CrisiImpresa


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 11/05/2014 Scarica PDF

Il concetto di "causa in concreto" nel controllo del giudice alla proposta di concordato

Fernando Greco, Professore


La pesante crisi economica e finanziaria che da diversi anni afflligge l’Europa ed in particolare l’Italia ha avuto un impatto devastante sul tessuto imprenditoriale. Basti guardare alle statistiche relative alle procedure fallimentari per rendersi conto che al giugno 2013 si è registrato un incremento del 10% delle istanze di fallimento rispetto all’anno precedente e dell’11% delle dichiarazioni di fallimento[1]. E’ chiaro che aventi eccezionali richiedono affinamenti sul piano normativo ed interpretativo con l’obiettivo prioritario di agevolare percorsi che possano salvaguardare le attività produttive e con esse, più in generale, la tenuta del tessuto economico[2] allontanando lo spettro del fallimento. 

In questa logica è indubbio che la disciplina più recente in tema di concordato gioca un ruolo rilevante ed è sempre più connotata da un significativo rafforzamento della c.d. fase negoziale nel senso di libertà contrattuale esercitata dal debitore e dai creditori nella loro maggioranza, di “ri-definire” il loro rapporto.[3]

In prima battuta va ribadito che,  nella sua nuova formulazione (cfr. artt. 160 e 186 bis L. Fall.), la disciplina evidenzia la più ampia libertà di forma senza alcuna predeterminazione del contenuto; il legislatore, più precisamente, intende fissare tre punti cardine: 1) la domanda di accesso alla procedura; 2) la proposta ai creditori; 3) un piano “idoneo a perseguire gli obbiettivi” con la relazione di un professionista che “attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano”.

Se pur la volontà del legislatore è inequivocabile nell’attribuire al professionista “il compito di certificare la veridicità dei dati rappresentati dall’imprenditore e di esprimere una valutazione in ordine alla fattibilità del piano”, il contenuto di una successiva disposizione pone invece un serio problema all’interprete.

Invero, stando al tenore letterale dell’art. 162, il Tribunale deve dichiarare l’inammissibilità della proposta se accerta l’assenza dei presupposti (indicati negli artt. 160, 1° e 2° comma, ed art. 161), “concernenti la veridicità dei dati indicati e la fattibilità del piano” . La domanda sul ruolo del giudice sorge a questo punto spontanea ed ha posto una seria riflessione sia in dottrina che in giurisprudenza.

Invero, l’individuazione dei limiti al controllo giudiziale sul requisito della fattibilità del concordato, ai fini dell’ammissione e dell’omologazione, è stata presente nel dibattito dottrinario e giurisprudenziale, fin dalla prima riforma della procedura, intervenuta con il d.l. 14.3.2005, n. 35, convertito in l. 14.5.2005, n. 80[4].

In particolare, sull’individuazione del “perimetro” di intervento del giudice chiamato a stabilire se sia stato meno soddisfatto il requisito della fattibilità del piano concordatario proposto, si registravano, in dottrina e giurisprudenza, due contrapposti indirizzi[5].

L’orientamento maggioritario[6], individuando nell’adunanza dei creditori il momento decisivo per giudicare il merito della proposta concordataria, anche sotto il profilo della fattibilità, sosteneva che al giudice spettasse solo il controllo sulla regolarità formale del piano come proposto dal debitore. Specificatamente riteneva che al Tribunale spettasse: verificare la regolarità della procedura e la completezza della documentazione; verificare che i creditori, chiamati ad esprimere il loro consenso nell’adunanza, fossero stati compiutamente e correttamente informati sia dal debitore, sia dal commissario giudiziale ed infine, accertare l’assenza di eventuali ragioni  di illiceità o comunque di nullità della proposta, non sanabili neppure mediante la prestazione del consenso dei creditori.

A fronte di tale consolidato insegnamento, non mancavano tuttavia opinioni minoritarie contrarie[7], per le quali il controllo del Tribunale non doveva  riguardare solo il rispetto formale dei requisiti e la veridicità dei dati, ma anche la legittimità sostanziale della proposta stessa. Ad avviso di quest’ultimo approccio esegetico, il penetrante potere di controllo da parte dell’autorità giudiziaria trovava la sua giustificazione nell’esigenza di salvaguardare la posizione dei creditori da eventuali comportamenti opportunistici e fraudolenti del debitore[8] e dunque, dalla necessità di scongiurare il pericolo di un utilizzo abusivo dell’istituto del concordato[9], per scopi estranei rispetto a quelli attribuitigli dalla legge[10]. 

