CrisiImpresa


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 10/08/2020 Scarica PDF

Le carenze, in parte normative e in parte culturali, degli strumenti di composizione della crisi in tempi di Covid

Riccardo Ranalli, Dottore Commercialista in Torino


Sommario: 1. Premessa. 2. L’esigenza di interventi sul quadro normativo del concordato preventivo. 2.1. Il concordato preventivo è davvero la soluzione ottimale per assicurare la continuità aziendale in tempi di Covid? 2.2. L’assordante silenzio dei creditori in risposta alla introduzione della facoltà delle proposte concorrenti: i possibili rimedi. 2.3. Una proposta dirompente: l’introduzione di una mitigazione al sacrificio imposto ai creditori. 2.4. L’esigenza di introdurre limiti al trasferimento dell’azienda in presenza di procedure concorsuali. 3. Il preaccordo di ristrutturazione: il suo ripensamento prima dell’entrata in vigore del Codice della Crisi. 4. La composizione assistita del CCI in tempi di Covid. 4.1. Perché occorrerebbe disporre dello strumento oggi e di quali adattamenti necessita. 4.2. L’importanza del sostegno finanziario per il volontario ricorso all’OCRI, anche in funzione di aggregazioni tra imprese. 4.3. La definizione del debito fiscale nell’ambito della composizione assistita. 4.4. Facilitazione della compensazione orizzontale dei debiti e dei crediti verso la pubblica amministrazione. 4.5. Incentivi per il riconoscimento di stralci del credito verso il debitore. 4.6. L’adeguatezza dell’operato del collegio degli esperti. 4.7. La competenza manageriale: il primo requisito per condurre l’impresa al di fuori della crisi. 5. Conclusioni.

 

1. Premessa.

La pandemia Covid ha inciso sul sistema macroeconomico globale al punto da stravolgere alcun paradigmi, il primo fra tutti quello del contenimento dei debiti dei Paesi e delle imprese entro i limiti della loro sostenibilità. La distruzione di ricchezza ha, infatti, richiesto l’immediata immissione di risorse finanziarie nelle imprese, pur in presenza di una rilevante incertezza sui flussi economici-finanziari futuri. In particolare, nel nostro Paese, per la continuità aziendale delle PMI e la tutela dell’occupazione, sono state al momento introdotte importanti iniezioni di finanza d’emergenza a costi contenuti e con garanzia dello Stato, incentivi alla sottoscrizione di aumenti di capitale, investimenti diretti dello Stato in strumenti finanziari, partecipazioni al capitale sociale delle imprese capofiliera, detassazioni e contribuzioni a vario titolo. Tutto ciò con l’obiettivo di assicurare alle imprese, stremate dalla perdita di fatturato e dalla inadeguata produttività durante il lockdown, la liquidità necessaria per sopravvivere.

Sono provvedimenti di “primo soccorso” emergenziale volti a rafforzare la resilienza del sistema economico nel breve termine e, in via riflessa, a mitigare le drammatiche ricadute sull’occupazione, nella consapevolezza che da quest’ultima deriva la domanda, dalla quale a sua volta dipende il mantenimento di un ambiente vitale per le imprese.

In un orizzonte temporale meno immediato, l’emergenza sanitaria avrà però ulteriori e non meno gravi conseguenze. Essa comporterà uno stravolgimento del mercato che le imprese dovranno affrontare in presenza di un indebitamento aggravato dal Covid.

Non deve essere nemmeno trascurato il fatto che in un Paese, come è il nostro, nel quale le imprese già soffrivano di un’inadeguata patrimonializzazione, la sola crescita dell’indebitamento, necessaria per sopperire alle carenze di liquidità indotte dalle misure emergenziali, potrebbe essere esiziale. Pur dovendosi attendere da parte delle banche, nella concessione del credito del Decreto Liquidità, un’attenta valutazione del merito di credito, l’incertezza sull’intensità, sull’ampiezza e sulla durata delle conseguenze dell’emergenza sanitaria comporterà per non poche imprese il rischio che il debito oggi contratto, in un futuro nemmeno troppo lontano, si possa dimostrare insostenibile. Dal che deriverebbe un ulteriore involontario pregiudizio per il sistema delle imprese al quale non si sta ponendo sufficiente attenzione: nel momento in cui alla finanza garantita spetti, come parrebbe, il privilegio, la prosecuzione dell’attività aggravi il rischio in capo ai creditori chirografari, quali tendenzialmente sono i creditori commerciali, che vedrebbero le loro posizioni creditorie postergate rispetto a quelle nella nuova finanza.

E’ comunque assai probabile che, quando sarà finalmente superata la fase acuta, non si torni al punto di partenza della situazione pre-Covid: cambieranno i bisogni dei consumatori i cui costumi saranno incisi da quanto accaduto, cambierà di conseguenza la tipologia della domanda, cambieranno anche le modalità di espletamento delle attività e dei servizi da parte delle imprese. Solo per citare alcuni dei cambiamenti che dobbiamo attenderci: lo smart working entrerà nei modelli gestionali usuali, ne deriverà un crollo della domanda di immobili ad uso ufficio sostituita da strutture di co-working; i consumatori, che hanno imparato ad utilizzare i canali digitali per l’effettuazione degli acquisti, continueranno a farlo, anche se in misura inferiore, ed i centri commerciali perderanno la capacità attrattiva del passato; i ristoranti ed i negozi saranno chiamati a sviluppare modelli di delivery avanzato; la domanda di trasporto sarà incisa da una minore mobilità e dalla transizione green incentivata dai recovery funds per fronteggiare un’emergenza climatica che non può essere ignorata.

Tutti gli operatori, chi più chi meno, saranno chiamati a ripensare le strategie di gestione e di mercato. In una parola: i modelli di business dovranno essere modificati. Le imprese che saranno meno tempestive nell’adattarsi, pur avendo evitato la crisi finanziaria della prima fase, entreranno, in una fase successiva, in una crisi industriale. Per il suo superamento non sarà sufficiente ricorrere alla finanza e nemmeno all’equity. Occorre averlo sin d’ora presente: il vero ostacolo che le imprese saranno chiamate a superare, non sarà tanto quello di rendere sostenibile il debito oggi contratto quanto quello di adattarsi al nuovo contesto, cambiando -in alcune situazioni- del tutto pelle.

In sintesi, nel breve periodo le imprese sono in grado di resistere. Esse hanno gli strumenti necessari, tra la finanza del Decreto Liquidità, quella più strutturale del Decreto Rilancio, l’accesso alla Cassa Integrazione in deroga ed i differimenti, ad opera degli artt. 6 e 7 del Decreto Liquidità, dell’assunzione dei provvedimenti sul capitale delle società e della valutazione nei bilanci del pregiudizio alla continuità aziendale. Alla fine dell’anno e nei mesi successivi cominceranno però a manifestarsi fenomeni di obsolescenza dei modelli di business del passato; alcuni prodotti e servizi scivoleranno verso la fase di declino del loro ciclo di vita. In quel momento gli imprenditori dovranno adottare scelte alternative radicali: potranno decidere se ristrutturarsi per adattarsi alla nuova domanda, anche aggregandosi per rimuovere le criticità proprie del nanismo del quale sono mediamente affette le imprese italiane, ovvero se abbandonare il campo. Le piccole dimensioni sono infatti di rilevante ostacolo per l’acquisizione delle competenze atte a ridisegnare tempestivamente le modalità di conduzione dell’impresa. Il fondato timore è che tra la fine del corrente anno e i primi mesi del 2021 emergano le criticità patrimoniali e gestionali più rilevanti e molte imprese decidano di ricorrere, in via d’urgenza, a strumenti di composizione della crisi.

Dobbiamo allora domandarci, e farlo ora quando vi è ancora il tempo di agire, se gli strumenti offerti dalla legge fallimentare, oggi vigente, ed anche quelli del Codice della Crisi, prossimo venturo, anche con le modifiche contenute nella bozza del decreto correttivo, siano adeguati per fronteggiare le nuove esigenze di ristrutturazione delle imprese. In particolare, dobbiamo chiederci se essi lo siano nell’ottica di evitare conseguenze sistemiche al tessuto economico del Paese. L’esigenza è, infatti, quella di evitare che si crei una seconda onda anomala, che questa volta sarebbe esiziale per il sistema delle imprese e dell’occupazione.

E’ una domanda che ci è sollecitata dal Conference on European Restructuring and Insolvency Law (CERIL) che, con il noto report del 20 marzo 2020, ha sin da subito suggerito ai legislatori di adattare la disciplina della crisi per dare una risposta adeguata ad una situazione estremamente delicata per molte imprese in conseguenza della diffusione del Covid-19.

A questa domanda si tenterà di dare una risposta nelle pagine che seguono.

       

2. L’esigenza di interventi sul quadro normativo del concordato preventivo.

2.1. Il concordato preventivo è davvero la soluzione ottimale per assicurare la continuità aziendale in tempi di Covid?

La continuità aziendale è un valore da tutelare; in tale ottica venne introdotto il regime speciale di cui all’art. 186-bis l.f. ed il suo primato rispetto al dissolvimento dell’azienda è rafforzato dal Codice della Crisi, che lo introduce anche nella procedura della liquidazione giudiziale. In tale quadro si colloca, pertanto, l’art. 84 CCI laddove sottolinea che, superando ogni perplessità in ordine alla deroga del disposto dell’art. 2740 c.c. nei concordati in continuità diretta, il ripristino dell’equilibrio finanziario vada sì nell’interesse prioritario dei creditori, ma anche in quello dell’imprenditore e dei soci.

Non vi è dubbio che la continuità aziendale e, segnatamente, la prospettiva per i fornitori creditori di continuare ad avere uno sbocco per le proprie produzioni, sia un valore. Il tema è però se, in un momento straordinario come l’attuale, debba essere introdotta una qualche cautela per dissuadere ogni comportamento opportunistico del debitore che, potendolo evitare, preferisca, attraverso lo stralcio del debito, trasferire su creditori inermi il costo del riequilibrio finanziario. E parimenti se sia opportuno accettare che il debitore, consapevole dell’atteggiamento scettico e prudente del commissario giudiziale e del tribunale di fronte alle incertezze prospettiche del piano, si precostituisca margini di sicurezza attraverso la riduzione del soddisfo dei creditori. In tempi di post-Covid occorre, infatti, domandarsi se il margine di sicurezza nel ristabilire l’equilibrio finanziario non debba essere contemperato dall’opposta esigenza di mitigare l’impatto sulla moltitudine dei creditori, resa anch’essa fragile dalla crisi. E’ fin troppo facile la previsione che l’accresciuta incertezza indurrà il debitore a minimizzare, pur entro i (risicati) limiti del miglior soddisfacimento dei creditori, il soddisfo riconosciuto a questi ultimi.

