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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 15/05/2020 Scarica PDF

Covid e carcere: il decreto legge 10 maggio 2020 n. 29

Letizia Di Maglie, Laureata in giurisprudenza


Sommario: 1. Le ordinanze di scarcerazione e la polemica mediatica. - 2. Detenzione domiciliare e rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena. - 3. Il decreto legge 10 maggio 2020, n. 29. - 4. Conclusioni

     

1. Le ordinanze di scarcerazione e la polemica mediatica

Il potere esecutivo più volte è intervenuto nel tempo tentando di paralizzare l’azione del potere giudiziario[1], in un dibattito atavico che ancora oggi ritorna, pur instaurandosi in un discorso totalmente disarmonico rispetto ai principi costituzionali.

Il controllo politico dell’organo giudiziario, difatti, diverse volte ha trovato attuazione in totale spregio delle garanzie costituzionali di indipendenza della magistratura e, più in generale, del principio di separazione dei poteri a fondamento dello Stato di diritto.

Eppure, come osserva Valerio Onida[2], il vero significato costituzionale del principio – che si è perfezionato e precisato proprio con riguardo al potere giudiziario – consiste, oggi, «nella separazione e nella reciproca indipendenza fra poteri di governo o politici da un lato, poteri di garanzia dall’altro lato».

I poteri di garanzia divengono però argomento di frequente discussione e di critica, mossa tanto a livello istituzionale quanto a livello privatistico da parte del singolo cittadino. Negli ultimi giorni alcuni detenuti sono stati sottoposti alla misura della detenzione domiciliare in sostituzione della carceraria, in virtù di leggi preesistenti e ad esito di un giudizio operato secondo i crismi di legge dalla magistratura competente. I provvedimenti di scarcerazione sono stati al centro della discussione pubblica, soprattutto perché i destinatari di alcuni di essi erano soggetti condannati in via definitiva per “reati gravi”.

Occorre interrogarsi allora sulla reale necessità di emanazione di un decreto legge, strumento peraltro legittimo solo in situazioni di necessità e urgenza, che regola situazioni già esistenti nel tentativo mal celato di arginare il potere discrezionale del Giudice.

Appare evidente che vi sia una grande confusione dettata dalla mediatizzazione delle notizie e dall’approccio poco tecnico nei confronti delle misure adottate.

Innanzitutto è necessario ridimensionare la portata dei titoli delle testate giornalistiche, che forniscono notizie fuorvianti sul numero di detenuti che ha chiesto ed ottenuto la sostituzione della misura carceraria con altra di minore rigore.

Delle 376 persone indicate, infatti, solo 3 erano sottoposte al regime di carcere duro ex art.  41bis e quindi appartenenti alla criminalità mafiosa, una sola è classificata come "alta sicurezza 1" – cioè fino a poco tempo fa sottoposta al 41bis – e poi 372 persone classificate come "alta sicurezza 3", ossia detenuti che hanno rivestito un ruolo di vertice nelle organizzazioni criminali dedite allo spaccio di stupefacenti. Appare doveroso specificare che tali soggetti hanno potuto usufruire della detenzione domiciliare perché la pena residua da scontare in nessun caso era superiore a 18 mesi[3].

Dei 372, peraltro, ben 195 erano persone non ancora condannate con sentenza definitiva, per le quali, quindi, il beneficio è consistito nella conversione della misura cautelare in carcere in una di arresto presso il domicilio. Ovvia e alquanto superflua la considerazione che comunque, fino a sentenza definitiva, nel nostro ordinamento vige la presunzione di innocenza.

 

2. Detenzione domiciliare e rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena

Giova ricordare che l’esecuzione penale extramuraria per motivi sanitari disciplinata dall’art. 47 ter O.P. è stata introdotta dall’art. 13 della Legge 10 ottobre 1986, n. 663, in tempi lontani dall’emergenza sanitaria mondiale che stiamo attualmente vivendo.