Ebbene, al fine di dirimere siffatto contrasto[11], la Corte di Cassazione è, come è noto, intervenuta con la sentenza a Sezioni Unite n. 1521 del 23 gennaio 2013[12], ponendosi nell’ottica del recupero del ruolo attivo del giudice.

Innanzitutto, deve sottolinearsi che il Supremo Collegio ha chiarito qual è stata la ratio delle novità legislative che hanno avuto ad oggetto la legge fallimentare. Nella parte motiva della decisione si legge che lo scopo della nuova disciplina è quello di “snellire le procedure”, “rafforzare il ruolo propositivo delle parti” “valorizzare il giudice come tutore del rispetto della legalità”, con il fine di “non disperdere ricchezza e rafforzare la flessibilità del mercato”. Con specifico riguardo al concordato preventivo, ha poi precisato che:

a) il concordato ha natura negoziale, ma coinvolge soggetti terzi protetti da una serie di regole processuali inderogabili, “finalizzate alla corretta formazione dell’accordo tra debitore e creditori” di cui il giudice è garante;

b) la fattibilità non va confusa con la “convenienza” e “non può essere identificata con un’astratta verifica in ordine agli elementi dell’attivo e del passivo, anche se in qualche misura da questi possa dipendere”. La fattibilità “si traduce invece in una prognosi circa la possibilità di realizzazione della proposta nei termini prospettati”; il che induce a distinguere la fattibilità economica da quella giuridica;

d) il controllo del giudice “non è di secondo grado, destinato cioè a realizzarsi soltanto nella completezza e congruità logica dell’attestato del professionista non si limita alla verifica formale dell’attestazione del professionista”.

Ed allora, onde chiarire i termini entro i quali deve e può muoversi l’esame sulla “fattibilità del paino” cui è chiamato il giudice,  le Sezioni Unite della Cassazione hanno evocato il concetto di causa concreta[13] dell’atto di concordato.

Ebbene, al fine di meglio comprendere cosa si intenda per “causa concreta” dell’atto è necessario richiamare, sia pure per sommi capi, quella che è stata la evoluzione che ha interessato il concetto di causa.

Giova, innanzitutto, ricordare che ex art. 1325 c.c., la causa rientra tra gli elementi strutturali del contratto; un elemento necessario perché l’atto sia vincolante ed abbia forza di legge tra le parti (art. 1372 c.c.). Il codice civile sanziona, infatti, la mancanza o la illiceità della causa con la nullità del contratto (art. 1418, comma 2, c.c.).

All’interno della legislazione codicistica, tuttavia, non è dato riscontrare una definizione di causa ed, in assenza di una norma definitoria, nel processo di elaborazione del significato di causa, dottrina e giurisprudenza sono stati i principali attori.

E così, all’indomani dell’entrata in vigore del codice - sulla base di quanto affermato nel paragrafo  dedicato alla causa del contratto nella Relazione al codice civile[14] e con l’intento di superare quella concezione, affermatasi sotto la vigenza del codice del 1865, che intendeva la causa quale lo scopo che aveva indotto i contraenti ad assumere il vincolo obbligatorio dottrina[15] e giurisprudenza[16] configurarono la causa quale funzione economico-sociale (c.d. teoria oggettiva della causa).

Tale concetto si fondava essenzialmente sull’idea per cui il contratto, oltre ad attuare l’interesse individuale delle parti, doveva comunque essere finalizzato al perseguimento di finalità generali ed al raggiungimento di scopi socialmente apprezzabili[17].

Siffatta definizione esprimeva l’idea di causa del contratto  come criterio di controllo della conformità dei fini privati rispetto a quelli  fissati dall’ordinamento giuridico[18]. La causa non era semplicemente la ragione per la quale le parti stipulavano il negozio giuridico, ma “la ragione per la quale l’ordinamento gli riconosceva rilevanza giuridica[19]”.

Il superamento di questa concezione si è avuto solo a partire dagli anni ‘60 allorché dottrina[20] e giurisprudenza[21] - rilevando che con l’entrata in vigore della Carta Costituzionale fosse mutato il rapporto tra Stato ed individuo e, dunque, tra contratto e legge – ritennero fosse mutato anche il ruolo della causa.

In particolare, l’affermazione del ruolo centrale dell’individuo portò ad identificare la causa come funzione economico- individuale; come sintesi degli effetti giuridici ed essenziali del contratto. Sintesi, cioè,  non solo degli effetti attribuiti al contratto dalla legge, ma soprattutto di quelli che le parti hanno inteso perseguire con lo schema contrattuale prescelto per l’autoregolamentazione dei propri interessi.

