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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 29/05/2020 Scarica PDF

L'improcedibilità delle istanze di fallimento: ratio legis, tassatività della deroga e corollari applicativi

Stefano Ambrosini, Professore ordinario di Diritto Commerciale nell'Università del Piemonte Orientale


Sommario: 1. L’improcedibilità dei ricorsi depositati fra il 9 marzo e il 30 giugno 2020: nozione, ambito di operatività e ratio legis. – 2. L’unica deroga prevista dalla norma. – 3. La non configurabilità di ulteriori deroghe e l’assenza di profili di incostituzionalità. – 4. I corollari applicativi dell’improcedibilità. – 5. L’inertizzazione del periodo “cuscinetto”.

   

1. L’improcedibilità dei ricorsi depositati fra il 9 marzo e il 30 giugno 2020: nozione, ambito di operatività e ratio legis.

Com’è noto, in base al primo comma dell’art. 10 del c.d. Decreto Liquidità (d.l. 8 aprile 2020, n. 23) tutti i ricorsi ai sensi degli articoli 15 e 195 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 e 3 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270 depositati nel periodo tra il 9 marzo 2020 ed il 30 giugno 2020 sono improcedibili.

La norma parla di improcedibilità, istituto introdotto dal codice di procedura civile vigente[1] rispetto a quello del 1865 (c.d. codice Pisanelli), che conosceva soltanto la figura dell’inammissibilità. La distinzione fra le due è stata ben colta in un volume di Renzo Provinciali del 1942[2], che distingueva fra condizioni di ingresso nel giudizio (ammissibilità) e condizioni di progresso del giudizio (procedibilità). L’assenza di entrambe le condizioni, a differenza delle nullità processuali, è, pacificamente, rilevabile d’ufficio[3].

A ben vedere, nella disposizione in esame sarebbe stato più appropriato definire i ricorsi, rispettivamente, improcedibili o inammissibili a seconda che essi risultassero pendenti o meno al momento dell’entrata in vigore della legge. Nella sostanza, peraltro, ciò non incide sulla sancita impossibilità per il tribunale, come si vedrà meglio nel prosieguo, di adottare pronunce diverse dalla declaratoria di improcedibilità dell’istanza di fallimento ove presentata nel periodo anzidetto.

Sul piano letterale, la norma parla esclusivamente di ricorsi “ai sensi degli articoli 15 e 195 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 e 3 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270”. Nondimeno, pare indubbio che, nell’ottica di perimetrarne puntualmente l’ambito di applicazione, l’improcedibilità vada estesa a quegli ulteriori casi, previsti dalla disciplina del concordato preventivo, in cui può aversi conversione della procedura “minore” in fallimento, vale a dire la revoca dell’ammissione al concordato ex art. 173 l. fall. e il diniego di omologazione ex art. 180 (oltre naturalmente alla declaratoria di inammissibilità in limine della domanda ex art. 162).

Al fine di interpretare rettamente la previsione in parola è certamente utile ricostruirne la ratio, quale perspicuamente enunciata nella Relazione illustrativa. In essa si legge che l’esigenza, per un periodo di tempo limitato, di sottrarre le imprese ai procedimenti finalizzati all’apertura del fallimento è dettata da una duplice ragione: da un lato, evitare di sottoporre il ceto imprenditoriale alla pressione crescente delle istanze di fallimento di terzi e sottrarre gli stessi imprenditori alla drammatica scelta di presentare istanza di fallimento in proprio in un quadro in cui lo stato di insolvenza può derivare da fattori esogeni e straordinari, con il pericolo di dispersione del patrimonio produttivo, senza alcun vantaggio per i creditori dato il momento in cui avrebbe luogo la liquidazione dei beni; dall’altro, bloccare un altrimenti crescente flusso di istanze in una situazione in cui gli uffici giudiziari già versano in forti difficoltà di funzionamento. Il legislatore ha dunque individuato una misura eccezionale e temporanea, ma di portata generale, alla luce dell’estrema difficoltà di subordinare la riconducibilità o meno dello stato di insolvenza all’emergenza determinata dal diffondersi della pandemia.