Presupposto per l’applicazione dell’istituto in esame è la pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, e la pena dell’arresto: l’applicabilità della detenzione domiciliare è dunque condizionata dalla pena da espiare concretamente, e non da quella erogata per il reato commesso dal soggetto, pur con i limiti sostanziali della natura del reato di cui al comma 1 dell’articolo.

La disposizione prevede difatti approfondimenti istruttori particolari quando debbano essere vagliate specifiche istanze, di permesso o di differimento della pena con applicazione della detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter comma 1-ter ord. penit. da parte di detenuti per uno dei delitti di cui all’articolo 51 commi 3-bis e 3-quater del codice di procedura penale.

Seppur in linea generale i soggetti condannati per reati ostativi non possano usufruire di misure alternative alla detenzione, in presenza di condizioni di salute particolarmente gravi, tali da risultare incompatibili con la permanenza in carcere, si può disporre il rinvio dell’esecuzione della pena ex art 147 c.p.

Il rinvio facoltativo mira ad evitare che l’esecuzione della pena avvenga in uno stato di menomazione fisica di tale rilevanza da implicare anche il profondo disagio morale prodotto dal particolare tipo di vita imposto dal carcere. La potestà punitiva dello Stato difatti incontra un limite nella tutela del diritto alla salute (art. 32 Cost.) come diritto fondamentale dell’individuo, che deve essere bilanciato con il principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (art. 3 Cost.) e il senso di umanità che deve caratterizzare l’esecuzione della pena (art. 27 Cost.).

Consolidata e approfondita giurisprudenza stabilisce che, ai fini dell’accoglimento di un’istanza di differimento facoltativo dell’esecuzione della pena detentiva per gravi motivi di salute, «non è necessaria un’incompatibilità assoluta tra la patologia e lo stato di detenzione, ma occorre pur sempre che l’infermità o la malattia siano tali da comportare un serio pericolo di vita, o da non poter assicurare la prestazione di adeguate cure mediche in ambito carcerario, o, ancora, da causare al detenuto sofferenze aggiuntive ed eccessive, in spregio al diritto alla salute e del senso di umanità al quale deve essere improntato il trattamento penitenziario» (si veda, in tal senso, Cass., Sez. I, 17. 5. 2019, n. 27352).

Diversa la ratio della detenzione domiciliare, sebbene non cambi l’oggetto di tutela rinvenibile nel diritto alla salute del detenuto.

Qualora le condizioni di sofferenza fisica non siano particolarmente gravi o non vi sia un serio pericolo quoad vitam tali da consentire il differimento della pena, potrà trovare applicazione l’art. 47 ter o.p. consentendo la detenzione domiciliare.

I casi poc’anzi evidenziati di sostituzione della misura carceraria con la detenzione domiciliare di soggetti sottoposti al regime di carcere duro sono del tutto peculiari: si tratta di un soggetto dell’età di 78 anni che aveva un residuo di pena da scontare di soli 9 mesi[4] e di un altro che doveva fare dei cicli di chemioterapia che nell'ospedale di Sassari[5], a cui era indirizzato, non era possibile sostenere in quel frangente di emergenza da Covid-19.

Il terzo caso invece riguardava un soggetto sottoposto al regime del 41 bis ma non ancora condannato in via definitiva[6].

 

3. Il decreto legge 10 maggio 2020, n. 29

In ragione di tali avvenimenti si sono susseguiti provvedimenti legislativi da parte del Governo, nella forma del decreto legge, volti a frenare l’operato della magistratura.

Da ultimo il decreto-legge 10 maggio 2020, n. 29, recante «Misure urgenti in materia di detenzione domiciliare o differimento dell’esecuzione della pena, nonché in materia di sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari, per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19, di persone detenute o internate per delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso, terroristico e mafioso, o per delitti di associazione a delinquere legati al traffico di sostanze stupefacenti o per delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione mafiosa, nonché di detenuti e internati sottoposti al regime previsto dall’articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, nonché, infine, in materia di colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati».

