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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 11/06/2014 Scarica PDF

I piani attestati di risanamento: questioni interpretative e profili applicativi

Stefano Ambrosini e Marco Aiello, Stefano Ambrosini, Professore ordinario di Diritto Commerciale nell'Università del Piemonte Orientale. Marco Aiello, Professore associato di diritto commerciale nell'università di Torino, Avvocato



Sommario. 1. L’introduzione e l’evoluzione della disciplina. – 2. La natura privatistica e non concorsuale dell’istituto. – 3. La negozialità intrinseca alla ricerca di un’intesa negoziale con i partners finanziari, industriali e commerciali dell’imprenditore in crisi. – 4. I presupposti soggettivo e oggettivo. – 5. Il piano di risanamento: aspetti formali e contenutistici. – 6. I compiti e i requisiti dell’attestatore. – 7. L’esenzione dalla revocatoria fallimentare. – 8. L’eventuale contestazione del piano in sede giudiziale. – 9. La negoziazione con gli istituti di credito tra buona fede e Codice ABI. – 10. La richiesta e la formalizzazione di un’intesa interinale di moratoria. – 11. Il consolidamento dell’esposizione a breve termine e il problema della concessione di nuove garanzie con riguardo al suo rimborso. – 12. La nuova finanza. – 13. Le clausole destinate a operare nell’ipotesi di overperformance dell’impresa rispetto alle previsioni del piano: l’eccesso di cassa e la commissione di ristrutturazione. – 14. Il monitoraggio sull’esecuzione del piano di risanamento e sull’adempimento all’accordo: i covenants e le modifiche alla manovra e al contratto.

 

   

1. L’introduzione e l’evoluzione della disciplina

La novella di cui alla legge n. 80 del 2005 – frettolosamente definita “miniriforma” pur avendo inciso in radice su due fra le parti più importanti della disciplina concorsuale, l’azione revocatoria e il concordato preventivo – ha introdotto strumenti di soluzione della crisi fino a quel momento sconosciuti dal nostro ordinamento, abrogando contestualmente l’amministrazione controllata: l’accordo di ristrutturazione del debito (già da altri trattato nel presente volume) e il piano di risanamento.

La collocazione di quest’ultimo fra le ipotesi di esenzione da revocatoria fallimentare non deve indurre in inganno quanto a importanza del piano di risanamento, la cui considerevole duttilità lo rende uno degli strumenti più agili e proficui per perseguire l’obiettivo del superamento della crisi. Non è un caso che alcune fra le più rilevanti ristrutturazioni aziendali degli ultimi anni, fra l’altro in settori strategici dell’economia italiana, dal siderurgico (Lucchini e AFV Beltrame) al chimico (Snia-Caffaro), dall’immobiliare (Aedes) allo shipping (Navigazione Montanari), dalla moda (Stefanel) alla produzione di carta (Burgo), siano state affrontate attraverso il ricorso al piano attestato ex art. 67, 3° comma, lett. d, l. fall. (salvo poi ripiegare, nelle situazioni successivamente evolutesi in senso negativo, sulle procedure di concordato preventivo o di amministrazione straordinaria).

La formulazione della norma è stata oggetto di sostanziali modifiche che hanno investito tanto i requisiti soggettivi dell’attestatore quanto l’oggetto della verifica a questi demandata, stabilendo essa oggi che vanno esenti da revocatoria “gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore purché posti in essere in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria; un professionista indipendente designato dal debitore, iscritto nel registro dei revisori legali ed in possesso dei requisiti previsti dall’art. 28, lettere a) e b) deve attestare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano; il professionista è indipendente quando non è legato all’impresa e a coloro che hanno interesse all’operazione di risanamento da rapporti di natura personale o professionale tali da comprometterne l’indipendenza di giudizio; in ogni caso, il professionista deve essere in possesso dei requisiti previsti dall’art. 2399 del codice civile e non deve, neanche per il tramite di soggetti con i quali è unito in associazione professionale, avere prestato negli ultimi cinque anni attività di lavoro subordinato o autonomo in favore del debitore ovvero partecipato agli organi di amministrazione o di controllo; il piano può essere pubblicato nel registro delle imprese su richiesta del debitore”.

Questa disposizione si è fatta carico dell’annoso problema dei rischi connessi all’esperibilità dell’azione revocatoria anche all’indirizzo di atti compiuti nell’ambito di una ristrutturazione, purché “codificata”, della crisi, ma ha lasciato scoperto il rilevante e delicato versante della possibile responsabilità sul piano penale dei soggetti coinvolti. A tale lacuna aveva peraltro posto (parziale) rimedio la l. 30 luglio 2010, n. 122, attraverso l’introduzione dell’art. 217-bis, ai sensi del quale le norme sulla bancarotta semplice e su quella preferenziale non si applicano “ai pagamenti e alle operazioni compiuti in esecuzione di un concordato preventivo di cui all’articolo 160 o di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’articolo 182-bis o del piano di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d), ovvero di un accordo di composizione della crisi omologato ai sensi dell’articolo 12 della legge 27 gennaio 2012, n. 3, nonché ai pagamenti e alle operazioni di finanziamento autorizzati dal giudice a norma dell’articolo 182-quinquies”.

La riforma del 2012 ha altresì chiarito, in linea con l’orientamento dottrinale di gran lunga prevalente[1], che la designazione dell’esperto attestatore spetta allo stesso debitore e ha opportunamente sancito il necessario possesso, da parte di questi, del requisito di indipendenza, richiedendo che il professionista incaricato non sia legato all’impresa e a coloro che hanno interesse all’operazione di risanamento da rapporti di natura personale o professionale tali da comprometterne l’indipendenza di giudizio[2].

Le ulteriori modifiche introdotte nel 2012 attengono all’“armonizzazione” dell’oggetto dell’attestazione, essendo precisato, da un lato, che l’esperto deve vagliare anche (e anzitutto) la veridicità dei dati e richiedendo, dall’altro, l’attestazione di “fattibilità” (alla stregua di quanto già previsto per il concordato preventivo e per gli accordi di ristrutturazione), in luogo del precedente riferimento alla “ragionevolezza” del piano.

Infine, per espressa previsione dell’ultimo periodo della norma in esame, il debitore può richiedere la pubblicazione del piano nel registro delle imprese, ciò che gli consente, ai sensi dell’art. 88, 4° comma, d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917, di fruire del relativo beneficio fiscale, non essendo i risparmi derivati dall’esecuzione del piano (tipicamente, gli stralci di parte del debito) soggetti a tassazione, come già accadeva per il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione[3].

 

2. La natura privatistica e non concorsuale dell’istituto

Così delineati i tratti salienti della disciplina del piano di risanamento e prima di procedere al suo analitico esame, conviene dedicare qualche cenno alla natura giuridica della fattispecie.

Il piano di risanamento mira alla soluzione della crisi per via squisitamente privatistica, nel senso che non è previsto alcun tipo di intervento da parte del tribunale. E in ciò risiede il tratto marcatamente distintivo rispetto sia al concordato preventivo, nel cui ambito il controllo giudiziale si manifesta dal momento genetico (il decreto di ammissione) a quello finale (il decreto di omologazione), sia all’accordo di ristrutturazione, che, pur nascendo come contratto fra privati, postula, per la produzione degli effetti di cui agli artt. 67, 3° comma, lett. e, e 217-bis l. fall., la necessaria omologazione ad opera del tribunale; effetti che invece, nel piano attestato, discendono direttamente dal fatto che gli atti “protetti” dalla legge (sul piano civile e penale) siano compiuti in esecuzione di un piano che presenti i requisiti richiesti dall’ art. 67, 3° comma, lett. d, l. fall.

Per quanto concerne la questione della natura giuridica dell’istituto, può affermarsi senza tema di smentita che il piano di risanamento esula dall’ambito della concorsualità, non essendo qualificabile come procedura in senso proprio e non possedendo comunque carattere concorsuale. Da quest’ultimo punto di vista, infatti, può ribadirsi quanto di recente osservato con riferimento agli accordi di ristrutturazione, ponendo in luce come non si possa parlare di procedura concorsuale in assenza dei seguenti elementi: (i) un provvedimento giudiziale di apertura, recante la nomina di un organo deputato alla “gestione” della procedura; (ii) l’universalità degli effetti, specie sul lato passivo (la generalità dei creditori); (iii) l’apertura del concorso fra i creditori e il blocco del decorso degli interessi sui crediti chirografari; (iv) il principio, pur da tempo declinante, della (almeno tendenziale) parità di trattamento fra creditori; (v) l’esistenza di una collettività di creditori globalmente intesa e retta dal principio maggioritario[4].

Il fatto che il piano di risanamento fuoriesca dunque dalla sfera della concorsualità reca con sé due significativi corollari sul piano applicativo. In primo luogo, non è configurabile alcuna consecutio nell’ipotesi in cui l’impresa sia successivamente assoggettata a procedura concorsuale, donde l’impossibilità di far decorrere dalla formalizzazione del piano (e dell’accordo a esso sottostante) il c.d. periodo sospetto della revocatoria. In secondo luogo, non è predicabile in alcun modo la prededucibilità dei crediti sorti durante l’attività di l’esecuzione del piano, non trovando applicazione il disposto del secondo comma dell’art. 111 l. fall., che si riferisce espressamente, appunto, alle procedure concorsuali di cui alla legge fallimentare.

 

3. La negozialità intrinseca alla ricerca di un’intesa con i partners finanziari, industriali e commerciali dell’imprenditore in crisi

L’art. 67, 3° comma, lettera d, l. fall. esclude – come già accennato – la revocabilità degli atti, dei pagamenti e delle garanzie esecutivi di un piano idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria, a condizione che la veridicità dei dati aziendali alla base della suddetta prospettazione e la fattibilità della medesima siano attestate da un professionista indipendente (ancorché designato dal debitore), iscritto nel registro dei revisori legali e in possesso dei requisiti di cui all’art. 28, lettere a e b, l. fall. Alla luce del tenore letterale della legge, deve ritenersi che il fondamento dell’esenzione risieda nel nesso tra l’atto dell’imprenditore in crisi e il piano di risanamento[5], il quale costituisce, insieme alla relazione dell’esperto, il baricentro della norma, senza necessità – a stretto rigore – che la soluzione della crisi si traduca in una formale intesa con i creditori[6], come invece invariabilmente accade tanto nell’accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182-bis l. fall., quanto (sia pur con forme peculiari) nel concordato preventivo.

A ben vedere, tuttavia, la svalutazione del momento negoziale – apparentemente accessorio al piano – tende a stemperarsi nella prassi, tenuto conto del fatto che, nella pressoché totalità dei casi, il programma di risanamento può essere davvero attuato (e, di conseguenza, fondatamente attestato) solo in presenza di un accordo tra l’imprenditore in difficoltà e i principali creditori, costituiti anzitutto dagli istituti di credito (oltre alle banche, le società di leasing e di factoring), cui talvolta si aggiungono fornitori “strategici” e finanche soggetti che, pur senza vantare pretese pecuniarie, siano nondimeno egualmente interessati al risanamento dell’impresa (quali i principali partners e clienti, talora desiderosi di assicurarsi la continuità delle prestazioni del debitore)[7]. È infatti davvero infrequente la fattispecie in cui l’impresa in seria difficoltà si riveli capace di riconquistare il pieno equilibrio dei propri conti facendo esclusivo ricorso a iniziative endogene (quali la razionalizzazione dei costi, l’efficientamento della struttura produttiva e la dismissione delle attività non funzionali al core business). Al contrario, di norma è necessario intervenire anche sulle variabili esterne, procedendo, da un lato, alla rinegoziazione dell’indebitamento pregresso (o, quantomeno, delle sue principali componenti), se del caso rimodulando i tempi di rimborso, le garanzie e, all’occorrenza, lo stesso ammontare (con conseguente richiesta di stralcio); dall’altro, all’individuazione e all’ottenimento di risorse aggiuntive per finanziare il turnaround, spesso reperibili solo mediante un idoneo mix tra gli apporti di equity e il ricorso alla nuova finanza bancaria[8].

In altre parole, nonostante la norma s’incentri sul piano elaborato dall’imprenditore, a ben vedere lo strumento di cui all’art. 67, 3° comma, lett. d, l. fall. non solo non esclude, ma addirittura presuppone – benché implicitamente – un momento contrattuale, tanto che di regola il business plan si traduce in un vero e proprio accordo di risanamento[9] e, pertanto, s’inserisce a pieno titolo nel novero delle soluzioni negoziali della crisi[10]. In altre parole: “il piano attestato esprime una vocazione legislativa ad assecondare la contrattazione ristrutturativa, agevolando i processi di incentivazione per creditori ed anche meri partners contrattuali dell’impresa in crisi e che comunque si vogliano impegnare nel workout[11]. Del resto, a ben vedere, la vocazione negoziale dell’istituto è insita nella stessa disciplina dei suoi effetti. L’esenzione dalla revocatoria, infatti, non determina un diretto vantaggio per il debitore, atteso che, com’è stato giustamente osservato, “se l’impresa fallisce, l’imprenditore può rimanere indifferente di fronte alla sorte degli atti compiuti in precedenza e, anzi, può avere anch’egli interesse al proficuo esperimento dell’azione revocatoria, perché attraverso di essa si recupera attivo fallimentare e quindi si ottiene un maggior soddisfacimento dei creditori concorsuali”[12].

I soggetti direttamente tutelati dalla norma sono, piuttosto, i creditori, con la conseguenza che l’utilità (ancorché indiretta) che l’imprenditore ritrae dall’adozione del piano attestato consiste nella rimozione di uno dei più significativi ostacoli alla stipulazione delle intese contrattuali funzionali al risanamento[13], vale a dire, per l’appunto, il timore della dichiarazione d’inefficacia delle suddette intese e dei relativi atti esecutivi per il caso di successivo fallimento[14]. Può pertanto condividersi il rilevo secondo il quale “l’interesse protetto dalla norma è quello all’agevolazione dei progetti industriali o finanziari di ristrutturazione delle aziende, al fine di salvaguardare le potenzialità e le risorse occupazionali dell’azienda. In quest’ottica, la paura di incorrere nella revocatoria dell’atto potrebbe essere di ostacolo, per i creditori dell’azienda, alla necessaria collaborazione nella realizzazione del progetto di ristrutturazione. Pertanto, l’imprenditore, nel predisporre le condizioni per l’operatività dell’esenzione da revocatoria, mira ad ottenere la collaborazione dei terzi creditori alla realizzazione del suo piano di ristrutturazione, proteggendoli dal rischio di revocatoria degli atti che andrà a compiere”[15].

Del resto, ove davvero il risanamento fosse conseguibile avvalendosi soltanto di misure interne all’impresa (prescindendo totalmente dal coinvolgimento dei terzi), difficilmente il debitore acconsentirebbe a sottoporre le proprie scelte gestorie al vaglio dell’esperto attestatore, dovendone sostenere i costi senza la prospettiva di alcun beneficio (diretto o indiretto), neppure in termini di collaborazione alla definizione del turnaround, dal momento che il suddetto professionista – in quanto indipendente – resta giocoforza escluso dall’attività di elaborazione del business plan, oggetto del proprio sindacato.

A tale stregua, benché – dal punto di vista strettamente giuridico – l’istituto sia incardinato sul piano, di cui l’accordo costituisce un mero atto esecutivo, nella sostanza sono il piano e l’attestazione gli elementi accessori dell’accordo, idonei a rendere il medesimo immune dall’azione revocatoria nell’eventualità di successivo fallimento. Non a caso, nella prassi l’imprenditore che, per superare la crisi, abbia necessità di ottenere supporto da parte dei terzi (anzitutto delle banche) prospetta agli stessi, unitamente alle proprie richieste, l’inquadramento di tali istanze nella cornice protettiva discendente – a seconda delle peculiarità della fattispecie – dall’art. 67, 3° comma, lettera d, dall’art. 182-bis o dagli artt. 160 ss. l. fall.. Al di là della manifesta eterogeneità dei tre strumenti, infatti, essi presentano tutti un comune minimo denominatore, individuabile nel fatto che l’obiettivo cui mira l’imprenditore è sempre l’accordo con i creditori, pur strutturato secondo la forma giuridica più consona alle concrete caratteristiche di ciascuna situazione di crisi, oltre che alle richieste di tutela dei creditori stessi[16].