 

2. L’unica deroga prevista dalla norma.

In base al secondo comma dell’art. 10, le disposizioni di cui al comma primo non si applicano alla richiesta presentata dal pubblico ministero, a condizione che nella medesima sia fatta domanda di emissione dei provvedimenti di cui all'articolo 15, comma ottavo, l. fall.

Qui il legislatore, nel bilanciamento fra interessi contrapposti, ha opportunamente ritenuto preminente l’esigenza di reprimere, attraverso la persistente possibilità di ottenere la concessione di provvedimenti cautelari, comportamenti distrattivi o dissipativi.

Chiara è, sul punto, la Relazione illustrativa, ove si legge che in questi casi “la radicale improcedibilità verrebbe ad avvantaggiare le imprese che stano potenzialmente mettendo in atto condotte dissipative di rilevanza anche penale con nocumento dei creditori, compromettendo le esigenze di repressione di condotte caratterizzate da particolare gravità”.

Questa è, pertanto, l’unica eccezione introdotta dalla legge alla regola generale della improcedibilità dei ricorsi: donde la necessaria valorizzazione dell’argomentazione letterale, che per consolidata giurisprudenza di legittimità costituisce il criterio “principe” cui deve ispirarsi l’attività dell’interprete.

La scelta operata dal legislatore, seppur alquanto rigorosa, ha se non altro il pregio della chiarezza.

Naturalmente, in sede di conversione del decreto in legge potranno essere adottate soluzioni differenti, ad esempio escludendo dall’ambito applicativo della norma le istanze di fallimento in proprio. È tuttavia lecito augurarsi che non venga introdotto alcun elemento di perniciosa incertezza, quale sarebbe quello della necessaria riconducibilità dell’insolvenza all’emergenza epidemiologica, giacché ciò comporterebbe accertamenti tutt’altro che agevoli da effettuare, forieri, inevitabilmente, di applicazioni disomogenee proprio in un momento in cui gli operatori chiedono più che mai al legislatore di perseguire l’obiettivo della (ragionevole) certezza del diritto.

   

3. La non configurabilità di ulteriori deroghe e l’assenza di profili di incostituzionalità.

L’espressa previsione di un’unica eccezione all’improcedibilità delle istanze di fallimento, da un lato, e la ricostruzione della ratio legis nei termini di cui sopra, dall’altro, depongono concordemente nel senso del carattere tassativo della deroga relativa alla richiesta del pubblico ministero ove accompagnata dall’istanza cautelare di cui all’art. 15.

Non è dunque possibile individuare in via interpretativa situazioni derogatorie ulteriori rispetto a quella anzidetta, incluso il caso della richiesta dello stesso pubblico ministero non corredata dall’istanza relativa a misure cautelari.

Ciò vale anche per l’ipotesi in cui sia lo stesso imprenditore insolvente a instare per il proprio fallimento; tanto è vero che la Relazione illustrativa afferma, sul punto, che “il blocco si estende a tutte le ipotesi di ricorso, e quindi anche ai ricorsi presentati dagli imprenditori in proprio, in modo da dare anche a questi ultimi un lasso temporale in cui valutare con maggiore ponderazione la possibilità di ricorrere a strumenti alternativi alla soluzione della crisi di impresa senza essere esposti alle conseguenze civili e penali connesse ad un aggravamento dello stato di insolvenza che in ogni caso sarebbe in gran parte da ricondursi a fattori esogeni”.

