CrisiImpresa


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 21/04/2020 Scarica PDF

Le sezioni concorsuali dei tribunali nella post pandemia, tra spinte in avanti e l'insidia della supplenza

Giulio Borella, Magistrato


La data dell’allentamento delle misure di chiusura delle attività si avvicina sempre di più e si pone quindi drammaticamente il problema di come affrontare, nei tribunali e nelle sezioni più coinvolte, il diritto della post pandemia.

Per prima cosa va contenuta nei giusti (e per certi versi angusti) limiti la tentazione di ricercare soluzioni avanguardiste e salvifiche per via pretoria.

Per quanto sia comprensibile il desiderio di tutti di fornire un contributo in questo difficile contesto, le soluzioni alla grave situazione che si prospetta dovranno necessariamente arrivare dal legislatore, anche se – è inutile nasconderselo - è forte il timore che questo non avrà la forza e il coraggio di adottare le decisioni altamente impopolari che saranno necessarie, per procurarsi liquidità da pompare nel sistema, sicché, in ultima istanza, non è nemmeno escluso che, alla resa dei conti, possa effettivamente aprirsi una nuova stagione di supplenza della magistratura.

Che però non è mai auspicabile, anche per gli inevitabili conflitti istituzionali e sociali che essa inevitabilmente trascina con sé.

Sotto un primo profilo, vedremo cosa deciderà di fare il legislatore dopo il 30 giugno, quando finirà il periodo di improcedibilità delle istanze di fallimento.

Se il “congelamento” ex lege delle dichiarazioni di fallimento non dovesse essere rinnovato, la patata bollente passerà nelle mani dei giudici, che dovranno decidere che fare delle numerose istanze in arrivo, non nel senso di propendere per la tutela del credito o del debito, ma di quale sia la soluzione più desiderabile, nel significato attribuito nell’analisi economica del diritto a questo termine, ossia la soluzione in grado di produrre il maggior grado di benessere collettivo (SHAVELL).

Sotto questo profilo potrebbe in effetti essere desiderabile un congelamento de facto delle dichiarazioni di fallimento, volto a consentire al legislatore di completare il pacchetto delle iniziative di sostegno e a consentire a queste ultime di produrre i relativi effetti.

Incerta rimane tuttavia la strada più acconcia da percorrere per raggiungere quest’obiettivo, ammesso che una ve ne sia.

Non sembra del tutto appagante la via di rifiutare la dichiarazione di insolvenza per caso fortuito e forza maggiore, in quanto questi sono strumenti utilizzabili per la valutazione di un comportamento, per l’attribuzione di responsabilità. Sembra quindi complicato piegarne l’utilizzo all’accertamento dell’insolvenza, senza introdurre nel perimetro entro cui tradizionalmente si iscrive questo accertamento un elemento nuovo e piuttosto distonico. L’insolvenza è un fatto da accertare, o è o non è, per dirla con Parmenide.

Forse un più solido aggancio normativo, per chi volesse percorrere la strada del “congelamento” de facto delle dichiarazioni di fallimento (comunque comprensibile nell’ottica di porre un argine al fallimento di sistema), senza snaturare gli elementi del giudizio prefallimentare, potrebbe trovarsi nell’art. 7 del decreto n. 23/2020.

La norma di recente emanazione prevede che “nella redazione del bilancio di esercizio al 31.12.2020, la valutazione nella prospettiva della continuazione dell’attività di cui all’art. 2423 bis comma n. 1) c.c. può comunque essere operata se risulta sussistente nell’ultimo bilancio di esercizio chiuso in data anteriore al 23.02.2020”.

Questa disposizione può in effetti aprire uno spiraglio, giustificando una presunzione iuris tantum, per la quale gli eventuali inadempimenti successivi al 23.02.2020 andrebbero riguardati quali frutto di una situazione di crisi auspicabilmente transeunte e non, viceversa, quali elementi sintomatici di vera e propria cronica insolvenza. O almeno così sembra intenderla il legislatore.

A patto ovviamente che il going concern fosse sussistente nell’esercizio precedente e, ca va sans dire, in mancanza di elementi di segno contrario, da valutare secondo il prudente apprezzamento del giudice.