In altre parole, il concordato preventivo in continuità è senza dubbio, quanto meno sulla carta, uno strumento portentoso per recuperare la continuità aziendale in capo all’imprenditore permettendo stralci diffusi e severi. Esso però tende a riversare sui creditori il costo della ricostituzione del valore aziendale. In un’economia stabile il principio che il ripristino dell’equilibrio finanziario sia nell’interesse “dell’imprenditore e dei soci” è accettabile e sostenibile dal sistema. Lo è meno quando a vacillare sia l’intero sistema economico. Lo strumento del concordato in continuità, nell’attuale situazione, da strumento di recovery volgerebbe in una minaccia per il sistema delle imprese. Non sarebbe sostenibile il rischio che una moltitudine di imprese riversi congiuntamente sui creditori il congelamento delle partite debitorie esponendo al concreto e rilevante rischio di contagio l’intera filiera dei fornitori. Imprese già colpite dalla flessione della domanda verrebbero compromesse definitamente dalla sottrazione delle risorse derivanti dall’incasso dei crediti. Al riguardo si osservi banalmente che la perdita di 1 euro di ricavi comporta un impatto sull’impresa corrispondente ad una frazione dell’euro e segnatamente al solo margine di contribuzione. Il congelamento del credito sottrae invece risorse per l’intero euro fatturato, maggiorato oltretutto[1] della relativa IVA fatturata e versata.

Nel momento in cui il fenomeno diventi massivo, le conseguenze sistemiche sarebbero ancora più gravi: verrebbero cagionati effetti drammatici sull’occupazione, con conseguenze sia sotto il profilo della domanda che sotto quello sociale. Un diffuso ricorso al concordato preventivo arriverebbe a cagionare il rischio di compromettere l’intero “sistema Paese”.

La situazione straordinaria che stiamo vivendo ci deve portare ad attribuire al valore della continuità aziendale una rilevanza ancora maggiore rispetto al passato, ma è un valore che dovrebbe essere tutelato limitando quanto più possibile i costi esterni e purtroppo quelli derivanti dal concordato preventivo sono elevati.

Con ciò lungi dal dire che lo strumento del concordato preventivo in continuità aziendale non debba essere utilizzato: vi sono situazioni in cui è l’unica opzione possibile per assicurare la tutela del bene aziendale. Vi sono però, allo stesso tempo, molte altre situazioni in cui la scelta dello strumento è la risultante di una valutazione speculativa dell’imprenditore per restare saldamente al comando della propria impresa evitando di mettere in gioco le risorse personali delle quali eventualmente disponga. Fino a qualche anno fa il solo impatto reputazionale del mancato integrale pagamento dei propri fornitori era fortemente percepito dal debitore, e ciò in una visione diversa del fare impresa. Oggi, quell’epoca è finita: l’accesso al concordato preventivo è considerata un’eventualità possibile, da non stigmatizzare in una visione in cui predomina l’interesse individuale della singola impresa. Non si vuole con ciò esprimere alcun giudizio sociale e la seconda chance dell’imprenditore sfortunato è un indiscutibile valore, ma occorre contemperarla con la straordinarietà della situazione che stiamo vivendo.

Ci si deve allora domandare quali siano i rafforzamento delle norme sulla crisi d’impresa che consentano di mitigare le conseguenza negative del risanamento della singola impresa sul tessuto economico.

Sia nel quadro normativo esistente che in quello prossimo del Codice della Crisi, vi è invero l’assenza di un efficace meccanismo deterrente che scoraggi il debitore dal trasferire sui suoi creditori, inerti in quanto passivi e rassegnati[2], il rischio ed il costo della ristrutturazione. Invero, con il presupposto del miglior soddisfacimento dei creditori nei concordati in continuità e con l’introduzione delle proposte e delle offerte concorrenti si è cercato di evitare che il creditore fosse posto con le spalle al muro di fronte alla proposta del debitore, obbligandolo ad accettare il minor male tra la perdita della più parte del credito e la, spesso debole, speranza del mantenimento di un rapporto di fornitura.

Il miglior soddisfacimento dei creditori presenta però limiti rilevanti posto che la giurisprudenza, la dottrina ed i principi di attestazione hanno, correttamente, circoscritto lo stesso a valutazioni comparative con la liquidazione fallimentare (ancorché mitigata dall’ipotesi del realizzo del compendio aziendale ad esito di un esercizio provvisorio). All’attestatore, ed in futuro al debitore, non è infatti richiesto di spingersi a valutare altre ipotesi di continuità, in quanto sarebbero meramente ipotetiche.

Le proposte concorrenti, da parte loro, che avrebbero dovuto essere la vera mitigazione di comportamenti opportunistici, si sono, di fatto, rivelate lettera morta, dimostrandosi non percorribili a causa delle rilevanti asimmetrie informative tra il debitore ed i suoi creditori e del mantenimento del governo dell’impresa saldamente nelle mani del solo debitore fino all’omologa del concordato. Le prime in nome della tutela della riservatezza aziendale che appare a chi scrive, per il solo effetto della socializzazione del costo della crisi, un falso mito. Il secondo per un vuoto normativo tollerato per un, forse eccessivo, affidamento nell’efficacia della vigilanza da parte del commissario giudiziale.

A ben vedere, anche la stessa possibilità del debitore di rendersi incondizionatamente cessionario del compendio aziendale da un concordato preventivo (o anche da un fallimento) è fonte di possibili azzardi morali.

Si tratta di debolezze del sistema che potrebbero indurre le imprese, dopo aver avuto accesso alla finanza emergenziale ed una volta resesi conto di non disporre più del patrimonio netto minimo vitale, a tentare di ricostituirlo attraverso stralci del debito. Con le conseguenze alle quali si accennava.

Si renderebbe allora necessario introdurre regole efficaci che consentano di esporre l’imprenditore che intende avvalersi dei vantaggi del concordato in continuità alla consapevolezza del rischio di perdere, intutto o in parte, la titolarità ed il governo dell’azienda nell’interesse primario dei creditori, come peraltro suggerito nell’iniziativa n. 3.ii dal Comitato di esperti in materia economica e sociale di cui al DPCM 10 aprile 2020 (c.d. task force Colao).

 

2.2. L’assordante silenzio dei creditori in risposta alla introduzione della facoltà delle proposte concorrenti: i possibili rimedi.

Le proposte concorrenti costituiscono un meccanismo competitivo nella procedura del concordato che opera laddove non sia praticabile quello dell’offerta concorrente dell’art. 163-bis l.f.[3]. Il relativo istituto è disciplinato dall’art. 163 l.f. e venne introdotto dall'art. 3 del d.l. 83/2015 poi convertito con modificazioni dalla L. 6 agosto 2015, n. 132.

La relazione accompagnatoria sottolineò il vantaggio che sarebbe dovuto derivare dalla loro introduzione: la massimizzazione della recovery dei creditori concordatari con uno strumento alternativo al giudizio di cram down ed alla possibilità di rifiutare in blocco la proposta del debitore. Esse, nelle intenzioni del legislatore, avrebbero dovuto dare una risposta concreta alla richiesta di contendibilità dell’impresa in crisi, rispondendo così alla miglior tutela dei creditori. Nel momento in cui il sistema bancario è stato costretto a dismettere le esposizioni non performanti per mitigare l’assorbimento del capitale è diventata di fondamentale rilevanza la presenza di un mercato attivo dei distressed debts, presupposto del quale è la contendibilità dell’impresa[4]. Senza trascurare il fatto che operatori proattivi dei crediti bancari NPE non farebbero che rendere più agevoli e solidi i risanamenti delle imprese stimolando aggregazioni tra operatori del settore.

La cennata contendibilità dell’impresa non appare ora in contrasto con la Direttiva Insolvency che rimette al diritto nazionale la possibilità che il piano sia presentato da soggetti diversi dal debitore[5].

In sintesi, nel momento in cui il creditore sia posto nelle condizioni di incidere sulla proposta e non semplicemente di respingerla o di attivare un giudizio di cram down (che avrebbe comunque come riferimento un’alternativa punitiva per i creditori quale è quella del fallimento), il debitore sarebbe di fatto dissuaso dal porre in essere comportamenti biecamente opportunistici volti a trasferire sui soli creditori il costo della ricostituzione del valore dell’azienda, per trattenerne il beneficio. Perché ciò sia vero occorre, però, che egli sia esposto al concreto rischio della perdita, a favore dei suoi creditori, dell’azienda o del suo governo in via autonoma ad esito del concordato in continuità diretta.

Vale inoltre la pena ricordare che l’istituto avrebbe dovuto anche stimolare l’anticipata l’emersione della crisi.

Tutte intenzioni assai lodevoli ma tradite sul piano concreto. Il fatto che le proposte concorrenti non si siano affermate è stato un danno per il sistema. Di proposte concorrenti ne abbiamo, infatti, viste molto poche e quelle poche non sono per lo più arrivate al voto.

E’ fondamentale comprendere i motivi di un tale insuccesso per potervi porre rimedio.

Innanzitutto, vi è la difficoltà nel realizzare un polo di creditori che consenta di raggiungere la soglia del 10% prevista dalla norma per la proposizione delle proposte concorrenti. È raro il caso in cui la proposta possa promanare direttamente da un unico soggetto posto che i creditori principali (il sistema bancario) difficilmente intendono farlo preferendosi astenere dalla gestione dell’impresa; potrebbero intervenire operatori del settore distressed ma anche questi appaiono timidi nel contrastare il debitore nella gestione, avendo prevalentemente vocazione finanziaria. E’ più facile che la presentazione di una proposta concorrente promani da un operatore del settore, al quale possono associarsi i creditori finanziari. Sono però rari i casi in cui un tale soggetto abbia le competenze e le specificità occorrenti ed anzi chi potrebbe avere il maggior interesse concreto è assai probabile che non abbia nemmeno rapporti di credito con il debitore. Occorre allora che il proponente si renda prima cessionario di crediti in misura sufficiente presso altri creditori. La criticità diventa però allora un’altra: la difficoltà a definire un prezzo di acquisto adeguato in assenza di informazioni. L’assenza di tali informazioni costituisce un ostacolo alle proposte concorrenti. L’acquisto risente della disponibilità delle informazioni sull’andamento aziendale in capo ad un soggetto che non sia ancora creditore ma sia interessato a diventarlo attraverso l’acquisto dei crediti. Sorge a questo punto una sorta di trappola “circolare” per il potenziale terzo industriale interessato: egli necessita di informazioni per proporre l’acquisto del credito e, nel contempo, non può ottenerle fino a quando non abbia effettuato l’acquisto. Tentativi per conciliare le due opposte esigenze sono stati inesorabilmente bocciati. In tal senso è naufragata, con reiezione della sua ammissione, una proposta concorrente da parte di cessionario dei crediti verso il debitore sulla base di un negozio che il tribunale ha ritenuto di riqualificare come mandato alla gestione dei crediti[6].