Non risulta pertanto condivisibile la presa di posizione[4] – a quanto consta, peraltro, isolata – di una corte di merito, ad avviso della quale ha “l’art. 10 fa espresso riferimento ai ricorsi presentati ai sensi degli articoli 15 e 195 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 e 3 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, mentre manca un riferimento espresso all’art. 14 L.F., norma che disciplina in modo specifico il ricorso per fallimento in proprio dell’imprenditore; in tema, sebbene la Relazione Illustrativa esponga una interpretazione diversa e dia per scontato che la norma si applichi anche alla ipotesi di fallimento in proprio, il Collegio non può esimersi dal ricordare come la voluntas legis non possa che rilevare in senso oggettivo e debba in ogni caso desumersi in primis dal tenore letterale della norma, restando l’“intenzione” puramente soggettiva dei singoli rappresentati del potere legislativo del tutto irrilevante. Anche ammettendo l’applicabilità della norma al caso di specie, comunque, il Collegio rimarca come, se la ratio legis è quella di “sollevare” l’imprenditore dall’impellente onere di chiedere il fallimento in proprio (anche in relazione alla possibilità di accedere a soluzioni alternative alla crisi), tale esigenza non sussiste logicamente qualora la situazione di insolvenza si sia già pienamente manifestata e divenuta irretrattabile in un momento antecedente all’attuale situazione emergenziale”.

Deve in realtà ribadirsi, in senso contrario al precedente testé citato, che la regola dell’improcedibilità non soffre, per chiara intentio legis, eccezioni di sorta a parte quella esplicitamente contemplata dalla norma. Questa è la modalità con cui il nodo è stato gordianamente tagliato dal legislatore.

La norma, del resto, lungi dal poter essere considerata di natura dispositiva, presenta carattere imperativo e, come tale, è inderogabile, a prescindere dall’eventuale atteggiamento abdicativo del debitore rispetto alla possibilità di avvalersene. Per come è stata concepita e formulata, la disposizione produce di per sé i propri effetti, sicché non rientra nelle facoltà del debitore dichiarare se farne o meno ricorso. E per lo stesso motivo la norma prescinde dal rilievo ope exceptionis del debitore, potendo e dovendo l’improcedibilità – come in precedenza già ricordato – essere rilevata d’ufficio.

Resta a questo punto da domandarsi se una previsione siffatta possa presentare profili di incostituzionalità, dal punto di vista della lesione del diritto di difesa o della disparità di trattamento (artt. 24 e 3 Cost.)[5].

A ben vedere, il problema sussisterebbe se nel nostro ordinamento fosse configurabile, in capo a tutti gli imprenditori insolventi, un generale e indiscriminato “diritto di fallire”. Ciò tuttavia è smentito, a tacer d’altro, dalla regola della non fallibilità degli imprenditori cc.dd. sotto soglia ex art. 1 l. fall., che denota plasticamente la discrezionalità di cui gode il legislatore in materia. Il che trova conferma anche nella decisione assunta dalla Consulta nel 2009[6], nella quale vengono riportati i motivi formulati dall’Avvocatura di Stato, secondo i quali “la Corte costituzionale, nella giurisprudenza formatasi successivamente alla sentenza n. 570 del 1989, ha precisato che le considerazioni concernenti i criteri di applicabilità della disciplina delle procedure concorsuali correlati alle dimensioni economiche dell'imprenditore fallendo attengono alla sfera della discrezionalità del legislatore perché rientrano nell'ambito della generale politica economica e giudiziaria e a lui spetta la scelta delle varie soluzioni possibili”.

Riguardo poi al diritto del creditore di ottenere in ogni tempo il fallimento del proprio debitore insolvente, esso non può considerarsi presidiato dagli artt. 3 e 24 Cost. tutte le volte in cui la ridetta discrezionalità del legislatore sia esercitata all’insegna della ragionevolezza; ed è certamente questo il caso in questione, stante la necessità per il legislatore “al tempo del Coronavirus” di evitare il collasso del sistema imprenditoriale come effetto indesiderato di quel lockdown imposto dall’urgente tutela di un diritto di rango costituzionale come quello alla salute (art. 32 Cost.).

Proprio il fatto che l’art. 10 rientri fra le misure dettate a contenimento degli effetti economici dell’emergenza sanitaria, pertanto, rende assai arduo predicare l’esistenza di una denegata tutela con riferimento ai creditori che non possono ottenere il fallimento dei loro debitori insolventi.

