio, il quantum è discrezionale”; in sostanza, sempre secondo l’Autore citato, “la quantificazione della pretesa (dell’obbligazione) sanzionatoria non è dichiarativa di un quid preesistente al provvedimento sanzionatorio, come si desume dalla presenza di ampi margini di discrezionalità amministrativa e di incisive facoltà del soggetto passivo[56]. Proprio l’asserita sussistenza di tale margine di discrezionalità nella quantificazione della pretesa sanzionatoria, dunque, ha portato ad affermare la natura costitutiva di qualunque provvedimento sanzionatorio e, conseguentemente, a negare che il credito in questione scaturisca dal mero compimento dell’illecito, anziché dall’atto con la quale la sanzione viene determinata ed irrogata.

Secondo tale impostazione, il credito sanzionatorio ammesso a partecipare al concorso sarebbe soltanto quello scaturito da atti di irrogazione emessi a carico del debitore prima della sua dichiarazione di fallimento; ai crediti derivanti da atti emessi successivamente, per contro, non dovrebbe essere riconosciuta la natura concorsuale e non dovrebbe pertanto essere consentita l’ammissione al passivo della procedura.

Tale tesi, invero, non ha mai trovato seguito nella giurisprudenza di legittimità, ferma nell’applicare anche al credito sanzionatorio la concezione dichiarativa applicata con riguardo ai crediti tributari in senso stretto e, quindi, a collegare l’insorgenza del credito sanzionatorio al momento del compimento dell’illecito e non al successivo momento nel quale viene irrogata la relativa sanzione. Secondo la Cassazione, più in particolare, anche l’atto di irrogazione delle sanzioni risponde alla “limitata funzione di constatare la pregressa nascita di quel credito e di renderlo liquido ed esigibile mediante la determinazione del suo ammontare, configurante mera specificazione ed attuazione del contenuto della norma, senza margini di discrezionalità amministrativa in senso proprio”, ragion per cui “l’adozione del suddetto provvedimento dopo la dichiarazione di fallimento del contribuente non osta all’ammissione al passivo dell’indicato credito, quando si riferisca ad infrazione commessa prima dell’apertura della procedura concorsuale[57].

Infine, pur censurando le premesse sottese all’orientamento giurisprudenziale già in quel momento dominante, cioè la pretesa natura dichiarativa dei provvedimenti sanzionatori, altra dottrina ne aveva comunque condiviso l’approdo finale, affermando che “il carattere costitutivo dell’avviso di accertamento, infatti, non esclude la concorsualità del credito, poiché tale credito, pur se costituito dopo l’apertura del fallimento, resta un credito che si collega ad un fatto precedente il fallimento”, e precisando: “ciò vale sia per il credito d’imposta, sia per il credito erariale relativo a sanzioni amministrative: in entrambi i casi, rileva il fatto che legittima il provvedimento, senza che sia necessario impegnarsi a risolvere il problema della natura costitutiva o dichiarativa, ovvero dell’efficacia ex nunc o ex tunc, del provvedimento[58].

La questione richiede alcune riflessioni. Quanto all’opinione dottrinale da ultimo richiamata, sembra vi sia in essa una certa dose di apoditticità, se non di vera e propria contraddittorietà. L’Autore cui la stessa è riferibile non spiega, infatti, in che modo sia possibile conciliare il carattere costitutivo dell’atto (impositivo o sanzionatorio) con la preesistenza di un credito (rispettivamente tributario o sanzionatorio) che, secondo lo schema costitutivo, da tale atto dovrebbe scaturire[59]; qualora poi, mediante l’accento posto sul “collegamento” del credito con il “fatto che legittima il provvedimento”, si intendesse sostenere che il momento di genesi del credito è già quello del verificarsi del fatto, a prescindere dal successivo momento di emissione del provvedimento, si finirebbe forse inconsapevolmente per riconoscere al suddetto provvedimento la “limitata funzione di constatare la pregressa nascita di quel credito[60], cioè in sostanza per attribuire carattere meramente dichiarativo all’atto impositivo o sanzionatorio.

Maggiore interesse presenta il tema della dibattuta sussistenza di margini di discrezionalità nell’esercizio della potestà punitiva, da cui potrebbero discendere decisive conseguenze in merito al problema in esame.

A tal proposito occorre in primo luogo rilevare come il sistema sanzionatorio tributario preveda attualmente fattispecie di illeciti tributari, assai frequenti nella pratica proprio con l’approssimarsi dell’insolvenza del contribuente, puniti con sanzione determinata in una frazione fissa del tributo non versato[61]. In tali casi, non sembra davvero esservi nessun profilo di discrezionalità nell’irrogazione della sanzione, che scaturisce dalla mera constatazione dell’illecito e che spesso avviene con la diretta iscrizione a ruolo ex artt. 2 e 3, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 462; sicché in dette ipotesi la posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità potrebbe risultare condivisibile, potendosi fondatamente ritenere che l’atto con cui la sanzione viene irrogata sia effettivamente funzionale soltanto a rendere liquido ed esigibile un credito già sorto anteriormente, per effetto diretto della commissione dell’illecito[62].

Fuori dai casi degli illeciti puniti con sanzioni in misura o in frazione fissa, la Pubblica Amministrazione gode invece indubbiamente di un certo margine di discrezionalità nella determinazione del quantum della sanzione. D’altro canto, tale discrezionalità non è sovrapponibile al concetto di discrezionalità amministrativa propriamente intesa, quale potere di compiere delle scelte in ordine alla migliore soddisfazione dell’interesse pubblico affidato, previa ponderazione di tale interesse primario con gli interessi secondari (siano essi pubblici, privati o collettivi) che vengano eventualmente in rilievo nella fattispecie concreta[63]. Al pari del giudice, al quale l’art. 132 c.p. riconosce espressamente un margine di discrezionalità nell’applicazione della pena[64], nell’esercizio della potestà punitiva anche la Pubblica Amministrazione non è chiamata a ponderare i diversi interessi in gioco in vista del miglior perseguimento dell’interesse principale affidato alla sua cura[65],  bensì soltanto a garantire la necessaria “individualizzazione” della pena da comminare al colpevole della violazione[66], cioè ad assicurare il necessario “adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti in termini di uguaglianza e/o differenziazione di trattamento[67].

Alla luce di quanto appena detto si può sostanzialmente convenire con i Giudici di legittimità sull’assenza di “margini di discrezionalità amministrativa in senso proprio” nella commisurazione della sanzione tributaria non penale; d’altro canto, tuttavia appare difficile negare che, nelle ipotesi in cui la stessa sanzione non sia determinata dalla legge in misura o in percentuale fissa, il credito sanzionatorio nasca non già nel momento in cui è commessa la violazione, bensì soltanto nel momento successivo nel quale l’ente impositore provvede alla necessaria “individualizzazione” della risposta sanzionatoria correlata alla violazione riscontrata. In siffatti casi, il provvedimento sanzionatorio non si limita infatti a “constatare la pregressa nascita di quel credito”, bensì concorre esso stesso alla sua nascita, determinando la consistenza della “risposta punitiva” ritenuta in concreto più adeguata rispetto all’illecito specificamente contestato.

Ne dovrebbe coerentemente discendere che, in tutte le ipotesi in cui l’atto espressivo di tale risposta punitiva sia posteriore alla dichiarazione di fallimento o all’apertura della liquidazione giudiziale, il credito che da essa scaturisce non dovrebbe assumere natura concorsuale e, conseguentemente, non dovrebbe essere ammesso al passivo della procedura, nonostante l’assenza di margini di discrezionalità amministrativa propriamente detta nell’esercizio della potestà punitiva da parte dell’Ente impositore.