La teoria della causa come funzione economico individuale non restò certo confinata ad un ambito di pura critica della teoria della causa quale finzione economico-sociale, risultando al contrario ricca di importanti sviluppi pratici. Così ragionando, la causa divenne, infatti, non solo strumento di  interpretazione del contratto, ma anche di ricostruzione degli interessi effettivamente sottesi all’operazione contrattuale predisposta dalle parti[22]. 

Ebbene, la causa in concreto rappresenta una ricostruzione “evoluta” rispetto la teoria della causa come  funzione economico-individuale del contratto.

La più recente giurisprudenza di legittimità ha, infatti, affermato che la causa del contratto deve essere intesa quale scopo pratico del negozio[23].

La pronuncia alla quale tradizionalmente viene attribuito l’avvento del concetto di causa in concreto è la sentenza della Suprema Corte n. 10490 del 2006[24],  nella quale il giudice di legittimità ha affermato che “causa del contratto è lo scopo pratico del negozio; la sintesi degli interessi che lo stesso è diretto a realizzare, quale funzione individuale e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato. Sintesi (e dunque ragione concreta) della dinamica contrattuale, si badi, e non anche della volontà delle parti”.

Si deve, tuttavia, precisare che la Suprema Corte, ancor prima della citata decisione, già nella sentenza del 19 febbraio del 2000, n. 1898[25] faceva riferimento al concetto di causa “concreta” del contratto, definendola quale “strumento di accertamento”, per il giudice e, in generale, per l’interprete, della “conformità alla legge” dell’attività negoziale posta in essere dalle parti[26].

Invero, il giudizio sulla liceità del contratto non può prescindere dal controllo sugli interessi che le parti hanno voluto attribuire all’atto di autonomia privata.

Se, dunque, oggi la causa è lo strumento di controllo dello scopo pratico e del risultato in concreto che le parti intendono realizzare con l’accordo, non c’è affatto da stupirsi che siffatta nozione sia stata utilizzata per definire i limiti di intervento del giudice chiamato a pronunciarsi sulla fattibilità della proposta concordataria e di conseguenza sulla sua ammissibilità.

La causa concreta consente e agevola, infatti,  il controllo di legalità e la sentenza n. 1521/2013 delle Sezioni Unite della Suprema Corte ne spiega coerentemente il perché.

Il concordato ha natura negoziale (o mista)[27], ed è disciplinato da una serie di regole procedurali,  finalizzate alla corretta formazione dell’accordo e da norme di valutazione del contenuto, le quali hanno ad oggetto la fattibilità economica, riservata ai creditori[28] e la fattibilità giuridica che spetta al giudice.

Il controllo circa l’esistenza delle condizioni giuridiche perché il concordato operi - oltre che nei confronti dei creditori consenzienti, anche nei confronti di quelli dissenzienti ovvero di coloro che non hanno partecipato alla votazione del piano concordatario - non può che essere, infatti, rimesso ad un soggetto terzo ed imparziale qual è il Tribunale.

In questo senso, il giudice deve controllare - in ogni fase della procedura concordataria, da quella di ammissione (art. 162 l. fall.), a quella di omologazione (art. 180 l. fall.)[29] -  la legalità e la possibilità giuridica del piano nonché verificare l’attestazione del professionista per assicurarsi che le informazioni rese ai creditori siano veritiere e complete[30].

Ma il controllo non deve fermarsi qui per una ragione evidente.

Testualmente le Sezioni Unite, affermano, infatti, che una“esatta informazione non esaurisce la tutela dei terzi e che invece occorra operare un bilanciamento fra l’interesse del debitore e quello della massa dei creditori, il quale non può prescindere dall’indagine sugli interessi che il concordato preventivo è diretto concretamente a realizzare; dall’indagine sull’interesse sotteso all’intera operazione”.

In altri termini, il giudizio sulla “fattibilità” dell’atto di concordato, operato dal giudice, va condotto esaminando la ragione giustificatrice dell’assetto negoziale predisposto dal debitore, ovverosia, vagliando la “causa concreta” del piano concordatario.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte definiscono, infatti, la causa del concordato come “l’obiettivo specifico perseguito dal procedimento”, che “non ha contenuto fisso e predeterminabile, essendo dipendente dal tipo di proposta formulata, pur se inserita nel generale quadro di riferimento, finalizzato al superamento della situazione di crisi dell’imprenditore, da un lato, e all’assicurazione di un soddisfacimento, sia pur ipoteticamente modesto e parziale, dei creditori, da un altro”.

