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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 09/10/2020 Scarica PDF

"Progetto SFP Covid-19": brevi note su un'intuizione meritevole di essere coltivata

Fabrizio Bonato, Avvocato in Roma


Sommario: 1. Introduzione. – 2. Inquadramento del problema e descrizione del “Progetto SFP Covid-19”. – 3. Alcuni profili problematici del “Progetto SFP Covid-19”: spunti per la prosecuzione del dibattito.

     

1. Introduzione

I risultati di una veloce ricerca utilizzando i principali motori di ricerca online, prima risorsa trovandosi di fronte a un argomento del tutto sconosciuto e tuttavia potenzialmente molto interessante, non sono quelli sperati: tutti i riscontri rispetto alla stringa di ricerca contenente “Progetto SFP Covid-19” rimandano infatti direttamente al progetto di rafforzamento dei fattori di protezione della famiglia promosso dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.

Una più attenta disamina delle fonti di settore, tuttavia, consente di giungere ad alcuni pertinenti contributi rispetto al reale oggetto di ricerca. Nello specifico, il “Progetto SFP Covid.19” si configura come una possibile risposta, individuata da illustri Autori ed esperti in ristrutturazioni societarie[1], alle problematiche connesse al patrimonio netto che moltissime imprese si troveranno ragionevolmente ad affrontare in conseguenza della pandemia Covid-19.

Il presente contributo si pone allora in tale solco, tentando di rinfocolare il dibattito e la discussione dottrinale intorno a quella che – laddove correttamente implementata – potrebbe davvero tradursi in una misura efficace nel presente contesto emergenziale.

 

2. Inquadramento del problema e descrizione del “Progetto SFP Covid-19”

Come sempre accade, il primo passo per l’individuazione di una soluzione nasce dalla percezione del problema.

Nello specifico, risulta evidente a tutti gli operatori del settore che le conseguenze della pandemia Covid-19 – e delle misure adottate dal Governo per arginarne la diffusione – saranno particolarmente critiche non soltanto in termini di liquidità di breve periodo o di incapacità di far fronte al pagamento delle rate dei finanziamenti a medio-lungo termine, problematiche per cui in verità il legislatore si è già attivato[2], ma anche e soprattutto in termini di tendenziale insostenibilità della capital structure[3] delle imprese e di eccessiva leva finanziaria.

Questa è la problematica che il “Progetto SFP Covid-19” si pone l’obiettivo di risolvere, mediante un’automatica operazione di debt equity swap[4] volta a conseguire un effetto positivo sul patrimonio netto della società in questione. Tale meccanica, del resto, è stata nell’ultimo periodo largamente utilizzata nel contesto delle operazioni di restructuring al fine di riequilibrare la posizione finanziaria netta (PFN) della società debitrice e consentirle di affrontare il proprio percorso di ristrutturazione e rilancio[5].

Tuttavia, come correttamente rilevato, la situazione nel presente contesto pandemico si pone differentemente, principalmente a causa del numero di imprese che necessiteranno della ristrutturazione del proprio indebitamento: tale diversa magnitudo, infatti, potrebbe non consentire una gestione individualizzata delle situazioni di crisi ma necessitare, al contrario, di uno strumento utilizzabile con profili di automaticità[6].

La soluzione prospettata nel contesto del “Progetto SFP Covid-19” è rappresentata da una standardizzazione degli strumenti finanziari partecipativi, che avrebbero pertanto caratteristiche omogenee almeno per categorie, e dalla conversione automatica dei prestiti bancari garantiti dallo Stato nell’una o nell’altra categoria di strumenti finanziari partecipativi al ricorrere di determinate condizioni e circostanze.

Nello specifico, secondo la struttura ipotizzata le imprese che si dovessero trovare in una situazione di patrimonio netto negativo beneficerebbero della conversione in SFP con caratteristiche di equity[7] – e pertanto da contabilizzarsi in una riserva “targata” di patrimonio netto –, mentre le imprese che non dovessero trovarsi nella predetta situazione beneficerebbero della conversione in SFP con caratteristiche di debito[8] il cui rimborso sarebbe previsto a lungo termine (approssimativamente almeno 15 anni dalla data di emissione)[9].

La struttura del “Progetto SFP Covid-19” prevede inoltre, in estrema sintesi, la creazione di una sorte di “mercato secondario” in cui gli istituti di credito i cui crediti fossero stati convertiti in SFP potessero valorizzare tali strumenti e reimmettere valore nel circuito produttivo[10].