Probabilmente questo è il massimo cui si possa ambire a livello pretorio: far guadagnare tempo alle imprese, oltre che al legislatore, in attesa che questi metta in campo gli strumenti di sostegno alle imprese, anche se conviene subito dire che il problema di un’impresa ferma non è solo la perdita di liquidità, perché un’impresa non è fatta solo di capitale e lavoro, ma anche di relazioni, contatti, clienti, ed è su questo patrimonio che il lockdown rischia di fare i danni più devastanti, mettendo a serio repentaglio la capacità di ripartire delle imprese, a dispetto di qualsiasi aiuto economico.

Ma sarebbe opportuno comunque che la decisione di arginare le dichiarazioni di fallimento provenisse dal legislatore, all’interno di un pacchetto di iniziative volte ad affrontare in maniera sistematica e sinergica la crisi a venire.

Congelare le dichiarazioni di fallimento di qui a 6, 12 mesi è una responsabilità enorme, che deve assumersi la politica, non certo la magistratura (che, comunque, saprà sicuramente rispondere per quanto di sua competenza alla sfida che l’attende, vista l’alta specializzazione raggiunta dalla maggior parte dei GG.DD.).

Il blocco delle dichiarazioni di fallimento, che provenga dal legislatore o dalla prassi giurisprudenziale, dovrà quindi accompagnarsi a forti iniezioni di liquidità nel sistema, a sostegno delle imprese, anche mediante strumenti di riduzione del costo del lavoro e facilitazione all’accesso alla CIG (a prevenire eccessivi licenziamenti), defiscalizzazione, compensazioni tra debiti e crediti erariali, accesso al credito facilitato e con garanzia dello Stato, ecc.

Ma non facciamoci troppe illusioni, la coperta è corta, terribilmente corta.

Con un debito pubblico al 132% e una perdita attesa del PIL che potrebbe raggiungere il 10% (previsioni Confindustria), questo significa che potrebbero mancare all’appello circa 160 mld di euro (il PIL italiano si aggira infatti intorno a 1600 mld di euro), che dovranno essere prontamente reperiti.

Solo in parte una tale cifra potrà piovere mediante ricorso all’indebitamento, sia che esso passi attraverso strumenti endogeni (BOT, BTP), che esogeni (MES, Eurobond), semplicemente perché non abbiamo più troppa capacità di indebitarci oltre. Indebitarsi significa infatti, in prospettiva, aprire una nuova stagione di tagli alla spesa pubblica e di aumento della pressione fiscale per gli anni a venire (che contribuirebbero a deprimere ulteriormente l’economia), oltre a mancati investimenti per la manutenzione e la messa in sicurezza di un paese, il nostro, già vecchio e che rischia di divenire decrepito (si pensi alla manutenzione dell’assetto idrogeologico del territorio, del patrimonio edilizio pubblico, a partire da quello scolastico, delle infrastrutture e del sistema viario, che recentemente ha denunciato preoccupanti guasti dovuti al tempo).

Sicché un importante recupero di liquidità per le imprese potrà avvenire anche attraverso un massiccio ricorso a strumenti di regolamentazione negoziata della crisi d’impresa, accordi, concordati, che, sinergicamente al resto, potranno dare quel minimo di respiro all’economia dissanguata. Anche se il recupero di liquidità per le imprese debitrici avrà come contropartita una perdita di liquidità per quelle creditrici. Ma la situazione è tale che sarà necessario un patto nazionale tra creditori e debitori, per uscirne entrambi col massimo risultato possibile.

In questo contesto è probabile che sarà la vecchia e tanto bistrattata legge 3/2012 ad ricevere inaspettatamente gli onori del palcoscenico, posto che gli effetti della crisi si faranno sentire verisimilmente e soprattutto per attività quali esercizi commerciali e microimprese.

Per questo tra gli interventi auspicabili a livello legislativo potrebbe essere opportuno un pacchetto di forti incentivi al ricorso a tali procedure.

In questo quadro è risultato opportuno il rinvio dell’entrata in vigore del C.C.I.

Nella situazione di crisi che ci attende, meglio andare incontro al destino con gli strumenti imperfetti della legge del 1942, coi quali i professionisti hanno comunque familiarità e dimestichezza, piuttosto che navigare nelle acque incerte del C.C.I., sul quale fin da subito si sono addensate e tutt’ora s’addensano le turbolenze dei correttivi e contro-correttivi, e la cui reale efficacia andrà verificata sul campo, ma in altro momento, non sulla pelle degli imprenditori in crisi.