Il controllo del giudice sulla fattibilità del piano va, dunque,  operato “non in modo astratto e unitario”, ma “in ragione del contenuto della proposta e quindi della identificazione della causa concreta del procedimento”, espressa “ dalle concrete modalità proposte dal debitore per la composizione della propria esposizione debitoria”.

Il principio di diritto, dunque, espresso dal Supremo Collegio, è quello per il quale il controllo sulla fattibilità giuridica deve essere volto a verificare: i) l’esistenza di una pur minima soddisfazione dei creditori in tempi ragionevoli; ii) la liceità dei comportamenti delle parti; iii) il superamento dello stato di crisi dell’imprenditore. In mancanza di uno di questi elementi c’è un difetto originario del concordato (difetto di causa) che ne determina la inammissibilità.

Risulta particolarmente agevole individuare le ragioni di siffatto assunto. 

Invero, una proposta concordataria che non preveda una riduzione dell’indebitamento dell’impresa, o una rimodulazione dello stesso, favorevole alla società debitrice, non può essere considerata degna di tutela dall’ordinamento e non può essere omologata.

Allo stesso modo, e nella prospettiva dei creditori, se il piano concordatario non prevede alcun soddisfacimento per gli stessi, o anche solo per una parte dei creditori, la proposta non potrà che essere respinta dal Tribunale.

Giova mettere in evidenza in questa sede, come non sia casuale il fatto che le Sezioni Unite utilizzino il termine “soddisfacimento” e non quello di “pagamento”. La scelta di siffatta espressione sta ad in indicare la possibilità per i creditori, o alcuni di essi, di poter ricevere beni, vantaggi fiscali o altre utilità economicamente valutabili.

Neppure casuale è la circostanza per cui la Suprema Corte stabilisce che tale soddisfacimento deve avvenire in “tempi di realizzazione ragionevolmente contenuti”: il fine è quello di garantire ed attuare  “procedure concorsuali più snelle” e flessibili, nelle quali sia “valorizzato il potere di autoregolamentazione degli interessi dei privati”.  Tuttavia, sebbene il giudice di legittimità non abbia voluto indicare un lasso di tempo massimo entro il quale i creditori devono essere soddisfatti, la mancata indicazione di un termine non può tradursi nel potere del debitore di dilazionare in modo abusivo i tempi per il soddisfacimento, dovendosi ritenere che il distendere eccessivo dei tempi potrebbe pregiudicare gli interessi dei creditori ed equivalere a “non soddisfacimento”.

Ed allora, in assenza di indicazioni rispetto al termine di realizzazione della proposta concordataria, in giurisprudenza è stato ritenuto inammissibile un piano concordatario, nel quale il debitore aveva proposto l’integrale soddisfacimento dei creditori  in un lasso temporale superiore a sette anni[31]; termine quest’ultimo che la più recente giurisprudenza di legittimità[32] -  in “via del tutto tendenziale” e con l’obbligo di tener conto delle peculiarità e complessità di ogni singolo caso concreto, dovute a vari fattori quali la presenza di un numero particolarmente elevato dei creditori, di una particolare natura o situazione giuridica dei beni da liquidare - ha individuato quale tempo di “ragionevole durata” della procedura fallimentare, in ossequio a quanto previsto dalla Legge Pinto[33]. 

Ad ogni modo ed in via del tutto generale, non è errato ritenere che per l’individuazione del tempo di soddisfacimento dei creditori principi informatori sono quelli generali: della diligenza (art. 1176 c.c.),   della correttezza e della  buona fede, che costituiscono i fondamentali doveri di comportamento cui le parti del contratto sono tenute dalla fase delle trattative ( art. 1337 c.c. ) a quella dell’esecuzione del contratto (1375 c.c.)[34].

Se, dunque, il principio statuito dalla Suprema Corte è quello per cui il Tribunale deve respingere una proposta concordataria, da cui emerga prima facie l’inidoneità della stessa “a soddisfare in qualche misura i diversi crediti rappresentati, nel rispetto dei termini di adempimento previsti”, non può certo ritenersi che il potere del giudice debba arrestarsi dinnanzi ad una proposta che formalmente appaia corretta perché la sua realizzazione non viola norme imperative e nella stessa si prevede di soddisfare, almeno in misura parziale, tutti i creditori.

Al contrario, come espressamente hanno statuito le Sezioni Unite, ciò che il giudice deve verificare è la idoneità  della proposta a “superare la crisi attraverso un soddisfacimento sia pure modesto e parziale dei creditori, al fine “di non dar vita ad un concordato inutile e costoso” qualora manchi tale presupposto. 