 

3. Alcuni profili problematici del “Progetto SFP Covid-19”: spunti per la prosecuzione del dibattito

Alla luce di tutto quanto esposto sopra, è evidente che il “Progetto SFP Covid-19” si configuri come una soluzione potenzialmente efficace rispetto alle problematiche di capital structure che le imprese si troveranno ad affrontare nel prossimo futuro.

Tuttavia, come spesso accade, il modo migliore per far fiorire il dibattito e, per l’effetto, consentire a un’idea meritevole di realizzarsi è evidenziarne i punti potenzialmente più problematici.

Procedendo su questa direttrice, è in primo luogo opportuno valutare le conseguenze della “conversione automatica” in strumenti finanziari partecipativi dei finanziamenti erogati dagli istituti di credito beneficiando della garanzia statale prevista dalla c.d. “legislazione d’emergenza”.

In verità, il concetto stesso di “conversione” è da precisare.

Infatti, nonostante la nomenclatura, non può sfuggire che il meccanismo di frequente realizzato nelle operazioni di restructuring consiste non tanto in una vera e propria conversione, quanto invece in una sottoscrizione da parte degli istituti di credito degli strumenti finanziari partecipativi emessi dalla società e una successiva compensazione, fino a concorrenza del relativo importo, del credito vantato da questi ultimi con il debito nei confronti della società per il versamento dell’apporto previsto per la “liberazione” degli SFP stessi[11].

Appare allora evidente che la soluzione proposta non possa assimilarsi al meccanismo ideato e di frequente utilizzato nel contesto delle operazioni di restructuring sopra descritto, risultando invece una trasformazione coattiva, ex imperio, di un credito della banca in uno strumento partecipativo dotato di determinati diritti (rimborso a lungo termine in caso di strumento di debito, assenza di diritto al rimborso in caso di strumento di quasi-equity), non essendovi alcun accordo tra la banca creditrice e la società emittente né alcuna intesa circa il soddisfacimento mediante compensazione del debito da apporto.

È inoltre opportuno segnalare che, nella quasi totalità dei casi in cui gli strumenti finanziari partecipativi siano stati utilizzati nel contesto di operazioni di restructuring, il relativo regolamento – nella prassi previamente concordato con gli istituti di credito destinati a divenire titolari degli SFP ma formalmente adottato dalla società emittente – ha previsto una specifica regolamentazione in merito a diritti di veto relativi a determinate operazioni e alla nomina di componenti dell’organo gestorio della società emittente medesima.

Con riferimento agli SFP che potrebbero essere “emessi” (rectius, in cui potrebbero essere coattivamente convertiti i crediti bancari) nel contesto del “Progetto SFP Covid-19”, la società emittente dovrebbe invece subire una doppia ingerenza nella propria gestione: da un lato, sotto il profilo dei diritti di veto che sarebbero ragionevolmente accordati al relativo titolare in via automatica (in quanto parte delle caratteristiche legislativamente attribuite a una certa categoria di SFP) e che avrebbero ragionevolmente ad oggetto le operazioni più rilevanti che la società potrebbe porre in essere e, dall’altro lato, sotto il profilo della composizione dei propri organi societari, atteso il diritto che verrebbe ragionevolmente accordato in via legislativa ai titolari di SFP di nominare un componente dell’organo gestorio e dell’organo di controllo.

Da ultimo, anche la “seconda parte” del “Progetto SFP Covid-19” impone una riflessione. Infatti, in senso generale la re-immissione nel mercato appare molto più probabile per gli SFP che siano emessi con caratteristiche di debito: infatti gli stessi, trattandosi in sostanza – dal punto di vista dell’istituto di credito titolare di SFP – di asset assimilabili a crediti, potrebbero essere oggetto di cartolarizzazione e cessione a società veicolo specializzate[12]. Per converso, con riferimento agli SFP aventi caratteristiche di quasi-equity tale meccanismo potrebbe ragionevolmente incontrare maggiori criticità, in particolare tenuto conto che non vi sarebbe alcuna previsione di flussi di pagamento a data determinate, bensì una distribuzione di valore a valere sugli utili conseguiti dalla società emittente ovvero sul relativo residuo di liquidazione, con collocamento antergato rispetto a quello del puro equity.