Di fronte a questo primo impedimento, il rimedio normativo sarebbe agevole: basterebbe legittimare chiunque a raccogliere le informazioni in vista di una successiva acquisizione del credito per un prezzo anche da determinarsi in un momento successivo, in relazione al successo o meno della proposta concordataria concorrente. Oppure, più efficacemente e facilmente, consentire la formulazione della proposta concorrente anche a soggetti terzi, senza l’esigenza che essi si rendano cessionari del credito. Il timore che, per permettere l’obiettivo, vengano diffusi dati sensibili (ovvero che la diffusione dei dati costituisca una sorta di esproprio dell’impresa) può essere mitigato ricorrendo alle usuali regole dei processo di M&A e comunque privilegiare oltremodo la riservatezza pare eccessivo, nel momento stesso in cui comunque vengono richiesti sacrifici importanti ai creditori in assenza dei quali la continuità aziendale non sarebbe prospettabile.

Un secondo motivo della mancanza di attrattiva delle proposte concorrenti risiede proprio nell’inadeguatezza delle informazioni disponibili. Ci si riferisce in particolare alle informazioni industriali sull’effettivo andamento aziendale, nonché alla difficoltà ad esperire una due diligence adeguata da parte del creditore. Il legislatore sembra che abbia fatto affidamento sulla presenza del commissario giudiziale per assicurare simmetria e trasparenza informativa. Il che è quanto mai lontano dalla realtà. Le informazioni promanano sempre dal debitore che ha facile gioco nel selezionarle in modo accorto a proprio vantaggio, facendo leva sul fatto che difficilmente il commissario giudiziale è in grado di valutare in concreto l’adeguatezza informativa, non avendo e non potendo pretendersi da lui una competenza specifica nel singolo settore industriale, e che lo è ancor meno il tribunale; sicché il debitore tenderà a rilasciare i dati più sensibili in modo parziale ed incompleto per renderli non utilmente fruibili dal destinatario.

Chiunque intenda presentare una proposta impegnando risorse proprie, attuali e future, deve essere messo in grado di conoscere i profili industriali dell’impresa; si tratta di informazioni tanto più necessarie quanto più il proponente ha competenza settoriale specifica. Ebbene, è proprio nei confronti di quest’ultimo che viene ravvisata l’esigenza di una maggiore riservatezza delle informazioni industriali. Per superare l’ostacolo dell’asimmetria informativa si renderebbe necessario mitigare la riservatezza industriale nel corso della procedura quale misura compensativa al sacrificio richiesto ai creditori. In difetto, per il debitore sarebbe agevole ostacolare, sul piano fattuale, le proposte concorrenti semplicemente invocando l’esigenza di evitare pregiudizi derivanti da una violazione di tale riservatezza. Per quanto sia innegabile che la diffusione di tali informazioni comporti un rischio per il debitore, e di conseguenza per i suoi creditori, il beneficio che ne deriverebbe non sarebbe circoscritto al solo caso in cui le proposte concorrenti vengono presentate, ma in via generalizzata a tutti i casi, costituendo un incentivo a superare la soglia minima di soddisfo prevista dalla legge per escludere le proposte concorrenti.

Comunque occorrerebbe prevedere il mantenimento degli obblighi informativi nel corso dell’intera procedura di concordato preventivo (si ricorda che gli obblighi informativi previsti del co. 8 dell’art. 161 l.f. nella fase prenotativa del concordato cessano con essa). Successivamente i potenziali proponenti possono, infatti, affidarsi principalmente al piano e all’attestazione (entrambi datati) e, soltanto in prossimità della scadenza del termine utile, alla relazione ex art. 172 l.f. del commissario giudiziale. Essa è, infatti, disponibile solo 15 giorni prima del termine ultimo per la formulazione della proposta concorrente. Troppo poco per valutare la praticabilità di una proposta, confezionarla ed ottenere la relativa attestazione occorrente.

Invero, non occorrerebbe invocare adeguamenti normativi se solo gli organi della procedura ammettessero l’esigenza di competenze specifiche per selezionare le informazioni atte a stimolare, prima, e consentire, dopo, le proposte concorrenti. Basterebbe, infatti, l’individuazione di un ausiliario del giudice con adeguata competenza nel settore industriale specifico da incaricare a raccogliere e selezionare le informazioni industrialmente rilevanti per consentire in concreto la formulazioni di proposte da parte di creditori eventualmente interessati. Si tratta di processi ben noti agli advisor che assistono le imprese nelle operazioni di acquisizioni quando organizzano dataroom, strutturate in due fasi: una prima fase volta a raccogliere l’interesse degli offerenti; una seconda fase aperta solo a coloro che hanno superato favorevolmente la selezione ed hanno manifestato un serio concreto, ancorché non ancora vincolante.

Un terzo motivo di insuccesso dello strumento, che è forse quello maggiormente rilevante in assoluto, risiede nel fatto che il governo dell’impresa resti sino all’omologa del concordato saldamente nelle mani del debitore, principale proponente in patente conflitto di interessi rispetto ai proponenti concorrenti. La proposta concorrente non attribuisce al terzo proponente il dominio sull’impresa sino a quando la sua proposta non venga omologata[7]. È ostativa alla presentazione di proposte concorrenti l’impossibilità del creditore proponente di intervenire, anche solo con diritti di veto, sulla gestione dell’impresa evitando il compimento di atti potenzialmente ostativi al percorso di risanamento che egli intende intraprendere. E’ ben vero che gli interessi del terzo proponente potrebbero essere presidiati e mediati dal ruolo di vigilanza del commissario giudiziale e dalle autorizzazioni del giudice delegato, ma è altrettanto vero che mentre taluni atti sono agevolmente qualificabili come atti in conflitto di interessi a danno del proponente, vi sono atti e comportamenti le cui conseguenze possono essere comprese solo un operatore del settore e sono questi secondi, comunque difficilmente catalogabili a priori, che preoccupano il terzo proponente[8]. Beninteso, non occorre che tali atti siano posti in essere per dissuadere il creditore; è sufficiente, infatti, il solo timore che ciò possa accadere perché creditori e terzi interessati non si avventurino nel formulare una proposta concorrente.

In un tale contesto, occorrerebbe prevedere una limitazione, ulteriore rispetto a quanto previsto dall’art. 167 l.f., nell’esercizio dell’impresa da parte dell’imprenditore dal momento in cui siano state ammesse proposte concorrenti[9]. Potrebbero, a tal fine, essere recuperati i principi della passivity rule della Direttiva 2004/25/CE[10] sulle offerte pubbliche di acquisto (Titolo II, Parte II del Regolamento Emittenti) che mirano a salvaguardare la contendibilità della società, in quel caso quotata, impedendo che gli amministratori attuino “iniziative difensive” per scongiurare offerte e scalate esterne. In aggiunta, si potrebbe consentire al proponente di esprimere il proprio veto motivato sull’adozione di atti e misure “anomali” nel governo dell’impresa e ciò sino all’esercizio del voto. Di lì in avanti l’intervento del proponente vincitore potrebbe essere ancor più incisivo, pur se sotto la vigilanza, eventualmente rafforzata, da parte del commissario.

In mancanza di una disposizione specifica, non sarebbe agevole trovare rimedi[11].

A valle di quanto sopra, chi scrive non può però esimersi dal sollecitare i creditori ad un cambio di passo. A prescindere dalle considerazioni dianzi svolte, non può non destare stupore il fatto che non constino casi di proposte concorrenti limitate alla modifica delle utilità riconosciute ai creditori che siano circoscritte alla integrazione della proposta principale con la sola ulteriore assegnazione ai creditori di una partecipazione al capitale sociale o al valore futuro dell’azienda (in termini di mero earn-out), fermi restando tutti gli altri termini del piano e della proposta del debitore. Sarebbero, infatti, proposte derivate c.d. “parassitarie”, che non modificano il piano del debitore, agevoli da confezionare in quanto non necessiterebbero di alcuna attestazione se formulate dopo il rilascio della relazione di cui all’art. 172 l.f.[12] che conferma la fattibilità del piano e della proposta del debitore. Esse, non sottrarrebbero risorse alla continuità aziendale e, ciò nonostante, consentirebbero ai creditori di partecipare ai benefici derivanti dalla ricostituzione del valore dell’azienda.

Ebbene, se vi è un motivo per cui tali proposte concorrenti non sono sino ad ora state confezionate è solo quello culturale che vede i creditori con un atteggiamento passivo e rassegnato, poco consapevole dei propri diritti. Spetta al mondo professionale sensibilizzarli, sollecitando la creazione di comitati tra i creditori, per l’esercizio dei diritti loro spettanti. Ne deriverebbe certamente un vantaggio per il sistema, nella direzione già sopra indicata, ma anche un vantaggio per i creditori, in quanto l’assegnazione ad essi di partecipazioni al capitale sociale permetterebbe, da sola, di attirare l’interesse di altri operatori del settore. Ne risulterebbe così incentivata l’aggregazione, orizzontale o verticale, tra imprese che l’esperienza ci insegna essere il naturale approdo di successo ad esito dei concordati in continuità diretta. Mai come ora sarebbe determinante la nascita di comitati di creditori volti a cogliere il portato normativo, in attesa di una sua auspicabile e comunque necessaria modifica.

Basterebbero pochi esempi di successo per mitigare il rischio di azzardi morali.

   

2.3. Una proposta dirompente: l’introduzione di una mitigazione al sacrificio imposto ai creditori.

Già si è detto dell’importanza, in un momento straordinario quale quello attuale, di scoraggiare i debitori da comportamenti speculativi. Quanto meno per le imprese che hanno fruito di risorse pubbliche, in particolare se privilegiate, la scelta dello strumento concordatario dovrebbe essere l’ultima tra le opzioni praticabili, per evitare il congelamento del debito e l’impedimento di pagamenti spontanei dei fornitori che ne deriva.

Di fronte alla prospettiva di perdere integralmente il proprio credito, i creditori prestano troppo spesso acquiescenza alla proposta del debitore, come già detto, non tanto per salvare una parte (modesta) del credito quanto piuttosto per continuare ad avere uno sbocco per la propria attività. Sarebbe sufficiente che il debitore fosse obbligato a condividere, con i creditori che subiscono il sacrificio, il valore dell’azienda risanata perché il concordato preventivo non venisse colto come una scorciatoia a danno dei creditori, generando gli ulteriori vantaggi derivati rappresentati al termine del precedente paragrafo.