In effetti, l’esame della causa concreta del concordato implica proprio una valutazione originaria di legittimità del piano che deve essere, da un lato, idoneo a superare la crisi e, dall’altro, capace di compiere il difficile bilanciamento tra interessi del debitore e interessi del creditore.

Il parametro della causa in concreto, nell’ambito del controllo sulla fattibilità giuridica del concordato, rappresenta, dunque, la stella  polare del sindacato giudiziale ed è proprio per questo motivo che nella giurisprudenza di merito più recente si legge che  nei casi di accertata impossibilità della causa concreta il Tribunale non può che constatare la non fattibilità della proposta, non omologando il concordato[35]”. Controllo sulla fattibilità giuridica del concordato significa infatti accertamento della sussistenza del requisito causale, il quale sussiste solo ove la proposta preveda “una qualche soddisfazione dei creditori  in  tempi di soddisfacimento ragionevolmente contenuti”[36].

In questa stessa direzione si è espresso anche il Tribunale di Rovigo, nella decisione dello 03.12.2013[37], stabilendo che “nel concordato preventivo, l’impossibilità di soddisfare anche solo in una percentuale minima il ceto creditorio chirografario impedisce di operare una valutazione positiva sulla fattibilità economica del piano concordatario, ovvero la idoneità a soddisfarne la causa concreta”.

Inoltre, che il giudizio sulla fattibilità del piano sia sinonimo di giudizio sulla causa concreta della proposta concordataria è stato confermato dalla giurisprudenza di legittimità posteriore all’intervento delle Sezioni Unite.

In questo senso, la Suprema Corte, nella sentenza del maggio 2013, n. 11014[38], ha stabilito che il controllo di legittimità - che deve svolgersi in tutte le fasi del concordato preventivo - non è limitato alla completezza, alla congruità logica e alla coerenza  della relazione del professionista, ma si estende alla “fattibilità giuridica della proposta, la cui valutazione implica un giudizio in ordine alla sua compatibilità con le norme inderogabili e con la causa in concreto dell’accordo”, il quale, giova ribadirlo, ha come finalità il superamento della situazione di crisi dell’imprenditore nonché il soddisfacimento, sia pur ipoteticamente modesto e parziale, dei creditori.

In conclusione, sulla base di una attenta lettura delle norme che regolano il concordato preventivo, considerando che nella regolazione della insolvenza e della crisi d’impresa intervengono, oltre che interessi privatistici, anche rilevanti interessi pubblicistici,  tra cui quello alla corretta composizione delle conseguenze connesse all’indebitamento dell’imprenditore, è ragionevole ritenere che la soluzione della problematica posta dalla delimitazione del potere giudiziario all’interno della procedura di ammissione e di omologazione del concordato preventivo non può che essere nel senso di ammettere un potere di controllo sul  merito della proposta concordataria, sotto il profilo della sua legittimità e funzionalità[39]. Un potere che, come si è avuto modo di sottolineare,  correttamente la giurisprudenza - a partite dall’ormai nota pronuncia delle Sezioni Unite n. 1521 del 2013 - ha tradotto in termini di indagine sulla causa della piano concordatario, la quale permette di verificare l’idoneità (o meno) della proposta ad eliminare lo stato di crisi dell’imprenditore e, allo stesso tempo, di risolvere eventuali conflitti di interessi fra le parti del contratto e fra tutti i creditori appartenenti alla massa, in ossequio al generale principio della par condicio creditorum.



[1] Il dato è riportato da GRISI, L’inadempimento di necessità,  in Le obbligazioni e i contratti nel tempo della crisi economica, Napoli, 2014, 283, nota 8 ove si cita  sul punto la relazione presentata il 24 gennaio 2014 sull’amministrazione della giustizia nel 2013 del Primo Presidente della Corte di Cassazione Santacroce all’inaugurazione dell’anno giudiziario.

[2] Osserva GRISI, L’inadempimento di necessità, op. cit., 290, che non c’è risposta efficace a queste istanze che possa prescindere dall’uscita della crisi e dalla riattivazione del ciclo virtuoso delle’economia; ma, osserva l’A. “intanto bisogna adoperarsi al fine, e in prima linea, chiamati ad impegno immediato sono i giudici, gli studiosi ed operatori del diritto, che non possono assistere inerti ai devastanti effetti generati dalla crisi in atto. A loro compete valorizzare appieno il ruolo importante che l’interpretazione può giocare”.