Il decreto impone all’Autorità giudiziaria, in caso di detenzione domiciliare o di differimento della pena per motivi connessi all’emergenza sanitaria di detenuti o internati al regime di cui all’art. 41 bis, l’acquisizione del parere del Procuratore distrettuale antimafia del luogo in cui è stato commesso il reato e del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo e la valutazione della permanenza dei motivi alla base del provvedimento nel termine di quindici giorni dall’adozione dello stesso e poi con cadenza mensile.

Nulla di nuovo, visto che il Giudice competente di norma avvia un’interlocuzione con le Procure generali volta ad ottenere informazioni e pareri per fondare il proprio convincimento prima dell’emanazione di una misura cautelare.

Nello stesso articolo 2 è inoltre raccomandato al Magistrato competente di richiedere informazioni sulla situazione sanitaria locale al Presidente della Giunta della Regione, nonché di interpellare il DAP sulla eventuale disponibilità di strutture alternative.

In sostanza, all’articolo 3 vengono ripetute le stesse prescrizioni per i soggetti in stato di custodia cautelare, aggiungendo che, qualora mutino le circostanze che avevano consentito la sostituzione della misura di extrema ratio con gli arresti domiciliari, dopo verifiche cadenziate ogni quindici giorni della permanenza dei motivi, il Pubblico Ministero deve chiedere al Giudice che procede il ripristino della custodia in carcere.

Il quarto articolo riguarda invece le modalità di svolgimento dei colloqui e le misure precauzionali da adottare all’interno degli istituti penitenziari e degli istituti penali per i minorenni.

L’articolo 5 prevede le disposizioni transitorie, stabilendo che il decreto ha vigenza per i provvedimenti adottati in data successiva al 23 febbraio 2020; per i provvedimenti già emessi invece i quindici giorni per la rivalutazione delle circostanze decorrono dall’entrata in vigore del decreto.

Orbene, non poche perplessità desta l’introduzione di tali disposizioni.

In primo luogo, il ricorso alla strumentazione di urgenza non appare in alcun modo giustificata, vieppiù considerato che viene emanata a seguito di provvedimenti giudiziari adottati nel pieno rispetto della normativa.

I presupposti del decreto legge, individuati dal dettato costituzionale nella necessità ed urgenza, sono evidentemente surclassati a favore del bisogno impellente di fornire una risposta all’opinione pubblica, a nulla rilevando che con tale provvedimento viene messa in dubbio l’integrità, l’imparzialità e la legittimità delle decisioni adottate dai Giudici competenti.

Si sottolinea l’abuso di uno strumento assolutamente inadatto alla contestazione di un provvedimento giudiziale, che, qualora fosse stato considerato illegittimo, sarebbe stato impugnabile con gli strumenti previsti dalla legge, ad opera del Pubblico Ministero in qualità di parte all’interno del procedimento.

Il decreto del 10 maggio 2020 impone al Magistrato competente una rivalutazione dei presupposti fondanti la misura adottata nel termine di quindici giorni e successivamente a cadenza mensile, comportando un aggravio non indifferente per i Tribunali, considerando che difficilmente la decisione potrà essere adottata de plano in assenza di continui accertamenti.

Sarebbe stata sufficiente una lettura attenta delle disposizioni di legge o quantomeno dei provvedimenti emanati negli ultimi giorni per verificare che il Giudice di sorveglianza dispone già del potere di riesaminare la propria decisione, operando un bilanciamento aggiornato tra la caratura criminale del soggetto destinatario e della gravità dei motivi di salute.

Inoltre, viene ribadita la necessità di un dialogo con il Dap per la verifica della presenza di eventuali strutture alternative per la prosecuzione dello stato detentivo: tale precisazione appare superflua, considerando che l’Autorità Giudiziaria già comunica con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, così come dimostra anche l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Sassari citata[7].

