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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 05/09/2014 Scarica PDF

La pregiudiziale tributaria e il doppio binario (fiscale/penale). A proposito di Comm. Trib. Verbania, 8 aprile 2014

Carlo Crapanzano, Avvocato in Gela


1.- Non passa giorno (per usare una locuzione cara alla letteratura di ogni tempo) che un giudice penale non debba esaminare un reato di evasione fiscale contemporaneamente a un giudice tributario: stessi fatti, stessi soggetti. Ma spesso decisioni diverse e tra loro contraddittorie e inconciliabili.

In ossequio a un principio generale di ogni ordinamento giuridico che si rispetti, a una determinata condotta antigiuridica segue una valutazione dei fatti secondo legge e la eventuale conseguente sanzione. Ebbene, tale principio subisce una deroga (assurda e ingiustificata) per i reati di evasione fiscale. Stessi fatti, stessi soggetti, ma due giudici differenti che hanno entrambi piena cognizione e pieno potere decisionale sul fatto e sulla condotta.

Ma andiamo con ordine, ché il rischio è quello di ingenerare e aggiungere confusione a una materia che non brilla certo in limpidezza.

Il 14 gennaio 1929 fu pubblicata in Italia la Legge n. 4 (Norme generali per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie). Ai fini della nostra breve disamina, ci interessa il quarto comma dell’art. 21: «per i reati previsti dalle leggi sui tributi diretti l'azione penale ha corso dopo che l'accertamento dell'imposta e della relativa sovrimposta è divenuto definitivo a norma delle leggi regolanti tale materia». Nasce formalmente la pregiudiziale tributaria.

Ben si comprende la portata innovatrice della norma in questione: il giudice penale non poteva e non doveva intraprendere alcuna iniziativa penale né tantomeno esaminare alcuna condotta potenzialmente illecita se prima non diveniva definitivo l’accertamento dell’imposta dovuta. Persino la prescrizione subiva una sospensione automatica, reiniziando a decorrere per i reati tributari solo se e solo quando diveniva defintivo l’accertamento.

La conseguenza ulteriore è di tutta evidenza: il giudice penale era assolutamente vincolato alla decisione già effettuata sull’accertamento e quest’ultima faceva stato nel procedimento penale. C’è voluta una sentenza della Corte costituzionale (la n. 88 del 1982) che dichiarasse illegittima la norma che per oltre cinquant’anni aveva fatto il buono e il cattivo tempo dei reati finanziari (il quarto comma dell’art. 21 della Legge 4/1929 è stato formalmente abrogato dall’art. 13, primo comma, del Decreto Legge 429/1982, convertito nella Legge 516/1982). Il legislatore, preso atto della decisione della Corte costituzionale, in sede di conversione del D.L. 429/1982, ha aggiunto dopo il primo comma che «l'azione penale ha corso anche in pendenza  dell'accertamento di imposta..»: ecco la nascita del «doppio binario» e la morte della pregiudiziale tributaria.

Si badi bene, però, che la Legge 516/1982 non sanzionava condotte illecite effettive, ma solo comportamenti che a monte potevano essere potenzialmente lesivi di un interesse generale, enunciando una serie cospicua di condotte così formali che la semplice «dimenticanza» di un atto produceva effetti penali abnormi.

Ci sono voluti altri vent’anni di ordinaria ingiustizia per arrivare al D. Lgs. 74/2000 che ora sanziona condotte illecite effettive, tutte caratterizzate dal dolo specifico e dall’esclusione del tentativo.

Preme soffermarsi, ai fini della nostra breve disamina, sull’art. 19 primo comma (Principio di specialità) e sull’art. 20 (Rapporti tra procedimento penale e processo tributario) del D. Lgs. 74/2000.

Secondo il primo comma dell’art. 19, «quando uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del titolo II e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale».