Fermo quanto sopra, come affermato in apertura del presente breve contributo il “Progetto SFP Covid-19” potrebbe costituire un’efficace modalità per affrontare i problemi di capital structure che è possibile ritenere si verificheranno nel prossimo futuro: le concrete modalità di attuazione, tuttavia, non potranno ragionevolmente prescindere dal prendere in considerazione le sopramenzionate problematiche e quelle ulteriori che saranno nel tempo portate all’attenzione degli operatori specializzati, al fine di strutturare uno strumento che – come espressamente indicato dai suoi ideatori – potrebbe realizzare “una situazione win-win per tutti gli attori coinvolti nel processo[13].



[1] La prima menzione del “Progetto SFP Covid-19” emerge nel contributo di L. Stanghellini e P. Rinaldi, Trasformazione dei prestiti Covid-19 in strumenti finanziari partecipativi (SFP). Un’idea per far ripartire il sistema delle imprese, il Caso, 3 aprile 2020, ove si afferma che la tematica oggetto, tra l’altro, della presente trattazione è nata da un’intuizione degli Autori sopra menzionati, con la collaborazione di Massimo Benedettelli, Giuseppe Ferri, Gianvito Giannelli, Fabrizio Guerrera, Giuseppe Guizzi, Marco Lamandini, Michele Perrino, Paolo Piscitello, Daniele Santosuosso, Marco Speranzin.

[2] Si fa riferimento: (i) sotto il profilo della mancanza di liquidità di breve periodo, alle agevolazioni dell’accesso al credito contenute nei vari testi normativi riconducibili alla c.d. “legislazione d’emergenza” (e.g., la “nuova finanza” la cui erogazione può beneficiare della garanzia statale e, quindi, essere accordata dagli istituti di credito anche in assenza del merito creditizio che altrimenti si renderebbe necessario ai sensi della normativa e delle procedura interne applicabili); e (ii) sotto il profilo del pagamento delle rate dei finanziamenti a medio-lungo, alle moratorie previste dal legislatore in presenza di determinati requisiti (e.g., la moratoria prevista all’art. 56 del Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18, c.d. “Cura Italia”).

[3] Il dizionario Collins (www.collinsdictionary.com) definisce “capital structure” come “the way that a company finances its assets through a combination of equity, debt etc”.

[4] In questo contesto, la necessità di porre in essere tale meccanismo viene propugnata anche da Assonime, Nota Assonime sull’Atto Camera 2461 “Conversione in legge del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23, recante misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali””, 28 aprile 2020, disponibile all’indirizzo http://www.assonime.it/attivita-editoriale/interventi/Pagine/Interventi-8_2020.aspx. Nello specifico, in tale documento Assonime afferma che, nelle misure legislative emergenziali, “dovrebbe essere inclusa la possibilità di intervenire sul capitale attraverso operazioni di debt equity swap … L’intervento del Fondo [fondo per la ricapitalizzazione delle imprese medio-grandi] dovrebbe essere temporaneo, senza diritti di voto o con limitati diritti di voto tesi a preservare i valori aziendali; si dovrebbero prevedere meccanismi di uscita verso gli stessi azionisti o verso il mercato. Gli azionisti manterrebbero la gestione dell’impresa, ma sarebbero vincolati nella distribuzione degli utili, nei compensi del management e nell’acquisto di azioni proprie”.

Sul punto si v. anche M. Fiorentino, Coronavirus, per salvare le azienda dalla crisi i prestiti non bastano. Servono strumenti finanziari partecipativi, in La Repubblica online, 2 maggio 2020, secondo cui “la liquidità non deve provenire solo da debito, ma deve derivare anche (e forse soprattutto) da forme di apporto a titolo di equity o “paraequity”, così da contribuire al riequilibrio finanziario complessivo dell’impresa …”.

[5] P. Rinaldi, in S. Ambrosini – S. Pacchi (diretto da), Crisi d’impresa ed emergenza sanitaria, Il progetto SFP Covid-19, Zanichelli, 2020, 420. Si v. anche A. Busani – M. Sagliocca, Gli strumenti finanziari partecipativi nelle operazioni di restructuring, in Soc., 2011, 927; G. Percoco, La conversione dei crediti bancari in strumenti finanziari partecipativi quale strategia durante la crisi temporanea dell’impresa societaria, in Dir. Fall., 2017, 1423 ss.; si permette inoltre di rinviare aF. Bonato, L’emissione di SFP a servizio della ristrutturazione: apporto, diritto di recesso e obbligo di riscatto, in Soc., 2017, 567 ss..