 

7. Conclusioni

La disamina sin qui condotta consente di formulare alcune considerazioni conclusive. Come visto, il tema del corretto trattamento da riservare nel fallimento (e, analogamente, nella liquidazione giudiziale) alle sanzioni relative ad illeciti tributari commessi dal contribuente ancora in bonis solleva essenzialmente due ordini di interrogativi, il primo riguardante il credito sanzionatorio in quanto tale ed il secondo soltanto quello scaturito da provvedimenti sanzionatori successivi all’apertura della procedura.

Quanto al primo punto, de jure condito non sembra sussistere alcun elemento sulla base del quale affermare l’inesigibilità del credito sanzionatorio in pendenza della procedura fallimentare; la chiara volontà del legislatore di attribuire a detta tipologia di credito la natura privilegiata dimostra, semmai, che la sanzione tributaria non soltanto può partecipare al concorso sui beni del debitore, ma che debba concorrere in condizione di preferenza rispetto ai crediti di altra natura e di rango inferiore.

De jure condendo, potrà forse dubitarsi dell’opportunità di un assetto che, nel concorso aperto sul patrimonio del debitore insolvente, privilegia il credito vantato dall’Erario a titolo sanzionatorio, anche a costo di riversare le concrete conseguenze di tale preferenza sui creditori concorrenti di rango inferiore, la cui quota di soddisfazione potrebbe risentire dell’ammissione al passivo della sanzione tributaria. Tale assetto, d’altro canto, non pare totalmente privo di ragionevolezza, essendo ispirato dalla condivisibile esigenza che la risposta punitiva conseguente alla contestazione di violazioni tributarie non sia vanificata del tutto in caso insolvenza del contribuente. Anche per tale ragione, in mancanza di una chiara opzione normativa in tal senso, sembra che nell’attuale contesto normativo non vi sia alcun margine per applicare il preteso “congelamento” delle sanzioni tributarie in pendenza del fallimento o della liquidazione giudiziale.

In ordine al secondo ordine di problemi, pare invece che il carattere concorsuale del credito sanzionatorio non possa essere accertato né correlando in tutti i casi l’insorgenza dello stesso al momento del compimento dell’illecito, come pretende di fare la giurisprudenza sostanzialmente unanime e parte della dottrina, né attribuendo natura costitutiva a qualsiasi provvedimento sanzionatorio, come invece ritiene altra parte della dottrina cui si è fatto riferimento.

L’elemento in base al quale valutare la concorsualità del credito sanzionatorio sotto il profilo temporale, allora, sembra poter essere individuato nella effettiva sussistenza in capo all’Ente titolare della potestà punitiva di un margine di discrezionalità, seppure da intendersi non alla stregua della discrezionalità amministrativa propriamente detta, bensì della discrezionalità vincolata che, anche in ambito penale, è funzionale ad assicurare l’adeguamento della risposta punitiva rispetto a ciascun caso concreto.

Laddove tale margine di discrezionalità vi sia, la reale insorgenza del credito sanzionatorio non può che ricollegarsi al momento in cui la potestà punitiva viene concretamente esercitata; conseguentemente potrà considerarsi concorsuale soltanto il credito derivante da provvedimenti sanzionatori anteriori all’apertura del fallimento o della liquidazione giudiziale. Nelle ipotesi (pur frequenti) in cui non sussista alcuno spazio di discrezionalità, perché la sanzione è determinata dalla legge in misura o in percentuale fissa, l’atto di irrogazione assume invece, verosimilmente, carattere meramente dichiarativo; ne discende che l’insorgenza del credito sanzionatorio (e quindi la sua concorsualità) dovrebbe essere verificata avendo riguardo esclusivamente al momento della commissione dell’illecito.



[2] Si vedano le due conformi, Cass., 27 settembre 2018, n. 23322, in Il fallimento, 2019, p. 635, con commento di E. Stasi, Le sanzioni tributarie pregresse nel concorso fallimentare, nonché Cass., 14 ottobre 2019, n. 25854. È opportuno precisare che le due pronunce scaturiscono da vicende processuali collegate, cioè da due giudizi di impugnazione ex art. 98, comma 3, l.fall. nei quali il curatore della medesima procedura fallimentare contestava l’ammissione al passivo di crediti vantati a titolo di sanzioni tributarie la cui domanda di ammissione proposta dall’agente della riscossione era stata accolta dal giudice delegato.

[3] Quanto detto nel presente contributo resterà valido, in linea generale, anche con la prossima entrata in vigore del codice della crisi e dell’insolvenza di cui al d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, che prevede la ridenominazione della procedura di fallimento con l’espressione, più neutra, di “liquidazione giudiziale”; invero, attesa la “salvezza della continuità delle fattispecie” prevista dall’art. 349 c.c.i. (“Nelle disposizioni normative vigenti i termini «fallimento», «procedura fallimentare», «fallito» nonché le espressioni dagli stessi termini derivate devono intendersi sostituite, rispettivamente, con le espressioni «liquidazione giudiziale», «procedura di liquidazione giudiziale» e «debitore assoggettato a liquidazione giudiziale» e loro derivati, con salvezza della continuità delle fattispecie”), sembra corretto ritenere che la sostituzione riguardi la denominazione della procedura e non la procedura in sé, sulla cui disciplina pure il codice interviene in numerosi punti.

[4] Il privilegio generale sui mobili era già in precedenza riconosciuto ai crediti dello Stato “per le imposte, le pene pecuniarie e le soprattasse dovute secondo le norme relative all’imposta sul valore aggiunto” dall’originario terzo (ed attuale secondo) comma del medesimo art. 2752 c.c.

[5] La delega legislativa avente ad oggetto la “revisione organica e il completamento della disciplina delle sanzioni tributarie non penali” è stata conferita con l’art. 3, comma 133, l. 23 dicembre 1996, n. 662, ed attuata con i decreti legislativi n. 471 (recante la “Riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi”), n. 472 (recante le “Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie”) e n. 473 (avente ad oggetto la “Revisione delle sanzioni amministrative in materia di tributi sugli affari, sulla produzione e sui consumi, nonché di altri tributi indiretti”), tutti del 18 dicembre 1997.

[6] Così, R. Cordeiro Guerra, voce: Sanzioni amministrative tributarie, Dig. disc. Priv., sez. comm., VIII Agg., Torino, 2017, p. 459; nello stesso senso, G. Tabet, Considerazioni introduttive, in AA.VV., La riforma delle sanzioni amministrative tributarie, a cura di G. Tabet, Torino, 2000, p. 5 e ss..

[7] In tal senso, L. Del Federico, Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, in AA.VV., Commento agli interventi di riforma tributaria, a cura di M. Miccinesi, Padova, 1999, p. 1066, secondo cui “la delega opta decisamente per la concezione “punitiva” delle sanzioni amministrative tributarie”, ed ancora: “l’opzione punitiva colloca ormai inequivocabilmente il sistema sanzionatorio tributario nell’ambito del diritto punitivo comune”; I. Manzoni, voce: Illecito amministrativo tributario, Enc. Dir., Annali, I, Accertamento – Tutela, Milano, 2007, p. 721; I. Manzoni, G. Vanz, Il diritto tributario. Profili teorici e sistematici, Torino, 2008, p. 475; R. Miceli, Il sistema sanzionatorio tributario, in AA.VV., Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, Torino, 2012, p. 917-917.