La previsione di cui all’art. 3, che sancisce l’obbligo del P.M. di chiedere al Giudice di ripristinare la misura di maggior rigore qualora vengano meno le circostanze che giustificavano la sostituzione con gli arresti domiciliari per motivi connessi all’emergenza sanitaria, se permangono le originarie esigenze cautelari, lascia molti dubbi in ordine alle modalità di attuazione delle richieste del P.M.

Va ricordato che nel nostro sistema processuale la detenzione in carcere rappresenta la misura di ultima applicazione, tanto che a seguito della riforma del 2005 il Giudice è chiamato a valutare non l’adeguatezza della stessa, bensì le circostanze per le quali non risulta appropriata la detenzione domiciliare. Solo in seguito ad un attento scrutinio sulla sussistenza di esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza il Giudice potrà quindi disporre la misura cautelare nel rispetto dei canoni di adeguatezza e proporzionalità.

Vero è che l’ordinamento dispone diverso trattamento nei confronti delle persone sottoposte ad indagini o imputate dei reati di cui agli articoli 270, 270-bis, 416-bis del c.p., articolo 74 co. 1, del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, o per delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l'associazione mafiosa, o per un delitto commesso con finalità di terrorismo ai sensi dell'articolo 270-sexies del c.p., individuando iuris et de iure la custodia cautelare in carcere quale unica misura secondo i canoni di adeguatezza. Allo stesso tempo però, il PM e già investito del potere di chiedere la sostituzione della misura in essere con una più gravosa quando le circostanze sulla base delle quali era stato emanato il precedente provvedimento di affievolimento vengono a mancare e si prospetti un aggravamento delle esigenze cautelari (art. 299 comma 3 bis c.p.p.).

La straordinarietà del decreto legge risiede allora esclusivamente nella riduzione dei termini entro i quali poter operare nuove valutazioni che potrebbero comportare un aggravio della misura, lasciando però aperti molti interrogativi sulle modalità di attuazione di questo esame repentino da parte dell’Autorità Giudiziaria. La collaborazione del Dap sarà senz’altro indispensabile, così come quella delle strutture sanitarie e del Presidente della Giunta regionale, se vogliamo evitare nuove condanne da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[8].

 

4. Conclusioni

Il decreto legge in questione non fa altro che amplificare quella concezione populista secondo cui vi è un conflitto insanabile tra sicurezza e reinserimento, in un’ottica di giustizialismo esasperato.

Il pensiero comune identifica la misura carceraria quale unica idonea a soddisfare la certezza della pena, degradando le misure alternative o sostitutive a forme di lassismo e di impunità.

La decretazione di urgenza svuota di significato il contenuto dei provvedimenti giudiziari, lasciando intendere un'eccessiva indulgenza da parte delle Autorità, che al contrario sono impegnate quotidianamente nel bilanciamento tra le esigenze punitive dello Stato e i diritti fondamentali degli individui, e quindi anche dei detenuti.

All’aspetto punitivo della pena deve però associarsi un aspetto rieducativo, così come ci ricorda la Carta costituzionale all’art. 27: in seguito alla riforma del 1975 il sistema carcerario punitivo viene abbandonato, per far posto ad un trattamento penitenziario ispirato ai principi d’umanità e dignità della persona, in attuazione della funzione rieducativa sancita nel terzo comma dell’art. 27 e dell’individualizzazione del trattamento secondo l’art.13 dell’Ordinamento Penitenziario, che deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto.

Siamo invece di fronte ad una dimensione punitiva che risulta segnata radicalmente dall’idea della sospensione di alcuni diritti fondamentali, anche di quelli inderogabili[9], qualificando l’imputato o condannato come “nemico”, nei cui confronti si esprime un’assoluta ostilità che annienta qualsivoglia funzione di reintegrazione e recupero del carcere e del diritto penale più in generale.