[6] P. Rinaldi, Il progetto SFP Covid-19 cit., 421, secondo cui “il numero di imprese interessate a problemi di patrimonio netto negativo sarà prevedibilmente un multiplo delle ristrutturazioni finanziarie degli anni precedenti: non è dunque possibile pensare a una negoziazione multilaterale (tavoli bancari) nell’ordine di decine di migliaia, sia per mancanza di operatori professionali (advisors, attestatori, legali, deliberanti bancari), sia per un problema di tempi e costi sottostanti alle negoziazioni stesse”.

[7] In relazione alla contabilizzazione a patrimonio netto degli SFP privi di diritto alla restituzione dell’apporto si v., tra gli altri, M. Notari – G. Giannelli, in P.G. Marchetti – L.A. Bianchi – F. Ghezzi – M. Notari (diretto da), Commentario alla riforma delle società, sub. art. 2346, comma 6, Giuffrè, Milano, 2008, 112, secondo cui il valore dell’apporto sarebbe iscritto a patrimonio “(i) qualora l’apporto (iscritto all’attivo) venga effettuato dai sottoscrittori degli strumenti finanziari partecipativi a fondo perduto, senza alcun diritto di rimborso, nemmeno al momento dello scioglimento della società (…)”, ovvero “(ii) qualora l’operazione conclusa con l’emissione degli strumenti non preveda alcun diritto di rimborso, né durante la vita della società, né al suo scioglimento, ma solo il riparto in sede di liquidazione pari passu con gli altri azionisti”; cfr. anche M. Lamandini, Autonomia negoziale e vincoli di sistema, in Banca, borsa, tit. cred., 2003, 533, secondo cui “se l’apporto è irredimibile (se non in sede di liquidazione) o non è restituibile neppure in sede di liquidazione, esso potrà verosimilmente imputarsi a patrimonio, dando luogo a una pretesa di quasi-capitale”.

[8] In relazione alla contabilizzazione degli SFP che prevedano il diritto alla restituzione dell’apporto quale voce di debito si v., tra gli altri, M. Lamandini, op. cit., 534, secondo cui “se si prevede la restituzione a una certa data (sia pure subordinata), ne risulta enfatizzata la prossimità logica di questi strumenti con le obbligazioni, sicché l’apporto andrà appostato al passivo alla voce D, al numero 7 come “debiti rappresentati da titoli di credito” e la differenziazione rispetto alle vere e proprie obbligazioni potrà fare leva sull’attribuzione ai titoli partecipativi di diritti amministrativi che non sono viceversa attribuibili alle obbligazioni”; M. Notari – G. Giannelli, op. cit., 113, secondo cui “viene iscritto al passivo, tra i debiti, l’ammontare dell’obbligo di rimborso dell’apporto. Ciò avviene qualora sia previsto un obbligo di rimborso a favore dei sottoscrittori degli strumenti finanziari partecipativi, il che a sua volta implica che sia stato effettuato (o promesso) un apporto oggetto di iscrizione all’attivo, a fronte del quale possa dirsi che la società si obbliga al rimborso”.

[9] Per una descrizione più dettagliata delle diverse categorie ipotizzate di “SFP Covid-19” e delle relative caratteristiche si rinvia a P. Rinaldi, Il progetto SFP Covid-19 cit., p. 422 ss..

[10] Tuttavia si segnala, per chiarezza, che il presente contributo non prenderà in esame tali tematiche nel dettaglio, concentrandosi invece sulla tematica degli strumenti finanziari partecipativi propriamente detti.

[11] Si v. sul punto, tra gli altri, P. Oliviero, in F. Bonelli (a cura di), Crisi d’impresa. Casi e materiali, “Conversione” del credito delle banche in capitale di rischio nel contesto della crisi dell’impresa, Giuffrè, 2015, 91 ss., secondo cui “il termine, improprio sotto il profilo strettamente giuridico, di “conversione” [è] generalmente utilizzato dalla prassi per individuare un’operazione complessa con la quale la banca si impegna a sottoscrivere azioni, strumenti finanziari partecipativi o obbligazioni convertende emessi dalla società debitrice in crisi con l’intesa che il prezzo di sottoscrizione delle azioni e /o degli strumenti di quasi-equity sarà oggetto di compensazione con parte del credito vantato dalla medesima banca verso la società emittente”.

[12] Questa ipotesi è avanzata da P. Rinaldi, Il progetto SFP Covid-19 cit., 419.

[13] P. Rinaldi, Il progetto SFP Covid-19 cit., 416.


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