Questa ricostruzione, prospettata già all’indomani dell’introduzione dell’istituto (quando i relativi effetti erano, per l’appunto, circoscritti all’esenzione dalla revocatoria), resta valida ancora oggi, nonostante la legge faccia discendere dalla redazione del piano di risanamento e dalla sua attestazione corollari ulteriori, che, in qualche modo, avvantaggiano il debitore anche in via diretta. Viene in considerazione, in particolare, l’art. 217-bis l. fall. (introdotto, com’è noto, dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, che ha convertito, con modificazioni, il d.l. 31 maggio 2010, n. 78), il quale dispone l’inapplicabilità della bancarotta preferenziale (art. 216, 3° comma, l. fall.) e della bancarotta semplice (art. 217 l. fall.) alle operazioni compiute in esecuzione del piano. Alla luce di questa innovazione, in astratto l’imprenditore potrebbe nutrire interesse a ottenere l’attestazione al fine di escludere, per il caso di futuro fallimento, la propria responsabilità penale, indipendentemente da eventuali profili revocatori. Anche sotto questo profilo, tuttavia, la ratio della norma sembra risiedere non tanto nella creazione di un’area di protezione per l’imprenditore, quanto piuttosto nell’approntamento di un contributo al superamento delle – per vero comprensibili – perplessità che i terzi (anzitutto le banche) avevano in precedenza dimostrano con riguardo alla conclusione di accordi finalizzati al turnaround, in ragione del timore di un coinvolgimento penale (a titolo di concorso nel reato proprio del fallito) per l’ipotesi d’insuccesso dell’operazione[17]. Com’è stato osservato, infatti, “in passato, dai terzi coinvolti nella ristrutturazione (tipicamente le banche) il debitore doveva ottenere non solo la disponibilità (per nulla scontata) a sostenere il progetto volto a superare la crisi, ma altresì l’accettazione del rischio che l’esito infausto del tentativo di salvataggio – per natura mai escludibile a priori – li esponesse ad incolpazione per reati fallimentari”[18].

Non è un caso, del resto, che tra le fattispecie di bancarotta più gravi (bancarotta fraudolenta) l’esimente riguardi soltanto la bancarotta preferenziale (vale a dire quella che più di frequente conduce all’imputazione per concorso del beneficiario del pagamento contra legem), mentre restano in ogni caso punibili le condotte di bancarotta per distrazione e documentale (art. 216, 1° comma, l. fall.), vale a dire quelle fattispecie alla cui applicazione l’imprenditore avrebbe, con ogni probabilità, il maggior interesse a sottrarsi.

Sortisce invece effetti senz’altro favorevoli direttamente per il debitore la pubblicazione (su base volontaria) del piano nel registro delle imprese (possibilità introdotta dall’art. 33, 4° comma, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito nella l. 7 agosto 2012, n. 134): in questa eventualità, infatti, diviene operativa la previsione di cui all’art. 88, 4° comma, d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917, il quale esclude che costituiscano sopravvenienze attive (per la parte che eccede le perdite, pregresse e di periodo, di cui all’art. 84 della medesima legge) le riduzioni dei debiti dell’impresa derivanti dal piano[19]. Deve invece escludersi che chi abbia acconsentito allo stralcio nell’ambito del piano di risanamento possa profittare della deducibilità fiscale delle perdite su crediti, che l’art. 101, 5° comma, d.p.r. n. 917/1986 (come modificato dall’art. 33, 5° comma, d.l. n. 83/2012, n. 83, convertito nella l. n. 134/2012) circoscrive alle procedure concorsuali e all’accordo di ristrutturazione dei debiti omologato, creando, sotto questo aspetto, un meccanismo di concorrenza asimmetrica tra lo strumento di cui all’art. 67, 3° comma, lettera d, l. fall. e quello previsto, per l’appunto, dall’art. 182-bis l. fall.[20]. Al di là di questa differenza, preme sottolineare in questa sede che, anche con riguardo ai profili fiscali, ciò che si scrive “piano di risanamento” si deve in realtà leggere “accordo di risanamento”: non è l’atto unilaterale dell’imprenditore, infatti, a determinare il decremento delle passività pregresse, bensì, per l’appunto, l’assenso dei creditori alla richiesta di stralcio. Com’è stato invero giustamente osservato, “in assenza di specifici accordi con i creditori non vi sono […] dubbi circa la necessità che il piano debba prevedere un pagamento regolare dei crediti, da intendersi come pagamento regolare alle rispettive scadenze”[21].

 

4. I presupposti soggettivo e oggettivo

La sedes materiae dell’istituto e la finalità precipua che lo caratterizza (l’esenzione da revocatoria) depongono chiaramente nel senso della fruibilità del piano di risanamento da parte degli imprenditori commerciali assoggettabili a fallimento. Si è nondimeno giustamente osservato che, se è vero che il piano attestato trova applicazione per qualunque imprenditore suscettibile di essere dichiarato fallito o insolvente, “la collocazione della figura – nella legge sull’insolvenza concorsuale – non ne sembra precludere l’impiego (in ragione di una meritevolezza causale civilistica più ampia, ex artt. 1322-1324 c.c.) per ogni tipo di imprenditore, anche se estraneo allo statuto della concorsualità”[22]. Naturalmente, in questo secondo scenario lo scopo perseguito non è l’esenzione da revocatoria fallimentare (evidentemente non esperibile fuori dall’alveo concorsuale), bensì la composizione della crisi del debitore ancorché – si ripete – non fallibile: ma allora la vicenda finisce per assumere i contorni di una sorta di concordato stragiudiziale, a ben vedere, più che di un piano ex art. 67, 3° comma, lett. d, l. fall.

Per quanto concerne l’elemento oggettivo, le locuzioni “risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa” e “riequilibrio della sua situazione finanziaria” potrebbero far dubitare, a tutta prima, che l’istituto si attagli alle imprese insolventi, nel senso che è precisamente l’inidoneità (originaria o sopravvenuta) del piano a schiudere le porte del fallimento. A ben vedere, però, l’impresa può già trovarsi – e di fatto talora si trova – nella condizione di incapacità, attuale o prospettica, di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni, quando conferisce l’incarico ai suoi consulenti di “costruire” il piano di risanamento, purché si tratti d’insolvenza reversibile: in caso contrario, infatti, nessun piano potrebbe risultare idoneo a perseguire l’obiettivo del risanamento dei debiti e del recupero dell’equilibrio finanziario[23].

Del resto, in materia di amministrazione straordinaria (quindi con inequivoco riferimento a imprese dichiarate insolventi) la legge subordina il passaggio dalla fase giudiziale a quella “amministrativa” alla sussistenza di “concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico” (art. 27, 1° comma, d. lgs. n. 270/1999), con una formulazione lessicalmente e concettualmente non dissimile da quella propria della norma in esame.

Né sembra contrastare con gli assunti che precedono il fatto che, a differenza delle disposizioni in tema di concordato preventivo e di accordo di ristrutturazione, la norma in esame non menziona la parola “crisi”. Certo, com’è stato rilevato, l’attenuazione del grado di difficoltà dell’impresa che il piano è chiamato ad affrontare “dovrebbe contribuire, sul piano probatorio, ad integrare il medesimo requisito della sua apparente efficacia, sembrando difficile che la prassi esordisca con chiare enunciazioni di un’insolvenza irreversibile e probabilmente orientandosi a descrivere una situazione di meno conclamato dissesto”[24]; ma il limite all’utilizzo in questione va ravvisato non già, genericamente, nell’insolvenza, bensì – per  l’appunto – nello stato di decozione irreversibile.

La tesi qui condivisa trova ulteriore conferma nel disposto dell’art. 217-bis l. fall., che esime dai reati di bancarotta ex artt. 216, 3° comma, e 217 l. fall. anche gli atti esecutivi di piani di risanamento attestati. È infatti alquanto significativo che la legge ricolleghi l’esenzione in parola al fatto che operazioni compiute tipicamente da imprenditori insolventi siano posti in essere in esecuzione di un piano attestato. Non a caso, nella letteratura – anteriore all’introduzione dell’art. 217-bis l. fall. – che negava la compatibilità fra insolvenza e piani di risanamento si poneva l’accento sul fatto che “il complesso di norme con cui si prevedono sanzioni per l’imprenditore che abbia aggravato il proprio dissesto, ritardando l’avvio di una procedura concorsuale (artt. 216, 217, 218, 223 ss. l. fall.) non risulta[va] derogato”[25].

   

5. Il piano di risanamento: aspetti formali e contenutistici

Nonostante la fattispecie in esame risulti incentrata sul business plan elaborato dall’imprenditore, lo strumento di cui all’art. 67, 3° comma, lett. d, l. fall. presuppone un’intesa contrattuale, tanto che, pressoché invariabilmente, il piano si traduce in un vero e proprio accordo di risanamento.

Di là dall’applicazione generale del principio di libertà delle forme, non sembra potersi seriamente dubitare che detto accordo sia destinato ad assumere forma scritta. E ciò in considerazione del fatto che esso, per poter utilmente spiegare i propri effetti, dev’essere munito di data certa; il che di regola comporta che accordo, piano e attestazione rechino la stessa data “certificata” da un notaio. Ed invero, le parti sono interessate a escludere la revocabilità (e l’ipotetica rilevanza penale) non solo della stipulazione del patto di risanamento in sé, ma anche – e soprattutto – del compimento dei relativi atti esecutivi (a cominciare dai pagamenti), il che presuppone che l’intero set di documenti composto dall’accordo, dal piano e dall’attestazione trovi una collocazione temporale incontrovertibile, onde dimostrarne l’anteriorità rispetto ai successivi adempimenti. Di qui la necessità di munire i suddetti atti di data certa, affinché, nell’eventualità del successivo fallimento, sia possibile fornire agevolmente la prova della consequenzialità logica e – prim’ancora – cronologica tra, da un lato, il piano, l’attestazione, l’accordo e, dall’altro, l’esecuzione delle singole obbligazioni dagli stessi previste. In questa prospettiva si è giustamente osservato che “quel che appare necessario, pur in assenza di una specifica indicazione in tal senso, è […] l’attribuzione di una data certa al piano di risanamento, all’attestazione dell’esperto e ai principali atti posti in esecuzione del piano attestato. Il che è essenziale (pur, ripetesi, in assenza di un’espressa previsione legislativa in tal senso) al fine di attribuire al piano medesimo l’efficacia sostanziale di sottrarre alla revocatoria gli atti eseguiti per la sua attuazione, garantendo l’anteriorità del piano, dell’attestazione e degli atti esecutivi rispetto alla dichiarazione di fallimento. Un ulteriore e non secondario scopo dell’attribuzione di data certa ai principali atti esecutivi del piano è quello di provare l’effettiva consequenzialità cronologica degli atti esecutivi medesimi in relazione al piano e alla sua attestazione da parte dell’esperto. Il che vale a dimostrare il rispetto dell’originario progetto di risanamento e quindi la perdurante idoneità del piano al momento del compimento di un determinato atto”[26].

Per quanto concerne i soggetti a struttura societaria, l’individuazione dell’organo che delibera il ricorso al piano attestato di risanamento, occorre evidentemente distinguere.

Nella società per azioni che adotti il modello “tradizionale” di amministrazione e controllo, la decisione compete all’organo gestorio (amministratore unico o consiglio di amministrazione). Nell’ipotesi, poi, di amministrazione delegata, l’iniziativa per l’elaborazione del piano compete all’amministratore delegato, per quanto – a ben vedere – la formulazione dell’art. 2381, 3° comma, c.c. (ove si parla di piani strategici, individuali e finanziari), induce a ritenere che esso debba costituire oggetto di esame in sede consiliare. Anche nel sistema dualistico la competenza in materia è del consiglio di gestione, a meno che lo statuto l’abbia espressamente collocata in capo al comitato di sorveglianza ex art. 2409-terdecies c.c.).

A conclusioni non dissimili pare giungersi con riferimento all’organo amministrativo della società a responsabilità limitata, a meno di ritenere che le implicazioni consustanziali al piano di risanamento incidano sui diritti dei soci (o alterino l’oggetto sociale), nel qual caso occorrerebbe l’assunzione di una loro apposita decisione ex art. 2479 c.c.

Nelle società di persone, infine, deve aversi riguardo alla disciplina degli atti di straordinaria amministrazione (artt. 2257, 2258, 2298, 2318, 2320 c.c.).

Certamente non può invocarsi nella materia in esame il disposto dell’art. 152 l. fall. dettato per il concordato preventivo, trattandosi di disposizioni insuscettibili di applicazione estensiva o analogica, men che meno a un istituto che – come chiarito in precedenza – esula dall’ambito della concorsualità.

Passando dai profili formali a quelli contenutistici, va detto anzitutto che la vasta “fenomenologia” dei piani attestati, anche alla luce dell’esperienza pratica, costituisce oggetto di esame nel prosieguo della trattazione. Ci si limita qui, pertanto, ad alcune brevi considerazioni relative ai contenuti che il piano deve necessariamente presentare e a quelli che, invece, è dubbio siano con esso compatibili.

Al riguardo, è bene ricordare la ragione per la quale un’impresa ricorre allo strumento di cui trattasi, vale a dire l’esigenza di perseguire il risanamento della propria esposizione debitoria e il riequilibrio della propria situazione finanziaria. Muovendo da questa constatazione, risulta evidente che il piano consista anzitutto in un programma in cui siano indicati gli interventi funzionali al superamento della crisi, alla luce delle peculiarità dell’impresa in questione e del settore merceologico in cui opera.

È stato osservato, in proposito, che “la delicatezza degli interessi in gioco ed il rilievo dell’esonero da revocatoria stabilito per gli atti compiuti in esecuzione del piano impon[gono] [...] che sia necessario descrivere con puntualità le operazioni finalizzate al risanamento dell’impresa”[27]. La declinazione delle operazioni strumentali al conseguimento degli obiettivi del piano, in ogni caso, dev’essere quanto più analitica possibile; ferma, evidentemente, la possibilità di modificare “in corso d’opera”, con la precisazione circa la necessità di una nuova attestazione nei termini di cui si dirà più ampiamente in appresso.

Le finalità consustanziali all’istituto in esame inducono a interrogarsi sulla possibilità che il piano abbia contento puramente dilatorio o sic et simpliciter solutorio. A quest’ultimo proposito si è rilevato che “dovrebbero essere esclusi dalla sfera di applicazione dell’istituto accordi di mero carattere solutorio, che non prevedano un riequilibrio dell’esposizione finanziaria dell’impresa del debitore attingendo a risorse proprie, oppure attraverso l’erogazione di nuova finanza”[28]. Dal punto di vista aziendalistico il risanamento dell’esposizione debitoria risiede – com’è stato detto – “nel ritorno, attraverso una riduzione dell’esposizione debitoria, ovvero una rinegoziazione delle relative scadenze, a quell’equilibrio finanziario a breve e/o a medio-lungo termine, caratterizzato da una pressoché perfetta contrapposizione tra i flussi finanziari dove, in un determinato arco temporale, le entrate monetarie sono in grado di fronteggiare le corrispondenti uscite”[29]. A ciò si aggiunga che per riequilibrio della situazione finanziaria si intende, secondo la medesima impostazione, “una implicanza armoniosa e bilanciata di entrate e uscite effetto di un grado di miglioramento anche nel breve o medio periodo, poiché con tale fattore si valuta il grado di indebitamento dell’impresa: più alto è il rapporto tra capitale di terzi e capitale proprio, più elevato si mostrerà il rischio aziendale. Ad esempio, per la realtà italiana, un’impresa è finanziariamente equilibrata se questo indice è inferiore a tre, ma si tratta di indicazione non generalizzabile dovendo adattarsi, per la fattispecie, ad una peculiarità del settore e del mercato rilevante assai condizionanti”[30].

Ora, alla luce dei predetti elementi della fattispecie e della loro definizione occorre domandarsi se il piano di risanamento possa avere un contenuto in tutto o in parte liquidatorio.

Sull’ammissibilità di un piano parzialmente liquidatorio non sembrano esservi dubbi, dal momento che l’obiettivo della continuità aziendale ben può essere – e in concreto sovente viene – perseguito attraverso la dismissione di cespiti non strategici, trovando il piano, in certi casi, sostegno precisamente dall’ingresso di risorse finanziarie provenienti da dette dismissioni. E le previsioni dell’art. 186-bis l. fall. in tema di concordato preventivo in continuità confermano plasticamente l’assunto.

Assai più problematica si presenta, invece, la configurabilità di un piano interamente liquidatorio. La formulazione letterale della norma e le finalità cui essa mira sembrerebbero deporre in maniera abbastanza perspicua nel senso che il risanamento aziendale e la liquidazione dei beni dell’impresa siano termini, anche dal punto di vista concettuale, fra loro difficilmente conciliabili. In proposito, si è affermato che “proprio la sistemazione concettuale [...] conduce a razionalizzare l’istituto precludendone l’impiego per le prospettive di un imprenditore che, attraverso il piano, voglia uscire dal mercato e procedere a un processo di liquidazione: la tesi qui sostenuta è che l’art. 67, 3° comma, lett. d) l. fall., diversamente dagli accordi di ristrutturazione ed altresì dal concordato, pretende la continuità aziendale, in ciò giustificandosi l’unilateralità del progetto e il complesso, in ipotesi nemmeno negoziato, nei sacrifici dei creditori [...]. In una visione dinamica dell’attività il riequilibrio della situazione finanziaria sembra dunque il necessario effetto di una politica di gestione che preluda, con il superamento della crisi, alla continuità aziendale”[31].