Molto raramente ai creditori è concesso di partecipare al valore ricostituito dell’azienda attraverso strumenti di equity o anche solo misure di earn out; con la sola eccezione delle sole società aperte, difficilmente l’imprenditore italiano, e in particolare il medio imprenditore, è disposto a condividere con altri la proprietà dell’azienda e ancor meno la plancia di comando. Non è però posto in dubbio da nessuno che se il valore dell’azienda viene ricostituito una parte del merito deve essere attribuito al sacrificio subito dai creditori.

Non pare pertanto irragionevole, nell’ottica di contenere l’azzardo morale e di indurre il debitore a scelte diverse, laddove possibili, rispetto allo stralcio forzoso del debito, che venga previsto ex lege, a vantaggio dei creditori in aggiunta o in alternativa alla riformulazione delle proposte concorrenti, l’assegnazione di diritti patrimoniali ed amministrativi sull’impresa ad esito del concordato, tanto maggiori quanto più elevato percentualmente è lo stralcio del debito. Tale previsione comporterebbe una compensazione, pur se soggetta all’alea del rischio d’impresa, del sacrificio dei creditori. È ben vero che si tradurrebbe in partecipazioni singolarmente minimali, spesso prive di un valore concreto; però, se venisse sancita ex lege, la libera negoziabilità dei diritti ottenuti comporterebbe, in capo al creditore che ne diventa titolare, un accrescimento patrimoniale corrispondente quanto meno al valore della chance. Nel contempo consentirebbe ad altri operatori di raccogliere tali diritti in funzione di successive e, per le ragioni dianzi descritte, auspicate aggregazioni tra imprese.

 

2.4. L’esigenza di introdurre limiti al trasferimento dell’azienda in presenza di procedure concorsuali.

Allo stato, nei concordati preventivi e nei fallimenti, il debitore, anche attraverso sue parti correlate, può rendersi cessionario dell’azienda. Quando l’oggetto del trasferimento sia un’azienda, in particolare se di modeste dimensioni, è innegabile che il debitore sia avvantaggiato, rispetto ai terzi, sotto il profilo del patrimonio informativo, nel formulare offerte e nel partecipare a procedure competitive.

L’ottenimento di un’offerta di acquisto dell’azienda, ancorché proveniente da una parte correlata del debitore, viene spesso colta con sollievo da parte degli organi della procedura, in quanto permette un qualche soddisfo per i creditori e comunque il mantenimento di posti di lavoro. Ma è veramente un fatto positivo per il sistema economico?

L’acquisto dell’azienda da parte dell’imprenditore, nel corso di una procedura concorsuale, è sempre operazione frustrante per i creditori ed è di ostacolo alla moralizzazione del sistema[13].

La sola prospettiva della disponibilità del debitore a rendersi cessionario dell’azienda disincentiva gli organi della procedura a ingegnarsi nella ricerca di terzi interessati. Si dirà che ogni tentativo esperito non ha prodotto risultati e che ben venga la proposta del debitore. In verità, è la necessità di trovare una soluzione che incentiva l’intrapresa di percorsi nuovi e diversi dai consueti, dimostrandosi spesso insufficiente la mera sollecitazione attraverso l’ordinaria pubblicità. Per stimolare l’interesse di terzi potenzialmente interessati occorrerebbe invece un’attività di scouting, svolta da operatori specializzati, con il ricorso a procedure efficienti nella raccolta delle manifestazioni di interesse, prima, e delle offerte vincolanti, dopo, attraverso gli usuali percorsi nelle operazioni di M&A.

Fino a quando gli oggetti più pregiati troveranno percorsi preferenziali presso le parti correlate del debitore, difficilmente nasceranno operatori specializzati sul mercato.

Il vantaggio è però anche un altro: il solo impedimento a formulare offerte per l’acquisto dell’azienda obbligherebbe il debitore ad immettere anzitempo nella stessa le risorse che sarebbe disponibile ad impiegare per il suo acquisto.

L’offerta del debitore dovrebbe essere ammessa solo subordinatamente all’espletamento con insuccesso dell’intero percorso di ricerca di una controparte disponibile. A tal fine ci si potrebbe limitare ad introdurre, nei concordati preventivi e nei fallimenti, vincoli temporali analoghi a quelli previsti dal co. 1 dell’art. 124 l.f. per il trasferimento dell’azienda all’imprenditore, a società in cui esso partecipi o a società sottoposte a comune controllo.

   

3. Il preaccordo di ristrutturazione: il suo ripensamento prima dell’entrata in vigore del Codice della Crisi.

Le considerazioni svolte sull’inopportunità, in questo momento storico, di un esteso ricorso a situazioni di blocco dei pagamenti ai creditori commerciali devono indurre ad ulteriori riflessioni anche con riferimento agli accordi di ristrutturazione.

Sia il ricorso per il concordato preventivo che quello per l’accordo di ristrutturazione possono essere fatti precedere dall’accesso al prenotativo di cui al co. 6 dell’art. 161 l.f. o del co. 6 dell’art. 182-bis l.f. Esso non ha solo l’esigenza di proteggere il debitore nei confronti dei propri creditori, ma, prima ancora, in particolare in presenza dell’organo i controllo, quella di sospendere l’assunzione dei provvedimenti di cui agli artt. 2447 e 2482-ter c.c. A tali esigenze, se ne è aggiunta un’ulteriore in seguito all’emanazione del Codice della Crisi: il puntuale rispetto dell’obbligo di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi di cui all’art. 2086 c.c.[14].

Sotto il profilo delle finalità perseguite le due disposizioni sono sostanzialmente equivalenti.

I due strumenti sono però significativamente diversi nella modalità di impiego al punto che si preferisce il preconcordato nonostante si tratti di un percorso assai più invasivo, per l’impedimento di pagamenti spontanei ai creditori e per la presenza del pre-commissario e di una sorveglianza più attiva da parte del tribunale. Nonostante il ricorso al concordato preventivo con riserva debba essere idealmente relegato ai soli casi in cui l’unica soluzione percorribile sia quella concordataria, molto spesso si ricorre al co. 6 dell’art. 161 l.f. anche quando il debitore intenda coltivare un accordo di ristrutturazione per il solo motivo che l’analoga norma prevista per l’accordo di ristrutturazione (il c.d. “pre-accordo” di cui all’art. 182-bis co. 6) presenta rilevanti criticità sotto il profilo applicativo. La, seppur normativamente consentita, passerella tra il prenotativo del concordato preventivo e l’accordo di ristrutturazione appare però inefficiente se non altro per il fatto che è assai arduo coltivare in contemporanea il filing del concordato preventivo e quello dell’accordo di ristrutturazione: sono diversi i dati da raccogliere, diverse le interlocuzioni necessarie con i creditori, diverse le attività di attestazione. Sicché, in via di fatto, occorre, sin da subito, decidere se attivarsi in una direzione o nell’altra.

Ciò nonostante, i vincoli normativi prevalgono, ai fini della scelta dello strumento prenotativo, su quelli dell’efficacia e dell’efficienza.

Militano a favore del co. 6 dell’art. 161 l.f., rispetto alla corrispondente norma dell’art. 182-bis l.f.:

- l’assenza dell’intervento dell’attestatore e dell’ esigenza di autocertificazione della presenza di trattative con i creditori che rappresentino almeno il sessanta per cento dei crediti;

- il termine più ampio di 120 giorni, elevabili a 180 per il deposito del ricorso definitivo previsto dall’art. 161 l.f., contro i 60 giorni dell’art. 182-bis.

Il primo dei due vantaggi è rilevante in tutti i casi in cui si debba ricorrere in via di urgenza alla protezione nei confronti delle azioni dei creditori, ma è determinante anche quando, su pressione dell’organo di controllo o degli amministratori indipendenti, occorra attivare l’urgente sospensione dall’obbligo di assunzione dei provvedimenti di cui all’art. 2447 c.c. o si voglia reagire con tempestività al disposto dell’art. 2086 c.c. recentemente riformulato. L’apertura di un tavolo di trattative con i creditori e l’esigenza di una pre-attestazione (che richiede comunque da parte del professionista lo svolgimento di complesse attività di analisi dell’impresa, del suo indebitamento e della, pur astratta, praticabilità del suo risanamento) comportano un tempo non breve (difficilmente inferiore ad un mese, ma spesso assai superiore) tra l’assunzione della decisione e il deposito della domanda presso il tribunale.

Il secondo vantaggio è, se si vuole, ancor più rilevante. Ben sappiamo quanto lunghe e difficoltose siano la trattative con i creditori per giungere ad un accordo eligibile ai fini dell’art. 182-bis l.f. I 60 giorni di legge, ancorché possano fruire di un implicito differimento della decorrenza per effetto del tempo occorrente per la fissazione dell’udienza[15], ben difficilmente possono essere rispettati, in particolare quando il piano non sia ancora stato definito e ciò a prescindere dai tempi dell’attestazione.

E’, pertanto, il fattore tempo ad incidere e condizionare la scelta dello strumento e a far propendere quasi sempre per la presentazione del prenotativo di concordato preventivo, anche nel caso in cui si intenda ricorrere all’accordo di ristrutturazione.

La disparità di trattamento delle due norme risente, invero, dei tempi diversi in cui esse vennero emanate. Il legislatore, nel 2010[16] aveva introdotto il pre-accordo di ristrutturazione, mentre il pre-concordato risale a più di due anni dopo[17]. Erano anni quelli in cui l’evoluzione normativa sulla crisi d’impresa era in fermento e il lungo processo di assestamento fu la derivata delle esigenze che via via si manifestavano sul campo; sicché due anni di distanza hanno fatto la differenza.

Si impone però ora un allineamento delle due disposizioni e il Codice della Crisi lo ha previsto all’art. 44.

Se in tempi normali la passerella “inversa” dell’accesso all’accordo in seguito ad una domanda di pre-concordato non ha mai destato perplessità ed anzi l’opzione per il disposto del co. 6 dell’art. 161 l.f. era indice di trasparenza per l’assoggettamento ad un controllo degli organi della procedura e, attraverso le informative periodiche, anche dei creditori, in tempi di Covid emergono ora criticità sistemiche: il ricorso al pre-concordato funzionale ad un accordo di ristrutturazione, per il congelamento delle partite debitorie ed il divieto di pagamenti spontanei dei fornitori, sottrae risorse al sistema delle imprese, anche se esse siano potenzialmente disponibili.

Il legislatore, incurante delle conseguenze di un indiretto ulteriore incentivo all’accesso al pre-concordato, con una norma criticata da parte della dottrina più autorevole[18], ha ora temporaneamente introdotto, con il co. 5-bis dell’art. 9 del Decreto Liquidità (d.l. 23/2020), il “piano attestato di risanamento protetto” quale strumento di uscita dal concordato con riserva.