[3] Così Di MAJO, Debito e patrimonio nell’obbligazione, in Le obbligazioni e i contratti nel tempo della crisi economica, Napoli, 2014, 35.

[4] Legge 14.05.2005, n. 80 in G.U. 14.05.2005, n. 111 – Suppl. Ordinario n. 90.

[5] Per un’attenta ricostruzione sul contrasto giurisprudenziale in tema di potere di del giudice sulla proposta concordataria, seppur con specifico riferimento al concordato preventivo con riserva, v. M. ARATO, “Il concordato preventivo con riserva”, Torino, 2013, 70 ss.

[6] In questo senso, si vedano C. Cass., 25.10. 2010, n. 21860 in Foro It., 1, 2011, 105; C. Cass., 14.02.2011, n. 3586 in Fall. 10, 2011, 1246; C. Cass., 23.06. 2011, n. 13817 in Giur. it., 1, 2012, 81 con nota di A. TEDOLDI, “Il sindacato giudiziale sulla fattibilità del piano e l’art. 173 l.fall nel concordato preventivo: la Cassazione e il cigno nero”; Per la giurisprudenza di merito,  ex multis, C. App. Roma 18.09.2010, in Dir. fall., 2, 2011, 18. In dottrina, v. A. NIGRO – D. VATTERMOLI, Diritto della crisi delle imprese, Bologna, 2012, 357, per i quali il Tribunale dovrebbe esclusivamente “controllare che il piano sia sufficientemente chiaro ed articolato (ossia, che siano esattamente indicati il piano finanziario e quello dei pagamenti; che le eventuali garanzie prestate da terzi o dallo stesso debitore siano documentate e regolarmente costituite; ecc.) e ciò al fine di consentire ai creditori di esprimere in modo consapevole il voto in sede di approvazione”.

[7] D. GALLETTI, “La revoca dell’ammissione al concordato preventivo , in Giur. comm., 1, 2009, 733; nonché V. PICCININI, “I poteri del tribunale nella fase di ammissione alla procedura di concordato preventivo dopo il decreto correttivo”, in Dir. fall., 2, 2008, 551. Quanto alla giurisprudenza di merito, v. Trib. Milano, 31.10.2007, in Giur. it., 1, 2008, 912; Trib. Cagliari, 12.03.2009, in Dir. fall., 2, 2010, 304; App. Torino, 14.07.2010, in ilcaso.it. Per la giurisprudenza di legittimità, v. C. Cass., 15.09.2011, n. 18864 in Fall., 1, 2012, 36 ss.

[8] M. GRIFFEY, “La disciplina del concordato preventivo e le soluzioni della giurisprudenza”, in Le nuove procedure concorsuali, a cura di S. Ambrosini, Bologna, 2008, 523.

[9] G. LO CASCIO, “Il punto sul concordato preventivo”, in Fall., 1, 2014, 7.

[10] Giova ricordare che nel nostro ordinamento, in assenza di una norma, l’istituto dell’abuso di diritto si deve all’attività di teorizzazione della dottrina e della giurisprudenza. Oggi, è diffusa, infatti, l’affermazione secondo cui l’abuso del diritto sussiste ogniqualvolta un soggetto eserciti un diritto che gli è riconosciuto dall’ordinamento in modo formalmente legittimo, ma in realtà per appropriarsi di utilità diverse e ulteriori rispetto a quelle che con l’attribuzione del diritto l’ordinamento intende assicurargli. In questo senso, v. C. SALVI, Abuso del diritto, in Enc. dir., vol. I, il quale, testualmente, si esprime nel senso che  Concettualmente, la figura dell’abuso del diritto concerne ipotesi nelle quali un comportamento che formalmente integri gli estremi dell’esercizio del diritto soggettivo, debba ritenersi però - sulla base di criteri non formali di valutazione - privo di tutela giuridica, o illecito”; G. D’AMICO, L’abuso di autonomia negoziale: nozioni e rimedi, citato in G. D’Amico, Recesso ad nutumbuona fede e abuso del diritto, in Contratti, 5, 2010; in giurisprudenza, v. C. Cass. 18.09.2009, n. 20106, in Giur. it., 4, 2010, 809, secondo cui “L’abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal legislatore”, sicché l’abuso del diritto è ravvisabile quando “nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede”; in senso conforme C. Cass. 16.10.2003, n. 15482, in Foro it., 1, 2004, 1845.

[11] Il riferimento, in particolare, è al contrasto sorto nella giurisprudenza di legittimità tra la pronuncia della C. Cass. 15.09.2011, n. 18864 e quella della C. Cass. 16.09.2011, n. 18987.