In senso contrario, si potrebbe nondimeno essere tentati di configurare un piano avente come scopo precipuo la liquidazione in bonis anziché in ambito concorsuale. Senonché tale ipotesi, certamente conciliabile con la ristrutturazione dei debiti, più difficilmente si attaglia alla prospettiva del riequilibrio della situazione finanziaria, quantomeno nella misura in cui si ritenga che la legge la affidi necessariamente alla (pur “razionalizzata”) continuazione dell’attività d’impresa[32], non già alla vendita di tutti i beni (a partire da quelli aziendali) del debitore. A tale stregua, l’affermazione dell’ammissibilità di un piano attestato essenzialmente liquidatorio presuppone che si aderisca all’interpretazione – la cui adozione non pare priva di ostacoli e resta, pertanto, controversa[33] – che annette alle nozioni di risanamento e di riequilibrio un significato così ampio da includere nelle stesse la situazione dell’impresa che abbia ripianato integralmente i propri debiti, pur al prezzo di dismettere la maggior parte (quando non la totalità) dell’attivo o, comunque, della cessazione dell’attività caratteristica.

   

6. I compiti e i requisiti dell’attestatore

Come già in precedenza ricordato, il piano dev’essere accompagnato dalla relazione di un professionista in possesso dei requisiti d’indipendenza previsti dall’art. 28, lett. a e b, l. fall., incaricato di attestare due circostanze ugualmente imprescindibili: la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano[34]. A seguito delle modifiche apportate dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, la norma non contempla più alcun rinvio all’art. 2501-bis c.c., limitandosi a precisare – sulla scorta di quanto disposto, in materia di concordato preventivo, all’art. 161 l. fall. – che l’attestazione deve avere ad oggetto, per l’appunto, la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano.

Attraverso questa previsione, il legislatore del 2012 ha provveduto a “mettere un po’ d’ordine” nella selva terminologica che caratterizzava il previgente quadro normativo. L’attestazione di “ragionevolezza” richiesta per i piani di risanamento si infatti presentava discrasica, sotto il profilo lessicale, rispetto alle attestazioni di “attuabilità” e di “fattibilità” richieste, rispettivamente, per gli accordi di ristrutturazione e per il piano di concordato. In tale prospettiva, pertanto, l’espunzione del riferimento “distonico” alla ragionevolezza (e al conseguente rinvio all’art. 2501-bis c.c.) sembra ispirarsi, principalmente, a esigenze di coerenza terminologica, senza incidere, in concreto, sull’oggetto dell’attestazione né sui criteri valutativi che l’esperto deve adottare nell’espletamento dell’incarico. D’altronde, già nel vigore della previgente disciplina, gli interpreti erano giunti a ritenere che le espressioni “ragionevolezza”, “attuabilità” e “fattibilità” dissimulassero, in realtà, un significato comunque unitario.

Per quanto concerne il primo profilo, il professionista non può limitarsi ad affermare la conformità dei dati alle risultanze delle scritture contabili, ma deve altresì controllarne, per l’appunto, la “veridicità”, vale a dire che si tratta di dati reali. Il suo compito consiste quindi nel verificare sia l’esistenza delle attività dell’impresa (beni mobili, immobili, crediti, ecc.) e il loro effettivo valore, sia l’entità dell’esposizione debitoria e la correttezza della qualificazione dei creditori come chirografari o privilegiati[35]. È dubbio che nell’espletamento di tale compito si possa procedere con metodo a campione, ma è chiaro che, ove si ammetta questa possibilità, il campione utilizzato deve essere adeguatamente rappresentativo.

La relazione deve dar conto del processo metodologico seguito ai fini di addivenire al giudizio formulato dall’esperto, tanto che nella giurisprudenza in materia di concordato preventivo si è parlato, già all’indomani della novella del 2005, di motivata assunzione di responsabilità propria in ordine al risultato[36], non essendosi giustamente ritenuta sufficiente la mera attestazione che i dati esposti sono stati rinvenuti nella contabilità, né la semplice dichiarazione di conformità, o di corrispondenza formale, dei dati utilizzati per la predisposizione del piano a quelli risultanti dalla contabilità[37].

Per quanto attiene al vaglio sulla fattibilità del piano, la legge pare ritenere necessario che nella relazione siano compiutamente illustrate le valutazioni che il professionista, a seguito del predetto controllo sulla veridicità dei dati aziendali, è chiamato a formulare riguardo alle concrete prospettive di successo dell’operazione di risanamento, specie con riferimento alle modalità e ai tempi del pagamento dei creditori, sulla scorta di quanto oggi previsto, in tema di concordato preventivo, dall’art. 161, 2° comma, lett. e, l. fall., ove si richiede expressis verbis che la domanda di concordato preventivo venga accompagnata da un piano contenente la descrizione analitica dellemodalitàe deitempidi adempimento della proposta[38].

L’art. 67, 3° comma, lett. d, l. fall. richiede quindi che l’esperto formuli un giudizio tecnico in ordine alla gestione prospettica dell’impresa, il che impone all’estensore della relazione di valutare, oltre ai valori dei beni da cedere, il cash-flow della gestione corrente, il fabbisogno di capitale circolante, la struttura dell’impresa e gli scenari di mercato, tenendo ovviamente presente, in concreto, la diversa natura (conservativa o parzialmente liquidatoria) del piano. Ciò significa che, nei casi in cui non si tratti di semplice dismissione di cespiti, all’esperto si richiede di esprimere le proprie valutazioni in relazione agli elementi su cui si fonda il processo di ristrutturazione aziendale, sicché egli “dovrà dapprima evidenziare i “profili di discontinuità” che il piano presenta rispetto al passato [...] e solo in un secondo momento procedere ad una specifica illustrazione delle “idee” che sono alla base del piano medesimo e che rappresentano in realtà le ragioni per le quali quest’ultimo è fattibile”[39].

Sul presupposto che la relazione sulla situazione patrimoniale ed economico-finanziaria dell’impresa non può mai essere aggiornata alla data esatta di varo del piano (e del sottostante accordo con i creditori bancari), deve ritenersi che l’esperto sia tenuto a considerare le ulteriori perdite medio tempore maturate, giacché questa informazione non solo impinge sul risultato gestionale negativo e quindi sul patrimonio netto ma anche sul passivo sociale e più in generale sulla fattibilità del piano.

Come detto, la valutazione dell’esperto si atteggia in modo differente a seconda delle strategie di risanamento concretamente individuate nel piano. Nel caso in cui esso contempli la composizione della crisi dell’imprenditore attraverso la continuità aziendale “diretta” (attuata cioè in capo allo stesso debitore) “il professionista deve verificare, oltre all’idoneità del piano a garantire il soddisfacimento dei creditori, anche la capacità di esso di consentire il riequilibrio finanziario della stessa impresa, dando evidenza della rimozione delle eventuali situazioni di insolvenza esistenti ed escludendo eventuali fenomeni di insolvenza prospettica nell’orizzonte di piano”[40].

Diversamente, nello scenario del risanamento c.d. “indiretto” (vale a dire perseguito attraverso la prosecuzione dell’attività d’impresa ad opera di un soggetto distinto), il professionista dovrebbe, per un verso, verificare la sostenibilità del piano aziendale in capo alla società cessionaria, in quanto esso rileva, in via mediata, ai fini del soddisfacimento dei creditori anteriori, per altro verso, escludere il rischio che l’eventuale dissesto della cessionaria si riverberi sul debitore[41]. Le medesime valutazioni vanno effettuate ogniqualvolta ci si trovi al cospetto, ad esempio, di un’operazione di conferimento d’azienda, atteso che, in tale ipotesi, il debitore conferente è destinato a divenire socio della conferitaria e il valore della partecipazione, così come le concrete possibilità di realizzo della stessa, sono giocoforza strettamente correlate all’andamento dell’azienda conferita[42].

Quando invece il piano sia riconducibile all’archetipo liquidatorio (e sempre che tale opzione sia ritenuta ammissibile nel contesto dell’art. 67, 3° comma, lett. d, l. fall., cosa in realtà assai discutibile, come chiarito in precedenza), la relazione del professionista deve tener conto dell’effettiva liquidabilità dei beni, in rapporto alle condizioni del mercato locale e alle caratteristiche dei cespiti stessi[43], nonché dei tempi presumibilmente necessari.

Particolare attenzione l’attestatore va prestata alla valutazione dei beni immateriali e, qualora la particolare natura dei beni da esaminare lo renda necessario, si deve ricorrere a competenze professionali specifiche[44], indicando altresì le passività potenziali riferibili a contenziosi pendenti o prevedibili e specificando la documentazione esaminata e i criteri utilizzati per la quantificazione del rischio[45].

In conclusione, deve convenirsi con l’assunto secondo il quale l’attestazione si presenta come “una sorta di discussione e commento del piano, che dia conto al lettore dell’iter logico (esplicitando anche, se del caso, le cifre considerate e i calcoli fatti) seguito dal professionista per giungere alla conclusione positiva circa il rilascio dell’attestazione. L’attestazione, in altri termini, non deve duplicare il piano né, all’opposto, limitarsi a una mera enunciazione della sua ragionevolezza e idoneità, ma deve esporre chiaramente la motivazione del giudizio positivo espresso dall’attestatore”[46].

 

7. L’esenzione dalla revocatoria fallimentare

L’intima connessione fra azione revocatoria e piano di risanamento sta, per così dire, nel “codice genetico” di quest’ultimo: in base alla norma che lo ha introdotto nel nostro ordinamento, infatti, la circostanza che il piano appaia idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria rende insuscettibili di revoca gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del piano stesso.

La disposizione in esame rende evidente la necessità di appurare che gli atti testé menzionati siano esecutivi del piano, nel senso che esso deve averli contemplati come strumentali al perseguimento dell’obiettivo del risanamento dell’impresa. In altri termini, non è sufficiente che gli atti in questione siano in qualche modo collegati al piano: occorre che il loro compimento sia qualificabile come esecuzione dello stesso, o, comunque, che essi siano chiaramente riconducibili al novero delle operazioni indicate per dare attuazione al divisato programma di risanamento[47].

Per quanto attiene alle categorie di operazioni che la norma sottrae a revocatoria, l’ampiezza della formula utilizzata è tale da ricomprendervi, sostanzialmente, ogni atto dell’imprenditore, purché – come si diceva – esecutivo del piano attestato. L’unica eccezione riguarda le garanzie, giacché sono menzionate esclusivamente quelle “sui beni del debitore”, a differenza dell’espressione generica utilizzata dalla successiva lettera e con riferimento al concordato preventivo e agli accordi di ristrutturazione. Detta formulazione non è fra le più chiare quanto a ratio giustificatrice, né fra le più felici, atteso che sarebbe stato preferibile parlare di garanzie “per debiti propri”, escludendo in tal modo la categoria – non scevra, com’é noto, da criticità – delle garanzie per debiti altrui.

In dottrina si è osservato che “della ricordata limitazione non si comprende, in realtà, la ratio, se non come espressione di un perdurante disfavoreriservato agli accordi “stragiudiziali” rispetto agli accordi (totalmente o parzialmente) “giudiziali”. Ma più che il carattere discutibile di tale logica è da denunciare la evidente incongruenza della norma. Se si vuole introdurre una distinzione razionale – supponendo che la diversa formulazione rilevata non costituisca semplicemente una banale svista –, la distinzione dovrebbe passare tra l’ipotesi di garanzie costituite per debiti propri(dell’imprenditore che accede ad una delle procedure di composizione negoziale della crisi) – dove la garanzia sarebbe necessariamente costituita (dall’imprenditore interessato) “su beni del debitore” –; e l’ipotesi di garanzie costituite per debiti altrui– dove la garanzia (del debitore interessato da un procedimento di composizione della crisi d’impresa) potrebbe essere rappresentata tanto dalla costituzione di un pegno o di un’ipoteca “su beni del debitore” (ma per un debito altrui), quanto dalla prestazione da parte sua di una fideiussione nell’interesse di terzi –. A questa stregua, sarebbe comprensibile – salvo valutare se sarebbe anche condividibile – prevedere che la “esenzione” da revocatoria, in determinate ipotesi – e nel nostro caso ciò riguarderebbe i “Piani di Risanamento” di cui al nuovo art. 67, comma 3°, lett. d), l.fall. – , sia circoscritta alle garanzie costituite per debiti propri, e non comprenda – invece – le garanzie prestate per debiti altrui (ma a questo punto non solo le “garanzie concesse su beni del debitore”, ma anche quelle concesse coinvolgendone la generica responsabilità patrimoniale – come sarebbe per la prestazione di una fideiussione –). Per converso, la disciplina di maggior favore che si volesse apprestare, sotto il profilo qui considerato – come le nuove norme sembrerebbero voler prevedere –, per gli accordi di composizione delle crisi di natura giudiziale (o semigiudiziale: art. 182-bis l. fall.), non dovrebbe tanto sottolineare la costituibilità di garanzie “concesse su beni non del debitore” – la cui inattaccabilità è ovvia, perché prestate da un soggetto terzo, diverso dall’imprenditore “in crisi” –: quanto, piuttosto, la costituibilità da parte dell’imprenditore interessato di garanzie per debiti altrui – vuoi “su beni del debitore”, vuoi nella forma della prestazione di fideiussione – , quando giudicate utili alla composizione della situazione di crisi in atto”[48].

Il profilo interpretativo più delicato attiene, con tutta probabilità, alla definizione del perimetro applicativo dell’esenzione. Ci si domanda infatti se questa riguardi la sola revocatoria fallimentare (e se, in tale ambito, attenga soltanto agli atti cc.dd. “normali”), o se invece il suo spazio di operatività si estenda ad ogni forma di revocatoria, inclusa quella ordinaria. Per un verso, la collocazione della norma al terzo comma dell’art. 67 l. fall. sembrerebbe deporre nel senso che l’esenzione di riferisca agli atti disciplinati dai due commi precedenti e non ad altri (ad esempio, quelli regolati dagli artt. 64 e 65 l. fall.), né tanto meno alla revocatoria ex art. 2901 c.c. Per altro verso, tuttavia, un’applicazione della norma a più ampio spettro risulta coerente con la ratio della previsione esonerativa in termini di maggior tutela dell’affidamento dei terzi.

In questo contesto, si è predicata la portata generale dell’esenzione sulla scorta del rilievo che “in numerose fattispecie tra quelle interessate dalla norma la aspirazione a sottrarre all’azione revocatoria fallimentare determinate categorie di atti riguarda anche situazioni nelle quali si presenterebbero – altrimenti – i presupposti dell’esercitabilità dell’azione revocatoria prevista dal primo commadell’art. 67 l. fall. (come sarebbe, per esempio, per le garanzie costituite in favore di crediti pregressi, che rappresentassero atti di esecuzione di uno dei piani o degli accordi previsti dall’art. 67. co. 3, lett. d) oppure lett. e) l. fall.); oppure i presupposti dell’esercitabilità dell’azione revocatoria prevista dall’art. 65 l. fall. (come sarebbe, per esempio, per il rimborso anticipato di debiti aventi scadenza molto differita nel tempo – potrebbe trattarsi di un prestito obbligazionario particolarmente oneroso –, anch’esso in ipotesi rappresentante un atto di esecuzione di uno dei menzionati piani o accordi previsti dall’art. 67. co. 3, lett. d) oppure lett. e) l. fall.)”[49].

Di contro, altra corrente di pensiero ritiene che “l’esenzione sia limitata alle sole fattispecie prese in considerazione dall’art. 67 l. fall. e non possa essere estesa alla dichiarazione di inefficacia degli atti gratuiti (art. 64 l. fall.) o all’inefficacia di diritto dei pagamenti anticipati (art. 65 l. fall.)”, sul presupposto che “siffatta soluzione appare avvalorata non solo dal tenore letterale dell’art. 67, comma 3°, lett. d), l. fall., ma altresì dalla considerazione che l’esonero dalla revocatoria ex art. 67 l. fall. è giustificato alla luce delle finalità di risanamento dell’impresa, mentre l’inapplicabilità dell’intera disciplina degli atti pregiudizievoli ai creditori precluderebbe il riconoscimento dell’inefficacia in fattispecie estranee al percorso di ristrutturazione dell’azienda, quali gli atti a titolo gratuito o i pagamenti anticipati”[50].

Quanto, poi, alla sottrazione degli atti di cui trattasi anche alla revocatoria ordinaria, la dottrina più “largheggiante” ha osservato che “militano in questo senso la considerazione che, ove sopravvenisse il fallimento, l’azione revocatoria ordinaria diverrebbe improcedibile, qualora si ritenesse inapplicabile agli atti “esentati” l’art. 66 l.fall.; e la considerazione che risulterebbe irrazionale una disciplina che assoggettasse gli atti de quibus ad una disciplina più severa al di fuori del fallimento, che a seguito della pronuncia della sentenza dichiarativa”[51].