In questa contingenza storica viene affibbiato alla magistratura anche l’arduo compito di invertire la tendenza politica di strumentalizzare natura e funzioni del diritto, che ha condotto all’adozione di un decreto teso esclusivamente a soddisfare gli interessi collettivi contro fenomeni diffusi.

Tale operazione non suggerisce un atteggiamento di maggior favore da parte dei Giudici nei confronti dei soggetti destinatari del decreto che, giova ricordare, sono già sottoposti ad un regime differenziato dal punto di vista processuale e di esecuzione della pena. Si auspica però una maggiore cultura del diritto e della giurisdizione ed un uso più consapevole degli strumenti legislativi, oramai deputati alla disciplina emergenziale e temporanea del diritto, a discapito del principio di legalità che dovrebbe invece sorreggere l’intero impianto normativo.



[1] L. CARLASSARE, Magistratura e governo: un interessante conflitto, in Costituzionalismo.it, fascicolo 1 Unità e indivisibilità della Repubblica, 2018.

[2] V. ONIDA, Costituzione, garanzia dei diritti, separazione dei poteri, citato da L. SPADACINI, Separazione dei poteri e funzione giurisdizionale, Brescia, 2012.

[3] La situazione nelle carceri. Parla Mauro Palma, treccani.it, 9 maggio 2020.

[4] Magistrato di Sorveglianza del Tribunale di Milano, decreto del 20 aprile 2020.

[5] Tribunale di Sorveglianza di Sassari, ordinanza del 23 aprile 2020.

[6] Corte d'Assise d'Appello di Catanzaro, sez. II, ordinanza del 3 aprile 2020.

[7] Il Tribunale di Sorveglianza chiedeva approfondimenti al responsabile sanitario del carcere al fine di verificare se vi fossero ulteriori strutture ospedaliere in Sardegna ove poter effettuare il follow-up del detenuto, nonché al Dap “al fine di verificare l’eventuale possibilità di trasferimento in altro istituto penitenziario attrezzato per quel trattamento o prossimo a struttura di cura nella quale poter svolgere i richiesti esami diagnostici e le successive cure. A fronte di tali richieste, il responsabile sanitario della Casa Circondariale di Sassari comunicava che il paziente «non poteva effettuare i controlli endoscopici previsti (necessari per poter proseguire la terapia) né presso l’AOU di Sassari né all’interno della CC di Sassari», mentre il Dap non forniva alcuna risposta”.

Consultabile in G. STAMPANONI BASSI, Il differimento dell’esecuzione della pena nei confronti di Pasquale Zagaria: spunti in tema di bilanciamento tra diritto alla salute del detenuto (anche se dotato di “caratura criminale”) e interesse pubblico alla sicurezza sociale, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 4

[8] Ex multis C. eur. dir. uomo, Sez. I, sent. 25 settembre 2018, Provenzano c. Italia, ric. 55080/13. «La Corte Edu ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 CEDU, con riferimento al provvedimento di proroga del regime di cui all’art. 41-bis ord. penit., emesso nei confronti di Bernardo Provenzano il 23 marzo 2016, qualche mese prima della sua morte, avvenuta il 13 luglio 2016. La Corte Edu, accogliendo solo parzialmente una delle doglianze formulate dal ricorrente, ha motivato la riconosciuta violazione del divieto di pene o trattamenti inumani o degradanti facendo riferimento alla insufficiente valutazione, nel provvedimento di proroga, del deterioramento delle funzioni cognitive del detenuto». Vedasi, per approfondimenti, G. ALBERTI, Caso Provenzano: la corte Edu riconosce una violazione dell’art. 3 CEDU con riferimento all’ultimo decreto di proroga del 41-bis, in Diritto Penale Contemporaneo, 29 ottobre 2018.

[9] L. FERRAJOLI, Il “diritto penale del nemico” e la dissoluzione del diritto penale, in Quest. giust., 2006, p. 800 e ss.


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