Quanto infine all’aspetto della (da alcuni criticata) retroattività della norma nella misura in cui riguarda le istanze presentate prima del 9 marzo, è appena il caso di ricordare, a tacer d’altro, che il principio di irretroattività è costituzionalmente sancito soltanto in materia penale (art. 25 Cost.) e che il divieto di retroattività di cui alle disposizioni preliminari al codice civile (art. 11), in quanto contenuto in una legge ordinaria, è sempre derogabile ad opera di una fonte giuridica di pari grado.

All’atto pratico, ad ogni modo, la breve durata della “moratoria” priva di qualsiasi utilità le iniziative dirette ad ottenere una declaratoria di incostituzionalità, essendo pacifica la possibilità di ripresentare l’istanza a far tempo dal primo luglio prossimo.

 

4. I corollari applicativi dell’improcedibilità.

Dalle considerazioni che precedono discendono, direi quasi per inferenza necessaria, i seguenti corollari:

i. il solo provvedimento che deve considerarsi legittimamente reso è quello consistente nella declaratoria di improcedibilità del ricorso;

ii. l’improcedibilità è, come da regola generale, rilevabile d’ufficio, senza che occorra convocare né il debitore, né il soggetto istante (ove diverso da quegli);

iii. l’istanza è ripresentabile a partire dal primo luglio prossimo;

iv. appaiono irrituali provvedimenti che, in un modo o nell’altro, denotino che il tribunale ha proceduto in base a un ricorso successivo all’8 marzo (e anteriore al primo luglio), tipicamente fissando, durante il periodo “cuscinetto”, l’udienza prefallimentare, quand’anche la data stabilita sia successiva al primo luglio;

v. analogamente discutibile risulta l’opzione di non provvedere sull’istanza fino al primo luglio ma di farlo in epoca successiva, giacché l’istanza non è improcedibile fino a quella data, ma tale rimane anche successivamente;

vi. l’intervento di un creditore promosso fra il 9 marzo e il primo luglio all’interno di un’istruttoria prefallimentare iniziata in epoca anteriore deve ritenersi inammissibile, in quanto esso risulta chiaramente equiparabile, quoad effectum, a un’istanza di fallimento, donde il carattere di scoperto escamotage rispetto al dictum normativo (a fortiori nel caso in cui l’originario instante depositasse la propria desistenza, perché ciò farebbe cadere l’intero procedimento, che andrebbe per ciò solo dichiarato estinto e comunque archiviato);

vii. a rigore, anche provvedimenti relativi alla riunione di un procedimento inertizzato ex lege ad uno radicato da un’istanza anteriore al 9 marzo potrebbero ritenersi irrituali, perché per pronunciare la riunione il tribunale deve comunque procedere con riguardo a un ricorso che è invece per legge – si torna a dire – improcedibile.

A tale stregua, ogni provvedimento diverso dalla declaratoria di improcedibilità del ricorso rischia seriamente di dar luogo a un vizio della dichiarazione di fallimento (ancorché resa in epoca successiva al primo luglio) e quindi a una nullità della sentenza, seppur da far valere, ovviamente, nel rispetto del principio della conversione delle cause di nullità in motivi di gravame.

In dottrina[7] vi è peraltro chi, pur riconoscendo che la predetta soluzione “sembra essere quella più aderente alla lettera della norma”, osserva che il lemma “temporanee” contenuto nella rubrica dell’art. 10, “in una alla ratio di economia processuale sottostante all’intervento emergenziale, potrebbero, al limite, legittimare una soluzione di tenore opposto”.

Senonché pare agevole rilevare, di contro, che il riferimento al carattere temporaneo dell’improcedibilità è lungi dal risultare decisivo sul piano ermeneutico, essendo semplicemente consustanziale al meccanismo di legge, che ha giustamente voluto limitare nel tempo l’operatività di un precetto così rigoroso.

Né sembra che ragioni connesse all’economia processuale o alla tutela del creditore instante – in tal modo costretto alla ripresentazione del ricorso – siano idonee a far premio sulla necessariamente rigorosa applicazione della norma. Com’è stato correttamente osservato, infatti, “il collegamento imposto tra la dichiarazione di improcedibilità dei ricorsi e la sterilizzazione del periodo indicato ai fini dei termini ex artt. 10 e 69 bis l. fall. ostacola quella che potrebbe essere un’interpretazione delle “improcedibilità” nel senso di una atipica sospensione, maggiormente rispettosa del principio dell’economia processuale e della necessità di tutelare (anche) i creditori istanti, che potrebbero essere anch’essi imprenditori danneggiati dalle conseguenze dell’epidemia”[8].