Per evitare insostenibili conseguenze sistemiche occorrerebbe anticipare già nel regime vigente l’allineamento previsto dal Codice della Crisi e ciò per meglio fronteggiare l’onda dei ricorsi prenotativi che ci si deve attendere ad inizio 2021 quando molte imprese constateranno, anche per effetto di impairment test post-Covid, di non disporre più di un patrimonio netto positivo o comunque di flussi al servizio del debito atti a sostenerlo.

Si tratterebbe di:

- non subordinare il deposito del ricorso di cui al co. 6 dell’art. 182-bis l.f. alla presenza di trattative con i creditori e di non richiedere il deposito di alcuna preattestazione;

- di riconoscere un termine di 120 giorni suscettibile di proroga di 60 giorni analogo a quello dell’art. 161 co. 6;

- contemperare le due facilitazioni di cui sopra con la nomina di un pre-commissario e l’introduzione di flussi informativi, sulla falsariga di quanto previsto dall’art. 161 co. 6.

È ben vero che, non appena entrerà in vigore il Codice della Crisi, tutto ciò sarà automaticamente a regime, ma è altrettanto vero che attendere inerti l’entrata in vigore delle nuove norme comporterebbe l’assunzione di un rischio sistemico di sottrazione di risorse private e di pregiudizio delle filiere produttive che il Paese non può permettersi. Oggi più che mai, infatti, si debbono circoscrivere moratorie e freezing del debito alle sole situazioni in cui essi non possano essere evitati.

   

4. La composizione assistita del CCI in tempi di Covid.

4.1. Perché occorrerebbe disporre dello strumento oggi e di quali adattamenti necessita.

Nella severità del contesto dianzi rappresentato, la composizione della crisi comporta una mitigazione di impatto sistemico laddove essa intervenga al di fuori delle aule di giustizia ed in particolare quando non si blocchi il pagamento dei fornitori e venga mantenuta la possibilità di pagamenti spontanei. Nell’ambito delle diverse opportunità che si presentano astrattamente a tal riguardo, ve ne è una, prevista dal Codice della Crisi, sulla quale si possono ragionevolmente riporre concrete speranze per contenere il temuto dilagare del ricorso al concordato preventivo, al punto che, da parte di taluni[19], si è autorevolmente dubitato dell’opportunità del differimento, operato dall’art. 5 del Decreto Liquidità, delle misure di allerta: si tratta della composizione assistita di cui all’art. 19 CCI. Si guardi bene, qui ci si riferisce alla sola composizione assistita e non all’intero sistema delle misure di allerta che hanno nella segnalazione passiva all’OCRI un importante pilastro. Quest’ultima, se introdotta oggi in un sistema delle imprese indebolito e in presenza di un’incertezza straordinaria sul futuro, rischierebbe solo di trascinare passivamente un elevato numero di imprese[20] avanti ad un OCRI non ancora attrezzato per fronteggiare una tale massa di casi, accelerandone la moria con conseguente perdita di posti di lavoro.

Chi scrive ha più volte ricordato[21] come lo strumento della composizione assistita possa risultare efficace solo a condizione che sia l’imprenditore a rivolgersi ad esso volontariamente e con tempestività; ben minore è la sua efficacia nel momento in cui l’imprenditore sia stato trascinato avanti all’OCRI per effetto di segnalazioni dell’organo di controllo o dei creditori pubblici qualificati, quanto meno perché in questi casi egli vi arriverebbe impreparato, senza un’idea di piano e comunque senza i flussi informativi necessari.

Affinché la composizione assistita possa essere volontariamente richiesta dal debitore, a prescindere dalla presenza degli indicatori di crisi di cui all’art. 13 CCI, occorre però che l’imprenditore sia indotto a guardare all’intervento del collegio dell’OCRI con ragionevole fiducia. Il che oggi non è, per un motivo più che comprensibile: l’OCRI non dispone ancora delle risorse necessarie per affrontare efficacemente la crisi e meno che mai delle risorse necessarie ad affrontarla in tempi di Covid.

In periodi normali l’OCRI avrebbe potuto avvalersi di una “cassetta degli attrezzi”[22] pur minimale, ma assortita e, superate le iniziali perplessità delle imprese, avrebbe potuto progressivamente dimostrare l’utilità del proprio intervento. In un momento straordinario, quale quello l’attuale, nel quale ad entrare in crisi non è la singola impresa ma interi settori di attività, la mancanza di attrezzi di pronto ed agevole impiego si farà sentire ed inciderà grandemente sulle decisioni e sulle scelte degli imprenditori.

Mancano, infatti, nell’armamentario del collegio strumenti davvero efficaci, da una parte, per colmare la carenza delle risorse finanziarie e patrimoniali e, dalla parte opposta, per supportare l’imprenditore nell’adeguare un proprio modello di business laddove sia divenuto superato.

D’altronde la riforma della legge fallimentare era stata fatta a costo zero per le casse dello Stato; il che non aveva permesso di introdurre incentivi e leve finanziarie e comunque impegnare risorse pubbliche. Oggi, in un contesto cambiato, si rende necessaria una rimeditazione del tema per convincere gli imprenditori ad affidarsi all’OCRI ed evitare che prevalgano le loro legittime perplessità. Ciò anche perché, se vi sarà una certezza nell’imprenditore, sarà la convinzione che non saranno ammessi errori nella gestione della crisi e che, se la composizione non dovesse avere successo, saranno elevate le probabilità di dissolvimento dell’impresa o, quanto meno, della perdita dell’azienda.

Chi scrive ritiene che, ad esito della pandemia, necessiti un approccio nuovo nell’affrontare la crisi d’impresa. Le esperienze del passato ci consentono di individuare le carenze maggiormente critiche che non potranno essere tollerate in un sistema imprenditoriale che ne esce fortemente indebitato e con riserve patrimoniali compromesse. L’attenta lettura dell’importante cambiamento industriale che ci attende dovrà indurci a rivalutare l’utilità di uno strumento sulla carta indispensabile quale quello dell’OCRI, anche ed in primo luogo per mitigare le escussioni delle garanzie oggi concesse dallo Stato e le loro drammatiche ricadute. Occorre però che l’OCRI venga adeguatamente rafforzato e possa essere unanimemente riconosciuto come adeguato allo scopo.

Nondimeno, necessiteranno all’OCRI marcate competenze specialistiche e settoriali per imprese che, se vorranno rimanere sul mercato, dovranno cambiare pelle ed adattarsi ad una domanda mutata. Il fattore umano e professionale è sempre quello maggiormente critico e più determinante nella gestione di una crisi. In una situazione quale quella che si prospetta a breve, occorreranno però nuove competenze industriali. Il piano della “task force Colao” sottolinea l’importanza del reskilling manageriale “per stimolare l’adozione delle competenze necessarie ad adattare i sistemi produttivi alle nuove esigenze post-Covid”: per le imprese in crisi è questa un’esigenza ancora più marcata. La composizione della crisi non può prescindere dal cennato ripensamento delle strategie di gestione e di mercato e difficilmente l’imprenditore sarà disposto ad affidare un compito così delicato a soggetti dei quali non conosce la competenza, particolarmente in un momento in cui a disporre dell’occorrente competenza settoriale saranno in pochi. In altre parole, l’imprenditore potrà chiedere supporto esterno ma chi lo fornisce deve dimostrare di disporre, o di poter disporre, di una visione lucida per intervenire sul modello di business. E’ questa forse la sfida più delicata alla quale l’OCRI ed il sistema camerale saranno chiamati.

Altro momento di criticità del procedimento di composizione assistita, in relazione al quale si renderebbe necessario un intervento, è costituito dall’assenza, in pendenza della stessa, della sospensione della trattazione delle eventuali domande di liquidazione giudiziale che espongono il debitore, tra l’altro, al rischio che un imprenditore concorrente acquisti crediti nei suoi confronti per ottenere la legittimazione alla presentazione di una istanza di fallimento (in futuro di liquidazione giudiziale) nell’ottica di proporsi quale affittuario ed acquirente dell’azienda a valore infimo o di presentare un concordato fallimentare. Al riguardo occorrerebbe prevedere normativamente che, nel caso in cui venga depositata istanza di fallimento (a regime di liquidazione giudiziale) in pendenza del termine fissato per una composizione assistita, la domanda possa essere trattata solo dopo l’esito negativo del procedimento di composizione e sempreché sia scaduto invano il termine fissato dal collegio degli esperti per l’accesso ad una delle procedure previste dalla legge fallimentare (a regime, dall’art. 37 del Codice della Crisi)[23].

In ogni caso, se si vuole che l’imprenditore acceda volontariamente alla composizione assistita, occorre espungere, quanto meno in questa fase, l’obbligo di segnalazione da parte dell’OCRI al pubblico ministero dello stato di insolvenza. Tale obbligo apparirebbe agli occhi dell’imprenditore, in un momento in cui la crisi di liquidità rende difficile distinguere tra insolvenza attuale, insolvenza reversibile ed insolvenza prospettica, come una minaccia tanto più grave quanto più egli farà affidamento sul successo dell’intervento del collegio degli esperti; percepirebbe, infatti, la segnalazione come un tradimento della fiducia riposta. Senza considerare che la trasparenza sarà fondamentale per il successo della composizione e potrebbe non esservi trasparenza se l’imprenditore vivrà la composizione con l’assillo di una segnalazione al pubblico ministero, in caso di esito sfavorevole.

   

4.2. L’importanza del sostegno finanziario delle composizioni assistite per il volontario ricorso all’OCRI, anche in funzione di aggregazioni tra imprese.

La mancanza di strumenti fruibili per assicurare il sostegno finanziario dell’impresa è, come anticipato, un importante limite delle composizioni assistite del Codice della Crisi. Nel momento stesso in cui viene aperto un tavolo di ristrutturazione presso l’OCRI, che necessariamente coinvolge i creditori bancari, è, infatti, assai probabile che la più parte di essi provveda a riclassificare le esposizioni dell’impresa in insolvenze probabili (UTP – unlikely to pay), pregiudicando così la possibilità di richiedere nuova finanza alle relative banche. Per quanto gli UTP siano NPE (non performing exposures) ancora circoscritte alla sola banca che ha provveduto a rilevarli nell’ottica della propria matrice di bilancio e non comportino una segnalazione in centrale rischi, la loro classificazione pregiudica di fatto la copertura dei fabbisogni finanziari dell’impresa in crisi da parte delle banche interessate, con conseguenze sul successo del risanamento. Il solo sospetto che dall’avvio di una composizione assistita possa derivare una riclassificazione in UTP delle proprie esposizioni bancarie indurrà l’impresa a differire l’intervento dell’OCRI e, nella migliore delle ipotesi, ad attivarlo troppo tardi quando ogni tentativo condotto in bonis non avrà dato alcun risultato.