[8] Come, peraltro, era già avvenuto con riferimento alle sanzioni amministrative in genere, per effetto della codificazione dei principi generali applicabili in materia ad opera della l. 24 novembre 1981, n. 689.

[9] Così, R. Cordeiro Guerra, Il principio di personalità, in AA.VV., Trattato di diritto sanzionatorio tributario, diretto da A. Giovannini, t. II, Diritto sanzionatorio amministrativo, a cura di A. Giovannini, A. Di Martino, E. Marzaduri, Milano, 2016, p. 1448; id., voce: Sanzioni amministrative tributarie, Dig. disc. Priv., sez. comm., VIII Agg., cit., p. 461; I. Manzoni, voce: Illecito amministrativo tributario, Enc. Dir., cit., p. 724; I. Manzoni, G. Vanz, Il diritto tributario. Profili teorici e sistematici, cit., p. 475, secondo i quali il principio della personalità della pena è quello in base al quale “ad essere sanzionata può essere soltanto la persona fisica che abbia agito colpevolmente”; G. Tabet, Considerazioni introduttive, cit., p. 5.

[10] Cfr., F. Batistoni Ferrara, Principio di personalità, elemento soggettivo e responsabilità del contribuente, Dir. prat. trib., 1999, I, p. 1510-1511, dove si legge che “La natura delle violazioni punite con sanzione amministrativa, omogenea nella sostanza a quella delle violazioni costituenti reato, esige che l’applicazione della sanzione non possa aver luogo se l’azione o l’omissione che integra l’illecito non viene posta in essere da un soggetto imputabile e non è qualificata almeno da colpa, se non da dolo: occorre allora ammettere che il comportamento sanzionatorio non può essere riferito se non ad un essere umano: soggetti giuridici non umani non possono essere destinatari di sanzioni afflittive, giacché, per usare un vecchio latinetto, societas delinquere non potest. Ne è derivata l’adozione del principio di personalità cui si ispira il nuovo regime sanzionatorio amministrativo tributario, principio che comporta appunto, accanto alla necessaria riferibilità della violazione alla persona fisica, l’immediata e determinante rilevanza dell’elemento soggettivo risultante dall’art. 5, 1° comma, del d.lgs. n. 472 del 1997”.

[11] Per la coerenza del principio di intrasmissibilità delle sanzioni per causa di morte con quello di personalità, di cui il primo costituisce un corollario, si vedano, G. Marongiu, La nuova disciplina delle sanzioni amministrative tributarie, Dir. prat. trib., 1998, I, p. 277-278, il quale chiarisce che “il debito del defunto non perde mai la propria connotazione di punizione che non può essere eseguita nei confronti di un soggetto diverso dal trasgressore”; L. Del Federico, Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, cit., p. 1084; id., Il principio di personalità, in AA.VV., La riforma delle sanzioni amministrative tributarie, a cura di G. Tabet, cit., p. 22; A. Guidara, La successione nelle situazioni soggettive tributarie, Padova, 2018, p. 142.

[12] Si vedano, fra le tantissime, Corte Cost., ord. 30 aprile 2008, n. 125; ord. 4 luglio 2008, n. 256; sent. 5 luglio 2002, n. 319. Per una critica verso tale impostazione, però, cfr. I. Manzoni, voce: Illecito amministrativo tributario, Enc. Dir., cit., p. 728; I. Manzoni, G. Vanz, Il diritto tributario. Profili teorici e sistematici, cit., p. 481-482.

[13] Così, L. Del Federico, Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, cit., p. 1077; id., Il principio di personalità, cit., p. 11.

[14] L’espressione è mutuata da R. Cordeiro Guerra, Il principio di personalità, cit., p. 1450.

[15] A tal proposito occorre ricordare che anche il codice penale prevede alcune ipotesi di coinvolgimento di terzi nella responsabilità per il pagamento delle multe e delle ammende comminate al reo, e specificamente negli artt. 196 (rubricato “Obbligazione civile per le multe e le ammende inflitte a persona dipendente”) e 197 c.p. (rubricato “Obbligazione civile delle persone giuridiche per il pagamento delle multe e delle ammende”).

[16] La norma originariamente sancita dall’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 472/1997 è stata ricollocata nell’art. 11, primo comma, ad opera dell’art. 16, d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158.

[17] Si veda in tal senso, G. Tabet, Considerazioni introduttive, cit., p. 5, che già rilevava la “forte attenuazione” del principio di personalità.

[18] Così, R. Cordeiro Guerra, Il principio di personalità, cit., p. 1456; si veda anche, R. Miceli, Il sistema sanzionatorio tributario, cit., p. 934, secondo la quale l’intervento legislativo del 2003 “ha realizzato un violento innesto nel sistema sanzionatorio amministrativo tributario, che ha rotto l’equilibrio che governava l’impianto del d.lgs. n. 472/1997”.

[19] In tal senso, I. Manzoni, voce: Illecito amministrativo tributario, Enc. Dir., cit., p. 729; I. Manzoni, G. Vanz, Il diritto tributario. Profili teorici e sistematici, cit., p. 484. Sul tema si vedano anche L. Murciano, La “nuova” responsabilità amministrativa tributaria delle società e degli enti dotati di personalità giuridica: l’art. 7 del d.l. n. 269/2003, Riv. dir. trib., 2004, I, p. 657 e ss.; G. Marongiu, Le sanzioni amministrative tributarie: dall’unità al doppio binario, Riv. dir. trib., 2004, I, p. 402 e ss..

[20] Così, ancora, R. Cordeiro Guerra, Il principio di personalità, cit., p. 1459.

[21] Così, F. Dami, Alcune riflessioni sull’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie nelle procedure concorsuali, Rass. trib., 2002, p. 1288; la tesi è fatta propria da F. Brighenti, Procedure concorsuali e sanzioni tributarie. I soggetti passivi tra riforme e controriforme, Boll. Trib., 2005, p. 1451, la quale afferma che “Addossando le sanzioni alla massa, l’onere patrimoniale della misura viene infatti a gravare su soggetti diversi da quello cui è imputabile l’illecito; la decurtazione patrimoniale apprestata dalla legge come deterrente nei confronti dei potenziali trasgressori non colpirebbe l’autore dell’illecito (e quindi sarebbe inutiliter data) ma inciderebbe - in ragione della falcidia dell’attivo causata dall’applicazione delle sanzioni al fallimento - sul patrimonio di soggetti, come i creditori, nei confronti dei quali non ha alcuna ragion d’essere”, ed aggiunge: “Giova poi ricordare che, oltre al carattere specialpreventivo, le misure punitive hanno anche natura retributiva; ora, se il vulnus patrimoniale che deve subire - a titolo riparatorio per avere leso o messo in pericolo gli interessi erariali – l’autore dell’infrazione, ricade, invece, su soggetti incolpevoli, si può capire quanto aberrante sia l’applicazione delle sanzioni tributarie al fallimento”; ed inoltre da M. Mauro, Imposizione fiscale e fallimento, Torino, 2011, p. 43, secondo cui “il debito tributario per sanzioni irrogate all’imprenditore insolvente, insinuandosi al passivo fallimentare in concorso con gli altri crediti verso il fallito, finisce per compromettere la possibilità di soddisfazione degli altri creditori concorrenti che subiscono in concreto la punizione connessa ad una violazione tributaria con la quale non hanno alcuna relazione”; nello stesso senso, pur con la specificazione di cui si dirà nel prosieguo, G. Selicato, Insinuazione al passivo del credito per sanzioni e possibile lesione della par condicio creditorum, Giur. imp., 2012, p. 50; id., L’applicazione delle sanzioni tributarie nelle procedure concorsuali di tipo liquidatorio, in AA.VV., Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, a cura di F. Paparella, Milano, 2013, p. 459-460. Dubbi sulla ragionevolezza dell’obbligo di pagamento delle sanzioni tributarie nell’ipotesi di procedure concorsuali liquidatorie, infine, sono prospettati anche da F. Paparella, La partecipazione delle sanzioni amministrative tributarie al riparto nelle procedure concorsuali, Rass. trib., 2015, p. 605.