Per quanto concerne, infine, i finanziamenti infragruppo, sembra potersi convenire con l’opinione in base alla quale resta applicabile (e quindi sottratta all’esecuzione) “la disciplina che impone la restituzione alla procedura fallimentare dei finanziamenti dei soci rimborsati nell’anno precedente alla dichiarazione di fallimento (art. 2467, comma 1°, c.c.) e dei finanziamenti restituiti a chi esercita attività di direzione e di coordinamento o da altri soggetti sottoposti a medesima direzione o coordinamento nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento (art. 2497-quinquies c.c.). Tali disposizioni hanno infatti l’obiettivo di reprimere dei comportamenti scorretti, collegati a relazioni particolarmente intense tra finanziatori e società in crisi, cui è del tutto estraneo qualsiasi rapporto con il programma di ristrutturazione aziendale; ed un’eventuale deroga al contenuto precettivo delle stesse sarebbe del tutto ingiustificata, se si tiene in conto che il rimborso dei finanziamenti appare in palese contraddizione con il contenuto consueto di un piano di risanamento”[52].

   

8. L’eventuale contestazione del piano in sede giudiziale

Come più volte ricordato, affinché si integrino gli elementi della fattispecie esonerativa da revocatoria, occorre che (i) l’atto in questione sia esecutivo del piano di risanamento; (ii) che quest’ultimo appaia idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria; (iii) che l’attestazione sia resa da un professionista indipendente e (iv) che essa abbia ad oggetto la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano. Ciò posto, si tratta di appurare in quali casi l’atto, in sede di “riesame” giudiziale a seguito di fallimento, possa risultare suscettibile di revocatoria.

Chiaramente, se l’atto in realtà non è stato posto in essere in esecuzione del piano di risanamento, oppure se l’attestatore ha omesso di “certificare” la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano, l’esenzione da revocatoria non può in alcun modo operare.

Quanto all’idoneità del piano all’obiettivo del risanamento, essa va necessariamente valutata ex ante, cioè al momento in cui il piano è stato varato e attestato, non rilevando, in linea di principio, la sopravvenuta inidoneità del piano stesso[53]. Ed invero, conformemente all’intentio legis di rendere intangibili gli atti posti in essere in esecuzione del piano, le circostanze successive che impediscono il conseguimento del fine risanatorio non giustificano il venir meno dell’esenzione; tanto più se si pone mente al fatto che la norma considera sufficiente che il piano appiaidoneo, senza richiedere che sia in effetti tale (il che sarebbe peraltro inesigibile, stante la dimensione prognostica che caratterizza la fattispecie)[54].

Beninteso, ove, invece i destinatari degli atti del debitore sapessero, all’epoca del loro compimento, che il piano non aveva avuto successo e che, pertanto, l’imprenditore era nuovamente insolvente, non potrebbero fondatamente invocare la disposizione esonerativa[55].

Quanto infine al “riesame” della fattispecie in sede penale, non sembrano ipotizzabili forme di esclusione del sindacatodelgiudice penale circa la reale fattibilità del piano ex art. 67, 3° comma, lett. d), il quale (a differenza dei concordati preventivi ammessi e degli accordi di ristrutturazione omologati) non è soggetto ad alcun preventivo vaglio in sede civile[56].

   

9. La negoziazione con gli istituti di credito tra buona fede e Codice ABI

Atteso che – come detto – il piano si pone, di regola, al servizio dell’accordo, è assai frequente che la predisposizione del primo si sovrapponga (quantomeno nelle fasi finali) alla trattativa con i creditori (segnatamente, lo si è visto, con le banche). In questo contesto, una certa attenzione merita il momento dell’apertura della negoziazione, particolarmente critico in quanto si traduce nella dichiarazione, da parte dell’imprenditore, della sussistenza di una situazione di disequilibrio tale da necessitare – al fine di scongiurare il rischio di degenerazione nella vera e propria insolvenza – di correttivi straordinari, da collocarsi, per l’appunto, nel quadro della protezione di cui all’art. 67, 3° comma, lettera d, l. fall. (o, se del caso, di strumenti ancor più invasivi, quali l’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall. o il concordato preventivo).

Questo delicato snodo è governato (al pari, più in generale, dell’intero processo di costruzione dell’intesa) dal principio della buona fede, la cui osservanza è imposta dalla legge sia con riguardo alle trattative finalizzate alla definizione dell’accordo di ristrutturazione (art. 1337 c.c.), sia con riferimento all’esecuzione dei rapporti negoziali già in essere tra l’imprenditore e i soggetti chiamati a partecipare al tavolo (art. 1375 c.c.). Tale secondo profilo si rivela particolarmente importante ogniqualvolta ci si trovi al cospetto di contratti di durata, quali tipicamente sono, oltre a quelli di fornitura, molti contratti bancari. A questo proposito vengono in considerazione le regole che disciplinano la condotta del bonus argentarius, le quali si traducono, per quanto qui più interessa, nel divieto di trasformare la semplice apertura della negoziazione, ove seriamente effettuata (e, come tale, non circoscritta alla mera manifestazione della presa d’atto di una situazione di crisi, senz’alcuna ragionevole prospettazione della relativa reversibilità attraverso un adeguato percorso di turnaoround), nell’occasione per gli istituti di procedere unilateralmente e senza preavviso (o, comunque, in tempi assai ristretti) alla riduzione (quando non addirittura all’azzeramento) del proprio impegno a supporto dell’impresa. In altre parole, la decisione di revocare in tutto o in parte le linee di credito che dovesse giungere all’indomani della presa di contatto finalizzata all’avvio del confronto sul piano di risanamento, senza una preventiva valutazione del contenuto delle proposte formulate dal debitore, rischia di assumere rilevanza sotto il profilo del recesso brutale dal credito[57], astrattamente idoneo a danneggiare non solo l’imprenditore, ma anche le altre banche finanziatrici, nella misura in cui esse patiscano un qualche sacrificio vuoi in conseguenza della necessità di sopperire con il proprio apporto alle risorse venute improvvisamente a mancare (aumentando la propria quota di partecipazione al salvataggio e, conseguentemente, di rischio nell’operazione, pur nei limiti imposti dalla valutazione del merito creditizio dell’impresa), vuoi, dei casi più gravi, in dipendenza degli effetti della conversione in vera e propria insolvenza di una situazione che, prima della stretta creditizia, poteva ragionevolmente classificarsi come crisi reversibile.

Al di là di questi rilievi di carattere generale, nell’individuazione di più specifiche regole di condotta da osservarsi nella delicata fase delle trattative resta un utile punto di riferimento il “Codice di comportamento tra banche per affrontare i processi di ristrutturazione atti a superare le crisi di impresa” approvato dal Comitato esecutivo dell’Associazione Bancaria Italiana il 20 ottobre 1999, dichiaratamente “volto” – come indicato nella relativa premessa – “a fissare principi comportamentali che facilitino l’adozione di procedure di concertazione finalizzate al superamento di difficoltà reversibili dell’impresa. Le finalità perseguite in materia si collocano nell’ambito della ricerca di strumenti collaborativi di soluzione delle crisi mediante il coinvolgimento dei soggetti bancari e finanziari interessati, anche a livello di gruppo, ed in particolare dell’impresa e dei creditori della stessa, tenuto conto del determinante contributo che in tale contesto può offrire il sistema creditizio”.

In particolare, l’art. 1 del suddetto Codice ABI – che si applica alle imprese e ai gruppi d’imprese con esposizione verso il sistema bancario non inferiore a 30 miliardi di lire (art. 2), oggi poco meno di 15,5 milioni di euro – stabilisce che gli istituti aderenti sono tenuti al rispetto dei principi di trasparenza e di correttezza nei rapporti reciproci e nei confronti delle imprese clienti, avendo altresì l’onere di adottare condotte improntate alla cooperazione, le più idonee a favorire la stipulazione d’intese unitarie e la valorizzazione delle prospettive reddituali dell’impresa[58]. Con specifico riguardo all’apertura della negoziazione, poi, l’art. 3 del medesimo codice prevede che la prima riunione possa essere indetta tanto da una banca quanto, come di norma accade, dall’impresa interessata (se del caso opportunamente sollecitata da uno o più istituti), con l’importante precisazione che, in conformità alle prescrizioni del successivo art. 4, una volta che l’incontro sia stato richiesto le banche s’impegnano a parteciparvi ad adeguato livello, mantenendo la circostanza riservata e – ciò che più conta – con divieto d’impiegare la notizia della convocazione al fine di modificare la situazione di fatto. Questa disposizione – nella quale sembra potersi in qualche modo ravvisare una declinazione della buona fede – mira a impedire che l’apertura della negoziazione produca, in un’evidente eterogenesi dei fini, anziché l’inizio del virtuoso percorso che conduce al risanamento, l’antecedente d’intempestive riduzioni o revoche degli affidamenti, come dell’acquisizione o del realizzo di garanzie. Al contrario, ciascun istituto deve astenersi dal porre in essere iniziative che incidano sull’impresa senza adeguata ponderazione, mantenendo inalterato lo status quo fino a quando sia addivenuto all’assunzione di determinazioni definitive. Ciò non significa, peraltro, che lo spatium deliberandi debba necessariamente rivelarsi particolarmente esteso; anzi, spesso le obiettive esigenze di urgenza che connotano la situazione consigliano la massima celerità nell’iter decisionale (pur nei limiti imposti dal grado di complessità della fattispecie), fermo in ogni caso l’onere di comunicarne l’esito agli interessati nei tempi preannunciati durante l’incontro[59].

Naturalmente, l’osservanza né della buona fede né – tantomeno – del Codice ABI comportano alcun obbligo circa il buon esito dell’operazione: le banche sono tenute a partecipare alla riunione e ad astenersi dall’assumere decisioni definitive prima di aver ricevuto dall’imprenditore un’indicazione (quantomeno in via di larga massima) sulle linee guida del progetto di ristrutturazione, ma nulla impedisce alle stesse di rigettare richieste ritenute, a valle del relativo esame, non meritevoli di accoglimento, se del caso dichiarando sin dal primo incontro la propria motivata indisponibilità a supportare ulteriormente l’impresa.

Sempre con riferimento al primo momento di confronto, l’art. 5 del Codice ABI stabilisce che, “sulla base delle informazioni emerse e della documentazione fornita nel corso della prima riunione, i partecipanti, nel pieno rispetto della autonomia decisionale di ciascuno, si esprimono – secondo i principi di maggioranza qualificata – sulla percorribilità della procedura di concertazione”, aggiungendo che “qualora sia emerso un orientamento favorevole alla procedura di concertazione e si sia concordato sulla costituzione del Comitato ristretto, si procederà alla nomina dei suoi membri secondo criteri e tempi convenuti nel corso della medesima riunione”.

La prassi conferma l’importanza della prima riunione e delle fasi immediatamente successive: è in quel momento, infatti, che, di norma, s’individuano gli istituti disponibili a proseguire nelle trattative, con contestuale elaborazione di un primo (provvisorio e, come tale, suscettibile di successive modificazioni) calendario delle negoziazioni, il cui termine finale, pur rimesso alla discrezionalità delle parti, è talvolta imposto da circostanze esterne (si pensi all’ipotesi, non infrequente, in cui l’impresa necessiti di nuova finanza anche al fine di onorare adempimenti fiscali non più differibili, pena la maturazione di sanzioni e oneri aggiuntivi di entità tale da pregiudicare il risanamento).

Nella maggior parte dei casi la scansione temporale si snoda anzitutto attraverso la nomina degli advisors del ceto: mentre l’imprenditore che affronti la crisi con strumenti adeguati si presenta dinanzi agli istituti solo dopo aver designato i professionisti incaricati di assisterlo (di regola consulenti industriali, finanziari e legali), le banche sono inizialmente prive di pari supporto e, di conseguenza, manifestano all’imprenditore – già dal primo incontro – la necessità che lo stesso conferisca a soggetti graditi agli istituti l’incarico di coadiuvarli nella valutazione degli aspetti tecnici del piano, nella negoziazione e nella redazione dell’accordo. Il debitore procede quindi a conferire mandato ai suddetti professionisti (tipicamente, uno o più legali, ai quali possono aggiungersi, nelle fattispecie più complesse, advisors in materia industriale o finanziaria, anche ai fini della redazione di una independent business review[60]), con la precisazione che a costoro si richiede di operare nell’interesse delle banche, anziché del mandante, ancorché quest’ultimo ne sostenga i costi (da includersi tra le spese funzionali al risanamento). Questa – per vero solo apparente – contraddizione non deve stupire, in quanto l’imprenditore, benché non benefici direttamente dell’assistenza dei consulenti del ceto, conserva nondimeno un rilevante interesse alla loro individuazione e al fatto che gli stessi adempiano al proprio incarico, essendo lo stesso indispensabile per la conclusione della trattativa.

Una volta che il pool dei professionisti sia stato completato, si procedere per gradi alla definizione del termsheet dell’operazione, vale a dire del documento – elaborato dall’imprenditore, ma sottoposto a comune discussione – contenente tutti i principali termini e condizioni della manovra finanziaria a supporto del piano; seguono – con tempi che variano a seconda della complessità della crisi e dell’ampiezza del perimetro del turnaround (tanto più vasto quanto più cresce il numero delle legal entities interessate dal piano e dei creditori chiamati a partecipare all’accordo) – la redazione, da parte dell’impresa, della versione definitiva del piano, la stesura del testo dell’accordo, l’attestazione (normalmente rilasciata solo nell’imminenza del perfezionamento dell’intesa o, comunque, sotto condizione del raggiungimento della stessa), l’istruzione e il completamento dell’iter deliberativo di ciascun istituto, nonché, finalmente, la sottoscrizione del contratto di risanamento, al quale di regola si allegano il piano e l’attestazione.

   

10. La richiesta e la formalizzazione di un’intesa interinale di moratoria

La circostanza che le trattative finalizzate al perfezionamento dell’accordo esecutivo del piano di risanamento possano protrarsi per alcuni mesi rende talvolta necessario procedere alla stipulazione d’intese interinali, idonee a scongiurare l’ulteriore progressivo deterioramento della situazione di crisi dell’imprenditore nelle more della conclusione dell’operazione. Nella prassi sono frequenti, in particolare, le richieste di moratoria (standstill), sottoposte agli istituti di credito in occasione della prima riunione o in epoca immediatamente successiva alla stessa.

La moratoria si traduce in un pactum de non petendo, di estensione variabile per oggetto e per durata, funzionale a consentire all’impresa di affrontare la negoziazione senza essere astretta da scadenze che essa – in ragione del proprio stato di disequilibrio – non sia in grado di onorare regolarmente, quantomeno fino al momento in cui il piano sia stato varato e l’accordo di risanamento abbia iniziato a spiegare i propri effetti. Con tale richiesta, pertanto, il debitore propone agli istituti di “congelare” per un determinato periodo (comunque non eccedente il momento del perfezionamento dell’intesa definitiva) alcuni pagamenti, normalmente circoscritti alla quota di capitale dei rimborsi previsti sulla scorta dei contratti originari tra l’impresa e le banche. Solo nelle fattispecie in cui si ravvisi una tensione di cassa particolarmente grave si prospetta la necessità di prevedere, quale misura aggiuntiva, la sospensione della corresponsione degli interessi; sospensione, quest’ultima, che gli istituti sono tuttavia soliti vagliare con particolare attenzione, anche in ragione dell’obiettivo segnale di allarme ravvisabile nella dichiarazione, da parte dell’impresa, dell’impossibilità di provvedere al regolare pagamento degli oneri finanziari, il cui ammontare è solitamente assai inferiore a quello del capitale.

Talora lo standstill si traduce altresì nella conferma delle linee di credito in essere all’apertura della negoziazione (o ad altra data che le parti abbiano inteso individuare come riferimento), senza modifica delle relative condizioni. Non può escludersi che questo patto, funzionale al mantenimento dell’operatività bancaria del debitore sino al termine della negoziazione, si traduca, almeno per alcuni istituti, in un incremento del rischio, specialmente laddove, da un lato, la conferma sia richiesta con riguardo agli importi oggetto di affidamento anziché a quelli già utilizzati e, dall’altro, i secondi non assorbano integralmente i primi, con conseguente possibilità, per l’impresa, di aumentare (pur – beninteso – entro i limiti originariamente stabiliti) il proprio effettivo indebitamento verso il ceto nel corso della negoziazione. Peraltro, tale oggettivo inconveniente non implica, di per sé solo, l’automatico rifiuto degli istituti di aderire alla richiesta, che ben può trovare accoglimento ogniqualvolta la possibilità di continuare a godere, da subito, di congrue fonti di finanziamento costituisca indefettibile presupposto, nell’immediato, della conservazione della continuità aziendale e, in prospettiva, del successo del risanamento. A tale stregua, la menzionata criticità non costituisce un ostacolo insormontabile per la trattativa, bensì un dato di fatto che le banche devono tenere in debita considerazione nella valutazione del merito delle richieste del debitore, quando esse sono chiamate a soppesare due diversi rischi: per un verso, quello – per l’appunto – dell’incremento della propria esposizione e del consequenziale acuirsi delle incertezze afferenti al rientro; dall’altro, quello – non meno serio – che la (quand’anche temporanea) interruzione delle linee di credito contribuisca a determinare l’irreversibile deterioramento della crisi dell’impresa, con le intuibili ricadute, di segno naturalmente negativo, sulla relativa capacità di rimborso dell’indebitamento pregresso.