[12] C. Cass., SS.UU. 23.01.2013, n. 1521 in Il Fall., 10, 2013, 1310 ss. A commento della pronuncia, v. M. FABIANI, “La questione “fattibilità” del concordato preventivo e la lettura delle Sezioni Unite, in Fall., 1, 2013,156 ss.; A. DIDONE, “Le Sezioni Unite e la fattibilità del concordato preventivo, in Dir. fall., 2013; I. PAGNI, “Il controllo di fattibilità del piano di concordato dopo la sentenza 23 gennaio 2013, n. 1521: il richiamo alla "causa concreta", come funzione economico-individuale del concordato, Dir. fall., 1, 2013, 286 ss..

[13] Sull’utilizzo da parte del Supremo Collegio del concetto di causa concreta, quale “categoria di stretta derivazione privatistica” v. A. M. AZZARO, “Concordato preventivo e autonomia privata”, in Fall., 2007, 1267.

[14] Si legge, infatti, nella Relazione al codice civile, al paragrafo 613, che il ruolo affidato dall’ordinamento giuridico alla causa non è più quello di rappresentare lo “scopo soggettivo, qualunque esso sia , perseguito dal contraente nel caso concreto bensì di configurare la funzione economico sociale che il diritto riconosce rilevante ai suoi fini e che da sola giustifica la tutela dell’autonomia privata”. Siffatta funzione a sua volta “deve essere non soltanto conforme ai precetti di legge, all’ordine pubblico e al buon costume, ma anche, per i riflessi diffusi dell’art. 1322, comma 2, rispondente alla necessità che il fine intrinseco del contratto sia socialmente apprezzabile e come tale meritevole di tutela giuridica”. 

[15] In dottrina, la concezione della causa quale finzione economico-sociale del negozio ha avuto tra i suoi sostenitori più illustri, BETTI e GIORGIANNI:  In particolare, E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, in Tratt. Vassalli, Torino, ristampa 1960, 170 ss., ad avviso del quale, nell’indagine sulla causa occorreva “portare, specie nell’ambiente della società moderna, un grado di sensibilità sociale del quale il vecchio individualismo dei giuristi non aveva sentore”. M. GIORGIANNI, voce Causa del negozio giuridico (diritto privato), in Enc. Dir, IV, Torino, 1960.

[16] La giurisprudenza, nei primi anni di vigenza dell’attuale codice civile, identificò la causa del contratto con il motivo ultimo che aveva indotto le parti a concludere il negozio giuridico. In questo senso, si veda C. App.,Venezia, 27.01.1946, in Foro it., 1947; C. App. Ancona, 17.03.1954, in Giust. Civ.,1, 1954, 1192. Orientate in tal senso non mancano, tuttavia, anche pronunce più recenti. In questo senso C. Cass., 26.01.1969, n. 663 in Giur it., 1969, nella cui statuizione si legge che causa costituisce “lo scopo pratico perseguito dai contraenti”. 

[17] In questo senso, E. BETTI, op. cit.,: “come i diritti soggettivi anche i poteri di autonomia (…) non debbono essere esercitati in contrasto con la funzione sociale cui essi sono destinati”.

[18] G.B. FERRI, “Il negozio giuridico”, Padova, 2001, 94 ss.

[19] In questi termini, M. BIANCA, Il contratto, Milano, 1993, 423.

[20] G.B. FERRI, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, 59 ss.

[21] L’adozione del concetto di causa quale funzione economico-individuale da parte della giurisprudenza, tradizionalmente, viene ricondotta alla pronuncia della C. Cass., SS.UU.,  11.01.1973, n. 68, in Foro Pad., 1, 1974, 115

[22] In questo senso, G.B.FERRI, op. ult. cit., 374.

[23] Tra le pronunce che dimostrano il pervadere del concetto di “causa concreta” merita di essere citata la sentenza della C. Cass., SS.UU., 18.02.2010, n. 3947 in Foro. it. 1, 2010, 2799, per la quale la causa del contratto indica in sostanza “a cosa serva” il contratto stesso. Ed ancora, C. Cass., SS.UU., 11.11.2008, n. 26972 , in. Giur. it. 10, 2009, 2196, con nota di A. ANGIULI, “La riduzione delle poste risarcitorie come effetto della configurazione del nuovo danno non patrimoniale”.  Il Supremo Collegio, in siffatta sentenza, chiamato a pronunciarsi in tema di risarcibilità dei danni non patrimoniali conseguenti all’inadempimento contrattuale, ha stabilito il principio per cui la ricerca degli interessi dedotti in contratto “va condotta accertando la causa in concreto del negozio, da intendersi come (…) ragione concreta della dinamica contrattuale”.