[22] Il principio dell’intrasmissibilità delle sanzioni agli eredi, come visto in precedenza, è strettamente collegato con quello di personalità, rappresentandone un corollario.

[23] In tal senso sempre, F. Dami, Alcune riflessioni sull’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie nelle procedure concorsuali, cit., p. 1288; è doveroso rilevare come l’argomento dell’assimilazione del fallimento alla “morte civile” dell’imprenditore non sia ripreso dagli altri Autori citati nella nota precedente.

[24] Così, M. Mauro, Imposizione fiscale e fallimento, cit., p. 46; negli stessi termini, già, F. Dami, Alcune riflessioni sull’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie nelle procedure concorsuali, cit., p. 1290, secondo cui, se da un lato, “pure nelle procedure concorsuali [come nella morte dell’autore della violazione; n.d.a.], vi è la necessità di evitare una (altrettanto ingiustificata) deviazione del credito erariale concernente le sanzioni tributarie”, dall’altro lato vi è pure “quella (altrettanto giustificata) di preservare la medesima funzione afflittiva propria di quello strumento (la sanzione) che l’ordinamento pone a presidio del corretto adempimento degli obblighi tributari”.

[25] Così, ancora, M. Mauro, Imposizione fiscale e fallimento, cit., p. 44.

[26] Così, F. Dami, Alcune riflessioni sull’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie nelle procedure concorsuali, cit., p. 1291, secondo il quale “si potrebbe allora ipotizzare una sorta di “congelamento” del relativo credito che l’Amministrazione finanziaria potrebbe (rectius: dovrebbe) far valere nei (soli) confronti dell’autore delle violazioni agendo con riferimento ai beni (eventualmente) residuati dalla medesima e (re)immessi nella giuridica disponibilità dell’imprenditore tornato in bonis o, comunque, sul patrimonio che si ricostituirà in capo ad esso in seguito alla cessazione degli effetti del concorso”; conforme, M. Mauro, Imposizione fiscale e fallimento, cit., p. 45.

[27] Di quanto detto nel testo appare consapevole anche M. Mauro, Imposizione fiscale e fallimento, cit., p. 44, nota n. 78, secondo il quale “più sfumata appare, invece, l’evidenziata aporia con riferimento alle società e agli enti dotati di personalità giuridica allorché si valorizzi l’intervento normativo di cui al D.L. n. 269/2003 al fine di evidenziare la diversa natura delle sanzioni irrogate a tali soggetti che giustificherebbe l’esigibilità del relativo credito anche nell’ambito del fallimento”; anche L. Del Federico, I crediti tributari nella fase di accertamento del passivo, in AA.VV., I crediti nel fallimento, a cura di G. Villanacci, Padova, 2015, p. 640, nota n. 9, rileva come la tesi in commento sia “disarmonica rispetto al differenziato profilo soggettivo dell’illecito tributario imputabile all’imprenditore individuale ed alle società”. È opportuno precisare che la tesi qui criticata è stata inizialmente formulata (cfr., F. Dami, Alcune riflessioni sull’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie nelle procedure concorsuali, cit., p. 1287 e ss.) anteriormente al d.l. n. 269/2003. Come visto in precedenza, tuttavia, anche l’originario impianto del d.lgs. n. 472/1997 presentava rilevanti deviazioni dal rigoroso rispetto del principio di personalità nella fase di individuazione del soggetto destinatario della sanzione.

[28] Cfr., E. Stasi, Le sanzioni tributarie pregresse nel concorso fallimentare, cit., p. 640, nota n. 8.

[29] Si veda, al riguardo, G. Bonelli, Del fallimento, a cura di V. Andrioli, Milano, 1938, vol. I, p. 469 e ss., il quale, dopo aver ricordato che l’idea secondo cui dal fallimento deriverebbe una “successione universale nel patrimonio del debitore” incontrò molto seguito nella Germania del XVIII secolo, ed aver segnalato la “variante francese” di tale teoria, che considerava il fallito “come un ammalato di malattia sui generis che lo induce in stato catalettico, una specie di paralisi che lo fa rimaner di botto nella posizione giuridica in cui si trovava al momento della dichiarazione” (così, p. 469-470), affermava l’evidente inaccettabilità dell’equiparazione del fallito a un defunto, così argomentando: “a parte che il fallimento è un procedimento che ha un termine, e quindi male gli si addice la comparazione con un fatto irrimediabile e definitivo come la morte, se il fallito conserva anche durante il fallimento un patrimonio, la capacità giuridica, e la possibilità di entrare in rapporti con altri, vuol dire che egli non è punto cadavere, né in stato di catalessi, ma bensì vivo giuridicamente, come fisicamente” (così, p. 471). La tesi del fallimento come “morte civile” del debitore risale, invero, all’esperienza giuridica bassomedievale, nella quale la regolamentazione dell’insolvenza aveva, come noto, carattere essenzialmente repressivo e si organizzava intorno alla pena fondamentale del “bando”, che “non consisteva in una singola punizione ma si componeva di una serie di conseguenze penali indirizzate all’effetto finale della esclusione del bandito dalla società civile”, posto che “all’esilio si accompagnava la perdita del diritto di cittadinanza; accanto a queste conseguenze costitutive del nucleo essenziale della pena ve ne erano poi di altre: come la perdita del potere di chiedere giustizia, del diritto di assistenza legale e la mancata protezione delle aggressioni” (così, F. Di Marzio, Fallimento, Storia di un’idea, Milano, 2018, p. 51; sul bando si veda anche, U. Santarelli, Mercanti e società tra mercanti, Torino, 1989, p. 68 e ss.). Proprio il durissimo regime punitivo riservato al fallito spiega il senso di affermazioni quali “decoctor pro mortuo habetur” che “ritornano spesso nei vecchi commercialisti” (così, di nuovo, G. Bonelli, Del fallimento, a cura di V. Andrioli, cit., vol. I, p. 469, da cui alcuni richiami) e sulla base delle quali sarebbe poi stata elaborata la teoria del fallimento come “morte civile”; le considerazioni sin qui svolte concorrono tuttavia a spiegare le ragioni per cui una simile ricostruzione appaia oggi (ed apparisse già quasi un secolo fa) assolutamente inaccettabile.

[30] Così, testualmente, F. Dami, Alcune riflessioni sull’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie nelle procedure concorsuali, cit., p. 1289.