La complessità degli elementi alla base della decisione spiega perché, nonostante l’istanza di moratoria sia di regola effettuata sin dalla prima fase delle negoziazione (al dichiarato scopo di ottenere, nel più breve lasso di tempo possibile, il perfezionamento dell’intesa interinale prodromica allo spostamento della trattativa sui termini della manovra definitiva), il relativo accoglimento sia tutt’altro che automatico. Esso comporta l’adozione, da parte di ciascuna banca interessata, di un’apposita delibera, la cui istruzione (ancorché certamente meno complessa di quella da effettuarsi in occasione dell’approvazione dell’accordo vero e proprio) nondimeno postula la valutazione nel merito delle specifiche richieste dell’impresa, nonché, più in generale, della ragionevolezza – allo stato degli atti – della scelta di perseguire la via del risanamento (senza che ciò – beninteso – vincoli in alcun modo l’istituto in relazione alla futura decisione circa la proposta di manovra formulata in via definitiva dall’imprenditore). Per queste ragioni non è infrequente che le banche, prima di pronunciarsi sullo standstill (se del caso subordinandone la stipulazione alla parziale modifica delle istanze dell’impresa), richiedano al debitore di produrre, con l’ausilio dei propri consulenti, un congruo set informativo, incentrato, oltre che sull’aggiornata situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa, sulle azioni che la stessa si propone d’intraprendere fino alla scadenza della moratoria, accompagnate dall’esplicitazione dei flussi di cassa previsionali del periodo.

   

11. Il consolidamento dell’esposizione a breve termine e il problema della concessione di nuove garanzie con riguardo al suo rimborso

Uno dei più frequenti sintomi del disequilibrio della situazione finanziaria dell’impresa è ravvisabile, prim’ancora che nell’eccessivo ammontare dell’indebitamento (che solo nei casi più seri si rende necessario abbattere mediante operazioni straordinarie di deleverage, le quali vanno dalla dismissione degli asset ritenuti non strategici alla richiesta di stralcio), dalla relativa tipologia: essa, in particolare, si rivela foriera di criticità quando si traduca in scadenze così ravvicinate da rivelarsi obiettivamente incompatibili con i flussi di cassa attesi. Di qui l’esigenza – comune alla maggior parte dei piani attestati – di consolidare le passività d’immediata (o, comunque, imminente) esigibilità, vale a dire, tipicamente, lo scoperto di conto corrente derivante dagli affidamenti per cassa e dalle anticipazioni sui contratti o sulle fatture rimaste insolute (talvolta a causa delle, per vero non commendevoli, manovre di “de-canalizzazione” effettuate dall’imprenditore in difficoltà, attuabili in maniera relativamente agevole ogniqualvolta l’erogazione non sia assistita da cessione del credito opponibile al debitore ceduto).

Il consolidamento consiste nella “conversione” della predetta esposizione a breve (convenzionalmente quantificata prendendo come riferimento una data determinata) in indebitamento a medio-lungo termine. Di regola, quest’operazione comporta non l’erogazione di un nuovo mutuo finalizzato al ripianamento delle passività pregresse e caratterizzato da un piano di ammortamento compatibile con il piano, bensì la mera ricognizione del debito esistente e il patto che esso venga rimborsato, anziché in  conformità alle previsioni originarie, secondo le più ampie tempistiche individuate nella manovra.

Gli importi consolidati sono, almeno nella maggior parte dei casi, produttivi d’interessi, con conseguente rilevanza dei profili anatocistici. Nulla quaestio per l’ipotesi in cui l’ammontare oggetto di riscadenzamento sia rappresentato, per l’intero, da capitale: esso è senz’altro idoneo a generare oneri finanziari al tasso fissato dall’accordo di risanamento, sostitutivo di quello indicato nei contratti originari. Quando, invece, l’indebitamento a breve sia composto tanto da capitale quanto da interessi, si rende necessario distinguere le due componenti, onde scongiurare violazioni dell’art. 1283 c.c. Più nel dettaglio, laddove gli oneri pregressi insoluti siano maturati da meno di sei mesi, la legge impedisce che essi generino ulteriori interessi, il che impone d’individuare, per gli stessi, un regime di rimborso differenziato, con pagamento entro una certa data (talora coincidente con quella della sottoscrizione dell’accordo di risanamento) o in conformità a un piano di rientro rateale infruttifero. Solo gli oneri finanziari scaduti da più di un semestre sono suscettibili di essere equiparati – in forza di successiva intesa – al capitale, con conseguente possibilità di estendere anche a essi il trattamento proprio del consolidamento, inclusa la previsione afferente alla maturazione di nuovi frutti civili.

Per quanto attiene alle scadenze del rimborso, esse – come si è visto – si articolano sulla base di un vero e proprio piano di ammortamento, talora preceduto da un periodo di preammortamento, durante il quale l’imprenditore è tenuto a pagare i soli interessi. Questa peculiare misura si rende opportuna (o addirittura necessaria) laddove la crisi di liquidità del debitore sia tale da non permettere, nel primo periodo del piano, esborsi per capitale. Nei casi più gravi si ricorre perfino – sempre nella prima fase della ristrutturazione – alla moratoria relativa agli interessi, i quali, pur maturando regolarmente, vanno incontro a corresponsione differita a un momento in cui si prevede che, grazie ai positivi effetti della manovra, si saranno prodotti flussi idonei a far fronte al fabbisogno senza generare particolari tensioni di cassa.

Ove il consolidamento dei debiti a breve sia stato inserito nel piano, l’esperto è naturalmente chiamato a certificarne la sostenibilità. L’attestazione rappresenta, quindi, una importante assicurazione sulla concreta capacità dell’imprenditore di ripianare la propria esposizione, una volta che la stessa sia stata rinegoziata e presenti, di conseguenza, scadenze diverse da (e più dilatate di) quelle originariamente pattuite. D’altro canto, la dichiarazione del professionista indipendente, pur significativa, non costituisce una garanzia in senso proprio, sicché non può escludersi che gli istituti di credito richiedano, a tutela del rimborso dell’indebitamento consolidato, la concessione di pegno, ipoteca o – per vero meno frequentemente – anticresi su cespiti di proprietà del debitore. Del resto, questa istanza si rivela in qualche misura coerente con la modificazione della forma tecnica del finanziamento, tenuto conto che mentre l’esposizione a breve termine è spesso di rango chirografario (perché caratterizzata, tutt’al più, da cautele di natura diversa, come accade nell’ipotesi dell’anticipazione di crediti portati da fatture accompagnati dalla cessione dei medesimi), le erogazioni a medio-lungo termine sono più frequentemente assistite da garanzia reale.

Orbene, nel contesto del risanamento, mentre l’eventuale concessione di fidejussione da parte di terzi non presenta particolari criticità (dal momento che l’onere ricade su un soggetto diverso da quello afflitto dal disequilibrio patrimoniale, economico o finanziario), la costituzione di pegno, ipoteca o anticresi sui beni dell’imprenditore merita un approfondimento, atteso che, trattandosi di garanzie nuove (o, comunque, aggiuntive a quelle originarie) che insistono su debiti pregressi il relativo perfezionamento si colloca ai margini dell’area della fisiologia gestoria. Non a caso, l’art. 67, 1° comma, nn. 3 e 4, l. fall., inserisce queste operazioni tra quelle suscettibili di essere dichiarate inefficaci senza necessità, per la procedura, di dimostrare la scientia decoctionis, essendo al contrario onere dell’accipiens provare la propria ignoranza dello stato d’insolvenza del debitore al momento del perfezionamento del negozio. Questa circostanza von va, tuttavia, sopravvalutata: laddove la garanzia per debiti pregressi (e consolidati) sia stata concessa in esecuzione del piano di risanamento, il relativo profilo di anormalità resta infatti automaticamente superato, ai fini della revocatoria, dall’esenzione di cui all’art. 67, 3° comma, lett. d, l. fall.

Maggiori perplessità sorgono, invece, sotto l’aspetto della perfetta tenuta dell’esimente penale. A questo proposito, conviene anzitutto rilevare che una parte della giurisprudenza ha ravvisato in tale fattispecie una condotta di bancarotta preferenziale, stabilendo, per l’appunto, che “in tema di bancarotta preferenziale, integra gli estremi della “simulazione di prelazione di cui all’art. 216 comma 3 parte seconda l. fall. la condotta di una impresa in situazione di decozione che consegua da una banca creditrice mutui fondiari garantiti da ipoteca immobiliare utilizzati per il ripianamento dei saldi negativi dei conti correnti intrattenuti con la stessa banca, così trasformandosi il credito vantato da quest’ultima verso l’impresa da chirografario in privilegiato e, quindi, costituendosi un titolo di prelazione in danno di ogni altro creditore”[61] e predicando il coinvolgimento degli esponenti degli istituti finanziatori a livello di concorso, sul presupposto che “risponde in concorso del reato di bancarotta preferenziale per simulazione di un titolo di prelazione il funzionario di banca che concede ad un imprenditore in stato di insolvenza (e successivamente dichiarato fallito) un mutuo garantito da ipoteca per consentirgli di ripianare uno scoperto di pari entità determinatosi sul conto corrente acceso presso la banca mutuante”[62].

Ove si aderisca a questa impostazione, può legittimamente invocarsi l’esimente di cui all’art. 217-bis l. fall. (riferita, come si è visto, oltre che alla bancarotta semplice, anche a quella preferenziale), senza tuttavia sottacere che la prevalente dottrina ritiene che l’esonero dalla comminazione della sanzione non si produce automaticamente; al contrario, la circostanza che il precetto penale non possa essere derogato dall’autonomia privata (di cui il piano di risanamento è espressione) induce a riconoscere al giudice penale il potere di verificare – attraverso un giudizio di prognosi postuma – se il progetto predisposto dall’imprenditore e attestato dall’esperto fosse effettivamente idoneo a offrire una valida soluzione alla crisi, con conseguente necessità di circoscrivere la portata dell’esenzione ai casi in cui il giudizio si concluda positivamente[63].

La protezione fornita sul versante penale tende ancor più a scolorare laddove si propenda per il diverso orientamento giurisprudenziale che ravvisa nella concessione della garanzia su crediti pregressi il diverso reato della bancarotta per distrazione, sul rilievo che, “in tema di reati fallimentari, integra il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione la concessione di un’ipoteca senza un sinallagma rispondente al fine istituzionale dell’impresa, in quanto essa realizza di per sé ed automaticamente una diminuzione patrimoniale; inoltre, poiché ai fini della configurabilità del reato è postulato il dolo generico, la divergenza oggettiva dell’atto di disposizione del fine suddetto dà sufficientemente conto della direzione del volere dell’agente, essendo del tutto irrilevanti i motivi che hanno determinato il suo comportamento”[64]. È invero evidente che, ove si adotti questa prospettiva, l’esimente di cui all’art. 217-bis l. fall. si rivela inservibile, atteso che – come si è detto – essa si riferisce alla bancarotta semplice e preferenziale, ma non a quella per distrazione, la quale resta pertanto perseguibile, nell’eventualità del fallimento, anche in relazione alle condotte poste in essere in esecuzione del piano di risanamento attestato.

I profili di obiettiva incertezza che caratterizzano tanto l’estensione dell’esimente quanto la sua concreta tenuta al vaglio del giudice penale spiegano la ragione per la quale, nella prassi, gli istituti di credito di regola si orientino – in via cautelativa – per l’astensione dalla richiesta di nuove garanzie sull’indebitamento pregresso, fatta eccezione per le ipotesi in cui l’onere delle stesse gravi sul patrimonio di terzi. Merita altresì segnalare che il rischio di coinvolgimento degli esponenti delle banche (a livello – lo si ripete – di concorso nel reato proprio dell’imprenditore) non sembra poter essere del tutto scongiurato neppure mediante il passaggio dallo strumento di cui all’art. 67, 3° comma, lett. d, l. fall. all’accordo di ristrutturazione dei debiti. Gli effetti che l’art. 217-bis l. fall. fa discendere dai due istituti sono infatti sostanzialmente identici, con la conseguenza che neppure il perfezionamento del negozio di cui all’art. 182-bis l. fall. e la successiva omologazione valgono a precludere, in via automatica, l’imputazione per bancarotta per distrazione. L’unica differenza può apprezzarsi, secondo la dottrina che ha affrontato ex professo la questione, con riguardo all’ampiezza del sindacato del giudice penale sulla concreta idoneità dell’iniziativa dell’imprenditore a fornire un’adeguata soluzione alla crisi. In proposito si è osservato che “la tesi, che pretenderebbe di attribuire alla disposizione [i.e. all’art. 217-bis l. fall.: n.d.r.] una valenza tale da escludere qualunque rilevanza penale per il sol fatto che i comportamenti siano posti in essere in esecuzione di una delle procedure indicate dalla norma, sembra scontrarsi con argomenti di carattere sistematico non facilmente superabili. La natura eminentemente privatistica del piano exart. 67, comma 3, lett. d), l. fall. implica che, se fosse corretta la tesi appena sopra ricordata, un atto dell’autonomia privata porterebbe alla inapplicabilità di disposizioni di carattere pubblicistico, quali indubitabilmente sono le norme penali. Ciò che è conseguenza inammissibile sul piano sistematico. Le ipotesi dell’art. 182 bis l. fall.e del concordato preventivo(sotto questo punto di vista assimilabili)meritano una considerazione differenziata, in quanto nelle stesse è comunque previsto un vaglio giudiziale della idoneità della procedura. Nel caso che l’accertamento in sede di omologa (o in sede di ammissione al concordato) verta non soltanto sulla congruità intrinseca del piano, ma anche sulla correttezza dei dati economici e di contesto sui quali lo stesso si basa, non rimane spazio per un ulteriore accertamento del magistrato penale. Quando invece ilvaglio del giudice fallimentare non abbia tale contenuto, non v’è ragione per ritenere preclusa la verifica postuma del magistrato penale, verifica che comunque dovrà essere svolta secondo il criterio della prognosi postuma (ponendosi cioè in una prospettivaex ante)”[65].

Per completezza espositiva conviene poi fare cenno al fatto che dall’inoperatività dell’esimente non può comunque inferirsi – sic et simpliciter – la rilevanza della condotta sotto il profilo penale, atteso che, al di là del precetto di cui all’art. 217-bis l. fall., la concreta comminazione della sanzione resta naturalmente subordinata al positivo accertamento di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, incluso quello soggettivo, nella cui valutazione non può non incidere la circostanza che la concessione della garanzia s’inserisca in un complessivo piano davvero idoneo – quantomeno in una prospettiva ex ante – a conseguire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria.

   

12. La nuova finanza

Ulteriore misura che spesso si rende necessario prevedere nel piano di risanamento – e disciplinare nell’accordo – attiene alla nuova finanza, vale a dire all’ulteriore apporto richiesto alle banche a sostegno dell’impresa debitrice[66]. Com’è stato osservato, invero, “costituisce dato di comune esperienza il fatto che qualsiasi tentativo di superamento della crisi e di ricerca di soluzioni diverse dalla liquidazione fallimentare passa giocoforza per il coinvolgimento degli istituti di credito nell’ambito di un piano di risanamento o di ristrutturazione (indipendentemente dallo strumento giuridico in concreto adottato), il cui primo e principale pilastro è rappresentato, appunto, dalla nuova finanza bancaria. Basti pensare che nella “patria” dei risanamenti aziendali, gli Stati Uniti, l’architrave del Reorganization Plan è, quasi invariabilmente, il c.d. debtor in possession financing, senza il quale le speranze di recupero dell’equilibrio economico risultano frustrate sul nascere”[67].