Il che è un controsenso ed è indispensabile che venga colmata la carenza se si vuole fruire di uno strumento che avrebbe due innegabili punti di forza: la stragiudizialità e la terzietà del collegio degli esperti.

Tra gli interventi suggeriti dalla “task force” Colao ve ne è uno (4.iii.b), relativo ai fondi di turnaround di imprese con esposizioni UTP, che potrebbe essere utilmente esteso alle PMI utilizzando proprio la leva dello strumento dell’OCRI.

Si tratterebbe di incentivare gli investimenti in primo luogo di investitori istituzionali specializzati.

L’investimento invero dovrebbe essere prioritariamente rivolto ad altri imprenditori con i quali è in rapporto l’impresa o comunque potrebbe esserlo. Ci si riferisce a fornitori strategici e a clienti di filiera ma anche a imprenditori terzi che operano nello stesso settore o in settori attigui. In tal caso esso preluderebbe ad aggregazioni, joint venture od accordi commerciali atti a rafforzare industrialmente l’impresa in crisi.

Gli incentivi dovrebbero fare leva su agevolazioni fiscali per l’investitore.

Inoltre, nel caso in cui ad esito della composizione assistita abbia luogo un’aggregazione tra imprese potrebbe essere introdotta una mitigazione del cuneo fiscale sul costo del lavoro. Lo spazio per prevederla vi sarebbe posto che una risorsa in GIGS per cessazione di attività costerebbe alle casse dello Stato, tenuto anche conto della NASPI, non meno di 60 mila euro.

La presenza dell’OCRI assicurerebbe la necessaria terzietà e giustificherebbe le agevolazioni in questione.

Gli investimenti potranno avere ad oggetto strumenti di equity, obbligazioni convertibili o meno, prestiti subordinati, strumenti di debito. A tal riguardo, i tempi sono maturi per rimeditare il portato dell’art. 2483 c.c., laddove preclude alle SRL l’emissione di titoli di debito salvo che siano garantiti da un intermediario bancario; il che ha, infatti, reso la norma scarsamente applicata.

Questi ultimi, potrebbero essere anche utilizzati in analogia a quanto previsto per il “Fondo Patrimonio PMI” di cui al co. 12 dell’art. 26 del Decreto Rilancio ma con vincoli ulteriori, al fine di rispettare il quadro normativo europeo sugli aiuti di stato, sulla falsariga della griglia di accesso al Fondo Centrale di Garanzia PMI di cui alla l. 662/1996.

Essi troverebbero uno stimolo nella presenza dell’OCRI, il quale dovrebbe essere chiamato ad esprimere un parere indipendente sulla fattibilità del risanamento e sulla sostenibilità del debito.

In ogni caso, per evitare violazioni della disciplina sugli aiuti di stato, le operazioni dovranno avere luogo a valore di mercato.

Più in dettaglio, le agevolazioni fiscali potrebbero concretizzarsi in un credito d’imposta per l’investitore o, in caso di interventi nell’equity, in una Super-Ace, per tenere conto del più elevato fattore di rischio che caratterizza l’investimento.

Potrebbero anche essere introdotte agevolazioni finanziarie: si tratterebbe in tal caso di un vero e proprio intervento di fondi pubblici (quali Invitalia, in via analoga a quanto previsto dall’art. 26 del Decreto Rilancio, o il fondo per i marchi storici di cui all’art. 43 dello stesso decreto) o del Fondo Centrale di Garanzia PMI. Essi però presentano, alla luce di quanto verrà in appresso esaminato, alcuni momenti di maggiore criticità .

La disciplina europea in materia di aiuti di stato impone che le disposizioni agevolative non introducano criteri di selezione ma siano aperte genericamente a tutte le imprese e che esse non presentino situazioni tali da farle ricadere nello stato di impresa “in difficoltà” di cui all’art. 2 par. 18 del regolamento UE n. 651/2014[24]. Con una necessaria precisazione: la pandemia Covid-19 è stata considerata dalla Commissione europea[25] una calamità naturale che consente fino al 31 dicembre 2020 interventi in deroga ai vincoli relativi alle imprese “in difficoltà”. In tale quadro lo stato di difficoltà non deve essere anteriore al 31 dicembre 2019.

Al di fuori del ristretto termine temporale del 31 dicembre 2020 posto dal temporary framework, salvo suoi differimenti, la presenza di precisi limiti superati i quali non si possa più accedere, per il tramite dell’OCRI, alle risorse in questione indurrebbe, da una parte, le imprese ad avvalersi della composizione assistita quando ancora la situazione non sia irrimediabilmente deteriorata, con la conseguente incentivazione di comportamenti virtuosi, dalla parte opposta, essa costituisce un’indubbia criticità in tempi di Covid.

Quest’ultima però non deve portare ad arrendersi, anche sul piano politico, nella ricerca di aree di compatibilità con la disciplina europea[26] in quanto consentire alle imprese che si rivolgono all’OCRI l’accesso alla nuova finanza costituisce l’uovo di Colombo per stimolare l’alleata precoce; è questo il presupposto che permette di raggiungere l’obiettivo al quale mirano sia il Codice della Crisi che la Direttiva Insolvency e che, diversamente, sarebbe affidato solo ad un complesso (e comunque tardivo) processo di segnalazioni passive da parte degli organi di controllo o dei creditori pubblici qualificati.

Tutto ciò con un ulteriore importante vantaggio derivante dal coinvolgimento di fondi di investimento specializzati. La detenzione da parte dei fondi di strumenti di equity o di finanziamenti subordinati consentirà, infatti, agli stessi di attivare specifiche regole di monitoraggio. L’uscita dalla crisi pandemica non sarà, infatti, né breve né priva di alti e bassi. Attivare, su impulso di investitori professionali ed accorti, un monitoraggio sull’impresa nel corso della ristrutturazione permetterà di cogliere con tempestività ed efficacia eventuali derive rispetto al piano e, grazie alla presenza di un operatore qualificato e specializzato, intervenire con altrettanta tempestività ed efficacia nel rimuoverle.

Il fondo “UTP” eserciterà a tal fine un ruolo sia di vigilanza che propositivo: ci si deve aspettare che, nei casi più complessi, tali fondi solleciteranno anche aggregazioni tra imprese per consentire l’uscita dalla crisi, ovviando così al dissolvimento dell’azienda con il ricorso ad economie di scala e ad approcci manageriali, più strutturati ed evoluti, maturati presso le imprese che sono state in grado di adattare il proprio modello di business alle esigenze del mercato.

 

4.3. La definizione del debito fiscale nell’ambito della composizione assistita.

Il debito fiscale e quello previdenziale sono una nota dolente delle imprese italiane che deriva in parte dall’atteggiamento storicamente inerte del creditore pubblico, nonché dai provvedimenti di clemenza a regime e di quelli straordinari via via emanati.

A fronte ad un diffuso debito erariale e contributivo insoddisfatto, manca nella “cassetta degli attrezzi” dell’OCRI la transazione fiscale che il legislatore ha riservato agli accordi di ristrutturazione ed ai concordati preventivi. Chi scrive non ravvisa alcun motivo per escluderla nella fase della composizione assistita, se non quello dell’assenza del giudizio di un attestatore e dell’omologa da parte del tribunale. Il primo potrebbe però essere agevolmente sostituito da uno specifico vaglio del collegio degli esperti; alla mancanza della seconda si potrebbe invece sopperire attraverso la richiesta di una specifica validazione terza da parte del referente dell’OCRI competente, eventualmente reclamabile dal creditore pubblico interessato.

A ben vedere, la questione potrebbe essere risolta anche con maggiore semplicità intervenendo direttamente nel quadro normativo fiscale. Il momento maggiormente critico è costituito dal fatto che la rateazione dei debiti fiscali è allo stato possibile solo in seguito ad avviso bonario od alla iscrizione a ruolo. L’incertezza nel prevedere quando la rateazione potrà essere attivata, ancorché non vi siano dubbi sulla sua spettanza in caso di richiesta da parte del debitore, rende più complessa la stima del fabbisogno finanziario prospettico e la formulazione degli accordi con gli altri creditori. L’attivazione dell’Agenzia delle entrate è, infatti, il presupposto per l’ottenimento della rateazione ed essa ha luogo a distanza di tempo rispetto alla maturazione dello scaduto. Per evitare incertezza nella stima del dies a quo della rateazione (dal quale dipende il numero delle rate e di conseguenza il fabbisogno finanziario) sarebbe sufficiente prevedere l’avvio della stessa su richiesta dell’OCRI nel numero massimo delle rate previsto per la rateazione ordinaria, senza attendere alcun avviso bonario o iscrizione a ruolo. Evidente sarebbe il vantaggio per le casse dello Stato e l’incentivo ad avvalersi della composizione assistita.

       

4.4. Facilitazione della compensazione orizzontale dei debiti e dei crediti verso la pubblica amministrazione.

Il Codice della Crisi prevede agli artt. 15 e 18 l’irrilevanza, ai soli fini segnaletici all’OCRI, dello scaduto fiscale e contributivo in presenza di crediti verso la Pubblica Amministrazione per importo tale da ricondurre il primo al di sotto della soglia di rilevanza. Tale situazione creditoria, ancorché attestata dall’organo di controllo o da un professionista esterno, non permette però di attivare alcuna compensazione delle partite.

Il tema della compensazione è stato affrontato da altre norme dello Stato (d.m. 22 maggio 2012 e d.m. 25 giugno 2012) con la creazione di una piattaforma informatica presso il MEF dei crediti commerciali vantati dalle imprese nei confronti della Pubblica Amministrazione. Si tratta però di uno strumento inadeguato che presenta rilevanti limiti di impiego, al punto che la “task force Colao” ha suggerito di ridisegnarlo in toto (iniziativa 2.iii). Infatti, esso permette la compensazione con i soli debiti erariali già in avanzata fase di riscossione[27] e non anche con gli importi dovuti in base ad autoliquidazione del contribuente. In ogni caso la compensazione non è automatica ma necessita di una verifica preventiva dell’Agenzia delle entrate-Riscossione.

Il ruolo di terzietà dell’OCRI ed il coinvolgimento del sistema camerale potrebbero invece essere utilmente impiegati per accelerare il processo di compensazione ed estenderlo alle imposte ed ai contributi dovuti in sede di autoliquidazione, a prescindere dalla loro iscrizione a ruolo. Tanto più che la fattura elettronica concorre alla trasparenza del sistema, tenuto altresì conto del fatto che gli enti pubblici sono gli unici soggetti autorizzati a respingere le fatture elettroniche.

Con il che verrebbe agevolato, per le imprese in crisi e come tali maggiormente bisognose, il superamento un’anomalia ingiustificata derivante dal tardivo pagamento dei propri debiti da parte della Pubblica Amministrazione.