[31] Né sembra che utili argomenti a favore dell’assimilazione del fallimento alla morte (o all’incapacità) del debitore possano trarsi dalla norma (attualmente dettata dall’art. 43, comma 3, l.fall. e, analogamente, dall’art. 143, comma 3, c.c.i.) secondo cui il fallimento o l’apertura della liquidazione giudiziale determinano l’interruzione del processo, al pari di quanto prevede il codice di rito per il caso di morte o di perdita della capacità della parte o del suo procuratore. La regola in parola, infatti, si propone di agevolare il subentro del curatore nelle controversie già pendenti relative ai rapporti di diritto patrimoniale compresi nella procedura concorsuale, completando sul piano processuale la realizzazione del c.d. “spossessamento” del debitore insolvente; a dimostrazione di quanto appena detto, si può ad esempio rilevare che, nonostante la precisazione sia esplicitata nei soli primi commi degli artt. 43 l.fall. e 143 c.c.i., anche la causa di interruzione in parola si applica soltanto ai giudizi relativi a rapporti giuridici compresi nel fallimento o nella liquidazione giudiziale (così, tra gli altri, F. Marelli, commento all’art. 43 l.fall., in AA.VV., Il nuovo diritto fallimentare, diretto da A. Jorio, coordinato da M. Fabiani, Bologna, 2006, t. I, p. 714-715; E. Frascaroli Santi, Il diritto fallimentare e delle procedure concorsuali, Padova, 2012, p. 176). Sul punto si veda inoltre, S. Pacchi, commento all’art. 43 l.fall., in AA.VV., La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di A. Nigro, M. Sandulli, V. Santoro, Torino, 2010, t. I, p. 588, secondo cui “in alcun modo l’effetto processuale fissato nell’art. 43 può essere ricollegato ad una ridotta capacità d’agire del fallito o ad una sopravvenuta incapacità del fallito a stare in giudizio”.

[32] Per alcuni riferimenti si vedano, G. Cavalli, Gli effetti del fallimento per il debitore, in S. Ambrosini, G. Cavalli, A. Jorio, Il fallimento, Padova, 2009, p. 324; R. Rosapepe, Effetti nei confronti del fallito, in AA.VV., Trattato di diritto fallimentare, diretto da V. Buonocore, A. Bassi, vol. II, Gli organi. Gli effetti. La disciplina penalistica, Padova, 2010, p. 236 e ss.. Per approfondimenti, A. Bonsignori, Il fallimento, Padova, 1988, p. 291 e ss.; G. Ragusa Maggiore, Diritto fallimentare, Napoli, 1974, vol. I, p. 246 e ss..

[33] Così, la citata Cass., 27 settembre 2018, n. 23322; nella successiva pronuncia del 2019 la Corte conferma la propria posizione, sul punto limitandosi a ribadire che “il fallimento non equivale alla morte dell’imprenditore, tanto che con esso il contribuente non viene privato della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario”.

[34] Cfr., G. Selicato, Insinuazione al passivo del credito per sanzioni e possibile lesione della par condicio creditorum, cit., p. 53; id., L’applicazione delle sanzioni tributarie nelle procedure concorsuali di tipo liquidatorio, cit., p. 459-460.

[35] In realtà, il possibile aumento della falcidia fallimentare in conseguenza dell’ammissione al passivo del credito sanzionatorio interesserebbe soltanto i crediti di rango inferiore a quello sanzionatorio, mentre quelli di rango pozione non ne sarebbero incisi.

[36] In senso opposto, però, G. Selicato, Insinuazione al passivo del credito per sanzioni e possibile lesione della par condicio creditorum, cit., p. 53-54; id., L’applicazione delle sanzioni tributarie nelle procedure concorsuali di tipo liquidatorio, cit., p. 460. Sul presupposto per cui la lesione del principio di personalità e la vanificazione della funzione afflittiva della pena si verificherebbero soltanto nell’ipotesi di incapienza dell’attivo alla soddisfazione integrale del passivo, comprensivo del credito sanzionatorio, l’Autore citato sembrerebbe voler attribuire al “giudice del fallimento” il compito di stabilire, ex ante, se sussistano le condizioni perché ciò si verifichi e, solo sulla base di tale accertamento, il potere di escludere eventualmente il credito sanzionatorio dal passivo fallimentare. A prescindere dal presupposto sul quale si basa tale ricostruzione (che, cioè, l’ammissione al passivo del credito sanzionatorio possa ritenersi, seppure in talune ipotesi, contrario al principio di personalità della sanzione), la stessa non tiene conto del fatto che il “giudice del fallimento” non ha alcun potere di escludere discrezionalmente dal passivo un credito di cui è accertata l’esistenza e la concorsualità (né di escludere la concorsualità di un credito in base alla capienza o meno dell’attivo rispetto al passivo, la cui determinazione dipende a sua volta dall’accertamento concorsuale dei crediti; in ciò si nota anche una certa “circolarità” del ragionamento sotteso alla posizione dottrinale in commento). Occorre infine considerare che la condizione al verificarsi della quale l’Autore richiamato collega il potere del Giudice di escludere il credito sanzionatorio dal passivo, oltre ad essere concretamente assai difficile da accertare ex ante (come dallo stesso Autore riconosciuto; cfr., G. Selicato, Insinuazione al passivo del credito per sanzioni e possibile lesione della par condicio creditorum, cit., p. 53-54; id., L’applicazione delle sanzioni tributarie nelle procedure concorsuali di tipo liquidatorio, cit., p. 460), potrebbe concretizzarsi successivamente alla formazione dello stato passivo, ad esempio in conseguenza di domande d’insinuazione proposte tardivamente da altri creditori; in tale ipotesi si avrebbe che un credito già accertato ed ammesso al passivo  “perderebbe” il riconoscimento della propria concorsualità (e quindi il titolo per la propria ammissione al passivo) in conseguenza della proposizione di una domanda di ammissione tardiva proposta da un altro creditore.

[37] In tal senso, G. D’Angelo, L’insinuazione al passivo fallimentare del credito tributario, in AA.VV., La riscossione dei tributi, a cura di M. Basilavecchia, S. Cannizzaro, A. Carinci, Milano, 2011, p. 317, secondo il quale le tesi in esame, pur “animate dall’intento di mediare tra interessi dei creditori concorrenti e interesse punitivo del fisco”, non sarebbero “praticabili de jure condito”; conformi le opinioni di L. Del Federico, I crediti tributari nella fase di accertamento del passivo, cit., p. 640, nota n. 9, dove si legge che la tesi criticata risulta, tra l’altro, priva di base normativa; M. Pierro, L’insinuazione dei crediti da sanzioni tributarie e la rilevanza del ruolo, Corr. Trib., 2010, p.  2376.

[38] Sul rilievo anche soggettivo del principio di capacità contributiva, cfr., P. Boria, I principi costituzionali dell’ordinamento fiscale, in AA.VV., Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, cit., p. 89, il quale ricorda che “il soggetto chiamato al pagamento sostanziale e definitivo del tributo deve essere quello che ha realizzato il fatto indice di capacità contributivo”; id., Diritto tributario, Torino, 2016, p. 37; I. Manzoni, G. Vanz, Il diritto tributario. Profili teorici e sistematici, cit., p. 178. È opportuno precisare che il principio di capacità contributiva, anche nella sua accezione soggettiva cui si è fatto riferimento nel testo, non osta in assoluto a che la legge imputi l’obbligazione tributaria a soggetti diversi da quello al quale è riferibile l’indice di capacità contributiva assunto a tassazione. Ciò è infatti possibile, a condizione però che la legge predisponga anche dei meccanismi in grado di assicurare la fisiologica ricomposizione dell’identità tra soggetto titolare della capacità contributiva colpita e soggetto effettivamente inciso dall’obbligo di versamento dell’imposta, dotando quest’ultimo “di mezzi adeguati per trasferire la prestazione tributaria sul soggetto portatore di capacità contributiva” (così, ancora, P. Boria, I principi costituzionali dell’ordinamento fiscale, cit., p. 89). Il principale mezzo impiegato a tal fine dall’ordinamento è rappresentato dalla rivalsa, mediante la quale i rapporti tra i soggetti privati coinvolti nell’attuazione del prelievo vengono regolati proprio al fine di raggiungere lo scopo indicato (in tal senso, con riguardo alla definizione della rivalsa, L. Salvini, voce: Rivalsa nel diritto tributario, in Dig. disc. priv., Sez. comm., vol. XIII, Torino, 1996, p. 31; si veda anche, V. Ficari, voce: Sostituto e responsabile di imposta, in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Milano, 2006, vol. VI, p. 5639; sulla rilevanza pubblicistica degli interessi tutelati dalle norme in tema di rivalsa, si veda diffusamente anche F. Randazzo, Le rivalse tributarie, Milano, 2012, passim, ed in particolare, p. 117 e ss.).