[24] C. Cass., 08.05.2006, n. 10490, con nota di F. RIMOLDI, “La causa quale ragione in concreto del singolo contratto”, in Contratti, 2007, 621 ss.

[25] C. Cass., 19.02.2000, n. 1898, in Giust. Civ., 1, 2001, 241.

[26] In questo senso in dottrina non è mancato chi ha rilavato che la causa “serve a valutare l’atto di autonomia, consentendo il controllo delle conseguenze che i contraenti possono realizzare”. Così, testualmente, G. VETTORI, “Contratti e rimedi”, Padova, 2009, 209 ss.

[27] Le Sezioni Unite, se, da un lato, affermano che l’obiettivo del concordato preventivo, consistente nella composizione della crisi mediante una procedura flessibile, che “può trovare soddisfacente attuazione (…) soltanto se adeguatamente valorizzati i profili negoziali della stessa”, dall’altro, ritengono che nella disciplina “siano individuabili evidenti manifestazioni di riflessi pubblicistici, suggeriti dall’avvertita esigenza di tener conto anche degli interessi di soggetti ipoteticamente non aderenti alla proposta, ma comunque esposti agli effetti di una sua non condivisa approvazione, ed attuati mediante la fissazione di una serie di regole processuali inderogabili, finalizzate alla corretta formazione dell'accordo tra debitore e creditori, nonché con il potenziamento dei margini di intervento del giudice in chiave di garanzia”.

[28] Che la valutazione della convenienza economica della proposta di concordato preventivo spetti ai creditori è espressamente statuito nella sentenza n.1521/2013 delle Sezioni Unite della Suprema Corte, le quali testualmente affermano che. “la relativa valutazione (sotto i diversi aspetti della verosimiglianza dell'esito e della sua convenienza) è rimessa al giudizio dei creditori, in quanto diretti interessati”.

[29] F. DE SANTIS, “Le Sezioni Unite ed il giudizio di fattibilità della proposta di concordato preventivo: vecchi principi e nuove frontiere”, in Società, 4, 2013, 435, il quale ha definito il controllo giudiziario quale “controllo permanente”.

[30] La figura del professionista è stata assimilata a quella di un “ausiliare del giudice”, la cui funzione attentatrice vede come destinatario diretto, non solo i creditori, ma anche il Tribunale, il quale potrebbe anche “discostarsi dal relativo giudizio”. In questi termini, sempre, C. Cass., SS.UU., 23.01.2013, n. 1521, cit.

[31] Il riferimento è alla sentenza del  Trib. Siracusa, 15.11.2013, n. 9777in ilcaso.it.

[32] In questo senso, C. Cass., 18.09.2012, n. 15671,  inedita ; C. Cass. 13.06.2011, n. 12369, inedita ; C. Cass., 18.11.2009, n. 24360, con nota di D. CHINDEMI, “La Legge Pinto e la procedura fallimentare”, in Resp. civ. e prev. 3, 2010, 532.

[33] Legge 24.03.2001, n. 89 in G.U. 03.04.2001, n. 78 a tenore della quale “chi ha subìto un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione... sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole... ha diritto ad una equa riparazione”. 

[34] Per un approfondimento sul tema si veda A. PATTI, “Il miglior soddisfacimento dei creditori: una clausola generale per il concordato preventivo?”, in Fall., 9, 2013, 1099.

[35] In questi termini, testualmente, Trib. Siracusa, cit.,   il quale - in perfetta conformità a quanto stabilito dalle Sezioni Unite della Suprema Corte - ha precisato che: “causa concreta del concordato, intesa come funzione economica del medesimo, si invera necessariamente nel superamento della crisi, attraverso il soddisfacimento dei creditori in misura apprezzabile, in una qualsivoglia forma giuridicamente percorribile ed in un lasso di tempo ragionevolmente breve”.

[36] In questi termini, Trib. Bari, 03.06.2013, in www.ilcaso.it.

[37] Trib. Rovigo ,03.12.2013, in www.ilcaso.it.

[38] C. Cass., 09.05.2013, n. 11014, in ilcaso.it; C. Cass., 25.09.2013, n. 21901, in www.ilcaso.it.

[39] L. PANZANI, “I nuovi poteri autorizza tori del tribunale e il sindacato di fattibilità del concordato”, in Società, 5, 2013, 565.


Scarica Articolo PDF