Fin qui, sembrerebbe, non vi siano problemi interpretativi in riferimento all’art. 15 c.p. che sancisce il divieto di cumulo: in presenza di due sanzioni previste da leggi diverse, se ne deve applicare solo una e cioè quella speciale. Sembrerebbe, abbiamo detto. Eh sì, perché è tutt’altro che scontato individuare quale sia la norma speciale da applicare. Non solo. A causa del «doppio binario» tra giudice penale e giudice tributario, ognuno di loro, per i medesimi fatti e per i medesimi soggetti, può emettere una decisione totalmente diversa dall’altro giudice, con valutazioni contraddittorie e con contrasti evidenti di giudicati. Una aberrazione giuridica che vive giornalmente nel nostro sistema.

Per comprendere appieno la portata devastante di quanto analizzato, si ponga il caso che una commissione tributaria ritenga che la condotta di un soggetto, sanzionabile ai fini tributari, integri una condotta penale perché è stata superata la soglia di evasione che sposta la competenza da amministrativa a penale; in ossequio al principio di specialità non potrà irrogare la sanzione amministrativa perché il soggetto sarà presumibilmente condannato alla sanzione penale. Si ponga il caso, dunque, che la medesima condotta, in sede penale, non venga invece ritenuta dal giudice rilevante (perché ad esempio per il giudice penale, diversamente da quanto stabilito dal giudice tributario, non è stata superata la soglia di rilevanza penale): chi irrogherà la sanzione al soggetto che ha commesso la violazione? Nessuno. L’impunità in questo caso è sancita dal sistema. Valga il caso contrario: una commissione tributaria ritiene provato l’illecito amministrativo e non superata la soglia di rilevanza penale e sanziona il soggetto in sede amministrativa; il giudice penale, invece, ritiene che la soglia di rilevanza penale è stata superata e gli infligge la sanzione penale: il soggetto avrà subìto due condanne per la stessa condotta, con buona pace del principio di specialità (ne bis in idem nascosto?).

 

2.- In tale contesto, si è pronunciata la Commissione Tributaria Provinciale di Verbania nella sentenza 29.01.2014 n. 29 (dep. 08.04.2014 – presidente Martelli, relatore Bertolo)[1]. Nell’analizzare le condotte di soggetti che avevano subìto un procedimento penale per la violazione degli artt. 2 e 4 del D. Lgs 74/2000, la Commissione Tributaria rivendica con forza la sua competenza. I soggetti in questione, con sentenza GUP sono stati assolti perché il fatto non sussiste. Per la Commissione Tributaria tale decisione è praticamente irrilevante.

Innazitutto la Commissione rivendica la assoluta indipendenza dei due procedimenti secondo l’art. 20 D. Lgs. 74/2000; in secondo luogo, lucidamente il relatore evidenzia che, vista anche la diversità strutturale e processuale dei due giudicanti (penale e tributario), elementi ritenuti utili dall’uno possono non esserlo per l’altro. Il relatore Bertolo si sofferma ad esempio sulla inesistenza della prova testimoniale nel processo tributario invece prevista nel processo penale ed evidenzia, con analisi assolutamente condivisibile, che fintanto che non vi sarà una sostanziale equiparazione dei due procedimenti anche a livello processuale, è «vietato fare paragoni». Decisione coraggiosa che senza usare mezzi termini rivendica non solo l’indipendenza dei giudizi, ma anche l’indipendenza delle valutazioni sulla condotta, rimarcando che il giudice tributario proprio perché ha una preparazione professionale specifica e completa, dovrebbe ritenersi «prevalente» nel giudizio sulla condotta rispetto al giudice penale.

Come sempre, vista la assurda e delicata situazione per la quale vi sono ben due giudici per la stessa condotta, ci si affida al buon senso di chi, nell’applicare norme di legge, debba equilibrare sia le esigenze processuali che sostanziali di tutti i soggetti coinvolti.

Con buona pace del principio dell’unità della giurisdizione, è auspicabile un intervento legislativo, che ovviamente non arriverà.