[39] Le due pronunce con le quali, a breve distanza di tempo, la Suprema Corte ha affrontato la questione (Cass., 27 settembre 2018, n. 23322, e Cass., 14 ottobre 2019, n. 25854) scaturiscono entrambe da ricorsi proposti ex art. 99, comma 12, l.fall. dal medesimo curatore del fallimento di una società in accomandita semplice avverso due distinti provvedimenti con cui il Tribunale di Firenze aveva rigettato l’impugnazione proposta dallo stesso curatore ex art. 98, comma 3, l.fall. avverso l’ammissione al passivo della ridetta procedura di crediti sanzionatori chiesta ed ottenuta dall’agente della riscossione. Nelle due ordinanze in oggetto, dunque, la Cassazione si è trovata ad esaminare le stesse doglianze, ed analoghe sono anche le motivazioni con le quali, come in parte già visto, tali doglianze sono state rigettate.

[40] Nella formulazione successiva alle modifiche apportate nel 2011.

[41]Così, nel richiamare i motivi di ricorso, Cass., 14 ottobre 2019, n. 25854; nel ricorso da cui è scaturita l’ordinanza n. 23322 del 2018 la curatela del fallimento assumeva al riguardo una posizione meno netta, sostenendo purtuttavia (così risulta sempre dalla narrativa della pronuncia di legittimità) che “In questa direzione di inammissibilità del credito fondato su sanzione tributaria, deve essere interpretata anche la norma di cui all’art. 2752 c.c., in quanto, secondo il ricorrente, la stessa opererebbe su un piano distinto da quello riguardante la formazione dello stato passivo e, in ogni caso, dovrebbe essere interpretata alla luce dei sopra richiamati canoni di responsabilità penale dell’illecito”.

[42] Sulla riconducibilità del c.d. “privilegio fiscale” nell’ambito della nozione generale di privilegio, cfr., S. Ghinassi, voce: Privilegi fiscali, End. dir., Agg. II, Milano, 1998, p. 722, ove si legge che “il privilegio fiscale non si differenzia pertanto per sua natura da quello che assiste gli altri crediti e partecipa quindi dei medesimi caratteri”; sui privilegi dei crediti tributari si vedano anche C. Glendi, voce: Privilegi. II) Privilegi del credito d’imposta, Enc. giur., Roma, 1991, p. 1 e ss.; F. Batistoni Ferrara, I privilegi, in AA.VV., Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, vol. II, Il rapporto giuridico tributario, Padova, 1994, p. 317 e ss..

[43] Così, per tutti, C.M. Bianca, Diritto civile, vol. 7, Le garanzie reali. La prescrizione, Milano, 2012, p. 15-16; si veda anche, A. Ravazzoni, voce: Privilegi,  Dig. disc. priv., sez. civ., vol. XIV, Torino, 1996, p. 372, dove si legge che “il privilegio è ragione legittima di prelazione accordata dalla legge in considerazione della causa del credito”, e determina “il diritto di essere preferito, in sede di realizzazione coattiva del credito, agli altri creditori concorrenti”. Tale nozione del privilegio si ricava peraltro dalla chiarissima definizione che ne forniva l’art. 2095 del code civil napoleonico (ed attualmente ribadita, negli stessi termini, dall’art. 2234 del vigente codice civile francese), secondo cui “il privilegio è un diritto che la qualità del credito attribuisce ad un creditore di essere preferito agli altri creditori, anche ipotecari”.

[44] Così, S. Ciccarello, voce: Privilegio (dir. priv.), Enc. dir., vol. XXXV, Milano, 1986, p. 726; nello stesso senso, A. Patti, I privilegi, Milano, 2003, p. 28, il quale evidenzia “il carattere della relatività, peculiarmente proprio […] del privilegio, per lo stretto collegamento con il concetto di concorso”.

[45] Cfr., A. Ravazzoni, voce: Privilegi,  Dig. disc. priv., sez. civ., cit., p. 372, il quale osserva che “la natura privilegiata del credito, in quanto tale, non altera in modo diretto il rapporto fra creditore e debitore; ma è destinata ad esplicare i suoi effetti, in modo particolare nei confronti degli altri creditori, nell’ambito del procedimento esecutivo, per la realizzazione coattiva del diritto di credito”.

[46] In effetti, il concorso dei creditori può concretizzarsi anche nelle procedure esecutive individuali, qualora vi sia l’intervento di altri creditori oltre a quello che ha promosso l’azione esecutiva; ed infatti l’art. 510 c.p.c. disciplina la distribuzione della somma ricavata distinguendo a seconda che vi sia o meno “un solo creditore pignorante senza intervento di altri creditori”, cioè a seconda che si sia o meno in presenza di più creditori concorrenti sul ricavato dell’espropriazione, disponendo nel primo caso che “il giudice dell’esecuzione, sentito il debitore, dispone a favore del creditore pignorante il pagamento di quanto gli spetta per capitale, interessi e spese”(così il primo comma del richiamato art. 510 c.p.c.) e, nel secondo, che “la somma ricavata è dal giudice distribuita tra i creditori a norma delle disposizioni contenute nei capi seguenti, con riguardo alle cause legittime di prelazione e previo accantonamento delle somme che spetterebbero ai creditori intervenuti privi di titolo esecutivo i cui crediti non siano stati in tutto o in parte riconosciuti dal debitore” (così il secondo comma dell’art. 510 c.p.c.). Anche nelle procedure esecutive individuali, quindi, i privilegi possono esplicare la propria funzione, sempre però a condizione che vi siano più creditori concorrenti e che la somma ricavata non sia sufficiente a pagare tutti i loro crediti.

[47] Così, G. Tucci, I privilegi, in AA.VV., Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, vol. 19, Tutela dei diritti – I, Torino, 1997, p. 606; A. Patti, I privilegi, cit., p. 29; S. Ciccarello, voce: Privilegio (dir. priv.), Enc. dir., cit., p. 740, il quale rileva che il fallimento rappresenta l’“ipotesi in cui ricorrono i due elementi necessari e sufficienti perché il privilegio abbia modo di esplicare la sua funzione: un concorso di più creditori, e la inidoneità dei beni (perché insufficienti) a realizzare il pieno soddisfacimento delle pretese creditorie. Il primo dato è essenziale nel fallimento, l’altro ricorre normalmente come logico corollario dello stato di insolvenza”.

[48] Cfr., principalmente, Cass., 27 settembre 2018, n. 23322, nella quale si legge che “il differimento dell’esigibilità del credito sanzionatorio al momento in cui, eventualmente, il soggetto fallito tornerà in bonis”, comporterebbe “una illegittima postergazione dei crediti derivanti da sanzioni in contrasto con l’art. 2572 c.c., il quale fissa una disciplina imperativa in ordine al privilegio in materia tributaria, del tutto uniforme tanto per le imposte quanto per le sanzioni”.