L’impegno delle banche sotto questo profilo si declina nelle forme più varie: si assiste non solo all’erogazione di mutui (probabilmente, gli strumenti più utilizzati, soprattutto quando sussistano i requisiti della fondiarietà), ma anche alla messa a disposizione di aperture di credito in conto corrente, alla conclusione di convenzioni-quadro di factoring, al perfezionamento di operazioni di lease back e alla concessione di nuove linee per firma (particolarmente importanti, queste ultime, ogniqualvolta l’imprenditore sia tenuto, all’atto dell’acquisizione di una commessa, a prestare al committente fidejussione o performance bond). A ciò si aggiunga che la nuova finanza può essere quantificata in un ammontare fisso da versarsi una tantum o, in alternativa (e compatibilmente con le esigenze del risanamento), in un importo massimo suddiviso in più tranches, di cui solo la prima percepita in ogni caso (di regola immediatamente dopo la sottoscrizione dell’accordo), mentre lo svincolo delle successive resta subordinato alla verificazione di circostanze specificamente indicate nel contratto, in conformità al piano.

Al di là delle molteplici forme tecniche della concessione e dell’erogazione, la nuova finanza consente all’impresa di acquisire le risorse liquide (di norma non reperibili aliunde) necessarie per far fronte agli impegni a breve non ulteriormente differibili, vale a dire, tipicamente: ai pagamenti a favore dell’Erario, dei lavoratori dipendenti e, last but not least, di quei creditori – a cominciare dai fornitori – che si siano dimostrati indisponibili a rinegoziare la propria esposizione e abbiano minacciato, in difetto d’immediato soddisfacimento, l’instaurazione di procedure cautelari o esecutive, quando non, addirittura, la presentazione d’istanze di fallimento. In questa luce, vi sono casi in cui essa costituisce condicio sine qua non del risanamento, pur non potendosi sottacere che la stessa presenta l’evidente inconveniente di tradursi, almeno in prima battuta, nell’incremento dell’ammontare dell’indebitamento dell’imprenditore verso il sistema bancario. Questo aspetto induce a ritenere che la concessione della nuova finanza vada soppesata con la massima attenzione da parte tanto degli istituti (chiamati a pronunciarsi, sotto il profilo della valutazione del merito creditizio, su una misura che comporta l’obiettivo incremento del livello complessivo del rischio), quanto dell’esperto, il quale, nell’attestare la fattibilità del piano, deve giocoforza tenere conto dell’effettiva capacità dell’imprenditore, sia pure in chiave prospettica, di rimborsare non solo i debiti pregressi, ma anche quelli acquisiti con la sottoscrizione dell’accordo. In quest’ottica, è senz’altro auspicabile – ancorché non sempre concretamente possibile – che la nuova finanza si accompagni all’impegno (benché non rigorosamente paritetico) dei soci all’incremento dell’equity, sotto forma di vero e proprio aumento del capitale o, comunque, di finanziamento postergato al rimborso degli altri creditori; postergazione, questa, che nelle società di capitali opera ope legis (in forza dell’art. 2467 c.c., quantomeno laddove se ne predichi l’applicazione transtipica, dunque destinata a oltrepassare i confini della società a responsabilità limitata, attingendo altresì la società azionaria e l’accomandita per azioni), ma che comunque la prassi preferisce rendere oggetto di espressa obbligazione dei soci, onde scongiurare ogni ipotetica incertezza in materia.

Diversamente da quanto accade nel concordato preventivo e nell’accordo di ristrutturazione dei debiti, i finanziamenti previsti dal piano di risanamento non godono, nel successivo fallimento, della prededucibilità di cui all’art. 182-quater l. fall., né, a fortiori, di quella di cui all’art. 111, 2° comma, l. fall., dal momento che l’istituto di cui all’art. 67, 3° comma, lett. d, l. fall. non è (né può essere equiparato a) una procedura concorsuale[68]. In taluni casi questa circostanza può indurre l’imprenditore – anche sulla scorta delle richieste dei propri interlocutori, comprensibilmente portati a orientare la scelta del debitore verso l’istituto più idoneo a massimizzare i vantaggi dei contraenti – a preferire lo strumento di cui all’art. 182-bis l. fall., al dichiarato scopo di favorire l’accoglimento, da parte delle banche, della richiesta di nuova finanza, soprattutto nella misura in cui la stessa sia particolarmente consistente e abbisogni, quindi, di più intense garanzie di rimborso. Fermo tale meccanismo di concorrenza ineguale tra piano di risanamento e accordo di ristrutturazione[69], s’incorrerebbe tuttavia in un inaccettabile eccesso di semplificazione ove si ritenesse che ci si debba necessariamente dirigere sull’art. 182-bis l. fall. (quando non sul concordato preventivo) ogniqualvolta ci si trovi al cospetto dell’istanza di nuova finanza. Al contrario, in numerose fattispecie l’autonomia negoziale si rivela capace d’individuare soluzioni alternative alla prededucibilità e, ciò nondimeno, pressoché ugualmente tutelanti per le banche, quali, ad esempio, la concessione di garanzie reali su beni di adeguata capienza o la stipulazione di contratti di cessione pro solvendo di crediti vantati dall’imprenditore verso debitori di comprovata solidità; soluzioni, queste, la cui concreta praticabilità ben può indurre tutti i soggetti coinvolti a preferire il piano di risanamento, in ragione della sua maggiore celerità (non essendo necessario attendere, a valle del perfezionamento dell’accordo, l’omologazione del tribunale), della segretezza (pur al prezzo della rinuncia al beneficio fiscale di cui all’art. 88, 4° comma, d.p.r. n. 917/1986, riconnesso – come si è visto – alla pubblicazione nel registro delle imprese) e della superfluità dell’espressa attestazione della capacità dell’imprenditore di procedere al pagamento integrale dei creditori estranei entro i centoventi giorni successivi alla scadenza di ciascuna pretesa o, quanto alle poste già divenute esigibili, all’omologazione.

   

13. Le clausole destinate a operare nell’ipotesi di overperformance dell’impresa rispetto alle previsioni del piano: l’eccesso di cassa e la commissione di ristrutturazione

Di norma il piano è fondato su assunti previsionali elaborati sulla scorta di criteri prudenziali e dalla medesima prospettiva di cautela muove la manovra finanziaria, con la conseguenza che anche la determinazione dell’ammontare dei singoli pagamenti e la relativa collocazione nel tempo riflettono, giocoforza, questa peculiare impostazione, la quale talora si traduce nell’accentuazione delle concessioni cui sono chiamati gli istituti di credito, soprattutto in termini di dilazione del rimborso e di contenimento dei livelli della remunerazione. L’obiettiva necessità di accordare all’imprenditore condizioni negoziali tali da consentire all’esperto di attestare con convinzione la complessiva sostenibilità dell’operazione (e, di conseguenza, l’idoneità della stessa a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria) induce infatti a propendere per la stipulazione d’impegni di cui possa ragionevolmente predicarsi l’adempimento (sia pure con tutti i caveat inevitabilmente connessi a qualsiasi valutazione prognostica); adempimento, questo, che rischierebbe invece di diventare meno probabile (fino a scolorare nel campo della mera possibilità) allorquando il debitore assumesse obbligazioni destinate a restare disattese al benché minimo scostamento in pejus dalle proiezioni.

Non può pertanto escludersi che, nel corso dell’esecuzione del piano e dell’accordo, la prospettazione posta alla base degli stessi si riveli eccessivamente conservativa e l’imprenditore registri, in termini economici e finanziari, risultati migliori di quelli pronosticati, con afflusso di liquidità in quantità più elevate o, comunque, in tempi più ristetti di quelli attesi in conformità agli assunti, come detto prudenziali, della ristrutturazione. Situazioni di questo tipo, in quanto di segno positivo, non comportano – evidentemente – alcuna criticità sotto il profilo della conservazione degli effetti spiegati dallo strumento di cui all’art. 67, 3° comma, lettera d, l. fall., incluso quello dell’esenzione dalla revocatoria. Ciò nondimeno, esse fanno emergere – sia pure in una prospettiva di valutazione postuma – la sproporzione dell’entità del sacrificio allocato sulle banche, le quali, ove fossero invariabilmente chiamate a farsi carico, sul piano negoziale, di patti idonei a mettere in sicurezza l’attestazione (e, di conseguenza, i corollari che ne discendono ex lege), senza tuttavia alcuna seria prospettiva di partecipazione ai benefici derivanti dall’eventuale sopravvenuto intervento di circostanze migliorative, potrebbero essere indotte – del tutto legittimamente – ad adottare, nel corso delle trattative, una condotta connotata da maggiore rigidità.

Onde ovviare all’inconveniente insito nel rischio che la predisposizione di piani opportunamente improntati a particolare cautela sul fronte dei rimborsi (e, come tali, più agevolmente attestabili) si traduca, di fatto, in un disincentivo per le banche all’adesione alla soluzione negoziata della crisi, è possibile inserire nell’accordo meccanismi di correzione successivi, individuabili, da un lato, nella clausola che impone l’accelerazione dei pagamenti in favore degli istituti in presenza di eccessi di cassa (excess cash flow); dall’altro, nella previsione dell’incremento della remunerazione nel caso di buon esito della ristrutturazione (restructuring fee).

Al di là delle definizioni che di volta in volta si rinvengono nei singoli contratti e dei parametri contabili concretamente utilizzati quale riferimento per il calcolo, l’eccesso di cassa consiste in quella porzione della liquidità disponibile di cui l’imprenditore si trovi a essere depositario e che si riveli, per l’appunto, eccedente rispetto all’ammontare minimo (maggiorato fino a raggiungere una congrua “soglia di sicurezza”) necessario per finanziare la corretta esecuzione del piano, anche con riguardo al regolare rimborso dei creditori, inclusi gli aderenti all’accordo. Orbene, non è infrequente che le parti stabiliscano ab origine che questo importo aggiuntivo (se e nella misura in cui si manifesti) vada prioritariamente destinato a ridurre l’indebitamento verso le banche in via anticipata rispetto alle scadenze ipotizzate nel piano e riprodotte nel contratto (cash sweep).

Patti di questa natura sono generalmente compatibili con la corretta esecuzione del piano e con la conservazione dei relativi effetti: l’accelerazione dei pagamenti, infatti, non è la conseguenza di una deviazione patologica dalle misure rese oggetto di attestazione, costituendo – al contrario – il corollario della verificazione di un imprevisto scenario migliorativo, vale a dire di una situazione che presenti scostamenti in melius i quali, ancorché possibili in una prospettiva ex ante, non apparivano, al momento di redazione della relazione dell’esperto, pronosticabili con un livello di probabilità tale da renderli agevolmente attestabili. In questa luce, una volta che il miglioramento si sia concretamente verificato, esso ben può consentire di procedere al soddisfacimento dei creditori in tempi più contenuti, secondo un prospetto di pagamenti diverso da quello dell’ipotesi-base, ma pur sempre compatibile con il risanamento. Di qui la conclusione che il rimborso anticipato, ove – beninteso – alimentato esclusivamente dalla cassa in eccesso (non da risorse per le quali la manovra finanziaria preveda una diversa allocazione), deve ritenersi anch’esso un atto esecutivo del piano originario e, come tale, va esentato dalla revocatoria nell’eventualità di successivo fallimento; eventualità, questa, per vero remota, attesa l’overperformance dell’impresa rispetto a proiezioni già di per sé idonee a conseguire il risanamento.

D’altro canto, la già menzionata obiettiva difficoltà di effettuare (non solo al momento della sottoscrizione dell’accordo, ma anche nel corso della sua esecuzione) previsioni contraddistinte da assoluta precisione sconsiglia di adottare meccanismi di cash sweep che comportino l’immediato esaurimento dell’intera liquidità in eccesso, non potendosi escludere con certezza che, in un secondo momento, si renda necessario attingervi per colmare eventuali ammanchi derivanti dall’ulteriore scostamento dello scenario (questa volta in senso peggiorativo) dagli assunti del piano. Di qui la ricerca – per vero non sempre agevole – di un adeguato punto di equilibrio, nella maggior parte dei casi individuato nel patto in forza del quale solo una determinata percentuale dell’excess cash flow dev’essere automaticamente destinata all’accelerazione dei pagamenti a favore delle banche, mentre la quota residua resta nella disponibilità dell’imprenditore, affinché egli la ponga a servizio non direttamente del ripianamento del debito pregresso, bensì, più in generale, del risanamento, se del caso operando gli opportuni accantonamenti.

L’individuazione della sussistenza dell’eventuale eccesso di cassa e la sua quantificazione presuppongono verifiche periodiche sull’andamento dell’impresa nel corso dell’esecuzione del piano, di regola effettuate in epoca immediatamente successiva all’approvazione del bilancio o delle situazioni patrimoniali, economiche e finanziarie intermedie di cui sia richiesta la redazione. Questi documenti, infatti, contengono i dati contabili che, se raffrontati con le proiezioni sulle quali si fonda il programma di risanamento, consentono di enucleare gli eventuali scostamenti positivi in termini di liquidità tempo per tempo disponibile.

I parametri di riferimento possono riferirsi tanto al bilancio della singola impresa, quanto – nelle fattispecie in cui il risanamento abbia ad oggetto la società al vertice di un gruppo – al consolidato, con l’avvertenza che, nel secondo caso, il cash sweep non sembra poter totalmente prescindere dalle ipotetiche criticità connesse a eventuali trasferimenti di ricchezza infragruppo. In particolare, occorre ponderare con attenzione quei meccanismi che sottendono – talora implicitamente – l’impiego dell’excess cash flow generato dalle controllate per il rimborso anticipato dei debiti della holding. Le operazioni di questa natura, infatti, sfuggono a censure sotto il profilo della correttezza della condotta tanto degli amministratori delle realtà coinvolte quanto del soggetto esercente l’attività di direzione e coordinamento nella misura in cui le stesse, da un lato, non mettano a rischio (neppure in chiave prospettica) la capacità della singola controllata di far fronte con regolarità alle obbligazioni che gravino direttamente su di essa; dall’altro, incontrino – secondo la nota teoria dei vantaggi compensativi – un congruo bilanciamento in partite ulteriori, come di regola accade quando i rimborsi effettuati dalla holding (anche attingendo al denaro delle partecipate) mirino ad abbattere l’esposizione derivante da linee “a ombrello”, vale a dire concesse alla capogruppo, ma utilizzabili, oltre che dalla stessa, dalle relative partecipate.

Mentre – come si è visto – la clausola di cash sweep consente di rimediare alla dilazione dei pagamenti che si sia rivelata – ex post – sproporzionata al cospetto del reale andamento della società, l’introduzione della commissione di ristrutturazione (restructuring fee) mira a stemperare, a determinate condizioni, i sacrifici che le banche abbiano dovuto sopportare a livello di pricing.

Com’è noto, ogniqualvolta l’accordo di risanamento preveda la rinegoziazione dell’indebitamento (anche attraverso il relativo consolidamento), come la concessione, il ripristino o il mantenimento di determinate linee (a breve o a medio-lungo termine), si pone il problema della remunerazione, che va giocoforza contenuta entro livelli che consentano all’esperto di disporre di un adeguato margine di sicurezza nell’attestare la fattibilità del piano. Ciò può tradursi, ancora una volta, in un sacrificio per gli istituti suscettibile di rivelarsi sproporzionato quando la società riesca, nel tempo, a riconquistare il pieno equilibrio. Di qui la possibilità di prevedere, nel contratto, la menzionata commissione di ristrutturazione, la quale consiste nell’ammontare che il debitore è tenuto a versare (in aggiunta ai rimborsi e agli altri oneri stabiliti nel piano) laddove, eseguita la manovra, abbia effettivamente conseguito l’obiettivo del risanamento, presentando parametri finanziari pari (o addirittura migliori) di quelli pronosticati. In altre parole, all’impresa risanata che abbia goduto, per la durata del piano, di condizioni economiche di particolare favore ben può essere richiesto un esborso aggiuntivo, di regola parametrato a un tasso d’interesse sull’esposizione verso gli istituti (complessiva o, in alternativa, circoscritta a determinate forme tecniche).

Tale previsione, ove opportunamente congegnata, non sembra porre insormontabili problemi di compatibilità con il piano, atteso che la stessa è destinata a operare – per definizione – a valle del risanamento, quando la manovra sia stata, per l’appunto, ormai integralmente eseguita, dovendosi l’esperto limitare a verificare, da un lato, che l’inserimento della commissione tra le passività permetta di ritenere comunque ripristinato l’equilibrio patrimoniale; dall’altro, che la scadenza prevista per il versamento non sia fonte di criticità in rapporto alla verosimile disponibilità di cassa dell’impresa, il che talvolta consiglia di optare per una corresponsione in tutto o in parte dilazionata nel tempo. Merita poi evidenziare che il pagamento della restructuring fee, in quanto estraneo al perimetro del piano (trattandosi, come detto, non di adempimento funzionale al risanamento, bensì di un suo corollario) deve probabilmente ritenersi escluso dal beneficio dell’esenzione dalla revocatoria; il che non sembra tuttavia rappresentare un insormontabile ostacolo alla stipulazione di clausole siffatte, tenuto conto dell’obiettiva modestia del rischio, per le banche, di subire la dichiarazione d’inefficacia del rimborso. In situazioni di questo tipo, invero, gli istituti si limitano a incassare l’importo dovuto ex contractu da parte di un soggetto che, nella misura in cui abbia davvero conseguito l’obiettivo del risanamento, si trova – per definizione – in una situazione patrimoniale, economica e finanziaria senz’altro distante dallo stato d’insolvenza.