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Commissione Tributaria Verbania, 8 aprile 2014 (R. G. 59/13)

(Omissis)

Parte ricorrente ha prodotto in giudizio la sentenza ex art. 425 c.p.p. pronunciata dal Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Verbania in data 21.1.2013 con la quale è stato disposto di non doversi procedere nei confronti di      • • - •   ; in proprio e nella

qualità di legali rappresentanti della società odierna ricorrente, in ordine ai reati previsti dagli artt. 2 e 4 del D.L.vo n. 74/2000, "perché il fatto non sussiste" ed ha invocato la predetta decisione quale precedente al quale questa Commissione dovrebbe adeguarsi o tener conto.

Va preliminarmente osservato che una sentenza emessa dalla Magistratura Ordinaria nel corso di un giudizio penale incardinato per i medesimi fatti oggetto dell'accertamento tributario non può spiegare alcuna efficacia nel giudizio contenzioso previsto dal D.Lgs. 546/92.

I rapporti tra giurisdizione penale e giurisdizione tributaria sono disciplinati principalmente dagli artt. 20 del D. Lgs. 74/2000 (Rapporti tra procedimento penale e processo tributario) a mente del quale il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione e dall'art. 654 c.p.p. il quale stabilisce che la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata a seguito di dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio amministrativo quando in questo si controverte intorno ad mi diritto o interesse legittimo il cui riconoscimento dipenda dagli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale, pure» la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa.

Nel caso di specie la sentenza penale invocata, peraltro non irrevocabile ma tuttora sub judice (pende ricorso per cessazione promosso dal P.M.) non è né di assoluzione (bensì di non luogo a procedere) né è stata pronunciata a seguito di un dibattimento pieno (con possibilità di gravare in appello la relativa decisione) ma all'esito dell'udienza preliminare; v'è di più.: nel contenzioso tributario non è ammessa, ex art. 7 D.L.vo 546/92, a differenza del processo penale, la prova testimoniale (oltre al giuramento) dì tal che la prova dei fatti materiali è affidata pressoché esclusivamente alla prova documentale, per la naturale diffidenza del legislatore nei confronti della prova per testimoni in quanto mentre nel processo penale prevale l'esigenza ed il diritto costituzionalmente protetto della difesa dell'imputato, nel giudizio tributario deve prevalere l'interesse primario (che non entra in rotta dì collisione con il diritto alla libertà personale del contribuente) alla riscossione delle entrate tributarie che garantiscono l'esistenza stessa dello Stato.

Pertanto può affermarsi, come infatti viene correttamente sostenuto dalla Giurisprudenza e dalla Dottrina (es: P. Tesauro), che — stante la differente disciplina delle prove vigente nei due rami giurisdizionali — la sentenza penale, ancorché rispondente ad ogni altro requisito presupposto dall'art. 654 c.p.p., non ha mai efficacia nel giudizio tributario, almeno fino a quando il rispettivo regime probatorio non sarà parificato.

Va comunque affermata l'assoluta prevalenza assiologica del giudizio tributario rispetto al giudizio penale nella repressione dell'evasione fiscale. Non va dimenticato infatti che l'accertamento della violazione delle norme tributarie sostanziali deve precedere cronologicamente e logicamente la loro repressione sotto il profilo penale e che l'accertamento della violazione delle norme di imposizione fiscale è riservato in via esclusiva alla giurisdizione tributaria la quale peraltro è anche quella meglio in grado di farlo rispetto alla magistratura ordinaria a causa della sua composizione mista, di magistrati ed esperti contabili, e specializzazione in materia.

La legislazione fiscale è infatti in continua, pressoché quotidiana, dinamica evoluzione a differenza della materia penale — assai più statica - e necessita pertanto di assiduo aggiornamento e di una dimestichezza con nonne ben più complesse di quelle solitamente interpretate dai Giudici penali.