[49] Altri pacifici caratteri dei privilegi, che si ricavano dall’art. 2745 c.c., sono quello della loro necessaria legalità e quello, conseguente al primo, della tipicità; i privilegi, in definitiva, “emanano direttamente dalla volontà del legislatore […] non potendosene ammettere altri al di fuori di quelli espressamente stabiliti dalla legge” (così, A. Patti, I privilegi, cit., p. 17); nello stesso senso, S. Ciccarello, voce: Privilegio (dir. priv.), Enc. dir., cit., p. 726; A. Ravazzoni, voce: Privilegi, Dig. disc. priv., sez. civ., cit., p. 373.

[50] A tal proposito occorre anche considerare che, come ricorda la stessa Suprema Corte nella più recente delle due pronunce rese sull’argomento (cfr., Cass., 14 ottobre 2019, n. 25854), il legislatore gode di ampia discrezionalità nell’attribuzione della qualifica privilegiata in ragione della particolare causa del credito (sulla cui nozione si veda A. Ravazzoni, voce: Privilegi, Dig. disc. priv., sez. civ., cit., p. 375), salvo soltanto il limite costituito dalla eventuale manifesta irragionevolezza delle scelte legislative (limite che nel caso di specie è assai difficile che possa ritenersi superato).

[51] Così, tra i tanti, U. Apice, S. Mancinelli, Il fallimento e gli altri procedimenti di composizione della crisi, Torino, 2012, p. 119, ove si afferma che “requisito essenziale del credito per essere definito concorsuale è, quindi, la sua anteriorità rispetto al fallimento del debitore”; in giurisprudenza, cfr., Cass., 8 agosto 2013, n. 19025, secondo cui la “completa cristallizzazione del patrimonio del fallito” mira “allo scopo di porre detto patrimonio al riparo dalle pretese di soggetti che vantino titoli formatisi in epoca successiva alla dichiarazione del fallimento, e quindi impedire che siano fatti valere, nel concorso fallimentare, pretese aggiuntive rispetto a quelle facenti parte del patrimonio del fallito alla data della sentenza di fallimento”; da ultimo, Cass., SS.UU., 23 novembre 2018, n. 30416, dove si afferma che, in virtù del richiamato principio, “il patrimonio del fallito è, infatti, insensibile alle pretese di soggetti che vantino titoli formatisi in epoca posteriore alla dichiarazione di fallimento”. Sulla ratio di tale regola, si veda ampiamente, A.A. Dolmetta, La data certa. Conflitto tra creditori e disciplina dell’impresa, Milano, 1986, p. 4 e ss..

[52] In tal senso, P. Russo, L’obbligazione tributaria, in AA.VV., Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, vol. II, Il rapporto giuridico tributario, cit., p. 10.

[53] Si veda, da ultimo, Cass., 26 novembre 2019, n. 30737, resa all’esito di un giudizio nel quale era controversa l’anteriorità del credito tributario rispetto all’atto dispositivo verso cui era stata proposta un’azione revocatoria ai sensi dell’art. 2901 c.c.; a tal proposito la Corte afferma quanto segue: “Costituisce ius receptum che il credito tributario si determini con riferimento agli anni di imposta e non con riferimento al momento del successivo accertamento. Al verificarsi dei presupposti il contribuente è tenuto a liquidare l’imposta dovuta, a corrisponderla all’amministrazione finanziaria ed a comunicare l’avvenuta corresponsione; l’attività dell’amministrazione è diretta al controllo della dichiarazione, ma l’obbligazione tributaria nasce con il verificarsi dei relativi presupposti, sicché l’attività dell’amministrazione è da ritenersi strumentale rispetto all’accertamento di un credito già sorto e non può essere considerata sotto il profilo genetico dell’obbligazione”; per altri riferimenti, con particolare riguardo proprio alla concorsualità del credito tributario, cfr. G. Rocco, Il debito fiscale nelle procedure concorsuali - Parte I - I debiti sorti prima della procedura (2006 – 2015), Dir. prat. trib., 2015, II, p. 1156 e ss., secondo il quale “È oramai pacifico che i crediti tributari sorgono ex lege nel momento in cui si avvera il presupposto e non quando viene emanato l’atto amministrativo di accertamento”; L. Del Federico, L’accertamento del passivo fallimentare per i crediti tributari, in AA.VV., Le riforme della legge fallimentare, a cura di A. Didone, Torino, 2009, vol. II, p. 2041-2042; L. Gambi, Erario e fallimento, Padova, 2017, p. 157 e ss.. La posizione della giurisprudenza incontra il favore di quella parte della dottrina orientata a collegare l’insorgenza dell’obbligazione tributaria direttamente alla realizzazione del fatto indice di capacità contributiva; si veda in tal senso nuovamente P. Russo, L’obbligazione tributaria, cit., p. 10, secondo il quale “la trama delle vigenti disposizioni rivela all’evidenza e sotto molteplici profili che il rapporto di debito-credito nasce fra contribuente e amministrazione finanziaria sol che si realizzi il fatto indice di capacità contributiva considerato dalla norma impositiva: quindi, prima ed a prescindere dall’emanazione di qualsivoglia atto dell’amministrazione stessa. Ciò avviene (di nuovo procedendo in via soltanto esemplificativa) ai fini dell’individuazione del regime applicabile in vaso di successione delle leggi tributarie nel tempo: della trasmissibilità agli eredi del debito d’imposta; dell’ammissione in seno alle procedure concorsuali del credito corrispondente e delle cause di prelazione che l’assistono; della decorrenza degli interessi”. Nello stesso senso, con particolare riguardo alla valutazione della concorsualità del debito d’imposta, M. Miccinesi, voce: Fallimento nel diritto tributario, Dig. disc. priv., sez. comm., vol. V, 1990, p. 471; M. Mauro, Imposizione fiscale e fallimento, cit., p. 91.

[54] Così, L. Del Federico, L’accertamento del passivo fallimentare per i crediti tributari, cit., p. 2042; id., I crediti tributari nella fase di accertamento del passivo, cit., p. 641; G. D’Angelo, L’insinuazione al passivo fallimentare del credito tributario, cit., p. 317;

[55] Con ciò intendendo “ogni atto conclusivo del segmento procedimentale avente ad oggetto l’accertamento dell’illecito e l’applicazione della sanzione, autonomamente idoneo a produrre effetti diretti nella sfera giuridica del soggetto passivo” (così, L. Del Federico, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 1993, p. 511).

[56] Così, sempre, L. Del Federico, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 1993, p. 512-513.

[57] Così, Cass., 13 settembre 2013, n. 20978, da cui il richiamo a numerosi altri precedenti, relativi sia al credito tributario propriamente detto sia al credito sanzionatorio; per altri riferimenti, G. Rocco, Il debito fiscale nelle procedure concorsuali - Parte I - I debiti sorti prima della procedura (2006 – 2015), cit., p.  1159; L. Gambi, Erario e fallimento, cit., 159-160.

[58] Così, F. Tesauro, Appunti sugli adempimenti fiscali del curatore fallimentare, Rass. trib., 1990, I, p. 242.

[59] Sul punto si veda ancora P. Russo, L’obbligazione tributaria, cit., p. 10-11, secondo il quale affermare la natura dichiarativa dell’accertamento e, contestualmente, collocare temporalmente l’insorgenza dell’obbligazione tributaria al momento del verificarsi del fatto imponibile “si risolve, sia pure inconsapevolmente nella pretesa di attribuire una costante ma inammissibile efficacia retroattiva al provvedimento assunto quale fonte dell’obbligazione”.