Non è un caso che la maggior parte dei tribunali, a quanto consta, si sia orientata precisamente in tal senso. Nella circolare emanata dalla Sezione Fallimenti del Tribunale di Milano in data 15 aprile 2020, ad esempio, si legge testualmente: “Il legislatore con il testo del recente decreto liquidità, 8.4.2020 n. 23, art. 104 ha sancito la improcedibilità delle istanze di fallimento, comprese quelle in proprio, presentate tra il 9.3.2020 ed il 30.06.2020. Ciò ha risolto integralmente il problema per le procedure successive al 9.3.2020 che verranno d’ufficio enucleate dal giudice relatore che le porterà al primo collegio utile […] per la declaratoria di improcedibilità da parte del collegio. Unica eccezione, che l’istanza promani dal Pubblico Ministero e questi chieda l’emissione di una misura cautelare di cui all’art. 15 l.f. In tal caso l’istanza è procedibile. […] A contrario, rispetto al tenore del citato art. 10 decreto liquidità, le prefallimentari precedenti al 9.3.2020 si devono ritenere perfettamente procedibili”.

Una posizione analoga hanno assunto, fra gli altri, i Tribunali di Roma, Brescia[9], Firenze[10], Forlì[11], Vercelli e Novara[12], mentre il Tribunale di Piacenza, come già ricordato, si è espresso in senso difforme (seppur non condivisibile) limitatamente all’ipotesi di istanza di fallimento in proprio.

 

5. L’inertizzazione del periodo “cuscinetto”.

Com’è noto, il terzo comma dell’art. 10 stabilisce che, quando alla dichiarazione di improcedibilità dei ricorsi presentati nel periodo di cui al comma 1 fa seguito la dichiarazione di fallimento, tale periodo non viene computato nei termini di cui agli articoli 10 e 69 bis, l. fall.

Anche in questo caso l’opportuna finalità di tutela del ceto creditorio è resa palese dal tenore della Relazione illustrativa, che in proposito segnala l’esigenza di “evitare che tale blocco precluda irreversibilmente la proposizione delle istanze nei confronti delle imprese cancellate o venga a riverberarsi in senso negativo sulle forme di tutela della par condicio creditorum”.

Sul piano operativo, la previsione in esame, di là dalla non felicissima formulazione letterale, comporta che:

(i) per non potersi più pronunciare il fallimento (dopo l’avvenuta declaratoria di improcedibilità) di un’impresa cessata debba essere decorso il periodo di un anno e 114 giorni (in luogo del consueto termine annuale);

(ii) i termini di cui all’art. 69-bis (tre anni dal fallimento e cinque anni dal compimento dell’atto) vadano anch’essi maggiorati dei 114 giorni in questione.

Sembra peraltro doversi ravvisare una lacuna normativa nell’omesso riferimento al c.d. periodo sospetto, che non pare poter riespandersi in via interpretativa rispetto alla contrazione che la legge ha prodotto: il che rischia di rappresentare un serio vulnus per il ceto creditorio rispetto alla piena possibilità di attingere allo strumento revocatorio, già di per sé fortemente depotenziato a seguito della novella del 2005.

Non a caso già altri, in dottrina, hanno segnalato questa oggettiva criticità[13], a cui ci si augura possa essere posto rimedio in sede di conversione in legge del decreto.



[1] Se non si va errati, l’istituto è rinvenibile nelle seguenti norme: art. 348 c.p.c. (“improcedibilità dell’appello”), 369 c.p.c. (“deposito del ricorso” in cassazione), 371-bis c.p.c. (“deposito dell'atto di integrazione del contraddittorio”), art. 399 c.p.c. (“deposito della citazione e della risposta” nel giudizio di revocazione), 443 c.p.c. (“rilevanza del procedimento amministrativo”), 445-bis c.p.c. (“accertamento tecnico preventivo obbligatorio”).