4.5. Incentivi per il riconoscimento di stralci del credito verso il debitore.

Molte imprese usciranno dalla pandemia con una posizione debitoria aggravata in presenza di un equity assottigliato. In questi casi la negoziazione di stralci con alcuni creditori potrà essere l’unica via per ricostituire l’equity e consentire la sostenibilità del debito. Lo stralcio può essere ottenuto in modo forzoso, attraverso lo strumento concordatario o con l’accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa, oppure in modo concertato con i singoli creditori.

Le richieste di stralcio sono però spesso colte dai creditori commerciali come interventi opportunistici; il che porta il creditore a respingerle. Ebbene, in caso di composizione assistita, la terzietà del collegio degli esperti dell’OCRI, unitamente al suo ruolo di filtro e mediazione nella conduzione delle trattative, eviterebbe che lo stralcio venisse ritenuto opportunistico e consentirebbe un agevole bilanciamento degli opposti interessi.

Manca però all’OCRI un elemento fondamentale di persuasione. Si tratta della neutralizzazione dell’impatto fiscale in capo al creditore, in particolare, quando quest’ultimo presenti risultati imponibili negativi od insufficienti ad assorbire fiscalmente la perdita economica che deriva dagli stralci (fenomeno tutt’altro che remoto in tempi di Covid). Sotto questo profilo potrebbe essere risolvente il riconoscimento al creditore di un credito d’imposta immediatamente fruibile, anche tramite compensazioni di tipo “orizzontale”, commisurato allo stralcio concesso. In particolare, il credito d’imposta dovrebbe essere di ammontare almeno corrispondente al saving teorico d’imposta derivante dalla perdita sul credito. La sola presenza di un organo terzo quale è l’OCRI costituisce un presidio di legittimità e consentirebbe di evitare frodi e finanche pericolosi abusi.

Molto opportunamente, il credito d’imposta potrebbe essere riconosciuto anche in caso di conversione dei crediti commerciali in partecipazioni al capitale sociale o in strumenti finanziari partecipativi. Verrebbe così raggiunto, in presenza di fornitori della filiera, il vantaggio ulteriore del rafforzamento della confluenza degli interessi tra le imprese che ne fanno parte e dell’accrescimento del valore della collaborazione in seno alla filiera produttiva.

L’incentivo che ne deriverebbe a ricorrere all’OCRI è evidente.

 

4.6. L’adeguatezza dell’operato del collegio degli esperti.

Un’ulteriore legittima perplessità dell’imprenditore nell’affidarsi all’OCRI risiede nel timore che i membri del collegio degli esperti che verranno designati dispongano delle necessarie competenze per assisterlo nella definizione delle strategie e del piano di azioni occorrenti per superare la crisi. Nondimeno, potranno sorgere perplessità sul fatto che essi siano in grado di dedicare il tempo necessario anche per la conduzione delle trattative. E’ ben vero che l’imprenditore ha la possibilità di designare un membro “amico”, ma è altrettanto vero che la conduzione delle trattative richiede marcate competenze e non è detto che l’imprenditore sia in grado di individuare soggetti che ne dispongano o di valutarne ex ante la presenza.

Per rimuovere le perplessità del creditori si potrebbe prevedere espressamente in capo al referente dell’OCRI l’obbligo di una costante valutazione di merito sull’andamento dei lavori e sull’efficacia dell’operato del collegio degli esperti con facoltà di sostituirne in via autonoma, sentito il debitore, in tutto o in parte, i suoi membri nel caso in cui la composizione non progredisca per fatti imputabili al collegio stesso.

 

4.7. La competenza manageriale: il primo requisito per condurre l’impresa al di fuori della crisi.

Già si è accennato che, in particolare in questo contesto storico, l’elemento di maggiore rilevanza sia un altro ancora: la competenza manageriale a gestire un momento di necessari cambiamenti.

I fattori critici del risanamento aziendale non sono solo quelli della finanza e dell’equity. Questi sono presupposti necessari, ma non sufficienti, per il successo delle operazioni: di determinante rilevanza è invece il fattore umano manageriale. La gestione della crisi richiede il più delle volte, in tempi normali, competenze specifiche ed un approccio nuovo nella conduzione del business al fine di porre rimedio agli errori del passato. In un momento straordinario quale il presente, è richiesta una competenza più specialistica nell’individuare ed implementare gli adeguamenti da portare al modello di conduzione del business, allorquando esso si sia dimostrato inadeguato a cogliere i nuovi bisogni della domanda.

L’accesso da parte del collegio dell’OCRI ad una piattaforma di competenze specifiche evolute, atte ad adeguare l’attività dell’impresa alle nuove esigenze del mercato, sarebbe un elemento di rilevante attrattiva per gli imprenditori e, nel contempo, un concreto sostegno non altrimenti rinvenibile da parte delle PMI in difficoltà. In passato, un tema affine, ancorché assai meno critico per la sopravvivenza delle imprese, quello della loro internazionalizzazione, venne affrontato con lo strumento dei voucher di cui al d.m. 15 maggio 2015 ed in tempi più recenti, per l’innovazione delle imprese, con i voucher di cui ai d.m. 7 maggio 2019 e 14 gennaio 2020. Tali norme prevedevano una mitigazione del costo del ricorso a competenze manageriali esterne e avevano dato risultati positivi al punto che molte imprese continuarono ad avvalersi dei manager interinali anche una volta cessata la contribuzione costituita dal voucher[28]. Ebbene, si tratta di meccanismi che potrebbero essere utilmente impiegati, come anche suggerito dall’iniziativa n. 13 della “task force Colao”, per incentivare le imprese in crisi a ricorrere a nuove marcate competenze specifiche per il loro adeguamento al cambiamento della domanda.

In verità, non sarebbe necessariamente richiesto un intervento normativo assistito dalla contribuzione pubblica: potrebbero essere sollecitate soluzioni diverse ed un ruolo rilevante potrebbe averlo il sistema camerale. Esso, mediante l’interlocuzione con le associazioni di categoria, ha, infatti, la possibilità di incentivare il popolamento di bacini di esperti, eventualmente attraverso piani di formazione finanziata interaziendale, caratterizzati da adeguata specializzazione nelle diverse filiere produttive. Da tali bacini ben potrebbero attingere, sollecitate dal collegio dell’OCRI, le imprese nel corso delle composizioni assistite per avvalorare percorsi di ristrutturazione anche nell’ottica di definire con maggiore efficacia gli accordi con i creditori e gli altri stakeholder coinvolti.


5. Conclusioni.

In tempi di Covid appare dunque prioritario contenere il contagio della crisi finanziaria tra il debitore ed i suoi creditori commerciali. Lo stesso impiego dello strumento del concordato preventivo dovrebbe essere circoscritto ai soli casi in cui non possano essere adottati strumenti diversi che non impediscano l’esecuzione di pagamenti spontanei dei fornitori. Esigenze di tenuta del sistema delle imprese impongono di evitare ulteriori sottrazioni di risorse finanziarie (ma anche patrimoniali) alle imprese fornitrici, in quanto già provate dalle conseguenze delle misure sanitarie. Il rischio, nel momento attuale in cui è la più parte del sistema delle imprese ad essere in difficoltà, è quello che, con un effetto valanga, il freezing delle partite debitorie trascini nella crisi d’impresa fornitori che avrebbero avuto chance di evitarla. Con conseguenze sull’occupazione facilmente intuibili. Si tratterebbe solo di disincentivare comportamenti opportunistici del debitore che colga nello stralcio forzoso del debito una via privilegiata e più vantaggiosa per la ricostituzione dell’equity e del valore dell’azienda.

Nella tabella allegata chi scrive ha cercato di sintetizzare in modo organico i numerosi interventi proposti.

Volendo trarre una conclusione, si richiede al legislatore di introdurre misure compensative del sacrificio subito dai creditori nella ricostituzione del valore dell’azienda. Nell’ottica di disincentivare il ricorso opportunistico al concordato preventivo, si richiede anche di rendere più efficaci le norme vigenti sulle proposte concorrenti che, dalla loro introduzione, non sono riuscite a manifestarsi vanificando le lodevoli intenzioni del legislatore. Per motivazioni affini, si suggerisce di rivedere le modalità di intervento delle parti correlate al debitore nelle procedure competitive che hanno ad oggetto la cessione dell’azienda o di rami aziendali da parte di procedure concorsuali. La possibilità di evitare i temuti effetti di contagio della crisi, non è però solo nelle mani del legislatore. Un diverso ruolo attivo deve essere anche assunto dagli organi delle procedure e dai professionisti, con particolare riguardo alle proposte concorrenti. Agli organi delle procedure è richiesta la raccolta di informazioni adeguate per agevolare la formulazione di proposte concorrenti. Ai professionisti si chiede invece di sollecitare la creazione di comitati dei creditori anche solo in una mera ottica della agevole proposizione di proposte “parassitarie” che integrino quella del debitore con il riconoscimento ai creditori chirografari, in aggiunta al soddisfo previsto dal debitore, di diritti partecipativi o di earn-out sul valore dell’azienda ad esito del concordato.

Per gli stessi motivi dianzi rappresentati occorrerebbe circoscrivere il preconcordato di cui al co. 6 dell’art. 161 l.f., quanto più possibile, alle imprese che effettivamente intendono ricorrere allo strumento del concordato preventivo. Purtroppo esso viene impiegato anche quando si intenda uscirne con una passerella verso l’accordo di ristrutturazione e ciò solo per la difficoltà di impiego del pre-accordo di cui al co. 6 dell’art. 182-bis l.f. Il vigente obbligo di adottare senza indugio gli strumenti per il superamento della crisi, la ricerca di protezione dai creditori e la sospensione dell’assunzione dei provvedimenti in caso di perdita del capitale sociale obbligano allo stato il debitore a ricercare una soluzione nel pre-concordato e ciò anche quando essa sia strumentale ad un accordo di ristrutturazione o, più recentemente, ad un piano attestato di risanamento protetto, introdotto in via transitoria dal Decreto Liquidità. Ebbene, per evitare un uso improprio del preconcordato in luogo del preaccordo sarebbe sufficiente allineare la disciplina del secondo a quella del primo, come peraltro previsto dal Codice della Crisi.

Al legislatore si richiede, infine, di anticipare l’entrata in vigore della sola composizione assistita prevista, nell’ambito delle misure di allerta, dal Codice della Crisi quale strumento da attivarsi esclusivamente su base volontaria, non essendo oggi il sistema delle imprese e quello camerale in grado di affrontare la restante parte delle misure di allerta e segnatamente massive segnalazioni passive. Affinché la norma non resti lettera morta occorre rendere affidabile lo strumento agli occhi dell’imprenditore. A tal fine si rende necessario accompagnare il provvedimento con la dotazione del collegio dell’OCRI di un articolato pacchetto di mezzi efficaci per la conduzione delle trattative e il risanamento dell’impresa. Si eviterebbe in tal modo di ricorrere a strumenti pervasivi che comportano rilevanti criticità per il sistema, ricercando la composizione della crisi ogni qual volta sia possibile, al di fuori delle aule di giustizia.