Troppo spesso si trascura di ricordare che non da sempre le norme fiscali hanno trovato sanzione anche sotto il profilo penale, e che il legislatore, quando ha inteso configurare fattispecie di reati di natura fiscale, ha inteso solo rafforzare la tutela dell'interesse pubblico alla raccolta delle entrate tributarie, sottoponendo (anche) alla pena criminale le ipotesi pii gravi di violazioni alle norme che presiedono all'accertamento e riscossione dei tributi, ma non anche istituire un ramo del diritto penale indipendente rispetto a quello tributario, disciplinato da regole differenti e autonome. Pertanto anche l'accertamento dell'eventuale reato deve necessariamente prendere avvio dagli elementi di prova raccolti dall'Amministrazione finanziaria.

La "Magna charta" del diritto penale tributario ovverosia la Legge n° 4 del 7.1.1929 ben evidenziava il carattere "subordinato" dell'azione penale rispetto all'accertamento tributario laddove, all'art. 21, comma 4, nel testo in allora vigente, stabiliva il principio della "pregiudiziale tributaria" che sanciva la subordinazione del procedimento penale alla definitività dell'avviso di accertamento e quindi al giudicato formatosi all'esito del giudizio tributario.

L'introduzione della "pregiudiziale" veniva giustificata dalla Relazione di accompagnamento con l'esigenza di assicurare l'unità e la certezza e la coerenza dell'accertamento giurisdizionale. L'istituto aveva il pregio di escludere giudicati contraddittori, coniugando l'esigenza di rinviare la decorrenza dei termini di prescrizione dei reati fiscali con l'interesse del contribuente di non essere esposto a denunce penali vessatorie prima ancora della definitività dell'accertamento tributario.

La logica del sistema è stata successivamente stravolta dal legislatore sotto la spinta dì esigenze più pragmatiche che razionali: è noto infatti che la pregiudiziale tributaria venne soppressa soltanto perché, a causa dei tempi biblici della giustizia tributaria dell'epoca, quella penale era costretta a procrastinare l'esercizio dell'azione criminale all'esito della definitività dell'accertamento dell'illecito amministrativo-tributario.

La L. 7.8.1982 n. 516, all'art. 12, rovesciando interamente la precedente gerarchia fra le giurisdizioni, introdusse il principio secondo il quale l'azione penale poteva essere iniziata senza attendere l'esito finale del contenzioso tributario il quale pure poteva liberamente proseguire senza dover essere sospeso a causa della pendenza del procedimento penale, in deroga all'art. 3 c.p.p.

La sentenza irrevocabile di condanna o di proscioglimento pronunciata in giudizio veniva munita ex lege di autorità di cosa giudicata nel processo tributario per quanto concerne i fatti materiali oggetto del giudizio penale. In realtà il c.d. "doppio binario" creato dalla L. 7.8.1982 n. 516 si è rivelato rimedio peggiore del male in quanto fattore scatenante di contrasti fra il giudicato tributario e quello penale (come nella fattispecie che ci occupa). Il codice di rito penale del 1988, all'art. 654, ha riscritto, come detto, la disciplina degli effetti del giudicato penale.

Parallelamente si è venuta ingenerando la convinzione che l'accertamento del reato fiscale obbedisca a regole diverse da quelle che presiedono al riconoscimento dell'illecito tributario.

Anche nella pii recente giurisprudenza della S.C. di Cassazione Penale si rinvengono decisioni, contenenti peraltro riflessioni molto ben diffuse sull'argomento, quali Cass. n° 7739 del 28.022012, che tuttavia non riescono a dare una soluzione al problema della reductio omnium ad unum dell'illecito tributario/penale.