[2] Provinciali, Sistema delle impugnazioni civili, Padova, 1942, p. 218. Più di recente si veda, fra gli altri, Bernini, Inammissibilità, improcedibilità ed estinzione, in Le impugnazioni civili,a cura di Luiso – Vaccarella, Torino, 2013, passim.

[3] La China, voce «Procedibilità (dir. proc. civ.)», in Enc. dir., XXXV, Milano, 1986, pp. 794 e ss.

[4] Trib. Piacenza, 8 maggio 2020, in www.ilcaso.it.

[5] Secondo De Santis, La giustizia concorsuale ai tempi della pandemia, in Fall., 2020, p. 614, una dichiarazione di improcedibilità pura e semplice “si risolverebbe, alla stregua del lessico costituzionale, in una sorta di diniego di tutela”.

[6] C. Cost., 1° luglio 2009, n. 198, in www.pluris-cedam.utetgiuridica.com. Contra, in dottrina, Pasquariello, Il «diritto» di fallire del piccolo imprenditore, in Dir. fall., 2008, I, pp. 697-698: “nella misura in cui di favor si tratta, al favor deve potersi rinunciare, quando le circostanze di fatto, nell’apprezzamento discrezionale ed insindacabile dell’imprenditore o degli amministratori dell’impresa sociale, sono tali da prospettare il fallimento come il male minore per un’impresa commerciale insolvente, ancorché «piccola». Se, allora, l’interpretazione dell’art. 1, comma 2, legge fallim., opportunamente inserito all’interno del più ampio quadro normativo attuale, può portare a ritenere che l’imprenditore commerciale esentato dal fallimento in ragione delle dimensioni dell’impresa abbia facoltà di rinunciare all’esenzione e di provocare il proprio fallimento, in modo da fruire della disciplina concorsuale della crisi d’impresa”.

[7] De Santis, La giustizia concorsuale, cit., p. 613.

[8] Macagno, La legislazione d’emergenza e i processi fallimentari, in Fall., 2020, p. 703. Diversamente orientato De Santis, La giustizia concorsuale, cit., p. 615, ad avviso del quale sembra “più logico ritenere che i ricorsi di fallimento eventualmente presentati [d]al 9 marzo al 30 giugno debbano essere dichiarati temporaneamente improcedibili dal tribunale (o della sezione competente), non previa instaurazione del contraddittorio (che nel caso di specie sarebbe ridondante), ma con un provvedimento emesso prima facie, ovvero, come si suol dire, de plano”.

[9] Trib. Brescia, disposizioni in tema di “Prevenzione coronavirus” – provvedimenti organizzativi – limitazione degli accessi ad uffici e cancellerie, 11 marzo 2020.

[10] Trib. Firenze, 21 aprile 2020, in www.osservatorio-oci.org.

[11] Trib. Forlì, 9 aprile 2020, ivi.

[12] Trib. Novara, decreto n. 21 del 14 aprile 2020, ove, a p. 24, si legge che il legislatore “non vuole alcun rinvio, ma un’immediata eliminazione dei ricorsi di fallimento per il periodo andante dal 9 marzo al 30 giugno, e non è consentito sostituire al suo dictum una soluzione diversa da lui non voluta”.

[13] Limitone, Breve commento all’art. 11 decreto liquidità [al momento ancora in bozza], in www.ilcaso.it, 8 aprile 2020, p. 4, il quale descrive, con un esempio, le possibili anomalie scaturenti dalla normativa: “se un imprenditore ha fatto pagamenti milionari, o ha posto in essere atti distrattivi importanti tra dicembre e gennaio, il fallimento dichiarato a maggio consentirebbe di andare a revocare sia gli atti che i pagamenti, un fallimento dichiarato a settembre, invece, no. Ecco, un regalo così grande a questi soggetti, ed un torto così grande ai loro creditori, non lo farei proprio”. Sul punto v. anche Spiotta, La (presunzione di) continuità aziendale al tempo del COVID-19, ivi, p. 11.


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