 

14. Il monitoraggio sull’esecuzione del piano di risanamento e sull’adempimento all’accordo: i covenants e le modifiche alla manovra e al contratto

Gli scostamenti dalle previsioni del piano non sempre si rivelano di segno positivo: non c’è bisogno di sottolineare, infatti, che l’attestazione del professionista indipendente – resa su basi inevitabilmente prognostiche – non equivale alla garanzia che le iniziative elaborate dall’imprenditore siano poi compiutamente eseguite, né che le stesse si rivelino davvero idonee, ex post, a conseguire l’obiettivo del risanamento e, in parallelo, del regolare adempimento di tutte le obbligazioni discendenti dall’accordo. Del resto, com’è stato osservato, “siccome il punto di vista dell’art. 67 è quello di una situazione in cui l’impresa è fallita (dunque, di un piano oggettivamente non idoneo, con valutazione ex post), il legislatore si è premurato di precisare che il piano deve apparire idoneo nel momento in cui viene formato; trattasi di una valutazione prognostica che può essere sconfessata dei fatti, ma che rileva secondo criteri oggettivi di analisi da parte del professionista attestatore”[70]. Per queste ragioni, nella prassi “l’argomento delle rivisitazioni di accordi omologati o di piani di risanamento ex art. 67 è molto sentito dagli operatori perché la perdurante crisi economica ha frequentemente allungato i tempi di risanamento”[71].

Di qui l’importanza non solo delle previsioni negoziali destinate a rimediare all’inadempimento (o, comunque, a sanzionarlo), ma – più a monte – dei meccanismi di monitoraggio sull’esecuzione del piano, anch’essi di matrice pattizia, atteso che – com’è noto – l’istituto di cui all’art. 67, 3° comma, lettera d, l. fall., diversamente dal concordato preventivo, non prevede l’intervento né del tribunale né del commissario giudiziale, restando certamente preclusa la possibilità di applicare in via analogica le regole in materia di vigilanza, risoluzione e annullamento di cui agli artt. 185 e 186 l. fall.

La verifica del rispetto del programma imprenditoriale oggetto di attestazione e del progressivo superamento dell’iniziale situazione di squilibrio (in linea con l’attestazione resa dall’esperto) è particolarmente importante perché – lo si ripete – è il nesso tra il piano funzionale al risanamento e i relativi atti esecutivi che vale a esentare i secondi dalla revocatoria. Di conseguenza, non solo le iniziative incompatibili con l’accordo (come si è visto, vera e propria la traduzione negoziale del piano) restano escluse dalla protezione, ma neppure il regolare adempimento al contratto si rivela del tutto esente dal rischio di successiva dichiarazione d’inefficacia se collocato in un contesto in cui, a causa di circostanze sopravvenute, l’impianto originario si sia ormai rivelato – in maniera conclamata e obiettivamente percepibile per i terzi contraenti – del tutto inidoneo a conseguire il risultato dell’effettivo risanamento: “è chiaro, infatti, che quando atti, pagamenti e garanzie vengono posti in essere allorché la prospettiva di risanamento si è allontanata, la tutela del terzo che acquisti un bene, riceva un pagamento o consegua una garanzia, nella consapevolezza della sopravvenuta inattuabilità del piano, non ha più ragion d’essere”[72].

A tale stregua, i creditori aderenti all’accordo, i quali nutrono un evidente interesse, oltre che alla regolare esecuzione del contratto, alla conservazione degli effetti legali del piano (di cui, come si è visto, essi beneficiano in via diretta, mentre il vantaggio per il debitore è, di regola, meramente riflesso), sono senz’altro incentivati a vigilare sull’operato dell’imprenditore, anche al fine di verificare, fino alla completa esecuzione del piano e dell’accordo, la persistente attualità della soluzione negoziale della crisi. Ciò postula l’acquisizione di adeguati elementi informativi[73], conseguibili anche grazie alla stipulazione di clausole che si traducano: “(i) nell’obbligo in capo al debitore di assicurare costanti flussi informativi sull’andamento della gestione e sulla situazione patrimoniale e finanziaria; (ii) nella speculare facoltà dei creditori di avanzare in ogni tempo richieste di informazioni e di documentazione; (iii) nell’eventuale coinvolgimento di uno o più “rappresentanti” del ceto creditorio nell’organo di gestione o in quello di controllo”[74].

L’importanza dell’inserimento, nel contratto, di meccanismi che consentano il monitoraggio periodico dell’attività dell’imprenditore e dell’evoluzione della sua situazione patrimoniale, economica e finanziaria è evidente: la tempestiva ricognizione degli scostamenti incompatibili con il programma di riequilibrio permette infatti ai sottoscrittori dell’accordo di avvedersi per tempo della sopravvenuta inidoneità del piano a raggiungere gli obiettivi di cui all’art. 67, 3° comma, lettera d, l. fall. e, conseguentemente, del venir meno dell’esenzione dalla revocatoria e dalla bancarotta (semplice e preferenziale) per tutti gli atti successivi (quand’anche previsti dall’accordo), in quanto esecutivi, per l’appunto, di un tentativo di risanamento ormai palesemente inattuabile. Naturalmente, questo epilogo non costituisce il corollario di ogni modesto scostamento dalle previsioni iniziali, ma si produce soltanto quando si vada incontro a una modificazione in pejus (portata da una singola circostanza o dalla somma di una molteplicità di fattori concorrenti) davvero significativa, tale da oltrepassare il “punto di rottura” della tenuta del piano[75].

Al fine di agevolare la concreta individuazione di questa situazione, di frequente in sede negoziale si procede – anche sulla scorta del processo logico-argomentativo seguito dall’esperto e degli stress test dallo stesso eventualmente effettuati – all’enucleazione di specifiche soglie patrimoniali, economiche e finanziare il cui superamento comporta il serio rischio d’insuccesso del turnaround. Questi parametri sono poi resi oggetto di specifici covenants, la cui violazione, quand’anche non si accompagni all’inadempimento alle prescrizioni in materia di rimborso, costituisce, di per sé sola, un importante segnale d’allarme circa la persistente idoneità del piano e la perdurante efficacia dei relativi effetti legali; segnale, questo, che consiglia di procedere al riesame dell’effettiva capacità dell’impresa di riconquistare uno stato di equilibrio, apportando, se del caso, gli opportuni correttivi alle misure individuate in origine, ove necessario attraverso il ricorso a iniziative nuove, le quali – in quanto aggiuntive a quelle già elaborate, o, comunque, sostitutive delle stesse – abbisognano di essere rese oggetto di apposita relazione dell’esperto, quantomeno laddove le parti intendano continuare ad avvalersi dei benefici dell’attestazione.

Per vero, di norma si fa discendere dalla violazione dei covenants la risoluzione di diritto del contratto, il che determina l’automatica caducazione della facoltà dell’imprenditore di richiedere l’erogazione delle eventuali residue tranches di nuova finanza, la revoca degli affidamenti e la decadenza del debitore dal beneficio del termine, anche in relazione all’eventuale consolidamento; senza dire della reviviscenza delle condizioni dei negozi originari in materia di remunerazione delle linee, tenuto conto che, di regola, l’accordo di risanamento non ha natura novativa. I medesimi effetti discendono, stando alle clausole più di frequente impiegate nella prassi, dall’eventuale inadempimento agli altri obblighi contenuti nell’accordo, a cominciare da quelli afferenti ai pagamenti.

Senonché, la risoluzione del contratto – conseguente alla presa d’atto del default del piano o, comunque, dell’incapacità del debitore di rispettare gli impegni presi in aderenza al piano medesimo – travolge non solo le concessioni che le banche abbiano accordato all’imprenditore in vista del risanamento, ma altresì il beneficio dell’esenzione dalla revocatoria: gli istituti di credito ben possono richiedere l’immediata corresponsione di quanto loro dovuto, ma il versamento – sempre che si riveli compatibile con il deterioramento delle condizioni del debitore e con la liquidità disponibile – resta assoggettabile a dichiarazione d’inefficacia nell’eventualità (tutt’altro che remota) di successivo fallimento (a condizione che, naturalmente, la dazione si collochi all’interno del periodo sospetto, mentre la dimostrazione, da parte del curatore, della scientia decoctionis dell’accipiens è agevolata dal fatto che esso abbia preso coscienza dell’insuccesso del piano di risanamento).

Tale obiettivo inconveniente spesso induce le banche a concedere all’imprenditore un congruo lasso di tempo per dar corso, ove ne sussistano i presupposti, all’elaborazione delle opportune modifiche al piano, alla luce delle quali procedere alla rinegoziazione dell’accordo. Il perimetro delle variazioni dipende, naturalmente, dalla fattispecie concreta: talora la violazione di un covenant – pur ritenuto rilevante in chiave prognostica – si rivela, sulla scorta degli eventi sopravvenuti, inidonea a pregiudicare il risanamento, sicché l’accordo può continuare a essere eseguito immutato, fatta salva la necessità che gli istituti di credito formalizzino la propria rinunzia a far valere il superamento del parametro (che, come si è detto, di regola costituisce, di per sé, un inadempimento contrattuale). In altre ipotesi è sufficiente apportare alcune limitate modifiche, ad esempio pattuendo l’ulteriore differimento di alcuni termini di pagamento, mentre nell’eventualità di scostamenti particolarmente gravi l’imprenditore può essere costretto a rimeditare l’intero impianto della manovra, addivenendo alla predisposizione di un piano e di un accordo del tutto nuovi (quando non si renda addirittura preferibile optare per un diverso strumento di soluzione della crisi, quale l’accordo di ristrutturazione dei debiti o il concordato preventivo). Questi interventi, indipendentemente dall’ampiezza di ciascuno, presentano tutti un minimo comune denominatore: in ogni caso si rende indispensabile il contributo dell’esperto (la cui indipendenza non sembra poter essere inficiata dal solo fatto di aver già redatto la precedente relazione[76]), atteso che gli effetti legali del piano continuano a prodursi esclusivamente in presenza dell’attestazione che le nuova iniziativa appaia – sempre in una prospettiva ex ante – fattibile e idonea a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria.



* Il presente saggio riproduce, con alcuni aggiornamenti e integrazioni, il contributo destinato a Panzani (diretto da), Il fallimento e le altre procedure concorsuali, in Cendon (a cura di), Il diritto privato nella giurisprudenza, di prossima pubblicazione per i tipi della Utet.

[1] Verna, I piani di risanamento e di riequilibrio nella legge fallimentare, in Dir. fall., 2006, I, 1254; Lo Cascio, Le nuove procedure di crisi: natura negoziale o pubblicistica?, in Fallimento, 2008, 993; Bosticco, Incertezze e soluzioni “di buon senso” in tema di nomina del professionista ai sensi dell’art. 67, terzo comma, lett. d) l.fall., in Fallimento, 2009, 475; Dimundo, Note minime in tema di designazione dell’esperto: ragionevolezza del piano di risanamento, in Fallimento, 2009, 78; Nardecchia, Le esenzioni dall’azione revocatoria e il favor per la soluzione negoziale della crisi d’impresa (Commento alle lettere d, e, g del comma 3 dell’art. 67), in Cavallini (diretto da), Commentario alla legge fallimentare, 2, Milano, 2010, 253-254. In senso contrario Jorio, Gli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, in Ambrosini-Cavalli-Jorio, Il fallimento, in Cottino (diretto da), Trattato di diritto commerciale, XI, 2, Padova, 2009, 442.

[2] Stasi, La terzietà dell’attestatore, in IlFallimentarista.it, 2012, 2.

[3] D’Angelo, I piani attestati ex art. 67, terzo comma, lett. d, l. fall.: luci e ombre a seguito del decreto “sviluppo”, in Giur. comm., 2014, I, 89, osserva che “i benefici fiscali sono solo a metà (dal lato del debitore e non dal lato del creditore che non potrà invece fruire dei vantaggi fiscali connessi alla deduzione delle perdite, come invece è consentito nel caso di accordo ex art. 182-bis o di concordato preventivo)”.

[4] Ambrosini, Accordi di ristrutturazione dei debiti e finanziamenti alle imprese in crisi. Dalla “miniriforma” del 2005 alla l. 7 agosto 2012, n. 134, Bologna, 2012, 107 ss.

[5] Jorio, Gli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, cit., 443-444; Demarchi,I piani di risanamento ex art. 67 Legge fallimentare - Tentativo di ricostruzione di un istituto a partire dai suoi effetti in caso di fallimento, in IlCaso.it, II,189/2010, 4; Tarzia, La tutela del sostegno creditizio alle imprese in crisi: istruzioni per l’uso, in IlFallimentarista.it, 2012, 2-3; Bosticco, Effetto esonerativo del piano attestato, in Arcuri-Bosticco, Il piano di risanamento attestato e il nuovo sovra indebitamento, Milano, 2014, 88.

[6] Stasi, I piani di risanamento e di ristrutturazione nella legge fallimentare, in Fallimento, 2006, 861; Zanichelli, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Torino, 2006, 127; Lo Cascio, Il piano attestato di risanamento, in Di Marzio (a cura di), La crisi d’impresa, Padova, 2010, 266; Nardecchia, Le esenzioni dall’azione revocatoria e il favor per la soluzione negoziale della crisi d’impresa (Commento alle lettere d, e, g del comma 3 dell’art. 67), cit., 241.

[7] Terranova, La nuova disciplina delle revocatorie fallimentari, in Dir. fall., 2006, I, 278; Nardecchia, Le esenzioni dall’azione revocatoria e il favor per la soluzione negoziale della crisi d’impresa (Commento alle lettere d, e, g del comma 3 dell’art. 67), cit., 234; cui adde Bonfatti, Gli incentivi alla composizione negoziale delle crisi d’impresa: uno sguardo d’insieme, in Bonfatti-Falcone (a cura di), Le procedure di composizione negoziale delle crisi e del sovraindebitamento, Milano, 2014, 15, il quale osserva che, “benché di massima anche il “Piano” ex art. 67, co. 3, lett. d) l. fall. si fonderà su un accordo con i creditori pregressi, esso potrebbe anche poggiare su: (i) un accordo con creditori nuovi – persuasi a finanziare il rilancio dell’impresa –; (ii) un accordo con partners diversi dai creditori (nuovi soci; partners commerciali; acquirenti di assets o di rami d’azienda dell’impresa; ecc.); e (iii) iniziative “unilaterali” dell’imprenditore (come la sottoscrizione di un aumento di capitale; il conferimento di nuovi assets; ecc.)”.

[8] Ferro, Art. 67, co. 3, lett. d) – Il piano attestato di risanamento, in Ferro (a cura di), La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, Padova, 2007, 481; Mandrioli, Art. 67, co. 3, lett. d) – Il piano di risanamento stragiudiziale attestato (la ricostruzione giuridico aziendalistica), in Ferro (a cura di), La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, cit., 496; Falcone, I piani di risanamento, in Didone (a cura di), Le riforme della legge fallimentare, 1, Torino, 2009, 759.

[9] Costa, Esenzione dall’azione revocatoria e prededuzione nelle procedure stragiudiziali di risanamento delle imprese, in Dir. fall., 2010, I, 537, osserva che, “se è vero che il piano di risanamento, come si ritiene comunemente, non è un accordo ma un piano unilaterale, è anche vero che non vi può essere piano di risanamento se prima non c’è stata una negoziazione con i creditori”.

[10] D’Ambrosio, sub art. 67, 3° comma, lettere d, e, g, in Jorio (diretto da), Il nuovo diritto fallimentare, 1, Bologna, 2006, 985-986; Patti, Crisi di impresa e ruolo del giudice, Milano, 2009, 77.

[11] Ferro, Art. 67, co. 3, lett. d) – Il piano attestato di risanamento, cit., 475.

[12] Demarchi,I piani di risanamento ex art. 67 Legge fallimentare - Tentativo di ricostruzione di un istituto a partire dai suoi effetti in caso di fallimento, cit., 4.

[13] Costa, Esenzione dall’azione revocatoria e prededuzione nelle procedure stragiudiziali di risanamento delle imprese, cit., 533.

[14] Terranova, Le procedura concorsuali. Problemi di una riforma, Milano, 2004, 64; Villanacci-Coen, La gestione della crisi di impresa e i piani attestati di risanamento ai sensi dell’art. 67, 3° comma, lett. d) legge fallim., in Dir. fall., 2013, I, 97.

[15] Demarchi,I piani di risanamento ex art. 67 Legge fallimentare - Tentativo di ricostruzione di un istituto a partire dai suoi effetti in caso di fallimento, cit., 4.