[60] Così la già citata Cass., 13 settembre 2013, n. 20978

[61] È questo, principalmente, il caso delle sanzioni previste dall’art. 13, primo comma, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, per i ritardati o gli omessi versamenti diretti.

[62] Di opinione contraria, però, G. D’Angelo, L’insinuazione al passivo fallimentare del credito tributario, cit., p. 317, il quale attribuisce espressamente natura costitutiva anche alle iscrizioni a ruolo aventi ad oggetto sanzioni irrogate per il mancato versamento delle imposte dichiarate, affermando che, anche in detta ipotesi, “se il ruolo è notificato dopo l’apertura del fallimento, esso non può legittimare l’insinuazione del credito per sanzioni in quanto il momento costitutivo del credito è successivo all’apertura del fallimento”.

[63] Sul concetto di discrezionalità nel diritto amministrativo, cfr., E. Follieri, Situazioni giuridiche soggettive dell’amministrazione, in AA.VV., Diritto amministrativo, a cura di F.G. Scoca, Torino, 2011, p. 146 e ss., da cui ulteriori riferimenti; E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2012, p. 396-397.

[64] L’art. 132, comma 1 primo periodo, c.p., dispone che “Nei limiti fissati dalla legge, il giudice applica la pena discrezionalmente”; il successivo art. 133 c.p. stabilisce inoltre che “Nell’esercizio del potere discrezionale indicato nell’articolo precedente, il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta: 1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione; 2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; 3) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa”, ed aggiunge al secondo comma: “Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta: 1) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; 2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato; 3) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato; 4) dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo”. La dottrina penalistica prevalente riconosce che lo scopo delle due disposizioni appena menzionate è quello di attribuire carattere vincolato alla discrezionalità del giudice nella commisurazione della pena, cioè quello di “configurare la discrezionalità nella commisurazione della pena come realizzazione nel caso concreto dei giudizi di valore già espressi dalla legge” (così, G. Marinucci, E. Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2009, p. 553), salvo talvolta dubitare che “tale opzione legislativa si sia tradotta in realtà” (così, G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2004, p. 727), ed in ogni caso avvertire come la giurisprudenza abbia tendenzialmente respinto tali indicazioni legislative.

[65] In tal senso, però, L. Del Federico, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, cit., p. 526-527, secondo il quale anche alla base dell’esercizio della potestà sanzionatoria dell’Amministrazione Finanziaria vi sarebbero diversi interessi, e nel dettaglio: “- in primo luogo l’interesse tutelato, cioè l’interesse primario alla percezione dei tributi, pronta e perequata alla capacità contributiva, mediante l’esatto funzionamento del sistema tributario considerato globalmente; - indi l’interesse comprimario alla giusta sanzione, immanente a tutte le forme di potestà punitiva, consistente nel soddisfacimento delle finalità della sanzione, secondo la concezione della pluridimensionalità, e quindi delle funzioni di prevenzione speciale, retributiva e di prevenzione generale; - infine gli interessi privati alla salvaguardia dei diritti della persona, della proprietà e del patrimonio, ecc.”; l’Autore richiamato afferma quindi che “a fronte della violazione di una stessa norma di legge l’amministrazione (così come il giudice penale) potrà applicare a soggetti diversi sanzioni diverse, in ragione della diversa combinazione degli interessi in gioco, a seconda della differente rilevanza dei parametri di commisurazione nelle concrete fattispecie”. Per l’unicità dell’interesse protetto dal sistema sanzionatorio tributario, individuato nel valore costituzionale della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., P. Puri, voce: Illecito fiscale, Dig. disc. priv., sez. comm., vol. VI, Torino, 1991, p. 480 e ss., secondo cui “Proprio nella necessità che ciascun contribuente collabori, secondo le proprie capacità, alle spese dello Stato, risiede l’oggetto giuridico dell’obbligazione tributaria e dell’illecito fiscale” (così, p. 483), ed ancora: “Unico, dunque, appare l’interesse protetto dalla norma fiscale e ciò nel senso che se non ci fosse stato sullo sfondo il dovere costituzionale di contribuire alle pubbliche spese, non sarebbe stato necessario proteggere l’interesse alla percezione dei tributi, qualificando come illecite tutte quelle attività dirette all’evasione del dovere in oggetto” (p. 484); l’Autore da ultimo citato riconosce, peraltro, che a fronte dell’unicità dell’interesse tutelato, nel sistema sanzionatorio tributario possano scorgersi una molteplicità di funzioni “realizzate più o meno consapevolmente e necessariamente” (così, p. 485). Sempre nel senso dell’unicità del bene giuridico protetto dal sistema sanzionatorio tributario, P. Boria, Diritto tributario, cit., p. 554-556, che lo individua “nell’interesse fiscale dello Stato comunità, in quanto valore che compendia l’interesse generale della collettività ad una tempestiva contribuzione, in ragione della capacità contributiva, attraverso un efficiente funzionamento del sistema fiscale”.

[66] Diversamente, ancora, L. Del Federico, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, cit., p. 526, che critica la tesi (qui accolta) secondo cui la “discrezionalità penale” (dall’Autore denominata “discrezionalità del giudice”) si distingue dalla discrezionalità amministrativa, anche se vincolata, affermando che “anche la discrezionalità del giudice non può che concretarsi in una ponderazione comparativa di interessi”. Si veda invece M. Basilavecchia, Il procedimento di irrogazione: profili generali, in AA.VV., La riforma delle sanzioni amministrative tributarie, a cura di G. Tabet, cit., p. 158, il quale, pur rinviando alle posizioni espresse dalla dottrina precedentemente richiamata senza apparentemente esprimere alcuna riserva, sembra in effetti riconoscere la peculiarità della “discrezionalità penale” (che si esprime anche nell’esercizio della potestà punitiva da parte dell’Amministrazione Finanziaria) rispetto alla discrezionalità amministrativa propriamente detta, laddove afferma che “gli elementi sulla cui base veniva tratta la natura costitutiva dell’atto sanzionatorio restino a tutt’oggi validi, nella misura in cui quell’atto continua ad esprimere una discrezionalità, intesa ovviamente nel senso penalistico, dalla quale sola deriva la quantificazione della sanzione”.

[67] Così, Corte Cost., sent. 14 aprile 1980, n. 50, secondo la quale “In questi termini, sussiste di regola l’esigenza di una articolazione legale del sistema sanzionatorio, che renda possibile tale adeguamento individualizzato, “proporzionale”, delle pene inflitte con le sentenze di condanna. Di tale esigenza, appropriati ambiti e criteri per la discrezionalità del giudice costituiscono lo strumento normale. In linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono pertanto in armonia con il “volto costituzionale” del sistema penale ed il dubbio d’illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato”; da ultimo, nello stesso senso, Corte Cost., sent. 5 dicembre 2018, n. 222. Nella dottrina penalistica, si veda, F. Palazzo, Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, 2013, p. 584: “la discrezionalità della commisurazione è “voluta” dal legislatore in quanto necessaria per concretizzare la comminatoria edittale della pena, nel modo più adeguato possibile alle caratteristiche concrete del fatto storico; ed inoltre è una discrezionalità che il legislatore non subisce ma cerca di controllare e vincolare attraverso la predisposizione di criteri per il suo esercizio conforme allo scopo della commisurazione”.


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