Forse del C.C.I. potrebbe tornare utile in questo momento proprio la parte relativa alla nuova disciplina del sovraindebitamento, atteso che la vecchia legge 3/2012 è da sempre stata accusata di grave lacunosità, dando adito perciò a prassi e interpretazioni difformi tra i vari tribunali, quando non, a monte, di atteggiamenti pregiudiziali di apertura o di radicale chiusura ideologica rispetto alla sua concreta applicazione e alla sua portata. Ciò che, nel momento attuale, l’ordinamento non può permettersi, essendo necessaria uniformità di applicazione in tutto il territorio nazionale, per dare certezze agli operatori economici.

Poco attrattiva sembra anche l’idea di adattare gli OCRI alle esigenze della post pandemia.

Gli strumenti per affrontare la crisi ci sono già, sono quelli negoziali, e pare sconsigliabile forgiare un diritto speciale della crisi da Covid (l’ordinamento è già afflitto da tante e tali legislazioni speciali, da non riuscire più ad operare una reductio ad unitatem), così come il ricorso a commissioni, commissari e giudici che sovrintendano a questi ultimi.

Ognuno faccia il suo mestiere, l’impresa è meglio lasciarla fare agli imprenditori, ossia a chi rischia innanzitutto i soldi propri, cosa che né commissari né giudici farebbero. Del resto non si sente proprio il bisogno di resuscitare l’IRI, sotto nuove e diverse spoglie, o esperienze analoghe ormai archiviate senza troppi rimpianti.

In ogni caso, se sarà come tutti temono, ossia che aumenteranno le istanze di fallimento o i ricorsi per la regolazione negoziata della crisi, c’è una altro aspetto da tenere massimamente in considerazione e di cui fino ad ora si è sentito assai poco parlare: quello organizzativo.

Se la crisi del 2008 (subprime) e quella del 2011/2012 (debiti sovrani) ha colto i tribunali impreparati, non dovrà essere così per la nuova crisi da Covid19.

Sappiamo già che ci sarà e che essa provocherà, assai probabilmente, un nuovo massiccio carico di lavoro per gli uffici esecuzioni e fallimenti dei tribunali.

Vi è chi in questo contesto ha ritenuto di recuperare il progetto originario del C.C.I., che prevedeva la creazione di sezioni specializzate per la crisi d’impresa, presso alcuni tribunali più importanti.

L’idea è condivisibile, essendo sempre più necessario che una materia così delicata venga affidata ad operatori ad altissima specializzazione (in realtà ciò dovrebbe avvenire anche per le esecuzioni immobiliari, con la creazione di sezioni specializzate per i crediti deteriorati). Ma richiederà tempo, anche perché dovrà superare il fuoco di sbarramento che inevitabilmente sarà scatenato dalle categorie professionali. E il tempo è proprio ciò che, di qui a breve, mancherà come l’ossigeno.

In attesa quindi che il legislatore decida di riprendere in mano il progetto originario della riforma, i tribunali devono iniziare a ragionare fin da ora su un piano B, che preveda un’adeguata implementazione delle risorse delle sezioni concorsuali, in termini di magistrati (potrebbe risultare necessario dirottare i GG.EE. a fare i GG.DD., lasciando la gestione ordinaria delle esecuzioni immobiliari ai GOP, in affiancamento, riservando ai togati le sole parentesi di cognizione), di tirocinanti, di cancellieri.

Non sarà facile, perché la necessaria flessibilità aziendale si scontra quotidianamente con la rigidità del sistema della pubblica amministrazione, regolato da norme organizzative di primo e secondo grado e da complicate procedure, che stanno ingessando la competenza e la voglia di agire di molti presidenti di tribunali, ormai selezionati anche per le proprie capacità manageriali e formati anche in questo versante grazie ad appositi corsi della SSM.

Certamente però questa volta la crisi non arriverà a sorpresa, ma sarà ampiamente annunciata, per cui se i tribunali non si faranno trovare pronti, non potranno veramente incolpare nessuno, se non loro stessi, perché l’aumento del carico di lavoro delle sezioni de quibus è praticamente scontato.


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