Chi scrive è convinto che ne deriverebbe un ulteriore rilevante vantaggio: tutto il complesso impianto delle misure di allerta godrebbe, una volta entrato a regime, di una reputazione favorevole derivante dall’aver sperimentato su basi volontarie, in un momento storico di grande criticità, l’utilità di impiego della composizione assistita.

D’altronde le rivoluzioni più importanti non sono state fatte sulla carta ma sul campo e il post-Covid è l’occasione per riformare davvero la crisi d’impresa.



[1] Il recupero dell’IVA addebitata è comunque differito nel tempo.

[2] Fa eccezione solamente il ruolo giocato da taluni creditori finanziari forti che si consorziano per esercitare legittime pressioni sul debitore affinché formuli una proposta adeguata, ancorché esso sia stato, sino ad ora, circoscritto a pochi casi di ristrutturazione, comunque tutti relativi a imprese di grandi dimensioni.

[3] Il che è vero nei concordati in continuità soggettiva ma ci si riferisce anche al caso in cui in un concordato in continuità diretta il governo e la titolarità dell’impresa passi nelle mani di un terzo al quale sia riservato l’aumento di capitale (in tal senso, Trib. Roma 5 agosto 2019, in Il Caso.it).

[4] A. RIMATO, Le proposte concorrenti quali nuovi strumenti per la soluzione della crisi, in Fallimenti e Società – Osservatorio di diritto societario e fallimentare, Vicenza, 2016.

[5] La disciplina italiana delle proposte concorrenti nel caso del concordato preventivo non contrasta con la Direttiva v. L. PANZANI, Il preventive restructuring framework nella Direttiva 2019/1023 del 20 giugno 2019 ed il codice della crisi. Assonanze e dissonanze in Diritto bancario, 14/10/2019.

[6] Trib. Napoli, 2 Febbraio 2018, in Il Caso.it 27/2/19.

[7] M. FABIANI Riflessioni sistematiche sulle addizioni legislative in tema di crisi di impresa in Nuove leggi civ. comm., 2016, p. 10

[8] Non è neppure immediato individuarli a titolo esemplificativo: si pensi al caso in cui il debitore che, anche giustificatamente in un’ottica di contenimento dei costi, cessi ogni investimento commerciale nei mercati ritenuti dal terzo proponente strategici o al caso in cui il debitore non si adoperi per evitare che si deteriori il rapporto con talune risorse chiave per il terzo proponente.

[9] Si tratta di ricercare un punto di equilibrio tra gli interessi del debitore, quelli del terzo proponente e quelli dei creditori (v. AIELLO, La competitività nel concordato preventivo, Torino, 2019, p. 161).

[10] Considerando (16): “Per evitare atti od operazioni che possano contrastare il conseguimento degli obiettivi dell'offerta, è necessario limitare i poteri dell'organo di amministrazione della società emittente in ordine al compimento di atti od operazioni di carattere straordinario, senza ostacolare indebitamente tale società nella sua attività normale”.

[11] V. FABIANI, op. cit., che ravvisa nell’art. 185 l.f. uno dei pochi rimedi esperibili allo stato che si sostanzia, essenzialmente, nella sostituzione gestoria del debitore ma solo nella fase di esecuzione del piano. Prima di essa potrebbero solo ravvisarsi strumenti non agevoli e comunque di limitata efficacia quali la nomina di un custode giudiziale (Trib. Catania, 28 febbraio 2019, www.ilcaso.it. nel periodo del pre-concordato) o provvedimenti cautelari o conservativi ai sensi del co. 8 dell'art. 15 l.f. ammessi dalla giurisprudenza di merito anche nel pre-concordato (Trib. Bari, 17 agosto 2018, in Foro it., 2019, I, 1073)

[12] L’art. 163 prevede che “…. la relazione di cui al comma terzo dell’articolo 161 può essere limitata alla fattibilità del piano per gli aspetti che non siano già oggetto di verifica da parte del commissario giudiziale, e può essere omessa qualora non ve ne siano”.

[13] Essa si pone a valle di una storia di abusi commerciali nei confronti del fornitori che si sostanziano nella nefasta consuetudine, tutta italiana, del sistematico mancato rispetto dei termini di pagamento ad evitare il quale a nulla è servita la Direttiva europea 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali attuata con d. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, nonostante la rilevanza degli interessi moratori (8%) previsti. In altre parole, la crisi di liquidità, con la conseguente sospensione del ciclo dei pagamenti, è intervenuta in un contesto deteriorato di mancato usuale (“fisiologico”) rispetto dei termini di pagamento e si è pertanto stratificata su uno scaduto rilevante delle partite commerciali.

[14] Sul punto sia consentito di rinviare a Ranalli, Il ruolo del Collegio Sindacale nella verifica degli adeguati assetti organizzativi alla luce del novellato art. 2086 c.c. in Società e Contratti, Bilancio e Revisione, 03/2020.

[15] La norma stabilisce che l’udienza debba essere fissata entro 30 giorni dal deposito dell’istanza.

[16] Art. 48 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78 convertito dalla L. 30 luglio 2010, n.122.

[17] L. 7 agosto 2012, n. 134 che ha convertito con modificazioni il d.l. 22 giugno 2012 n. 83.

[18] S. AMBROSINI, La rinuncia al concordato preventivo dopo la legge (n. 40/2020) di conversione del “Decreto liquidità”: nascita di un “ircocervo”?, in www.ilcaso.it; M. FABIANI, Il piano attestato di risanamento protetto, in Il Fallimento n. 7/2020, secondo il quale la vera spina nel fianco è costituita dal blocco dei pagamenti al punto che egli ne ravvisa vantaggi superiori agli svantaggi solo per pochi specifici settori di attività, quali holding e società immobiliari.

[19] G.B. NARDECCHIA, intervento al web-meeting di Assonime sulle Misure normative connesse alla crisi sanitaria ed economica causata dal Covid-19, 28 aprile 2020.

[20] Secondo le stime recentemente formulate con l’ausilio di Cerved (F.SCHIVARDI G. ROMANO, A simple method to estimate firms liquidity needs during the Covid-19 crisis with an application to Italy, in CEPR Press, 2 luglio 2020) le società di capitali desinate ad entrare in crisi di liquidità entro la fine dell’anno sono 200 mila (oltre 230 mila in uno scenario pessimistico) su 720 mila società di capitali e, pertanto, poco meno del 30% delle imprese. Per quanto solo una parte di esse sia dotata di organo di controllo, è ragionevole ritenere che molte di esse presenteranno esposizioni rilevanti di natura erariale e contributiva. L’intervento della finanza di urgenza non rimuove la criticità della sostenibilità finanziaria della stessa e neppure quella dell’adeguatezza del patrimonio netto. Drammatici sono, infatti, i numeri associati (e si tratta solo delle 720 società di capitali sui 4,5 milioni di imprese) anche in assenza di un nuovo lockdown: 106 miliardi di euro di carenza di liquidità e 3,1 milioni di occupati. Numeri che restano assai gravi anche in seguito alle misure di finanza emergenziale del Decreto Liquidità introdotte: 65 mila imprese e 1,5 milione di occupati. Solo l’attuazione delle misure del Decreto Rilancio potrebbe mitigare i numeri ma né il Decreto Liquidità, né quello Rilancio, questo secondo per la norma che interessa le PMI (il “Fondo Patrimonio PMI” di cui all’art. 26), non potrebbero risolvere il gap patrimoniale derivante dalla crisi di liquidità.

[21] RANALLI, Le misure di allerta – dagli adeguati assetti sino al procedimento avanti all’OCRI, Milano, 2019.

[22] Si tratta, principalmente: nei rapporti con le banche, della possibilità di riscadenziamento del debito; nei confronti dei fornitori, delle rateazioni del debito, del ricorso a contratti estimatori in luogo di contratti di fornitura, della conversione in equity e mezzanini del debito verso fornitori strategici; nei confronti dei clienti, del ricorso al conto lavoro in luogo della fornitura, della sottoscrizione di strumenti finanziari da parte dell’impresa capofiliera; nei confronti dell’erario, della rateazione delle iscrizioni a ruolo e degli avvisi bonari (RANALLI, Le misure di allerta, cit., § 3.2.).

[23] La materia è stata oggetto di osservazione da parte della Commissione Giustizia della Camera dei deputati nella disamina dello schema del decreto legislativo correttivo del Codice della Crisi.

[24] E’ impresa in difficoltà un'impresa che soddisfa almeno una delle seguenti circostanze: i) qualora abbia perso, a causa di perdite cumulate, più della metà del capitale sociale sottoscritto, comprendente eventuali premi di emissione, se società di capitali, o fondi propri se altre imprese; ii) qualora l'impresa sia oggetto di procedura concorsuale per insolvenza o soddisfi le condizioni previste dal diritto nazionale per l'apertura nei suoi confronti di una tale procedura su richiesta dei suoi creditori; iii) qualora l'impresa abbia ricevuto un aiuto per il salvataggio e non abbia ancora rimborsato il prestito o revocato la garanzia, o abbia ricevuto un aiuto per la ristrutturazione e sia ancora soggetta a un piano di ristrutturazione; iv) nel caso di un'impresa diversa da una PMI, qualora, negli ultimi due anni (1) il rapporto debito/patrimonio netto contabile dell'impresa sia stato superiore a 7,5 e (2) il quoziente di copertura degli interessi dell'impresa (EBITDA/interessi) sia stato inferiore a 1,0.

[25] V. il temporary framework di cui alla Comunicazione della Commissione Europea 20 marzo 2020, n. 2020/C 91 1/01 e successive appendici.

[26] Quale mero stimolo di riflessione si pensi ad interventi che rimuovano la finanza garantita, rendendo accessibile quella dell’OCRI, ovvero posti in essere da Invitalia a protezione del credito subordinato concesso attraverso operazioni di aggregazione condotte nell’ambito della composizione assistita, sostenute da interventi sull’equity.

[27] Cartelle ed avvisi di accertamento esecutivi dell’Agenzia delle entrate o di addebito dell’INPS notificati entro il 30 settembre 2013, carichi inclusi di piani di rottamazione-ter (d.l. n. 119/2018) o di piani c.d. di “saldo e stralcio” (l. n. 145/2018) e, per il solo 2020, crediti iscritti a ruolo entro il 31 ottobre 2019.

[28] Le imprese che vi accedettero furono 1.790 per il bando MISE del 2015 e 2.276 per quello 2017.


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