In essa si legge infatti che il Giudice Penale non sarebbe vincolato alle ricostruzioni compiute in sede tributaria dall'amministrazione finanziaria (in verità il problema è se il Giudice Penale debba ritenersi vincolato alle decisioni del Giudice Tributario, al quale spetta — in caso di impugnazione — il sindacato sull'operato dell'A.F.) per effetto di una pretesa regola generale, non esplicitata, della non automatica trasferibilità in sede penale delle presunzioni tributarie, e ciò in ossequio ai tradizionali principi fondamentali del libero convincimento del giudice (art. 192 c.p.p.), della libertà della prova (art. 189 c.p.p.), dell'inesistenza di limiti legali alla prova (art. 193 c.p.p.) e della valenza probatoria degli indizi solo se "gravi precisi e concordanti" (art. 192 c.p.p.). Sennonché la pregevole disamina della Cassazione penale finisce con l'evidenziare le (apparenti) contraddizioni intrinseche del sistema imperniato sul doppio giudizio, dimenticando che anche in materia tributaria vige, di massima, lo stesso regime probatorio in tema di prova presuntiva (id est indiziaria) laddove l'art. 39 — 1° comma lett. d) del D.P.R. n° 600/1973 subordina l'accertamento tributario all'esistenza di presunzioni gravi precise e concordanti.

In realtà dunque le regole probatorie, in un sistema coerente, non possono che essere le medesime o comunque tendere al conseguimento di uno stesso risultato.

Conclusivamente la decisione del giudice penale, in attesa di una riforma globale del sistema, dovrà tendenzialmente seguire e non precedere quella del giudice tributario e non ammettere (o comunque valutare più rigorosamente) prave diverse da quelle vigenti nel giudizio tributario, fondato per lo più sulle risultanze documentali.

In questa prospettiva ideale dovrà anzi il giudice penale prendere atto delle risultanze della ricostruzione, ove esistente, effettuata dalla Commissione tributaria, degli elementi costitutivi della pretesa tributaria, rappresentati dalla base imponibile, dal presupposto d'imposta e dal soggetto passivo del tributo, nonché di ogni altro elemento caratterizzante, nel caso specifico, il rapporto Stato-contribuente.

Peraltro, di fatto, la sentenza invocata dalla difesa della ricorrente non ha finto corretta applicazione dei principi in tema di prova dell'illecito tributario nonché, conseguentemente, dell'illecito penale che ne deriva. Si può anzi tranquillamente sostenere che essa abbia disatteso. ogni più elementare criterio di razionale valutazione delle prove, oltre che presuntive, altresì documentali e testimoniali risultanti dagli atti del processo.

La sentenza del Gni esordisce anzitutto con una prognosi del tutto inaccettabile circa l'esito finale dell'eventuale dibattimento.

Vi si legge che il parziale quadro probatorio "arrecato" dalla pubblica accusa sarebbe stato "completato" da argomentazioni e plurime indagini difensive arrecate dalla difesa, sicché gli elementi di prova complessivi risulterebbero contraddittori ed insufficienti a sostenere l'accusa in dibattimento in quanto destinati a rimanere tali anche all'esito del giudizio.

In realtà, per quanto si dirà in prosieguo, glì elementi probatori addotti dal P.M. erano più che sufficienti a fondare una probabile se non sicura condanna degli imputati, mentre l'inconsistenza degli argomenti difensivi non avrebbe potuto reggere, in dibattimento, al peso e spessore dei primi. Va invece dato atto alla Guardia di finanza ed alla Procura della Repubblica presso il tribunale di Verbania di aver raccolto ogni possibile elemento di prova mentre non possono essere condivise, in quanto palesemente infondate, oltre che ingenerose e gratuite, le censure del GIP laddove si gratifica l'operato dei militari dí una lacunosità invero insussistente. Non si vede infatti come i verificatori potessero intervenire a constatare presso la sede della verificata lavori istantanei ormai esauriti ed opere (asseritamente) eseguite anni e anni addietro e ormai prive di sicuro riscontro attuale.

La sentenza penale si pone dunque in contrasto con quel compendio di elementi puntualmente richiamati dall'Agenzia ma non adeguatamente valorizzati e ponderati dal G.U.P.

(Omissis)



[1] Il testo della decisione è riportato qui appresso, in calce al presente.


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