[16] Costa, Esenzione dall’azione revocatoria e prededuzione nelle procedure stragiudiziali di risanamento delle imprese, cit., 533, osserva che, “ove non si intravedono utilità dirette ed immediate a seguito del ricorso ad una procedura di risanamento, l’imprenditore probabilmente preferisce gestire riservatamente i propri accordi con i creditori (e quindi ricorrere alla nota e risalente figura dell’accordo stragiudiziale o concordato stragiudiziale, di cui le nuove figure costituiscono una evoluzione normata) mentre, semmai, saranno i creditori, in particolare le banche, a richiedere in maniera forte all’imprenditore, come condizione per continuare a sostenerlo, che lo stesso acceda ad un accordo di ristrutturazione ex art. 182 bis legge fallim. (o quantomeno predisponga un piano di risanamento attestato)”.

[17] Jorio, Le soluzioni concordate delle crisi alla luce della riforma della Legge fallimentare, in Grandi e piccole insolvenze: dal caso Chrysler alla crisi del consumatore, Atti del Convegno di Alba del 28 novembre 2009, Torino, 2010, 96-97.

[18] Ambrosini, Profili civili e penali delle novità introdotte dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 in materia di soluzioni negoziate delle crisi d’impresa, in Bonelli (a cura di), Crisi di imprese: casi e materiali, Milano, 2011, 178.

[19] Bonfatti, Gli incentivi alla composizione negoziale delle crisi d’impresa: uno sguardo d’insieme, cit., 18.

[20] Terenghi, I piani di risanamento dopo le modifiche: hanno ancora un futuro?, in IlFallimentarista.it, 2012, 8-9.

[21] Nardecchia, Le esenzioni dall’azione revocatoria e il favor per la soluzione negoziale della crisi d’impresa (Commento alle lettere d, e, g del comma 3 dell’art. 67), cit., 245.

[22] Ferro, Art. 67, co. 3, lett. d) – Il piano attestato di risanamento, in Ferro (diretto da), La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, Padova, 2011, 756.

[23] In proposito v., tra gli altri, Arcuri, La crisi d’impresa oggetto di risanamento, in Arcuri-Bosticco, Il piano di risanamento attestato e il nuovo sovraindebitamento, Milano, 2014, 23 ss.

[24] Ferro, Art. 67, co. 3, lett. d) – Il piano attestato di risanamento, cit., 756-757.

[25] Piscitello, Piani di risanamento e posizione delle banche, in Aa.Vv, Le soluzioni concordate delle crisi d’impresa, Torino, 2007, 113.

[26] Nardecchia, Le esenzioni dall’azione revocatoria e il favor per la soluzione negoziale della crisi d’impresa (Commento alle lettere d, e, g del comma 3 dell’art. 67), cit., 242.

[27] Piscitello, Piani di risanamento e posizione delle banche, cit., 114.

[28] Piscitello, Piani di risanamento e posizione delle banche, cit., 114.

[29] Ferro, Art. 67, co. 3, lett. d) – Il piano attestato di risanamento, cit., 767.

[30] Ferro, Art. 67, co. 3, lett. d) – Il piano attestato di risanamento, cit., 767.

[31] Ferro, Art. 67, co. 3, lett. d) – Il piano attestato di risanamento, cit., 768.

[32] Mandrioli, Presupposti ed effetti dei piani di risanamento: le finalità dell’istituto, in Bonfatti (a cura di), La disciplina dell’azione revocatoria nella nuova legge fallimentare e nei “fallimenti immobiliari”, Milano, 2005, 625; Marano, Le ristrutturazioni dei debiti e la continuazione dell’impresa, in Fallimento, 2006, 101; Nardecchia, Le esenzioni dall’azione revocatoria e il favor per la soluzione negoziale della crisi d’impresa (Commento alle lettere d, e, g del comma 3 dell’art. 67), cit., 243. Contra Galletti, I piani di risanamento e di ristrutturazione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2006, 1210.

[33] Bonfatti, Gli incentivi alla composizione delle crisi d’impresa: uno sguardo d’insieme, cit., 15.

[34] In materia v., ex aliis, Arcuri, Il contenuto “tipico” dell’attestazione, il concetto di risanamento e il riequilibrio finanziario, in Arcuri-Bosticco, Il piano di risanamento attestato e il nuovo sovraindebitamento, Milano, 2014, 33 ss.; D’Angelo, I piani attestati ex art. 67, terzo comma, lett. d, l. fall.: luci e ombre a seguito del decreto “sviluppo”, cit., 82 ss.

[35] Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Cottino (diretto da), Trattato di diritto commerciale, XI, 1, Padova, 2008, 69.

[36] Trib. Torino, 17 novembre 2005, in Fallimento, 2006, 691.

[37] Trib. Benevento, 23 aprile 2013, in Fallimento, 2013, 1373.

[38] Lamanna, Il c.d. decreto sviluppo: primo commento sulle novità in materia concorsuale, in IlFallimentarista.it., 2012, 9.

[39] Cndcec-Commissione di studio “Crisi e risanamento d’impresa”, Osservazioni sul contenuto delle relazioni del professionista nella composizione negoziale della crisi d’impresa, 2009, 7-8.

[40] Quattrocchio-Ranalli, Concordato in continuità e ruolo dell’attestatore: poteri divinatori o applicazione di principi di best practice, in IlFallimentarista.it, 2012, 7.

[41] Quattrocchio-Ranalli, Concordato in continuità e ruolo dell’attestatore: poteri divinatori o applicazione di principi di best practice, cit., 7.

[42] Baldassarre-Pereno, Prime riflessioni in tema di concordato preventivo in continuità aziendale, in IlFallimentarista.it, 2012, 2.

[43] Trib. Firenze, 9 febbraio 2012, in IlCaso.it, I, 6961.

[44] Ceccherini, La qualificazione, l’indipendenza e la terzietà del professionista attestatore negli istituti concorsuali di gestione della crisi d’impresa e le diverse tipologie di relazioni o attestazioni, in Dir. fall., 2011, I, 321.

[45] Trib. Messina, 29 dicembre 2005, in Dir. fall., 2006, 549.

[46] Cndcec-Assonime-Università di Firenze, Linee-Guida per il Finanziamento alle imprese in crisi, I edizione, 2010, 27.

[47] Guerreri, sub art. 67, in Maffei Alberti (diretto da), Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, 2013, 438.

[48] Bonfatti, Le procedure di composizione negoziale della crisi d'impresa: opportunità e responsabilità, in IlCaso.it, II, 214/2010, 6-7.

[49] Bonfatti, Le procedure di composizione negoziale della crisi d'impresa: opportunità e responsabilità, cit., 5.

[50] Piscitello, Piani di risanamento e posizione delle banche, cit., 118.

[51] Bonfatti, Le procedure di composizione negoziale della crisi d'impresa: opportunità e responsabilità, cit., 5.

[52] Piscitello, Piani di risanamento e posizione delle banche, cit., 118.

[53] D’Angelo, I piani attestati ex art. 67, terzo comma, lett. d, l. fall.: luci e ombre a seguito del decreto “sviluppo”, cit., 78.

[54] Bosticco, I limiti alla sindacabilità del piano ai fini di escludere l’esenzione da revocatoria, in Arcuri-Bosticco, Il piano di risanamento attestato e il nuovo sovraindebitamento, Milano, 2014, 102-103, osserva che, “sa il legislatore ha voluto creare un istituto che consentisse all’impresa in crisi di continuare ad operare, consentendo al debitore di poter contrattare regolarmente con i terzi, in tanto la disciplina sarà efficace  in quanto questi possano confidare senza troppi rischi nella “tenuta” degli atti compiuti e, di contro, qualsiasi apertura ad un sindacato ex post sulla concedibilità dell’esenzione in funzione di ipotetiche carenze del piano rende quantomai incerto il confine tra atti esonerati da revocatoria ed atti che invece vi ricadranno a seguito del fallimento”.

[55] Guerreri, sub art. 67, cit., 438.

[56] Ambrosini, Profili civili e penali delle soluzioni negoziate nella L. n. 122/2010, cit., 647.

[57] T.M. Ubertazzi, Accordi di risanamento: i soggetti coinvolti, il ruolo delle banche e le responsabilità, in Bonfatti-Falcone (a cura di), Le procedure di composizione negoziale delle crisi e del sovraindebitamento, Milano, 2014, 227 ss.

[58] L’art. 1 del Codice ABI stabilisce che le banche aderenti sono tenute:

“- alla trasparenza e alla correttezza nei rapporti reciproci e nei confronti delle imprese clienti, favorendo in particolare una contrattualizzazione unitaria degli accordi interbancari e di adesione al piano;

- a porre in essere comportamenti informati a principi di cooperazione e di equità sostanziale nei rapporti tra il ceto creditorio;

- a porre in essere comportamenti che, nel rispetto della par condicio, valorizzino le imprese anche nelle loro prospettive reddituali;

- a ripartire le quote della nuova finanza secondo criteri di trasparenza ed obiettività;

- ad adottare forme di collaborazione e di suddivisione dei ruoli al fine di contenere anche i costi amministrativi derivanti dalla gestione della procedura di ristrutturazione, ricorrendo se del caso a forme di cessione del credito ovvero a mandati per la gestione dello stesso;

- a compiere quanto necessario affinché i principi e le norme del presente accordo vengano recepite nell’ambito degli accordi di ristrutturazione di cui fossero parte;

- ad introdurre, in particolare, negli accordi di ristrutturazione sia divieti circa trattative separate nonché patti di covendita per quanto concerne le azioni rinvenienti dalla conversione di crediti in capitale, sia previsioni per l’assunzione di determinazioni secondo principi di maggioranza qualificata, determinazioni che, per motivi di urgenza, possono essere demandate ad un Comitato ristretto;

- a favorire la circolazione tra tutti i soggetti interessati delle informazioni di rilevanza ai fini della valutazione ed adesione al piano di risanamento;

- a comunicare nei termini convenuti le decisioni di pertinenza;

- a risolvere eventuali controversie attinenti all’interpretazione del presente accordo e agli impegni da esso derivanti mediante ricorso a procedure arbitrali”.

[59] L’art. 4 del Codice ABI prescrive che le banche aderenti s’impegnano:

“- a partecipare alla riunione;

- a partecipare ad adeguato livello;

- a fornire subito una adeguata informazione scritta per quanto concerne un dettaglio dell’esposizione, delle garanzie e delle fonti di rimborso;

- a manifestare eventuali situazioni conflittuali (quali ad esempio l’esistenza di partecipazione nel gruppo interessato, prestiti partecipativi, presenza di esponenti aziendali negli organi amministrativi, ecc.);

- a mantenere la riservatezza circa la convocazione dell’incontro;

- a non utilizzare la notizia della riunione al fine di modificare la propria situazione di fatto (affidamenti, acquisizione o realizzo di garanzie) verso l’impresa o il gruppo dal momento in cui è pervenuta la notizia stessa e sino alla comunicazione delle proprie decisioni;

- a far pervenire le proprie decisioni nei termini preannunciati da ciascun aderente agli altri partecipanti alla riunione e comunque prima del compimento di eventuali atti urgenti nei confronti dell’impresa e dei comuni garanti. Detti atti, se posti in essere da un aderente al piano di risanamento, si intenderanno quindi compiuti nell’interesse di coloro che avranno aderito al piano medesimo;

- a valutare la possibilità di costituire, secondo criteri da determinare nel corso della stessa riunione, un Comitato ristretto”.

[60] Per un’analitica descrizione delle molteplici figure di advisor di regola coinvolte, a vario titolo, nel turnaround v. T.M. Ubertazzi, Accordi di risanamento: i soggetti coinvolti, il ruolo delle banche e le responsabilità, cit., 206 ss.

[61] Cass. pen., 2 marzo 2004, n. 16688, in Fallimento, 2005, 465.

[62] Cass. pen., 1° dicembre 1999, n. 2126, in Giur. it., 2002, 1259, con nota di Vinciguerra, Trasformazione del credito chirografario in privilegiato e concorso in bancarotta preferenziale del funzionario di banca, cui adde Cass. pen., 23 febbraio 2000, n. 2136, in Dir. e prat. soc., 2000, 11, 90, con nota di Brichetti.

[63] Mucciarelli, L’esenzione dai reati di bancarotta, in Dir. pen. proc., 2010, 1474 ss., 1483; Brichetti-Pastorelli, La bancarotta e gli altri reati fallimentari. Dottrina e giurisprudenza a confronto, Milano, 2011, 160.

[64] Cass. pen., 9 ottobre 2009, n. 45332, in CED Cass. pen., 2009.

[65] Mucciarelli, Il magistrato penale può rivalutare piani di ristrutturazione, accordi omologati e concordati preventivi?, in IlFallimentarista.it, 2011, 1.

[66] Costa, Esenzione dall’azione revocatoria e prededuzione nelle procedure stragiudiziali di risanamento delle imprese, cit., 537, rileva che “la nuova finanza, cioè la messa a disposizione dell’impresa di nuovi finanziamenti, è un elemento fondamentale, perché se l’impresa in difficoltà non ha nuova finanza non può riprendersi e non può andare avanti. La ristrutturazione non è solo un problema di sistemazione del debito pregresso ma è soprattutto un problema di rilancio dell’impresa, e senza nuova finanza il rilancio non può esserci”.

[67] Ambrosini, Accordi di ristrutturazione dei debiti e finanziamenti alle imprese in crisi. Dalla “miniriforma” del 2005 alla l. 7 agosto 2012, n. 134, cit., 135.

[68] Falcone, I piani di risanamento, cit., 767; Lo Cascio, Il piano attestato di risanamento, cit., 286; Tarzia, La tutela del sostegno creditizio alle imprese in crisi: istruzioni per l’uso, cit., 4.

[69] Costa, Esenzione dall’azione revocatoria e prededuzione nelle procedure stragiudiziali di risanamento delle imprese, cit., 539.

[70] Demarchi,I piani di risanamento ex art. 67 Legge fallimentare - Tentativo di ricostruzione di un istituto a partire dai suoi effetti in caso di fallimento, cit., 7.

[71] Arato, Modifiche all’accordo di ristrutturazione dei debiti e nuovo controllo giudiziario, in Fallimento, 2012, cit., 208.

[72] D’Ambrosio, sub art. 67, 3° comma, lettere d, e, g, cit., 989-990; nello stesso senso Guglielmucci, La riforma in via d’urgenza della legge fallimentare, Torino 2005, 45; Terranova, La nuova disciplina delle revocatorie fallimentari, cit., 281; Jorio, Gli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, cit., 445; Lo Cascio, Il piano attestato di risanamento, cit., 285; Nardecchia, Le esenzioni dall’azione revocatoria e il favor per la soluzione negoziale della crisi d’impresa (Commento alle lettere d, e, g del comma 3 dell’art. 67), cit., 263; Arato, Modifiche all’accordo di ristrutturazione dei debiti e nuovo controllo giudiziario, cit., 209.

[73] Lo Cascio, Il piano attestato di risanamento, cit., 285; Nardecchia, Le esenzioni dall’azione revocatoria e il favor per la soluzione negoziale della crisi d’impresa (Commento alle lettere d, e, g del comma 3 dell’art. 67), cit., 263; Guiotto, Gli scostamenti dal piano, in Fabiani-Guiotto (a cura di), Il ruolo del professionista nei risanamenti aziendali, Torino, 2012, 111.

[74] Ambrosini, Accordi di ristrutturazione dei debiti e finanziamenti alle imprese in crisi. Dalla “miniriforma” del 2005 alla l. 7 agosto 2012, n. 134, cit., 69.

[75] Guiotto, Gli scostamenti dal piano, cit., 113.

[76] Lo Cascio, Il piano attestato di risanamento, cit., 286; Arato, Modifiche all’accordo di ristrutturazione dei debiti e nuovo controllo giudiziario, cit., 209; per una impostazione parzialmente difforme v. Stasi, La terzietà dell’attestatore, in IlFallimentarista.it, 2012, 4, il quale, da un lato, afferma che – in linea di principio – il professionista che abbia redatto una precedente attestazione deve ritenersi sprovvisto del requisito dell’indipendenza; dall’altro, precisa che non sorgono particolari ostacoli all’elaborazione di una pluralità di relazioni da parte del medesimo soggetto ogniqualvolta la “prestazione [sia] resa nell’ambito di un contratto unitario, come nei casi di gruppi di imprese o di relazione integrativa redatta ai sensi dell’art. 161, comma 3, l. fall., a seguito di modifiche sostanziali dell’originaria proposta o del piano”, vale a dire di una fattispecie – quella, per l’appunto, della modifica sostanziale del piano di concordato – del tutto equiparabile, sotto il profilo in esame, al supplemento di attestazione che si renda necessario alla luce delle variazioni del piano di risanamento.


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